UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA DOTTORATO in SOCIOLOGIA APPLICATA E METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIALE - XXIV° ciclo a.a. 2008/2009 “DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA”: L’IMPATTO DELLA DIVISIONE DEL LAVORO SULLA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE Bauman vs Durkheim Paper Teorico Elena Giudice Matricola 070420 Febbraio 2009 1ndice Introduzione__________________________________________________________________ 3 1. Tra modernità e postmodernità: gli autori in contesto _________________________ 5 2. Lo specialista solidale vs il giardiniere_______________________________________ 7 2.1 La solidarietà organica e l’avvento della società civilizzata: la divisione del lavoro come ordine morale _________________________________________________ 7 2.2. Anomia e vocazione: la divisione del lavoro industriale ___________________ 9 2.3 La società dei giardinieri: il volto deresponsabilizzante e disumano della divisione del lavoro.________________________________________________________ 12 3. Il soggetto, il professionista e la morale: due prosepttive contrastanti_________ 15 4. Responsabilità professionale nel servizio sociale ____________________________ 18 Conclusioni: verso una critica e riflessiva responsabilità professionale __________ 23 Bibliografia __________________________________________________________________ 24 22 Introduzione Uno dei temi più trattati in sociologia, sia dai classici sia dai contemporanei, riguarda le implicazioni della divisione del lavoro nella società moderna ed in quella contemporeanea, postmoderna o di modernità liquida1 come la definisce Bauman. In questa sede l’analisi si focalizzerà sulle sue implicazioni rispetto alla responsabilità professionale2. In accordo con Mordeglia (2008) ritengo che nel lavoro si condensino le molteplici stratificazioni dei rapporti sociali attraverso i quali si costruisce non solo il mondo degli oggetti materiali, ma anche e soprattutto il mondo degli oggetti simbolici in cui si trovano iscritti tanto i valori della società nel suo complesso quanto quelli dell’individuo che ne fa parte. Il lavoro diventa, sempre più, un luogo per il riconoscimento di un lato della multipla identità di appartenenza e allo stesso tempo base dell’incertezza esistenziale: essere attivi o inattivi nell’organizzazione societaria modifica la percezione del Sé e la percezione che gli altri hanno di noi. “Di cosa ti occupi?” è una delle prime domande che ci sentiamo chiedere quando conosciamo un’altra persona: da questa banale constatazione si evince l’importanza che il ruolo lavorativo e professionale riveste nella struttura della società. E’ indiscusso inoltre che la società contemporanea sia fortemente basata sulla divisione del lavoro3, ed un esempio specifico ci viene dalla scienza: “non soltanto lo scienziato non coltiva più contemporaneamente delle scienze differenti, ma neppure abbraccia una sola scienza nella sua totalità. L’ordine delle sue ricerche si restringe ad un ordine determinato di problemi o perfino ad un unico problema. Nello stesso tempo la funzione scientifica, […], diventa sempre più autosufficiente”. 1 Bauman Z., Modernità liquida, Ed. La terza, Roma, 2002 In questa sede con il termine “professionale” si intende qualunque attività lavorativa, così come utilizzato nel linguaggio italiano corrente. Come evidenzia bene Mordeglia (2008) alcuni derivati di questo termine (professionista, professionale) vengono invece caricati di valenze esclusive allo scopo di differenziare una professione da altre generiche occupazioni. La scelta di attenersi ad un significato ampio del termine appare congruente con l’idea di occuparmi della responsbailità lavorativo-professionale in senso esteso: tutti gli individui hanno possibilità di scelta e sono responsabili per sè e per gli altri. 2 Volutamente introduco il termine “divisione del lavoro” piuttosto che “divisione del lavoro sociale” per evidenziare la possibilità di differenti declinazioni di questa dimensione, come ad esempio la divisione del lavoro tecnico, burocratico o industriale sulla scrota di autori come Marx e Durkheim.. 3 33 Dal titolo dell’elaborato si comprende che analizzerò opportunità e limiti dell’iperspecializzazione e della separazione professionale e scientifica partendo dalle analisi di due appassionanti sociologici: Durkheim e Bauman. Metterò inizialmente in luce come l’analisi di Durkheim ne La divisione del lavoro sociale possa apparire internamente contradditoria nell’elaborazione di una terza parte che sembra porre in evidenza tutte le ambiguità del modello di divisione del lavoro proposto dall’autore. D’altra parte si potrebbe invece rilevare una continuità tra le tre parti dell’opera: le prime due potrebbero essere intese come la declinazione di un postulato teorico desiderabile, un tipo ideale di divisione del lavoro, mentre la terza parte, contestualizzata in una dimensione pragmatica, permette l’emersione delle criticità e delle insanabili ambiguità dell’impatto della divisione del lavoro nella realtà sociale. La divisione del lavoro industriale diventa allora una distorsione del tipo ideale postulato dal sociologo francese. Effettuando un’analisi comparata tra i due autori, le riflessioni di Bauman sembrano trovare una connesione con l’opera del sociologo francese proprio attraverso la declinazione della divisione del lavoro industrializzato, anche se Bauman non la limita ad esso. L’autore polacco infatti fa emergere la dimensione della manipolabilità della società e degli strumenti utili a raggiungere quella società ordinata che Durkheim tanto auspicava. Il collegamento tra le analisi sviluppate dai due autori è oggettivo relativamente alla tematica affrontata e non certo di debito da parte di Bauman nei confronti di Durkheim. L’uno vede la divisione del lavoro come ordine morale e solidale tra gli individui che caratterizzerebbe la modernità in senso positivo e prende in considerazione, criticandola, le “faccia negativa” della modernità solo come forma patologica della prima. Il secondo parte invece dal presupposto opposto, ovvero che la modernità porti in sè il seme sia di opportunità sia di aberrazione: è il prodotto stesso della processo di “civilizzazione” e di divisione del lavoro industriale che porta ad un decremento della densità morale piuttosto che ad un suo aumento come ipotizzato da Durkheim. Attraverso una breve analisi della responsabilità professionale nell’ambito specifico del servizio sociale, metterò a tema la dimensione specifica della scelta 44 come opportunità di spinta propositiva e creativa, come potenzialità per porre basi di una responsabilità riflessiva e critica. 1. Tra modernità e postmodernità: gli autori in contesto Durkheim, a differenza di Bauman, non ha assistito ad alcuni eccezionali4 eventi storico-politici che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Inoltre i due autori presi in considerazione partono da approcci epistemologici differenti, dai quali derivano concettualizzazioni diametralmente opposte. Durkheim intende la ricerca sociale in senso naturalistico, ossia vede la collettività come un organismo biologico, con gli stessi funzionamenti, mentre Bauman è un sociologo della condizione umana. Il sociologo per Bauman deve interpretare il suo tempo, mentre per Durkheim deve analizzare i fatti sociali, il che vuol dire fatalmente interpretarli. Nel far emergere le ambiguità tra il tipo ideale e le derive anomiche della divisione del lavoro sociale, l’opera di Durkheim rappresenta vividamente la scenografia di ciò che Bauman identifica con il termine modernità nella sua duplice accezione di opportunità e manipolazione, ovvero un’epoca basata sull’illusione della pianificazione, della scienza e della competenza. Per il sociologo francese le componenti della modernità dovrebbero fungere come forze equilibratrici che permettono ai singoli di sentirsi parte di un tutto coeso e finalizzato che valorizzi l’essere umano senza ridurlo ad un ingranaggio intercambiabile, mentre Bauman ne mette in luce il versante delle “ombre” che esse portano con sè. L’accento di Bauman sull’illusione della modernità è un punto fondamentale del suo pensiero che si riconnette con la rilfessione di Durkheim rispetto al fatto che l’anomia sia più una malattia che un’imperfezione di possibile risoluzione: il tipo ideale di divisione del lavoro non può trovare spazio di sviluppo positivo, laddove il piano della modernità porta in sè il germe della perfezione funzionale, della sistematizzazione della complessità che non può accogliere ciò che non si conforma, che tende a finalità e obiettivi diversi. Per esempio l’Olocausto e la fine del socialismo reale, anche se con il termine eccezionali, come si vedrà in seguito, si intende imprevisti piuttosto che impossibili, ovvero l’altra faccia della modernità in contrapposizione alla visione di Durkheim. 4 55 Per comprendere la visione della modernità di Bauman come ordine e progetto sociale, è utile far ricorso alla metafora della società dei giardinieri: 5 i giardinieri rispondono solo a quel committente esigente che è la società, che ricerca l’”Ordine”. Un tentativo affannoso, perché gli imprevisti, le deviazioni dalla media – concetto tanto caro ad un positivista critico come Durkheim - sono state delle costanti piuttosto che sporadiche. Bauman ha infatti messo in rilievo come l’Olocausto abbia dimostrato in tutta la sua chiarezza la possibile manifestazione crudele e disumana degli stessi mezzi che avrebbero dovuto, nelle speranze dei moderni, portare alla società perfetta. La modernità è quindi per lo studioso polacco l'era delle utopie, talvolta confliggenti tra loro, ma accomunate dalla volontà di plasmare la vita di una società in base a una visione accuratamente elaborata, accompagnata da razionalità, pianificazione, efficienza, competenza e coordinamento (Bauman, 1992): la moderntà solida. Tester (2005) evidenzia che, durante gli anni Ottanta, Bauman riteneva fosse in atto un deliberato abbandono del progetto della modernità. Affermava infatti che l’esperimento dello Stato Sovietico e di quello Nazista esprimesse i contorni essenziali del progetto moderno, in grado di produrre religioni secolari con sue ideologie che ponevano come punto cardine la dipendenza dal ruolo forte ad autorevole dello Stato giardiniere (ibidem). La postmodernità diventa quindi espressione di una modernità priva di illusioni, consapevole dei propri limiti e disposta ad abitare con ambivalenza ed incertezza (Leccardi in Bauman, 2008, p. 12). La sua analisi della modernità e della divisione del lavoro è quindi strettamente legata al concetto di ambivalenza, secondo cui qualunque forma della vita sociale è segnata da una profonda ed insanabile contraddizione che si riscontra anche nella dimensione etica, ovvero “ciò che resta una volta liberato il soggetto dai doveri e dagli obbilghi stabiliti: i sentimenti e le emozioni morali, le incertezze, la spontaneità, l’inderminatezza e l’ambivalenza delle sue scelte” (Leccardi in Bauman, 2008, p. 14). Metafora utilizzata per la prima volta in La decadenza degli intellettuali, Universale Bollati Boringhieri, Torino,1992: “il potere che presiede alla modernità […] è modellato sul ruolo del giardiniere” p.66 5 66 2. Lo specialista solidale vs il giardiniere 2.1 La solidarietà organica e l’avvento della società civilizzata6: la divisione del lavoro come ordine morale L’interesse principale di Durkheim si fonda sulla presenza dell’ordine morale, e proprio partendo da questa base egli arriva a definire la divisione del lavoro come un fatto morale prendendo in considerazione due fattori. Innanzitutto la realtà lo porta a constatare che la divisione del lavoro è inevitabile in quanto costante storica; in secondo luogo ritiene che per dichiararla immorale sarebbe necessaria una netta separazione tra morale e realtà, ma questo non è ovviamente possibile perchè la morale vive nella vita del mondo (Durkheim, 1996). La divisione del lavoro acquista nella concezione del sociologo francese la funzione di creare legami di solidarietà, densità morale, ovvero diventa la base della solidarietà organica. Durkheim crede quindi che il bisogno al quale la divisione del lavoro sociale risponde oltrepassi il campo degli interessi puramente economici, ma incarni in sè un bisogno morale, a differenza dell’attività industriale. L’autore infatti ritiene che, tra lo sviluppo della solidarietà e la specializzazione professionale della società non vi accrescerebbe sia contraddizione. contemporaneamente Con l’individualizzazione quella delle parti e del la tutto si società imparerebbe ad agire sempre più in perfetto accordo, nello stesso tempo in cui ognuno dei suoi elementi acquista una maggior autonomia. La solidarietà organica trova pertanto la propria forza nella differenziazione che porta i membri di una società a completarsi l’un l’altro, in un sistema di compiti divisi e complementari. Se da una parte le società basate sulla divisione del lavoro enfatizzano le singole individualità perchè portatrici di ruoli specifici, non più confuse in un gruppo sociale; dall’altra vi è il riconoscimento della finalità collettiva intrinseca alla realizzazione della personalità e dei fini individuali nelle attività specializzate. Il simbolo visibile del nuovo tipo di solidarietà diventa sempre più il diritto ed in special modo quello cooperativo che determina le conseguenze giuridiche degli atti e che esprime le condizioni normali dell’equilibrio: definisce ciò Si utilizza il termine “società civilizzata” come nell’uso che ne fa Durkheim, ovvero per intendere le società moderne in contrapposizione alle società primitive. 6 77 che dobbiamo fare e ciò che possiamo esigere. Al di fuori della sfera contrattuale, ovvero della pressione organizzata che il diritto esercita, subentra la pressione dei costumi e dell’opinine pubblica. Gli individui non sono più assorbiti dal gruppo, come avveniva nelle società tradizionali, ma sono legati ad esso da un sistema di regole nuovo, e la cui inosservanza fa incorrere in sanzioni di tipo restitutivo. Con l’avvento della modernità, o della civilizzazione Durkheim teorizza, condividendo in parte la teoria di Spencer7, la progressiva prevalenza delle società organiche su quelle tradizionali, nelle quali la solidarietà si basa sempre più sulla divisione del lavoro. La differenziazione cresce quindi con il complessificarsi dei rapporti sociali tra gli individui – densità dinamica – perchè aumenta la competizione tra questi ultimi. Per sfuggire agli effetti dannosi della competizione le persone cercano però di specializzarsi “creando delle piccole aree riservate in cui esercitare un tendenziale monopolio delle prestazioni” (Ibidem): diminuisce quindi la densità morale in intensità, ma aumenta la complessità delle relazione nella quale essa si colloca. Durkheim sostiene quindi che la divisione del lavoro non è un fenomeno naturale, moralmente neutro, ma piuttosto il fondamento della solidarietà, e quindi un fenomeno moralmente normativo. Il dovere dell’individuo è quello di aderire a tale struttura normativa sforzandosi di realizzare se stesso nel suo compito specializzato anche se limitato, accettando di essere parte di un tutto, sacrificando parte delle sue capacità a favore della specializzazione di competenze particolari che lo porteranno a svolgere la funzione prevista, ad offrire un servizio preciso. In questa visione, lo spazio per le dissidenze individuali si troverebbe nella maggior generalità e inderminatezza della coscienza collettiva, anche se egli la intende come possibilità di avere una forza creativa all’interno della propria funzione, che adempie ai principi della solidarietà organica . Spencer postulava che la solidarietà sarebbe fondata sull’accordo spontaneo degli interessi individuali espressi nel sistema dei singoli contratti particolari. Tutto è quindi regolato per accordo delle parti, e la società ha sempre meno ragione di intervenire. L’azione sociale organizzata tende quindi a sparire e così anche lo Stato che ne è l’organo. Secodno Durkheim, nel contratto non tutto è contrattuale e si riferisce all’elemento istituzionale, che inserisce il contratto in un corpo di norme, e gli dà sicurezza, durata, prevedibilità di conseguenze. Atrimenti le relazioni contrattuali sarebbero eccessivamente instabili, tanto da rendere impossibile qualisiasi forma di ordine sociale, perchè I conflitti latenti dominerebbero sulla pretesa armonia degli interessi. (Introduzione a “La divisione del lavoro sociale”) 7 88 Cambiando la forma di solidarietà deve quindi cambiare anche la forma della società e in quest ultima l’organo centrale, ovvero lo Stato, che esercita nei confronti del resto della società un’azione moderatrice, dipende dagli altri tanto quanto essi dipendono da lui. Lo Stato stabilisce le regole entro cui le funzioni specifiche devono cooperare; l’ambiente naturale diventa quello professionale ed è allora la funzione che assolve a contraddistinguere il posto che ognuno occupa, piuttosto che la consanguineità come nelle società primitive. Poichè ragiona in termini di modelli, Durkheim ritiene che pur in una società organica sia possibile trovare forme di solidarietà meccanica, anche se auspica “il giorno in cui la nostra organizzazione sociale e politica avrà una base esclusivamente professionale” (ibidem, pag.199) quando saranno eliminate le cause anormali che ne limitano lo sviluppo. Le forme anomiche sono per il sociologo francesce il punto di rottura oltre il quale la specializzazione non risulta più una forza equilibratrice. 2.2. Anomia e vocazione: la divisione del lavoro industriale Durkheim guarda a tutto ciò che differisce dalla media, dal comportamento convenzionale, come deviante, nell’accezione di patologico. Nonostante ciò, l’autore sostiene anche che solo da condizioni di disordine possa nascere il cambiamento, altrimenti impensabile. Se allora le deviazioni dalla media sono condizioni anomiche, che minano l’ordine sociale e vanno riportate nella media, corrette, o isolate, si deve rilevare che la modernità - e nessun cambiamento anche positivo - avrebbe potuto instaurarsi se non grazie a forme patologiche. Si può allora desumere che una condizione patologica sia anche l’unica fonte di liberazione da un’ordine prestabilito e la garante della possibilità di innovazione. Mi sembra quindi che si possa riscontrare una contraddizione di fondo nel “disegno” dell’autore che postula un ideale di organizzazione sociale irraggiungibile, seppur desiderabile, e l’anomia come una malattia, e non solo come un’imperfezione del sistema, senza prendere in considerazione, posizione assunta invece da Bauman, le patologie del sistema come possibilità generate da esso. Se infatti consideriamo, come fa Durkheim, la diseguaglianza di partenza come una fonte di anomia, sia la società ottocentesca sia quella contemporanea, si troverebbe in una situazione di costante mancanza di regole, 99 oppure potremmo pensare che la stessa organizzazione della società genera tale diseguaglianza. Per Durkheim è fondamentale che le persone abbiamo la possibilità di sviluppare le capacità e le competenze di cui sono portatori e che li porterà a raggiungere il loro posto all’interno della società solidale. L’anomia si manifesterebbe in primis a causa della mancata realizzazione di una rigorasa uguaglianza delle possibilità di partenza, “fino al momento in cui iniziano a manifestarsi in rispettivi meriti” (Pizzorno in Durkheim, 1996): ognuno dovrebbe essere messo nella condizione di seguire la propria vocazione, ovvero l’espressione individuale dei fini collettivi che caratterizzano la società fondata sulla divisione del lavoro sociale, e di realizzare l’integrazione dell’individuo nel sistema dei valori collettivi. Il concetto di vocazione appare vago ed eccessivamente evocativo di una “predestinazione”, seppur non geneticamente determinata, come se la persona dovesse solo disvelare ciò che è il suo dovere all’interno della collettività; in altri passaggi però sembra che la vocazione coincida con l’attitudine, ovvero la comprensione delle potenzialità individuali. E’ lo stesso Durkheim a rilevare che la vocazione alla quale l’individuo si sacrifica volontariamente diventa a poco a poco una prigione, ma ipotizza che l’individuo stesso, che si è impegnato in essa, possa anche liberarsene e riscattarsi per contrarne8 altre (Durkheim, 1996, pag. 327). Anche l’impossibilità di conquistare altre posizioni e funzioni è, nell’analisi durkeheimiana, una forma di anomia della società. Ciò appare però poco realistico rispetto a ciò che accadeva nella sua stessa epoca nella quale le diseguaglianze di partenza erano, come lo sono oggigiorno, parte integrante della struttura sociale, pur esistendo la possibilità di mutarle. Nel lavoro industriale, per esempio, i compiti vengono assegnati piuttosto che scelti: questo aspetto comporta, secondo l’autore, l’estraneità al sistema di valori. La situazione anomica appare dunque costitutiva di un certo tipo di divisione del lavoro e non un’anomalia cancellabile con uno svolgimento normale che in questo caso risulta già di per sè anomico. Ho volutamente mantenuto il termine “contrarre” in quanto mi sembra esplicativo della dimensione del dovere della quale è intrisa l’opera del sociologo francese. 8 1100 Durkheim non mette in luce come l’uguaglianza di partenza si possa realizzare nel passaggio da una società all’altra, come si possa mantenerla e sulla base di quali criteri sono definiti i meriti. Il diritto non può essere l’unica risposta a questi quesiti in quanto “più moltiplichiamo le regole e più la condizione dell’operaio presenta appunto i caratteri dell’anomia” (Pizzorno in Durkheim, 1996). Da queste parole, dal concetto di vocazione e da ciò che accade nella società industriale emerge immediata un’assonanza con il lavoro estraniato di Marx che, ne “I Manoscritti del ‘44”, lo definisce come la disumanizzazione, la mercificazione dell’operaio ed al contempo l’attività di produzione è vista come alienante, non volontaria, nella quale la persona sfinisce il suo corpo e sviluppa la sua infelicità. Secondo Marx il lavoro estraniante porta l’uomo in quanto essere cosciente a fare dell’essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza, in questo modo l’uomo non è più libero e il suo lavoro è al servizio della retribuzione, non della soddisfazione. Durkheim ritiene che l’individuo, per ovviare a ciò che avviene nel lavoro industriale, ovvero diventare una macchina, deve tenersi strettamente in contatto con le funzioni vicine e non chiudersi nella propria, in modo che diventi cosciente dei loro bisogni e dei mutamenti alle quali sono soggette. Nonostante ciò l’autore evidenzia un tipo di solidarietà, per esclusione, che nasce dalla divisione del lavoro tecnica o industriale: una solidarietà che non presuppone nessuno scambio di prestazioni, nè necessariamente una conoscenza o l’accettazione della complementarietà dei compiti, piuttosto una comunanza di condizione, il lavorare a stretto contatto che non crea le premesse per lo sviluppo della solidarietà organica. Durkheim ipotizza che la situazione di anomia possa essere risolta attraverso la formazione di gruppi professionali in stile corporativo e con statuto di istituzione pubblica che emanino una regolamentazione giusta: emerge l’ideale societario dell’autore, ovvero basato sull’uguaglianza delle opportunità di partenza: “ finchè vi saranno dei ricchi e dei poveri di nascita non potranno esservi contratti giusti, nè una giusta ripartizione delle condizioni sociali” (Durkheim, 1996, p. 34). Le professioni e le corporazioni rivestono quindi molta importanza nella trattazione del sociologo francese, e sono intese non solo come la messa in comune di interessi economici da far valere, ma piuttosto come la volontà di associarsi per comunicare, condurre insieme una medesima vita morale. Anche in questo caso 1111 emerge però la stessa ambiguità ed idealizzazione che si evidenzia nella trattazione de La divisone del lavoro sociale: Durkheim auspica che le coorporazioni incarnino le finalità sia dei singoli che del gruppo, ma non prende sufficientemente in considerazione le dinamiche che si attuano a seguito dell’istituzionalizzazione dei gruppi professionali. I gruppi corporative, secondo il sociologo francese, avrebbero favorito la costituzione di una morale e di un diritto professionale, e pur prendendo in considerazione le possibili distorsioni che le istituzioni portano in sè oltre alla loro scarsa propensione al cambiamento e all’autoreferenzialità, ritiene che non vi sia ragione per distruggerle perchè possono essere l’unica base di costituzione della morale di un gruppo professionale (ibidem, p. 20) in rapporto di complementarietà funzionale con l’organo centrale: quest ultimo fissa i principi generali della funzione industriale, mentre le declinazioni specifiche dovrebbero essere lasciate alle corporazioni. Un aspetto invece che Durkheim non sembra prendere sufficientemente in considerazione è la forza dei gruppi intermedi, ad esempio la famiglia e gli amici, che esercitano pressioni più o meno evidenti, e a volte maggiori delle norme del diritto. 2.3 La società dei giardinieri: il volto deresponsabilizzante e disumano della divisione del lavoro. La modernità per Bauman non è tanto l’esito, quanto il processo, il continuo cambiamento che scaturisce nella ricerca costante della “modernizzazione”: “se ci si ferma si smette di essere moderni” (Bauman, 2006). Abbiamo già visto che la prima fase della modernità - “solida” - è ben descritta dalla metafora del giardiniere che parte da un progetto di giardino, in cui ogni pianta è classificata in termini di funzionalità e compatibilità con il progetto stesso. Tutto ciò che non entra nell’ordine pensato è erbaccia da strappare ed eventualmente sterminare: la modernità è dunque la costruzione di ordine a partire dal caos. In Bauman la sostanza della modernità è la stessa della managerialità ed era innanzitutto il capitale ad essere solido: non solo le fabbriche non potevano essere trasportate ma gli stessi capitalisti dipendevano per la loro fortuna dai lavoratori. Lavoratori e capitalisti erano legati indissolubilmente fra loro e al territorio: era come nella formula matrimoniale “finché morte non ci separi” 1122 (Bauman, 2006). Perché la vita fosse sopportabile, bisognava trovare un modus vivendi valido per ogni componente dell’unione. I manager moderni, come nel Panopticon9, potevano osservare i dipendenti in ogni momento e questi non sapevano mai se e quando erano osservati, quindi erano spinti a comportarsi in ogni momento secondo il disegno dei manager. L’orologio e la catena di montaggio, nella loro idea di routine, rappresentano altre due metafore che ben spiegano quel periodo. L’essenza della managerialità era dunque usare la libertà d’azione al fine di tagliare le possibilità di libertà d’azione agli altri. È un paradosso solo apparente: il potere dei manager stava proprio nel sovradeterminare le azioni dei dipendenti e ridurre la possibilità di imprevisti, contando sull’immobilità e l’immutabilità dello spazio d’azione. Il sistema sovietico, ad esempio, rappresentava la modernità solida all’ennesima potenza: tutto era pianificato, nella sua essenza rappresentava il sogno manageriale dove tutto era stabilito e soggetto a regolamentazione. Tutto ciò che non era permesso era proibito e tutto quello che non era obbligatorio era parimenti proibito. Il sistema rettificava la logica manageriale portata al suo eccesso. Con ciò stesso, rivelava l’implicita insanità dell’ideale manageriale di plasmare il mondo secondo un progetto che ha avuto conseguenze macroscopiche sia nel periodo di Stalin sia con il Nazismo. In Modernità e Olocausto infatti Bauman smaschera la faccia della modernità che nella sua dimensione di progetto assume forme tutt’altro che astratte, nelle quali il professionista giardiniere gestisce strumentalmente delle classificazioni –distinzione e segregazione - nel giardino di sua competenza (Tester, 2005). Bauman identifica gli avvenimenti tragici del ‘900 come possibilità insite nella modernità, nella sua capacità di slegare l’essere umano dalla sua umanità (ibidem, pag.156). Anche in questo concetto rieccheggia l’alienazione di Marx, seppur Bauman non la intenda come un prodotto esterno a sè, ma piuttosto come condizione caratteristica della condizione umana dalla quale però esiste la speranza di affrancarsi. Nello stato eteronomico però questa possibilità diventa molto complicata perchè non ha alcuna importanza che gli attori siano d’accordo con Bauman si rifà alla metafora utlizzata da Focault in Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976, per caratterizzare la modalità della divisione del lavoro tecnica. 9 1133 gli ordini impartiti, importa solo che li eseguano. E’ la società stessa a diventare disumanizzante, a far coincidere la responsabilità con il ruolo e a rendere anche i comportamenti più aberranti possibili. E’ in questa chiave che si inscrive la visione critica della Shoah da parte di Bauman: la società moderna ha creato la possibilità perchè esso avvenisse attraverso la tacitazione della responsabilità, l’adiaforizzazione dell’azione. Il sociologo polacco evidenzia con forza due elementi alla base della perdità della dimensione morale dell’azione: in prima istanza la delega alle organizzazioni di questa dimensione, ovvero è l’organizzazione che decide; di conseguenza il significato morale è espulso dall’azione soggettiva, che a presecindere dalla sua valutazione morale è legittima – è morale tutto ciò che è giustificato dal ruolo e dall’organizzazione. Non si può quindi più rinchiudersi nella comoda spiegazione che solo persone crudeli e patologiche abbiano commesso atti così raccapriccianti, ma piuttosto bisogna fare i conti con il fatto che il progetto della modernità, e nella sua accezione pegggiore quello nazista, poteva realizzarsi solo attraverso persone obbedienti, dedite al loro compito, rispettose delle regole (Modernità e Olocausto, 1992). E’ proprio nel pieno sviluppo della divisione del lavoro, con la costante cura nella trasmissione degli ordini, la sincronizzata coordinazione delle azioni autonome e tuttavia complementari, che si innesca la possibilità di vedere l’aspetto aberrante della modernità. Un ulteriore aspetto emergente nella trattazione di Bauman ed inestricabilmente legato al precedente, riguarda la sempre maggior mediazione dell’azione che porta ad una lontananza del soggetto dalle conseguenze delle sue azioni e alla cecità morale10 (ibidem, p.45): “la maggior parte dei partecipanti al genocidio non arrivò mai a sparare su bambini nè ad introdurre gas nelle apposite camere. La maggior parte dei burocrati coinvolti stilava promemoria, preparava progetti, parlava al telefono, e partecipava a conferenze. Essi erano in grado di distruggere un intero popolo stando seduti alla propria scrivania” (Hilberg in Bauman, 1992) Bauman sottolinea però che la civiltà moderna non è stata la Si vedano su questo tema le ricerche di Milgram che evidenziano come persone non ritenute patologiche dalla società siano in grado di commettere azioni ritenute generalmente crudeli anche da loro stessi. 10 1144 condizione sufficiente dell’Olocausto, ma ne ha rappresentato la sua condizione necessaria (ibidem, p.32). Lo stesso autore, che vive nella società contemporanea ed ha assistito a quasi un secolo di storia, ritiene che sia finita l’era della modernità solida, quella caratterizzata dalle istituzioni, dalla solidità del capitale; oggi, di fronte a lavoratori indisciplinati i padroni possono muovere la produzione in un’area più disponibile, è il fenomeno della delocalizzazione delle attività produttive combinata con la fine della necessità di trasferimento fisico dei centri di controllo. Viviamo in un’epoca di progetti a termine, senza sapere chi ci impiegherà l’anno successivo. Tutto si sta sciogliendo, ma non più al fine di creare un’altra solidità, perché nulla ha il tempo per solidificarsi. La modernità odierna, come i liquidi, non può assumere una forma per lungo tempo, ma è in continua evoluzione e produce costante incertezza ed instabilità (Bauman, 2006). Ogni impegno è ora valido “fino a un nuovo ordine” (ibidem) e deve poter essere rimpiazzato qualora si presentino migliori opportunità. 3. Il soggetto, il professionista e la morale: due prosepttive contrastanti Come si può intuire dalle pagine precedenti, entrambi gli autori prendono in grande considerazione la dimensione morale seppur con presupposti ed esiti differenti: da dove nasce allora la morale? Per Durkheim la morale11 ha fondamento collettivo, ovvero nasce dalla società, e si esplicita principlamente in un insieme di regole. La morale è quindi composta da precetti particolari, socialmente riconosciuti che precedono l’azione, piuttosto che da principi posti a priori. I fatti morali12 incarnano in sè la legge generale della morale che non è però visibile, e quindi non studiabile se non attraverso i fatti morali. Sono proprio i precetti specifici, che hanno dignità propria, che obbligano E’ da sottolineare che Durkheim differenzia tra morale, che è colletiva, ed etica, che è invece la sua declinazione individuale, ma che è comunque individuale solo in apparenza perchè dipende da condizioni sociali; mentre Bauman utilizza un termine per l’altro. 11 “Si dice fatto morale normale per una specie sociale data, considerate in una fase determinate del suo sviluppo, ogni regola di condotta alla quale è collegata – nella media delle società di tale specie, considerate nello stesso periodo della loro evoluzione – una sanzione repressive diffusa; in secondo luogo la setssa qaulificazione conviene ad ogni regola che, senza presentare nettamente questo criterio, è tuttavia analoga ad alcune delle regole precedenti, e cioè serve agli stessi scopi e dipende dalle medesime cause.” (Durkheim, La diviosne del lavoro sociale, 1996, p.65). 12 1155 in ogni istante la volontà, che tracciano la condotta per le circostanze ordinarie della vita. Queste pratiche sono “riflessi incisi, non all’interno dell’organismo, ma nel diritto e nei costumi; si tratta di fenomeni sociali e non già biologici” (Durkheim, 1996, p. 54). Potremmo già trovare in queste parole parte della differente visione da parte dei due autori: la sociologia di Durkheim infatti finisce per elaborare un paradigma secondo cui la morale, per usare le parole di Bauman, è “prodotto della società e risultato del controllo sociale assistito da sanzioni”. L’autore polacco ritiene infatti che, alla luce degli avvenimenti del ‘900, sia più realistico sostenere che le società manipolano la moralità piuttosto che produrla. Il paradigma etico sociologico di Durkheim rischia quindi, alla luce dell’analisi baumaniana, e delle stesse contraddizioni interne all’opera del sociologo francese, di essere accusato di indifferentismo (Morri, 2004) proprio perchè identificando la morale con il sistema delle regole condivise, sembra essere destinato a giustificare come morale qualunque sistema sociale, per quanto ingiusto o crudele possa rivelarsi. D’altra parte Durkheim cerca di supportare l’idea che le regole non hanno una forza costrittiva tale da soffocare il libero esame, ma nella sua tesi, come si è visto, l’aspetto della libertà critica sembra fortemente vincolato dall’organizzazione. Bauman postula burocratizzazione una e tesi la opposta a razionalizzazione quella dell’autore possano francese: portare ad la una deresponsabilizzazione morale spinta fino alle più infauste conseguenze, seppur si abbia sempre la possibilità di scegliere. La visione morale di Durkheim appartiene quindi alla cornice paradigmatica che intende la morale come socialmente prodotta – “[…] la storia ha dimostrato che ciò che era morale per un popolo poteva essere immorale per un altro, e non soltanto di fatto, ma anche di diritto” (Durkheim, 1996, p.56) – mentre Bauman la intende come presociale, avvicinandosi accidentalmente alle nuove scoperte neuroscientifiche su un possibile sesto senso morale (Pinker, 2008; Rozin, 1993; Wilson, 1993). Nella modernità invece, secondo il sociologo polacco, la morale è la regolazione coercitiva dell’agire sociale attraverso la proposta di valori o leggi universali a cui 1166 nessun uomo ragionevole può sottrarsi, mentre nella postmodernità, con la fine delle ideologie, si rendono possibili tante morali. Bauman propone un tipo di morale13 basato sull’impulso, non razionale, ad essere per l’altro, a donarsi all’altro, indipendentemente da come l’altro si atteggia nei nostri confronti: la morale è quindi del tutto irrazionale. L’origine della morale è sempre un atto individuale, che implica necessariamente un io - è la mia decisione, mai un noi in quanto non è un atto collettivo, né l’esito di un accordo. La morale quindi è un atto del tutto individuale, ma crea la società (Bauman, 2006). La società nasce da una scelta etica individuale, e però crea un vincolo: viviamo in società, siamo in società, solo in virtù del nostro essere morali. L’atto morale ci permette di incontrare l’altro non come persona/maschera14, ma come volto, cioè nella sua vera identità e non nel ruolo. Il paradosso della morale per Bauman è che da un lato crea disordine; dall'altro è necessario come atto fondante della società in quanto senza l'impulso di aprirsi all'altro non ci sarebbero le relazioni sociali. Tuttavia, essendo l'impulso della morale irrazionale e libero, è in antitesi all'ordine sociale, e pertanto la morale rischia di non avere molto spazio in una società sempre più complessa che ha bisogno di regole sempre più sofisticate. Bauman non risolve questo paradosso del ruolo della morale, pur essendo cruciale nella sua visione. Come può allora crescere l’etica che ha bisogno del sentimento di appartenenza comune, del “siamo tutti nella stessa barca”, di solidarietà, di una responsabilità mutua che ci faccia prendere consapevolezza di questa responsabilità? Dipendiamo l’uno dall’altro e se non cooperiamo siamo condannati: è questo lo sfondo nel quale porre diritti, doveri, responsabilità, che sono i fili che intessono l’etica (ibidem). La morale dominante di una fuga dalle responsabilità e dagli impegni assunti, porta a guardare all’etica come ad un costo non necessario, dunque da evitare. L’uomo quindi nasce responsabile prima ancora di essere la concezione morale di Buamna prende spunto dalle teorizzazioni sulla dimensione morale di Levinas, filosofo francese. 13 Bauman usa il termine “persona” nel senso in cui viene usato dall’interazionismo simbolico, per cui il concetto di persona è inteso nel senso di una maschera che ricopre un ruolo. L’identità di ogni individuo è la somma di tutti i ruoli che copre, per questo si parla solo di persone, cioè di attori che ricoprono ruoli. 14 1177 libero: egli si trova originariamente assegnato all'alterità e alla responsabilità, prima di ogni eventuale accettazione o rifiuto. La soggettività non è un per sé ma un per l’altro. Questo peso della responsabilità è anche la sua suprema dignità (Mordeglia, 2008). Vi è pertanto concatenazione tra responsabilità, decisione e conseguenze di tale decisione; ciò implica la convinzione che l'uomo abbia il potere di conoscere o quantomeno di prevedere gli effetti di una decisione. L'imperativo dell'etica della responsabilità è quindi così formulato: “agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana” (Mordeglia, 2008). L’aspetto estremamente interessante di questa visione della morale è il focus posto sulla scelta: la responsabilità esiste in collegamento al prendere una decisione; una persona decide di fare una cosa invece di un’altra compiendo in questo modo una scelta e facendosi carico dei suoi effetti. La scelta è una dimensione costante del vivere sociale, dalla quale non ci si può sottrarre pena atteggiamenti vittimistici15: in Modernità e Olocausto Bauman esprime bene questo bivio morale mostrando che non tutti i tedeschi hanno scelto una posizione passiva di fronte alle aberrazioni del progetto nazista. 4. Responsabilità professionale nel servizio sociale Il servizio sociale si è confrontato negli anni con diversi cambiamenti16, più o meno lenti, sia organizzativi sia relativi al ruolo dei professionisti e tuttora vive di molte contraddizioni: si oscilla tra l’impegno civile e politico con un focus sulla comunità, a puntare invece sul soggetto singolo; da promotori di cambiamento ad esperti di problem solving; dall’assistenzialismo all’empowerment; da organizzazioni verticistiche autoritarie ad aziende gestite con logiche manageriali. La divisione tecnica del lavoro appare a tutt’oggi l’impianto sul quale si basano i servizi sociali, connotati da specializzazione passiva e frammentazione degli interventi, che pur si sta tentando di superare, ma che tiene in scarsa considerazione i soggetti e la loro attiva partecipazione come attori competenti. Nelle pagine di Modernità e Olocausto è ben esplicitato il ruolo delle vittime nella possibilità del carnefici di perpetrare i propri orrori. 15 Per un’analisi delll’evoluzione della professione dalla sua nascita ad oggi, si rimanda alla tesi di dottorato di Silvana Mordeglia. 16 1188 In questo scenario organizzativo è allora il professionista a dover giocare la propria umanità professionale, a dover diventare agente di cambiamento all’interno del sistema nel quale lavora, ad uscire dal ruolo specifico diventando una “sinapsi” che mette in comunicazione e non che si sostituisce alle persone. E’ necessario che gli ssistenti sociali escano da un attaggiamento vittimistico rispetto alle “professioni forti” e difensivo nei confronti dell’altro, per proporsi come soggetto che agevoli l’attuazione dei diritti di cittadinanza ed umani tanto sbandierati dai partiti politici ed operatori, ma che spesso non trovano riscontro nella quotidianità. “Non posso fare nulla, non sono io che faccio le Leggi”: una frase che spesso rieccheggia negli uffici degli operatori sociali. Possiamo evidenziare due livelli di responsabilità nel lavoro sociale, quello del professionista nei confronti della comunità e delle persone con le quali si trova ad interagire, e quello nei confronti di sè stesso e della professione. Solo apparentemente le due dimensioni della responsabilità potrebbero contraddirsi l’un l’altra, ma piuttosto la seconda rafforza la prima. Credo infatti, concordando con le parole di John McKnight17, che le persone, utenti o clienti dei servizi sociali18, non siano soggetti in uno stato di bisogno, ma piuttosto persone di cui abbiamo bisogno. Riflettiamo su un parallelismo provocatorio: se la solidarietà ideale di Durkheim funzionasse perfettamente non ci sarebbero più evoluzioni; altrettando se gli obiettivi dei servizi sociali e di quelli preventivi ottenessero effetti duraturi e stabili, non ci sarebbe più lavoro per gli assistenti sociali. Forse si tratta di una posizione un pò scomoda, ma credo che uscire dalla dinamica della persona bisognosa aiuti non solo a vederla come risorsa, e non come problema o portatore di carenze, ma anche come funzione essenziale di “soddisfare il bisogno dei servizi” (McKnight in Illich, 2008, p.77). I servizi sociali dispongono di un pericoloso potere a doppio taglio, perchè il loro aiuto può accompagnarsi ad una sistematica disabilitazione dei cittadini rispetto al controllo della propria vita. Nell’ambito del lavoro sociale si parla molto di 17 McKnight J., assistenti sociali disabilitanti, in Ivan Illich et al., Esperti di troppo, Erickson, Trento, 2008 Vi è un dibattito aperto tra posizioni che ritengono opportuno chiamare le persone che accedono ai servizi sociali clienti, ed in quanto tali assimilabili ai consumatori che hanno la possibilità di scegliere, e utenti. 18 1199 partecipazione attiva dei cittadini e di valutazione dei servizi sociali da parte degli utenti, ma sembrano più principi formali dichiarati che non pratiche effettivamente implementate. La creazione dei bisogni è un tema molto aperto e si dibatte se siano le istituzioni, con la loro nascita, a crearli ed alimentarli, oppure se esse li riconoscano e vadano a fornire una risposta: ad esempio, se la pratica di attivazione delle reti di vicinato per il supporto alle situazioni di difficoltà famigliare fosse maggiormente utilizzata, potremmo pensare che diminuirebbe il numero di educatori professionali impiegati; invece l’assistenza domiciliare per i minorenni è fortemente utilizzata anche se il suo impatto positivo non è stato mai seriamente studiato. E’ possibile allora che, “a forza di immettere risorse, che appaiono comunque sempre poche a chi lavora nei servizi, non stiamo ottenendo l’esatto contrario di ciò che quel sistema dovrebbe produrre”? (ibidem, p.78): credo sia un quesito che valga la pena di porsi. Dovrebbe essere responsabilità degli assistenti sociali conoscere i costi delle risorse utilizzate, mentre la budget accountability è quasi inesistente nei servizi sociali: la responsabilità del budget dovrebbe costituire una pretesa fortemente ricercata dagli operatori nelle organizzazioni perchè avvicina gli operatori ai centri di controllo con uno scambio attivo e critico. Come specifica McKnight la maschera dei servizi, quella della care, non è necessariamente falsa, “chi si impegna nei servizi è convinto di trasmettere davvero cura e amore” (p. 76), in questo aspetto troviamo un collegamento con la visione morale di Bauman: la maschera fa un tutt’uno con il volto, dove il volto è l’autenticità che però è nascosta. Se invece togliamo la coperta mistificatoria del care, possiamo vedere altro, così come in qualunque ambito lavorativo: la necessità di avere un lavoro e di guadagnare; il desiderio di affermazione e di prestigio nella cerchia dei professionisti o dell’ambito scientifico; la concorrenza. Questo disvelamento non toglie alla pratica sociale la sua profonda e radicata sensibilità nei confronti dell’altro, ma rende quest’ultima molto più autentica. La responsabilità professionale nel servizio sociale si declina quindi, in prima istanza, nella consapevolezza di sè, dei bisogni che si portano nella scelta lavorativa: una docente illuminata molti anni fa mi aiutò a capire che spesso chi approccia il lavoro sociale lo fa per sè prima che per gli altri; prima si entra in 2200 contatto con questo fondamentale aspetto, più si è in grado di essere consapevoli della maschera, e di conseguenza del volto. Solo questa pratica costante di scandaglio nel Sè apre la strada per un approccio autentico e professionale all’altro nella sua completezza di uomo e non di caso sociale. La consapevolezza di sè, dei propri limiti e delle proprie risorse, è quindi la prima responsabilità del professionista sociale. Rientra in questo livello di responsabilità la sperimentazione del professionista sul campo: “sporcarsi le mani” provando gli effetti disabilitanti (Illich, 2008) e positivi che la propria professione, e la struttura nella quale opera, ha sulla comunità e sulle persone, è un fattore imprescindibile per essere professionisti responsabili. In seguito all’accesso alla consapevolezza di sè, subentra allora la responsabilità di confrontarsi; di approcciare l’altro con umiltà e rispettosamente curiosi; di mettersi continuamente in discussione e avere l’abilità di mostrare il volto; di riconoscere i propri pregiudizi ed utilizzarli come strumenti positivi di lavoro. Solo da ciò può nascere la possibilità di scegliere di essere disobbedienti, nell’accezione baumaniana, o di mantenere consapevolmente la stabilità del sistema; “di fare pressione nei confronti dello Stato e degli Enti affinchè si orientino verso un cambiamento politico che renda i servizi più adeguati a cittadini visti come competenti e non carenti” (Mordeglia, 2008, p. 100) oppure di aderire all’organizzazione nella maniera solidale pensata da Durkeheim. Gli assistenti sociali hanno molto più potere di quanto se ne riconoscono sia nei confronti delle Autorità Giudiziare sia degli Enti nei quali lavorano: opporsi a scelte politiche mistificatorie o ad una burocrazia tuttora presente e a imposizioni dei Tribunali ritenute contrarie agli interessi delle persone è possibile. E’ sicuramente difficile, ma sempre possibile, ed in questo emerge la lungimirante visione di Illich: se chi lavora nel sociale lo facesse per prendersi cura degli altri, non si porrebbe certo il problema del mantenimento del proprio posto di lavoro di fronte a ciò che ritiene ingiusto, perchè l’unico principio sarebbe la care. Possiamo pensare che attraverso un processo di triangolazione tra teoria, pratica e teoria sia possibile vedere al di là della celebrazione del prendersi cura, è possibile ripensarsi e ripensare la professione in maniera effettivamente critica e riflessiva, senza “utilizzare continuamente l’identità professionale come difesa”. 2211 Il continuo scambio tra teoria e pratica implica attenzione nei confronti della comunità, ma anche dei professionisti che si stanno formando: la triangolazione del sapere porta a una ricchezza di contenuti e di dibattito che altrimenti si scontrerebbe con un’astrazione eccessivamente elevata; si evita inoltre l’autoreferenzialità del formatore. Il professionista responsabile è allora colui che attraverso la circolarità del sapere teorico e pratico, ma anche organizzativo, riesce a pensare alla propria professione come ad una dimensione creativa e generatrice di giustizia basata su un pensiero critico nel quale l’altro è soggetto da cui imparare, e non al quale impartire prescrizioni: gli utenti sono La risorsa dei servizi, senza di loro essi non esisterebbero. 2222 Conclusioni: verso una critica e riflessiva responsabilità professionale Dall’analisi emerge la realistica visione della modernità come composta da due facce “che aderiscono in perfetta armonia allo stesso corpo” (Bauman, 1992) e diventa chiara la persistenza dell’ambivalenza, che si nota con particolare efficacia nell’opera di Durkheim. La divisione del lavoro sociale come declinata nella prima parte dell’opera del sociologo francese può essere intesa come un tentativo di esplicitare e sistematizzare ciò che “dovrebbe essere”, ossia il desiderabile; mentre l’analisi delle forme anomiche può apparire un tentativo di analizzare ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi e porre una forte critica a quella deriva negativa della modernità. In sintesi, il sociologo francese poteva intendere la divisione del lavoro industriale solo come patologica a seguito delle premesse di partenza del suo approccio epistemologico. Partendo dalle contraddizioni presenti nella trattazione del sociologo francese e nelle riflessioni di Bauman possiamo dedurre che le ambivalenze sono ineliminabili nella società e che l’ordine perfetto di una società completamente integrata sia possibile solo ad un elevato livello di astrazione, ma mai nella vita reale. Impariamo però da Bauman che si dovrebbe essere responsabili e cercare di tendere alla creazione di un mondo nel quale ognuno sia responsabile per sè, ma soprattutto per l’altro. E’ venuto il tempo di accettare l’altro nella sua diversità, per diventare uno di noi, ma non necessariamente uno uguale a noi. È solo lasciando che l’altro resti ciò che è, o meglio sia se stesso, che possiamo scoprire e valorizzare la differenza creativa invece di continuare a ritirarci in noi stessi, nei ruoli che ricopriamo, e quindi a separarci dall’altro, esasperando la competizione; possiamo allora scegliere una seconda opzione, quella di una ambizione globale, la global responsibility (Bauman, 2006). 2233 Bibliografia Bauman Z., Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992 Bauman Z., Universal Sun and Domestic Lamp, Corso di Alta Formazione in Business Ethics Management, Assoetica, Docenza di sabato 27 marzo 2006 Durkheim E., La divisione del lavoro sociale, Ed. 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