Introduzione L’alimentazione è particolarmente importante per l’anziano per lo meno per due motivi in più di quelli delle altre età. Il primo è che si intensifica nella vecchiaia il significato affettivo del cibo, il suo valore simbolico; nonostante ciò – secondo motivo – le malnutrizioni sono più frequenti e più pericolose nell’anziano, la cui funzionalità è in equilibrio precario e facile allo scompenso. Di contro una alimentazione corretta e ben equilibrata, che tenga conto di tutto ciò che serve ad un organismo che invecchia, è proprio elemento di compenso e di stimolo, vero fattore di riattivazione in un approccio globale alla persona. Tanto più nell’anziano affetto da disturbi cognitivi tali motivi e significati non solo non diminuiscono, ma, riferendosi a percezioni e procedure che sono le ultime ad essere colpite e indebolite dalla demenza, possono diventare un canale attraverso il quale arrivare ad una nuova comunicazione con il malato. In particolare alcuni cibi possono essere intesi come “alimenti magici”, dai quali trarre non solo valore energetico quantitativo e qualitativo, ma anche effetto di sicurezza, o comunque rassicurazione emotiva. E’ il caso del pane e dei dolciumi. Tempo fa il nostro gruppo di studio fece una indagine sulle scelte di pazienti affetti da malattia di Alzheimer, e ne scaturì un tropismo proprio verso questi due tipi di alimenti: per il pane si tratta senz’altro di un retaggio culturale dei nostri climi, mentre il sapore dolce risulta ancor più connotato da un sentimento di rassicurazione emotiva. Comunque nella demenza, a seconda dei vari momenti di espressività della malattia, il rapporto con il cibo si fa via via differente. Demenza lieve, moderata, grave Nel primo stadio, durante il quale non vi sono difficoltà nel modo di assumere il cibo, tuttavia i primi significativi disturbi della memoria fanno sì che nell’acquisto degli alimenti, nella loro preparazione, nel seguire con attenzione lo svolgersi delle ricette, cominci a insinuarsi qualche difficoltà, che inquieta soprattutto le donne casalinghe. Una paziente lamentava che le buone ricette apprese dalla madre non le riuscivano più come una volta e si interrogava sui motivi: si era dimenticata di rosolare la cipolla prima di gettarvi lo spezzatino, o forse aveva messo il pomodoro troppo tardi perché al momento giusto le era passato di testa ? Un’altra paziente era giunta alla consultazione con il geriatra dopo essere scoppiata a piangere convulsamente a tavola, davanti al marito e al figlio che criticavano un piatto, normalmente la sua specialità, denunciando una incapacità che da tempo teneva nascosta. E’ in effetti un campanello d’allarme che ci viene spesso riferito anche dai familiari e può diventare spunto depressivo, che slatentizza il danno cognitivo. In altri casi, invece, l’incapacità viene vissuta in modo fatuo o addirittura negata dai pazienti, o rimossa dai familiari che si difendono dall’idea della malattia. Nel secondo stadio, nel quale i deficit di problem solving si accentuano e appaiono disordini visuo-spaziali ed aprassici, che compromettono le attività della vita quotidiana, le difficoltà si spostano sulla capacità di alimentarsi autonomamente, anche perché quasi sempre il paziente viene allontanato dalla preparazione del cibo, per paura che dimentichi il gas acceso o che provochi altre situazioni di pericolo per sé e per gli altri. E’ il momento in cui comincia ad essere necessaria una vigilanza continua, nonostante nella maggior parte dei casi il malato sia ancora capace di mangiare da solo. La perdita di memoria induce talvolta a ricominciare a mangiare dopo la fine del pasto, come se nulla fosse. Ciò avviene anche perché a provocare i disturbi alimentari concorrono probabili alterazioni del gusto, dell’olfatto, ma soprattutto dei centri della fame e della sazietà, nonché alterazioni del senso della sete. Queste ultime spiegano anche la facilità alla disidratazione che presentano questi malati, fonte frequente di gravi episodi confusionali, che vanno a peggiorare il quadro della malattia, soprattutto nei mesi estivi nei nostri climi. Col progredire del decorso della malattia, si verifica un disconoscimento della commestibilità degli elementi, che vengono all’osservazione del demente: è il momento in cui viene portato alla bocca materiale incongruo, soprattutto come manifestazione di una voracità che ha il significato di appropriarsi, di inglobare quanto a lui sfugge. Dal racconto di una figlia: “Tiro su la mamma e la metto in cucina e intanto apparecchio. Non posso metterla subito al tavolo, se non inizia a mangiare il formaggio da sola, voracemente. Il cibo è per lei come un oggetto da nascondere con rapidità felina, nel fondo del proprio stomaco. Senza gusto, senza pausa, si riempie, si ingozza. E comincia quasi subito a tossire. Le va di traverso tre quattro volte per pranzo. Questa storia quotidiana non è solo un fastidio passeggero, è ogni volta una ipoteca con il soffocamento, una scommessa con una morte possibile. Una volta ha tossito così a lungo da stramazzare sul tavolo, ormai cianotica. E’ anche questo camminare sul filo del rischio che mi distrugge.” Ma nella fase avanzata di malattia c’è anche il rifiuto del cibo: la bocca serrata, il ruminare per lunghissimi minuti senza deglutire, per la disperazione del caregiver. Può essere il momento del biberon, un “miracolo regressivo”, che risiede nell’arcaizzazione dei riflessi che il demente vive: il riflesso della prensione insieme a quello della suzione sono i primi e sono gli ultimi a riaccendersi: è come se il paziente ricercasse simbolicamente il calore rassicurante del seno materno. “Ormai mi chiamava mamma e l’ho salvata con il biberon. All’inizio non è stato facile, l’ha masticato e rifiutato; poi come d’incanto ha cominciato a succhiare prima sospettosa, poi volentieri. Il contenuto era appetibile, preparato con cura, con cuore, con arte: un po’ di brodo, formaggio parmigiano, una punta d’olio d’oliva. Ma si può riempire il biberon anche di tè, di latte con biscotti sciolti. E’ importante che la bottiglia sia di plastica per poter aumentare la pressione del contenuto. Lei lo prendeva con le due mani già in flessione e quasi completamente rigide, stringendolo con forza e pareva godere di quel momento strano e straordinario insieme.” Appena passato il momento di crisi, è necessario però ripristinare i pasti normali, con l’uso delle posate se possibile, per contrastare la dipendenza totale. La malnutrizione è comunque un pericolo sempre incombente sul demente, anche dal punto di vista qualitativo, perché il fabbisogno proteico e vitaminico si mantiene costante e diventa più alto nelle situazioni di grave irrequietezza motoria e di stress. Così come per i farmaci, la modalità di somministrazione è fondamentale per avvicinarsi al paziente ed ottenere il miglior rendimento, la più adeguata risposta all’offerta, in questo caso di cibo. Lo sguardo, il contatto, il sorriso, la pazienza diventano relazione efficace, virtù terapeutica. Una figlia testimonia: “Mia madre mangia tutto, e se le si chiede cosa preferisce risponde che è lo stesso. Per farla mangiare bisogna starle vicino e guardarla negli occhi, dimostrandole tenerezza, se no smette. E’ importante che mangi perché è sotto peso e tende a dimagrire. Non è vero però che tutti i cibi per lei sono uguali. Noto che ama i dolci e i gelati più di altro.” Durante le sedute di ROT si scoprono aspetti inediti della vita dei malati e l’argomento del cibo e di desideri gastronomici compaiono frequentemente. A volte, in modo informale gli incontri si tramutano in occasioni per realizzare tali desideri, con sortite per gustare le castagne arrosto d’inverno o i gelati non solo d’estate. Infatti il gelato più di ogni altro alimento soddisfa il demente perché lo nutre, lo idrata e gli fornisce quel sapore dolce, che abbiamo constatato gratificarlo in modo egregio. Nel terzo stadio, la possibilità di alimentarsi autonomamente si fa sempre più rara. Il malato va aiutato in tutto quando i movimenti finalizzati sono quasi del tutto assenti. Dalla parte di un figlio: “Vado tutti i giorni ad imboccare mia madre nella nursing home in cui vive. Tengo molto a questo rito che peraltro mi costa un grosso spostamento in macchina per raggiungerla. Faccio attenzione che non si sporchi i vestiti, che non mangi e beva troppo velocemente, che non si sbrodoli. Le parlo durante tutto il pasto, anche se mi guarda con occhi spenti. Cosa ci sarà dietro quello sguardo ? Ieri sera ho guardato vecchi filmini girati in bianco e nero quando ero bambino, ed era lei ad imboccarmi sul seggiolone. Mi pare giusto ora che sia io ad alimentarla, ora che è incapace.” Si pone il grave problema di fino a che punto portare avanti una alimentazione forzata. Una indagine effettuata su caposala di reparti dedicati ai malati di Alzheimer ha messo in evidenza come i professionisti nella quasi totalità siano propensi a mettere in atto la nutrizione enterale per sondino gastrico (95%), mentre un’altra indagine effettuata su caregivers informali dava risultati meno netti, pur sempre percentualmente favorevoli (65%). Dalla figlia di un malato di Alzheimer: “Sei mesi precedenti la morte di mio padre ho dovuto cominciare a combattere una nuova battaglia quando cominciò a perdere la capacità di masticare e di ingoiare. Ho cominciato ad imparare tutti i trucchi per stimolarlo, incluso il fatto di togliere la protesi per fargli sentire meglio i sapori che gli erano graditi. Gli compravo gelati e budini per merenda e dolci da inzuppare nel latte. Seguivo le variazioni del peso che continuava a calare. Sapevo che un giorno avrebbe smesso di mangiare ed avrei dovuto affrontare l’argomento dell’alimentazione per sonda. Alla fine decisi contro una alimentazione forzata; nel mio pensiero non era né umano per mio padre, né di conforto per me. Era arrivato il suo momento di morire ed io ero decisa di farlo morire con tutta la dignità e l’amore che io potevo offrirgli. Penso di esserci riuscita.” La riattivazione Possiamo affermare che vi è un grosso spazio nel campo dell’alimentazione per sviluppare un progetto di comunicazione con il demente, un progetto che indichi comportamenti utili nel tentativo sempre di garantirgli una vita il più possibile autonoma, gratificante e attiva. Bibliografia “Dementia, care and education”. European Project Group (Belgium, Denmark, Finland, Italy, Portugal and Sweden), DANIEE 1999. “La nebbia dell’anima”. Bottura R., Guaraldi Ed. 1994. “La dieta dell’anziano come fattore dinamico di riattivazione”. Bartorelli L. Atti del Convegno Medicina per gli Anziani, Latina 1988. Ricerca S. Eugenio Giorn. Geront. Vol. 49 n. 11. 2001