CSGE - Centro Studi di Geopolitica Economica

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SVILUPPO ECONOMICO E STRATEGICO
DELLA CINA
Compatibilità fra geopolitica, economia e bilancio militare
Direttore: Carlo Jean
INDICE
Prefazione di Paolo Savona
INTRODUZIONE
pag. 5
Capitolo I
L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA CINESE
pag. 18
Capitolo II
LA CINA E I SUOI VICINI
pag. 36
Capitolo III
LA CINA NEL GOLFO, IN AFRICA E IN AMERICA LATINA
pag. 63
Capitolo IV
I RAPPORTI FRA CINA E USA
Cooperazione e competizione. Bilateralismo, regionalismo e
globalizzazione nel sistema Asia-Pacifico
pag. 93
pag. 117
Capitolo V
POLITICA DI SICUREZZA E DOTTRINA MILITARE CINESI
- dall’isolamento al cosmopolitismo strategico –
Capitolo VI
IL BILANCIO MILITARE CINESE:
SITUAZIONE E PROSPETTIVE
pag. 150
Capitolo VII
LE FORZE ARMATE CINESI:
SITUAZIONE E PROSPETTIVE
pag. 178
Capitolo VIII
L’INDUSTRIA CINESE DELLA DIFESA
pag. 197
Capitolo IX
L’ECONOMIA DELLA CINA
pag. 218
pag. 253
CONCLUSIONE E SOMMARIO
2
PREFAZIONE
Questo studio di Carlo Jean è la testimonianza più limpida della intuizione che
abbiamo avuto di reinterpretare il patrimonio di conoscenze della politica economica in
chiave planetaria, dando vita al Centro Studi di Geopolitica Economica sulla cui
produzione scientifica, per una radicata tradizione del Paese, l’attenzione è stata piuttosto
scarsa. Eppure il nostro benessere dipende ormai dall’evoluzione del mercato globale e
delle forze che in esso si muovono.
Ho già segnalato che il traino dello sviluppo mondiale non ha più il suo centro
nello sviluppo americano, ma a esso si è affiancato quello dell’estremo Oriente, Cina in
testa. Ho anche sottolineato che gli errori monetari commessi dagli Stati Uniti e
assecondati dall’Unione Europea hanno creato una situazione di conflitto tra i due modelli
di sviluppo (USA-led e EE-led, dove EE sta per Emerging Economy), che ha la sua origine
nell’aver permesso ai paesi emergenti, Cina in testa, l’adesione ai benefici del libero
scambio seguendo le regole del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, invece
di sottoporli allo stesso regime di cambio. Ciò ha “armato” le mani della Cina e dei paesi
che hanno accumulato riserve in dollari, che ora operano per incrementare la loro
influenza geopolitica a scapito di quella statunitense. Attivando lo strumento dei “fondi
sovrani” (sovereign wealth fund) effettuano investimenti in settori strategici dell’economia
mondiale o per finalità politiche in Africa, in Sud America e dove i governi accettano la
presenza “riequilibratrice” cinese. Il sistema è in condizioni di operare finché la Cina
continua ad avere un rilevante surplus di bilancia commerciale accumulando dollari per
impedire la rivalutazione dello yuan-renminbi. Invece di cambiare le regole reali e
monetarie del gioco geopolitico, gli Stati Uniti premono per ottenere un mutamento della
politica valutaria di sostegno, adducendo evidenza econometrica sull’impatto trascurabile
che avrebbe siffatta decisione. Trascurano però il fatto che lo sviluppo dell’euroarea
resterebbe schiacciato dalla decisione, rafforzando le spinte antiamericane presenti in
Europa.
3
Ho concluso queste mie diagnosi indicando che il problema non è geoeconomico,
ma geopolitico e riguarda i ministri degli esteri, se non proprio, per la sua importanza, i
Capi di Governo e non i ministri dell’economia.
Jean condivide in gran parte e ripercorre perfezionandola questa analisi ma,
partendo dalla considerazione che tra il 2020 e il 2040 il PIL cinese avrà la stessa
dimensione di quello statunitense (pochi anni orsono la data era stata individuata
prudenzialmente nel 2030, anche nei miei scritti), si pone il problema di quale
competizione tecnologica e soprattutto militare vorrà attuare la Cina, disponendo di risorse
in valore assoluto pari a quelle degli Stati Uniti; ovviamente per propria volontà, arma
anche costretta dalle vicende imprevedibili alle quali il mondo è esposto, obbligando,
volenti o nolenti, i governanti ad adeguarvisi. Insieme alla ricchezza e puntualità
dell’analisi, questo lavoro ha il pregio di non soffermarsi su ciò che la “quarta
generazione” dei comunisti cinesi va facendo o dichiara di voler fare, ma anche quali
potrebbero essere i problemi che incontrerà la “quinta generazione” a seguito
dell’evoluzione imprevista e forse imprevedibile della realtà delle cose all’interno del
Paese e al suo esterno, e quali potrebbero essere le sue reazioni: trecento milioni di cinesi
si riverseranno nelle città e le divergenze sociali si amplieranno; l’Africa del Sud e quella
Settentrionale
si
svilupperanno
in
modo
altrettanto
sorprendente
lasciando
pericolosamente indietro l’area subsahariana; le sorti del Medio Oriente sono nella mente
di Dio (senza sapere quale); il Sud America continuerà a svilupparsi (nel disordine?);
l’Europa sarà la nobile decaduta del pianeta e la Russia manifesterà in modo disturbante i
suoi sussulti di grandeur.
La qualità delle scelte di geopolitica economica sarà senza ombra di dubbio al
centro dei nuovi equilibri mondiali. Tutto è possibile, nulla è però certo. La lettura del
testo di Carlo Jean aiuta a individuare le possibilità e a ridurre le incertezze.
Paolo Savona
Professore emerito di Politica economica
Co-fondatore del Centro Studi di Geopolitica economica
4
INTRODUZIONE
DALL’“IMPERO DI MEZZO” E DALL’ESPORTAZIONE DELLA
RIVOLUZIONE AL PEACEFUL RISE
L’eventualità che la Cina aumenti il suo bilancio militare, in modo tale da
trasformarsi in pochi anni – ad esempio entro il 2020 – da superpotenza economicocommerciale, in una globale – dotata di capacità di proiezione di potenza analoga a quella
USA - è oggetto di dibattito. Esso non riguarda tanto la possibilità economica che lo
faccia, che indubbiamente esiste. È relativo invece al fatto che i dirigenti cinesi decidano
di farlo e che dispongano della tecnologia necessaria. Un colossale riarmo avrebbe infatti
un “effetto boomerang”. Susciterebbe reazioni negative non solo negli Stati Uniti, ma
anche negli Stati dell’Asia orientale e forse anche della Russia e dell’Europa. Come in
qualsiasi analisi geopolitica e geostrategica, tale trasformazione e i fini che si
prefiggerebbe (difensivi, per il mantenimento dello status quo, oppure offensivi - volti alla
trasformazione dell’ordine internazionale e alla creazione, a lunghissimo termine, di un
ordine “sinocentrico” del mondo – vanno analizzati in termini non solo di capacità, ma
anche di interessi e di intenzioni. Alcuni analisti ritengono l’eventualità che la Cina voglia
dominare il mondo addirittura ridicola 1 . I fautori della tesi dell’ordine sinocentrico
sostengono che esso dovrebbe succedere all’unipolarismo americano in tre fasi: primo
trasformando l’unipolarismo in multipolarismo; secondo, mutando quest’ultimo in un
bipolarismo Cina-Stati Uniti; terzo, con la vittoria cinese nel nuovo confronto bipolare.
Tutti gli scenari vanno valutati globalmente, tenendo conto del contesto sociale,
politico, economico, strategico e culturale, nonché degli indirizzi e interessi generali della
politica estera di Pechino. Questi ultimi non sono determinati solo dall’economia e dalla
tecnologia disponibili, ma anche dalla storia, dalla cultura, dalla coesione sociale interna,
dalle visioni geopolitiche dominanti e così via. Questi ultimi fattori determinano ciò che
Joseph Nye ha denominato soft power e influiscono sulla sua combinazione con l’hard
power e con la sua importanza relativa.
1
Lionel Barber, A 21st Century Narrative With Many Contradictions, Financial Times, October 9th, 2007
Special Report, “China”, p. 2.
5
La Cina offre un modello attraente a tutti gli Stati non democratici del Terzo Mondo:
la coesistenza di un modello di sviluppo accelerato con il mantenimento di un regime
autoritario. Anche sotto il profilo della politica estera economica, il comportamento di
Pechino viene apprezzato da questi Stati: separa infatti le relazioni economiche dalla
politica, rispetta l’assoluta sovranità interna ed è contrario per principio ad ogni forma di
ingerenza, di pressione e di interferenza negli affari interni degli altri Stati.
Tale politica sta mostrando i suoi limiti. Contrappone infatti la Cina agli Stati Uniti e
all’ONU, nonché a molte ONG, che pretendono di rappresentare la società civile mondiale
e che si occupano della tutela dei diritti civili ed umani. Non ha per ora reso la Cina uno
stakeholder responsabile dell’ordine mondiale. Pechino è divenuta consapevole di tale
realtà. Ha cercato di correggerla, ad esempio intervenendo con pressioni sul governo di
Khartoum e con l’invio di qualche centinaio di soldati in Sudan, per la fine del genocidio
nel Darfur e svolgendo un ruolo determinante per bloccare la proliferazione nucleare della
Corea del Nord. Ma permane molta incertezza, come si è visto nella “rivolta dello
zafferano” in Myanmar.
La Cina è quindi “un giallo”, come fu intitolato un fortunato numero di Limes di
qualche anno fa. Indubbiamente, conosce un forte aumento di potenza non solo
economica, ma anche militare. La sua influenza sta aumentando in tutto il mondo, proprio
grazie al soft power e alla politica dell’“armonia confuciana”, del sorriso e del peaceful
rise - ora ridenominato peaceful development - dall’Africa all’America Latina, dal Medio
Oriente all’Asia Centrale, nonché per le grandi riserve finanziarie di cui dispone.
Esiste comunque una notevole incertezza circa quanto la Cina possa e soprattutto
intenda fare a lunghissimo termine. Essa è alimentata anche dall’opacità del bilancio
militare della PLA (People Liberation Army) e del reale livello tecnologico dell’industria
cinese degli armamenti. Esistono anche incertezze nei riguardi della stabilità politica,
sociale ed ecologica dell’“Impero di Mezzo”. Esso conosce enormi problemi interni, in
particolare un’accentuata instabilità sociale, generata dalla rapida crescita. Le
disuguaglianze fra i ricchi e i poveri e fra le città – soprattutto quelle oceaniche – e le
campagne dell’interno stanno crescendo in misura intollerabile, provocando ogni anno
decine di migliaia di rivolte, di cui i leaders cinesi sono molto preoccupati. Nei prossimi
15-20 anni, la Cina dovrà poi fronteggiare un’urbanizzazione “selvaggia”. Almeno 300
6
milioni di abitanti delle zone rurali (sui circa 800-900 milioni attuali) abbandoneranno le
campagne e si riverseranno sulle città. Ciò sta già causando enormi problemi, non solo per
la costruzione delle case e delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ma anche
per i rifornimenti idrici ed energetici. Determina poi la necessità di creare almeno una
quindicina di milioni di posti di lavoro all’anno. Per questo la Cina è obbligata a seguire
una politica industriale centrata sui settori ad alta intensità di manodopera, quali
l’assemblaggio di prodotti anche ad altissima tecnologia (come i computer), ma che dal
punto di vista produttivo comportano linee di produzione di tecnologia media o bassa. In
fin dei conti, assemblare un giocattolo o un computer richiede un livello tecnologico
abbastanza simile.
Fino ad oggi i responsabili amministrativi delle città costiere hanno rimandato a casa
un numero sempre maggiore di contadini immigrati, costringendoli a salire coattivamente
sui treni, come permettono le leggi in vigore (c.d. “sistema Hukou” 2 ). Esse prescrivono
che, nelle migrazioni interne, vada mantenuta una carta d’identità del paese di nascita ed
una di quello in cui si lavora. Le autorità amministrative hanno il potere di imporre, in
caso di necessità, che il lavoratore cinese – famiglia compresa - vada ad abitare nell’uno o
nell’altro luogo. Anche ciò crea malcontenti e tensioni sociali, che spesso sfociano in
violente rivolte e tentativi di resistenza. Ne sono derivati numerosi scontri, anche perché la
diffusione dell’industrializzazione, l’enorme sforzo effettuato per l’infrastrutturazione del
paese e, soprattutto, l’incredibile entità dell’inquinamento – dell’aria, del suolo e delle
acque – sta riducendo la quantità e la qualità dei terreni agricoli, e sta influendo in modo
sempre più negativo sulla salute pubblica. Unitamente all’invecchiamento della
popolazione, questi fenomeni aumentano - e soprattutto aumenteranno in futuro – la spesa
sociale, sottraendo fondi ad altri impieghi. Tuttavia, l’attuale livello di spesa militare –
valutata, a seconda della fonte, dall’1,7 al 2,3% del PIL annuale - è sostenibile
economicamente. Potrebbe anche essere raddoppiato, qualora la politica decidesse di farlo
per conseguire obiettivi di politica estera di potenza.
L’instabilità sociale è affrontata con decisione dai responsabili politici cinesi della
“quarta generazione”, in particolare dal Presidente Hu Jintao e dal Primo Ministro Wen
Jiabao. Entrambi sono consapevoli della sua gravità. Mentre i dirigenti della “terza
2
STRAFFOR, Rural Migration and Plugging the Rural-Urban Group, April 02, 2007.
7
generazione” – quali l’ex Presidente Jiang Zemin – davano assoluta preminenza alla
crescita economica e, quindi, allo sviluppo delle regioni costiere – in cui si concentrano
industria manifatturiera ed investimenti stranieri, motori della crescita cinese che è exportled, anziché basata sui consumi interni -, quelli della “quarta generazione” cercano di
riequilibrare il sistema. Il loro obiettivo è la costruzione di una “società armoniosa”, nel
senso confuciano del termine, con la riduzione del gap esistente fra le regioni costiere e
quelle dell’interno, e fra le zone urbane e quelle rurali. Sono consapevoli che il successo
del loro progetto è essenziale per permettere al Partito Comunista Cinese (PCC) di
mantenere il potere, in un’economia che è la più aperta e liberista del mondo. Essa fa della
Cina il vero vincitore della globalizzazione, unitamente agli Stati Uniti.
Hu e Wen incontrano però notevoli resistenze da parte delle regioni e delle città più
ricche. Tali resistenze sono sovente superate con sistemi analoghi a quelli impiegati dal
Presidente Putin in Russia, in particolare con l’applicazione alquanto “disinvolta” della
legge “anti-corruzione”. Il sindaco di Shanghai, legato a Jiang Zemin, è stato incarcerato e
al suo posto è stato installato il “delfino” del Presidente Hu, che nel 2012 potrebbe
succedergli alla presidenza della Repubblica Popolare Cinese. Episodi come questo si
contano a migliaia. La recente decisione di Hu e Wen di sostituire 170.000 dirigenti
pubblici è coerente con tale orientamento ad una ri-centralizzazione del potere, necessaria
per attuare il programma di ridistribuzione della ricchezza.
L’intero XI Piano Quinquennale, approvato nel dicembre 2006, mira a raggiungere
tale obiettivo di “armonia”, anche a costo di un rallentamento della crescita economica e
dell’entità degli investimenti stranieri, ma con un aumento dei consumi. Quest’ultimo
potrebbe essere ottenuto con una forte rivalutazione del renminbi/yuan rispetto al dollaro.
Come ha recentemente dimostrato un’analisi dell’Economist, tale misura, richiesta con
insistenza dal Congresso americano, non andrebbe a favore degli USA, ma della Cina.
Pechino potrebbe così neutralizzare uno degli squilibri che più pesano non solo sulla
stabilità interna cinese, ma anche sull’economia mondiale e sulle stesse prospettive della
globalizzazione: il fatto cioè che i cinesi consumino troppo poco e risparmino troppo. Tale
provvedimento, se attuato molto rapidamente, darebbe però uno scossone troppo forte
all’economia mondiale: ridurrebbe il benessere dei consumatori americani, ormai abituati
ad essere sovvenzionati dai bassi costi delle merci cinesi, e, soprattutto, causerebbe una
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grave crisi economica in tutti i paesi dell’Asia orientale e sud-orientale. Le loro economie
sono infatti fortemente integrate con quella cinese, a cui forniscono componenti e
subsistemi, che vengono poi assemblati in Cina ed esportati negli USA e in Europa.
Poiché all’export-led subentrerebbe naturalmente una politica di export-substitution, volta
a soddisfare le esigenze dei nuovi consumatori cinesi, potrebbe determinarsi una grave
crisi che, dall’Asia orientale, si diffonderebbe rapidamente a tutto il mondo.
Una trasformazione dell’economia cinese è comunque necessaria. C’è da augurarsi che
avvenga in modo graduale. Il governo cinese è sicuramente in condizione di attuarla in
modo ragionevole, a meno che non si determinino gravi crisi interne o esterne, nel sistema
geopolitico Asia-Pacifico, in pratica uno scontro fra Cina ed USA per Taiwan.
Comunque sia, il contrasto fra autoritarismo politico e liberismo economico potrebbe
avere, a medio-lungo termine, conseguenze molto gravi, sebbene la cultura etico-politica
cinese sia molto diversa da quella occidentale. Come detto, la realizzazione delle riforme
di Hu e Wen incontra crescenti difficoltà. Taluni autorevoli membri del Partito ritengono
che il loro potere potrà essere mantenuto solo con un elevato tasso di crescita, piuttosto
che con la redistribuzione della ricchezza ed un aumento dei consumi interni. Questi
ultimi farebbero crescere una classe media che, prima o poi, contesterebbe il potere del
Partito Comunista e imporrebbe un pluralismo politico che, nella storia cinese, ha sempre
significato frammentazione conflittuale del paese.
Il nazionalismo è l’altra leva su cui gioca il Partito Comunista. Come gli USA e la
Francia, anche la Cina si sente depositaria di un manifest destiny, cioè di un ruolo storico
eccezionale. Non l’ha però mai espanso al resto del mondo. Ha atteso con pazienza che gli
altri venissero da lei. È erede di una cultura e di principi derivati da una millenaria civiltà e
dalla tradizione confuciana.. Esse le conferiscono un senso di superiorità. La Cina tende a
prendersi la rivincita delle umiliazioni subite dall’Occidente (Russia inclusa) nei secoli
XIX e XX ed a riacquistare il rango che ha sempre occupato nella storia, fino all’inizio del
XIX secolo. Ancora nel 1820, il suo PIL ammontava al 23-30% di quello mondiale (quello
attuale degli USA è all’incirca pari al 25-29%). Poi, ebbe inizio il “secolo delle
umiliazioni”, iniziato con la “guerra dell’oppio”. La Cina fu invasa, saccheggiata,
impoverita e privata delle province periferiche. Pur avendo una popolazione pari ad un
quarto – un quinto di quella mondiale, il suo PIL scese a meno del 2% di quello totale. Dal
9
1978 – inizio della riforma del leader della “seconda generazione”, cioè di Deng Xiaoping
(la “prima generazione” è stata quella di Mao Zedong) – sta crescendo rapidamente. Oggi,
esso è giunto a superare il 5% di quello mondiale in termini di tasso di cambio di mercato
(MER), mentre in termini di parità di potere d’acquisto (PPP) è - secondo la Banca
Mondiale - quasi tre volte superiore, pari cioè al 12-15% del PIL mondiale. La Cina si
avvia rapidamente – con una crescita superiore al 10% annuo, che nel decennio si
stabilizzerà sul 7-8% – ad essere la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti.
Addirittura li potrebbe superare verso il 2040, a meno che non intervengano turbative
geopolitiche interne o esterne tali da sconvolgere i trends attuali. Cioè, a meno che la
globalizzazione non conosca il globo-bang temuto da Henry Kissinger, e che non venga
sostituita dal ritorno dei protezionismi e dei nazionalismi, con meccanismi simili a quelli
attivati degli anni Trenta dalla grande crisi del 1929.
Dati i suoi enormi problemi interni, il Partito Comunista non può, con il solo
nazionalismo e la sola crescita economica – che aumenta i divari di ricchezza – mantenere
il consenso necessario. Il regime è considerato corrotto, anche se la burocrazia cinese
presenta settori di eccellenza. In campo amministrativo permane la grande tradizione dei
“mandarini” imperiali. Dalle loro famiglie provengono in massima parte anche gli attuali
principali dirigenti politici, amministrativi e imprenditoriali, sopravvissuti alle terribili
“purghe” della “rivoluzione culturale”. Questa distrusse, con la sua ventina di milioni di
morti, una consistente parte delle élites culturali, economiche e politiche del paese. Il
“grande balzo in avanti” voluto da Mao Zedong si tradusse in un “grande balzo
all’indietro”, nonostante la popolarità che ebbe nei “sessantottini” nostrani. Per inciso la
ebbe anche la lugubre e sanguinaria dittatura del Pol Pot, tanto apprezzato da taluni
“pacifisti” europei. Esso fu sostenuto da Pechino e attaccato dal Vietnam, verosimilmente
su pressioni di Mosca, provocando, nel 1979, l’attacco cinese ad Hanoi, conclusosi per la
PLA con un vero e proprio disastro militare.
Tali problemi fanno ritenere ai più che – pur essendoci sicuramente la possibilità
economico-finanziaria di un aumento considerevole delle spese militari – la priorità verrà
data dai governanti cinesi, per diversi decenni, a quelle sociali ed ecologiche. Nell’XI
Piano Quinquennale, dei 24 obiettivi prioritari menzionati, ben 18 si riferiscono a questi
ultimi due settori, al riequilibrio fra città e campagne e fra esportazioni e consumi interni,
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e alla necessità di diminuire l’inquinamento e lo sperpero delle risorse ambientali del
paese, aumentando l’efficienza energetica e diminuendo l’intensità energetica, cioè la
quantità di energia necessaria per produrre un dato reddito (solitamente espressa in
numero di tep - tonnellate equivalenti di petrolio - per 1 miliardo di dollari di PIL). Le
realtà e le prospettive dell’economia cinese verranno approfondite nel capitolo ad esse
dedicato nel presente rapporto di ricerca. Sin d’ora si può però affermare che l’aumento
della spesa militare – indipendentemente dalla volontà dei dirigenti cinesi - sarà
potentemente frenato non tanto dalle altre esigenze di bilancio - che vanno soddisfatte
anche per la sopravvivenza dell’attuale regime politico - quanto dal fatto che è
conveniente per Pechino sfruttare le potenzialità del suo soft power, anziché rischiare con
l’hard power reazioni boomerang e, soprattutto, la crisi dell’ordine della globalizzazione,
oggi salvaguardato e pagato dalla “potenza unipolare” degli Stati Uniti. Inoltre, se è
indubbio che la potenza militare cinese sta aumentando rapidamente in termini assoluti,
altrettanto non avviene in termini relativi rispetto agli USA.
Le correlazioni fra andamento dell’economia e spesa militare non sono mai di tipo
lineare. La seconda dipende da decisioni politiche, dalla valutazione dell’evoluzione della
situazione mondiale e dalle opportunità offerte dall’uso della forza miliare, più che dallo
stato dell’economia. Il primo compito di ogni Stato è la sicurezza e quello di ogni classe
dirigente è di mantenere il potere. Nel caso della Cina, un fallimento del progetto della
“società armoniosa” potrebbe indurre i dirigenti cinesi a volgersi per disperazione al
nazionalismo, a ritornare ad una politica estera più aggressiva (non più di esportazione
della rivoluzione alla Mao Zedong, ma di espansione dell’influenza militare e politica
diretta cinese), abbandonando il paradigma del peaceful rise, adottato – come si è
ricordato - a partire dalla metà degli anni ’90. In tale strategia viene data importanza
centrale all’espansione pacifica tramite il soft power, al fine di aumentare l’influenza di
Pechino nelle regioni del mondo considerate “strategiche”, soprattutto per soddisfare i
crescenti fabbisogni di energia e delle altre materie prime, sia minerarie che alimentari, e
per assicurare sbocchi commerciali ai prodotti cinesi.
Come già accennato, determinanti ai fini delle previsioni sull’andamento della spesa
militare non sono le potenzialità dell’economia, bensì gli obiettivi geopolitici che la Cina
perseguirà, legati al mantenimento del potere del Partito Comunista ed anche ai
11
condizionamenti culturali della sua civiltà millenaria. A questo proposito è indispensabile
esaminare come siano cambiate nel tempo la strategia globale e soprattutto quella militare
di Pechino, pur nell’opacità che circonda le decisioni della Commissione Militare
Centrale, principale organismo di decisione e di direzione politico-strategica.
Per valutare le capacità militari cinesi, è necessario poi analizzare il livello tecnologico
dell’industria della difesa. Se ne discute molto negli ambienti specializzati. Ben poco si
conosce però a riguardo, anche per il segreto che circonda l’industria degli armamenti e le
allocazioni dei fondi della Commissione della Scienza, della Tecnica e dell’Industria
militare, organismo riformato nel 1998 e a cui fanno capo i centri di ricerca tecnologica e
le industrie degli armamenti. L’opinione comune è che la potenza militare cinese stia
rafforzandosi grandemente in termini assoluti, anche per le massicce importazioni di armi
dalla Russia (per i soli sistema d’arma principali esse sono ammontate in media ad un
miliardo di dollari all’anno nel decennio 1990, e a due miliardi a partire dal 2000).
Quando la PLA viene confrontata invece con la potenza militare degli Stati Uniti, il
giudizio deve mutare sostanzialmente. Rimane un divario notevole, a cui si aggiunge il
fatto che – nonostante l’abbandono di una politica aggressiva, soprattutto nel Mar Cinese
Meridionale e anche nei confronti di Taiwan – la Cina non ha alleati. Invece, nell’ultimo
decennio gli Stati Uniti hanno rafforzato le loro alleanze con diversi paesi, anche con
l’India, unico paese al mondo in cui le valutazioni dell’opinione pubblica siano favorevoli
per oltre il 60% non solo agli USA, ma anche alla stessa Amministrazione Bush.
Le difficoltà conosciute dall’esercito e dai marines americani in Iraq e in Afghanistan
non devono far dimenticare il fatto che gli Stati Uniti, sotto il profilo militare, rimarranno
ancora per decenni la potenza dominante nel mondo; l’unica in possesso di una capacità di
proiezione globale di potenza. Lo sono anche nel Pacifico occidentale e nell’Oceano
Indiano, dove possono poi avvalersi dell’alleanza della Corea del Sud, del Giappone,
dell’Australia e dell’India. Tale potenza non è compensata dalla “partnership strategica”
fra la Russia e la Cina. Quest’ultima, tra l’altro, presenta numerose “crepe” per il tentativo
di Putin di ripristinare almeno in parte l’influenza perduta dalla Russia in Estremo Oriente
e nell’Asia Centrale. È questo un punto chiave per la pianificazione militare cinese. Esso
sarà approfondito nella ricerca.
12
Va anche considerato che la totalità delle forze aeronavali USA può essere
concentrata, in caso di necessità, nel teatro operativo del sistema Asia-Pacifico, anche per
l’aumentato raggio d’azione dei bombardieri, conseguente al progresso delle tecniche di
rifornimento in volo. La recente intesa fra Washington e New Delhi ha grandemente
preoccupato Pechino, ben consapevole dell’obiettivo dell’altro gigante asiatico di divenire
la potenza dominante nell’Oceano Indiano, dove transitano vie di comunicazione
marittima essenziali per la Cina. Il miglioramento – peraltro relativo - dei rapporti con
Mosca non può tradursi in un’alleanza. Quindi, non accresce le capacità cinesi di
proiezione di potenza nell’Asia meridionale, anche per i sospetti tradizionali dei russi nei
riguardi del “pericolo giallo”. I cinesi, dal canto loro, osservano con indubbio interesse il
disastroso andamento della demografia russa e lo spopolamento progressivo della Siberia
centrale ed orientale e delle Province Marittime. Tendono ad aumentare la loro influenza
in Asia Centrale – ricca di materie prime - preoccupando grandemente il Cremlino.
Pechino è ben consapevole della tendenza dei paesi asiatici sud-orientali di rafforzare i
legami con Washington non appena la Cina dia segni di dinamismo geopolitico. La sola
crescita economica e l’aumento della potenza militare cinese suscitano notevoli
preoccupazioni e sospetti sui reali obiettivi – almeno di lungo termine – della Cina. La
pianificazione politico-strategica viene generalmente fatta sulla base delle capacità – che,
sebbene avvolte dal segreto e spesso ambigue, sono più calcolabili almeno di larga
massima – e non delle intenzioni, che sono più indecifrabili e, soprattutto, possono
cambiare rapidamente. Pechino si è sempre dimostrata pronta ad adattare la sua politica e
la sua strategia in modo dinamico, rapido e anche brutale, quando ha ritenuto che fossero
minacciati i suoi interessi. È obbligata a farlo, dato che la legittimità del regime comunista
poggia non solo sulla crescita economica, ma anche sull’orgoglio nazionale. Esso
rappresenta un preciso limite ai rapporti di collaborazione di Pechino con gli Stati che
circondano la Cina e che conservano nella loro memoria storica il ricordo dei tributi e
degli atti di sottomissione che dovevano effettuare nei confronti del “Celeste Impero”.
Il nazionalismo non è un fenomeno nuovo nella storia cinese. Basta pensare alla
“rivolta dei Boxers” contro le ingerenze straniere, oppure alle manifestazioni antigiapponesi, seguite alla visita dell’ex premier nipponico Koizumi al sacrario militare di
Yakusuki.
13
Oggi, la politica estera cinese è soprattutto “mercantile”, volta a garantire sbocchi di
mercato ai propri prodotti e a soddisfare l’enorme fame di materie prime, soprattutto – ma
non solo – energetiche. Con essa Pechino – contraria per principio ad ogni ingerenza
straniera nella sovranità degli Stati (retaggio anche del “secolo delle umiliazioni”) – separa
nettamente gli affari dalla politica. Ad esempio, a differenza di quanto pratica l’Occidente,
non subordina la conclusione di accordi economici al rispetto dei diritti umani. Cerca
invece di riempire i vuoti lasciati dall’Occidente, determinati anche dal suo moralismo
politico internazionale. Ciò provoca evidentemente tensioni e problemi con l’Europa e con
gli USA, simili a quelli verificatisi a seguito del massacro di Piazza Tienanmen nel 1989.
Tali potenziali tensioni sono state in parte neutralizzate in ambito UE dall’appeal
esercitato dalle opportunità offerte dal mercato cinese. Esiste al riguardo una differenza di
valutazioni e di comportamenti degli europei rispetto agli americani. Al Congresso prevale
la tendenza al bashing China, simile a quella del bashing Japan degli anni ’80. Inoltre,
crescono la preoccupazione per la potenza militare cinese, sulla quale il Pentagono
presenta al Congresso ogni anno un rapporto allarmistico. La differenza fra UE e USA nei
riguardi della Cina potrebbe spiralizzarsi in vere e proprie tensioni transatlantiche, ad
esempio qualora venisse abolito l’embargo all’export di armamenti europei verso la Cina,
ormai da tempo annunciato durante tutte le visite a Pechino dei Capi di Stato e di Governo
europei. Molti esperti americani si chiedono anche come gli “ingrati” europei si
comporterebbero qualora dovesse verificarsi un conflitto fra la Cina e gli Stati Uniti per
Taiwan.
Più in generale, il soft power cinese ha fatto emergere quello che si chiama Beijing
Consensus, contrapposto al Washington Consensus seguito dall’Occidente e dalle grandi
Istituzioni Finanziarie Internazionali, per i quali gli affari vanno collegati al tipo di regime
politico e al rispetto dei diritti umani e civili. I regimi autoritari si sentono minacciati dalla
politica seguita dall’Occidente di democratizzazione e di tutela dei diritti umani. Sono
quindi più inclini a rivolgersi a Pechino, che – come ricordato - separa nettamente gli
affari non solo dalla politica, ma anche dalla morale internazionale, in particolare dal
diritto di ingerenza umanitaria che, a Pechino, viene giudicato un’illegittima e illegale
ingerenza nella sfera di sovranità degli Stati. Tale atteggiamento si è rivelato finora molto
vantaggioso per la Cina, specie in Africa, nel Medio Oriente e nell’Asia centrale. Però,
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un’intensificazione dei rapporti con l’Europa, per intervenire a mantenere la pace e la
stabilità in Africa, - così utili economicamente alla Cina - è subordinata ad un mutamento
dell’atteggiamento cinese nei riguardi di quelli che in Occidente vengono considerati
standard irrinunciabili per uno Stato che voglia essere uno stakeholder responsabile sulla
scena internazionale, come Pechino giustamente pretende di essere.
La necessità di garantirsi le materie prime necessarie al suo sviluppo ha indotto la Cina
ad essere presente anche in regioni tradizionalmente estranee alla sua sfera di interessi,
dall’Africa all’America Latina, dal Golfo alla Siberia e al Medio Oriente. Continua inoltre - la sua presenza in Asia centrale e nel Sud-Est asiatico. Entrambe le regioni sono
state storicamente sempre collegate all’influenza di Pechino e spesso erano tributarie della
Cina Imperiale.
La “disinvoltura” politico-mercantile ha spesso posto la Cina in contrasto con i paesi
occidentali, ad esempio in Darfur e più in generale in Africa, dove la politica di sviluppo e
di stabilizzazione, con il buongoverno e con il rispetto dei diritti umani - seguita
dall’Occidente anche con l’imposizione di condizionalità economiche - è stata spesso
contrastata e neutralizzata da Pechino. La Cina, in modo alquanto contraddittorio, segue
sia una politica di globalizzazione - di cui è una grande beneficiaria a livello mondiale –
sia una di non ingerenza nelle questioni interne e di sostanziale disinteresse per le
violazioni dei diritti umani, la corruzione, ecc., cioè proprio per le regole che dovrebbero
consolidare la global governance necessaria per la sostenibilità della globalizzazione. È
questo un dilemma con cui i dirigenti cinesi si trovano già oggi confrontati, e che
dovranno prima o poi risolvere. Ultimamente Pechino si sta muovendo anche in questo
settore. Per consolidare la propria posizione, il proprio rango e il proprio ruolo nel mondo
è sempre più consapevole che prima o poi dovrà divenire un membro responsabile della
comunità internazionale, condividendone regole e sforzi per mantenere l’ordine della
globalizzazione. L’invio in Sudan di 300 soldati della PLA è un segno positivo al
riguardo. Beninteso, ciò non significa che scompariranno i timori circa l’aumento della
potenza cinese. Significherà solo che la Cina ha deciso di uscire dal proprio isolamento e
dalla neutralità geopolitica, e di giocare nel sistema internazionale il ruolo che il suo
“peso” economico e la sua storia e cultura le impongono di avere.
15
Le valutazioni cinesi circa l’utilità della forza per conseguire i propri interessi
nazionali nel mondo influenzeranno la pianificazione delle strutture e degli
equipaggiamenti militari cinesi, non tanto di quelli difensivi – che non assumono
particolare rilevanza, in quanto nessuno pensa di attaccare la Cina – quanto delle
componenti di proiezione di potenza: in particolare le forze navali, quelle anfibie, quelle
aeree e soprattutto quelle spaziali e del cyberspazio, senza trascurare quelle terrestri. Per
esse è prevista, dal Libro Bianco della Difesa 2006, la meccanizzazione, alla quale è
attribuita la stessa importanza dell’informatizzazione di tutte le componenti della PLA.
L’importanza dello spazio e del cyberspazio è risultata evidente quando – nel gennaio
2007 – la Cina ha abbattuto con un missile ASAT ad impatto diretto un suo vecchio
satellite meteorologico. Ciò ha dimostrato la priorità che Pechino attribuisce alla
neutralizzazione “asimmetrica” dei megasistemi americani della network centric warfare,
essenziali per le capacità USA di proiezione di potenza.
Le valutazioni circa la futura entità dei bilanci militari cinesi non possono prescindere
dall’analisi della politica estera cinese nelle varie parti del mondo e dall’approfondimento
dell’apporto che le forze armate potrebbero dare al conseguimento di precisi obiettivi di
Pechino e del PCC. Si tratta di un esercizio alquanto difficoltoso, non solo – come
ricordato - per l’opacità del decision making cinese, ma anche per le differenze delle
culture strategiche occidentali e cinesi e per l’influsso che hanno le iniziative occidentali o
di altri attori geopolitici internazionali, in particolare della Russia, dell’India e del
Giappone. La difficoltà è aumentata dal fatto che la politica estera – così come la strategia
sia globale che militare – si adatta in continuazione alla percezione che si ha della
correlazione delle forze ed è influenzata dalla politica interna. Come si è accennato, il
fallimento del progetto di costituzione di una “società armoniosa”, potrebbe obbligare il
Partito Comunista Cinese ad appoggiarsi al nazionalismo e, quindi, a perseguire una
politica più aggressiva ed espansiva di quella finora praticata con il peaceful rise.
Paradossalmente, sarà una crisi economica ad accelerare l’aumento del bilancio militare
cinese.
Per i motivi sopra ricordati, una consistente parte della ricerca è dedicata alla politica
estera e alla penetrazione economica della Cina non solo nelle regioni viciniori, ma anche
in continenti che non rientrano nei tradizionali interessi cinesi. La seconda parte riguarda
16
invece le prospettive economiche, delle strutture della PLA, dell’industria militare e del
bilancio della difesa. Fra le due parti fa da raccordo un capitolo dedicato alla politica ed
alla dottrina militari cinesi, che negli ultimi trent’anni hanno conosciuto una profonda
evoluzione, passando dall’isolamento, ad un regionalismo e infine ad un cosmopolitismo
strategico.
Nelle conclusioni – che costituiscono anche il sommario della ricerca – vengono
evidenziati i principali dilemmi che si pongono ai vertici politici e militari cinesi e le
possibilità e difficoltà che le soluzioni prescelte trovino un sufficiente sostegno da parte
dell’economia e del livello tecnologico dell’industria degli armamenti, oggi ancora
insoddisfacente.
17
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA CINESE
1. Considerazioni introduttive
La Cina è un gigante economico globale, in continua rapida crescita. Geopoliticamente
gioca però un ruolo ancora limitato, anche perché tende a separare nettamente economia e
politica. Per questo la Cina viene spesso criticata, oltre che dall’UE e dagli USA, da varie
ONG, quale ad esempio, Amnesty International. Quest’ultima sta sfruttando le Olimpiadi
del 2008 per fare pressioni su Pechino, minacciando le imprese sponsor dei giochi di
boicottare i loro prodotti. Il suo scopo è quello di far cessare il supporto cinese al governo
sudanese, responsabile degli eccidi nel Darfur. La sua arma principale è costituita dalla
minaccia di denominare le Olimpiadi nel 2008 “Giochi del genocidio”. Non potendo fare
pressioni dirette efficaci sul governo cinese, le fanno sulle multinazionali che
sponsorizzano i giochi olimpici con la loro pubblicità. Pechino è molto sensibile a tali
pressioni, anche perché ha investito enormemente sui Giochi, al fine di migliorare la
propria immagine nel mondo, come potenza pacifica e moderna, pilastro dell’ordine
internazionale.
La Cina privilegia, per la sua influenza, gli strumenti non militari. Ciò è molto efficace
proprio per il fatto che non effettua pressioni né impone condizionalità politiche ai
rapporti economici. Dato il suo peso crescente in Africa, Asia Centrale, Golfo e America
del Sud, le iniziative di Pechino contrastano l’azione degli Stati Uniti e dell’Europa, volte
a diffondere la democrazia e il rispetto dei diritti umani e civili. Si sta affermando così un
Beijing Consensus contrapposto al Washington Consensus e più in generale all’influenza
occidentale nel mondo. La Cina è molto vulnerabile al riguardo. Teme un bashing China
che la danneggi non solo economicamente, ma anche politicamente. Le sue priorità
consistono nell’avere buoni rapporti con tutti, specie con gli Stati Uniti e con l’Europa. Le
contraddizioni della sua politica e, soprattutto, l’avvicinarsi della data d’inizio dei Giochi
l’hanno indotta a modificare il suo comportamento, in modo da attenuare ogni occasione
di scontro e puntare invece alla cooperazione soprattutto con Washington. Lo dimostra
l’invio di 300 genieri cinesi in Sudan, per preparare l’invio di una forza ONU di
peacekeeping nel Darfur, effettuando pressioni sul governo di Karthoum, finora
fortemente contrario a tale iniziativa. Lo dimostra anche l’importanza del “Dialogo
Economico Strategico” (SED), vero e proprio summit dei responsabili economici cinesi e
USA, svoltosi a Washington nel maggio 2007, e il rilancio dell’APEC (Asia Pacific
Economic Cooperation), abbandonando i tentativi di dar vita ad accordi subregionali che
escludessero gli USA dall’Asia orientale.
2. Dall’esportazione della rivoluzione al peaceful rise
La politica estera cinese ha conosciuto una profonda evoluzione dalla vittoria di Mao
Zedong nel 1949 ai giorni nostri. Sta adeguandosi non solo al conseguimento degli
interessi cinesi, ma anche al ruolo di attore responsabile globale, che Pechino intende
svolgere nel mondo. Un esempio positivo al riguardo è stato il ruolo costruttivo svolto da
Pechino nel “Gruppo dei sei” (le due Coree, il Giappone, gli USA, la Russia e, appunto, la
Cina) incaricato di negoziare per bloccare la proliferazione nucleare in Corea del Nord.
In un primo periodo – culminato con l’intervento in Corea contro le truppe americane
che stavano occupando l’intera penisola – la politica estera cinese era di completa
subordinazione all’Unione Sovietica. I rapporti iniziarono a guastarsi con la denuncia, da
parte di Kruscev, degli orrori del periodo staliniano e, alla fine degli anni Cinquanta, con
la decisione di Mosca di non cedere alla Cina la tecnologia per la costruzione di armi
atomiche.
Parallelamente alla disastrosa politica del “grande balzo in avanti” e alla successiva
“rivoluzione culturale”, la Cina si liberò pressoché completamente dai legami con Mosca,
eliminando i dirigenti filo-sovietici (la c.d. “banda dei quattro”). Ne furono progressive
conseguenze la guerra con l’India del 1962 - per contenziosi territoriali nella catena
dell’Himalaya e per il non riconoscimento indiano della conquista del Tibet –, la decisione
di Mao di esportare la rivoluzione comunista nel mondo - con il suo modello della “guerra
rivoluzionaria di lunga durata” - e gli scontri della PLA (People’s Liberation Army) con
l’Armata Rossa sull’Amur e sull’Ussuri, nel 1968, per il possesso di alcune piccole isole.
19
All’inizio degli anni ´70 si erano determinate le condizioni per un avvicinamento con
gli Stati Uniti (la c.d. “diplomazia del ping-pong” nel 1971 e il viaggio a Pechino di Nixon
e Kissinger nel 1972). La situazione mutò radicalmente con la morte di Mao e l’ascesa al
potere dei leaders della “seconda generazione”, in particolare di Deng Xiaoping. Questi,
nel dicembre 1978, enunciò le “quattro modernizzazioni”, intese a liberalizzare
l’economia cinese e ad aprirla a quella mondiale, pur mantenendo su di essa un completo
controllo politico del partito comunista. In politica estera, la Cina divenne un alleato di
fatto degli Stati Uniti contro il blocco sovietico (svolse anche una parte attiva nel sostegno
dei mujahidin in lotta in Afghanistan contro l’Armata Rossa) e, con l’aiuto americano,
realizzò un notevole miglioramento della tecnologia degli armamenti in dotazione alla
PLA e della propria industria militare. Ciò avvenne anche con l’aiuto europeo. In
particolare, le liste dell’embargo tecnologico - definite dal CoCom (Coordinating
Committee) per il blocco sovietico - furono notevolmente liberalizzate nei confronti della
Cina, per la quale fu concordata un’apposita green line. Durante tutto il periodo in cui
Deng fu al potere, e anche all’inizio del periodo della leadership della “terza generazione”
– alla cui testa era Jiang Zemin – Pechino mantenne un atteggiamento alquanto aggressivo
nei confronti degli Stati dell’ASEAN, soprattutto per le sue rivendicazioni territoriali sulle
isole del Mar Cinese Meridionale (Arcipelaghi delle Paracelso e delle Spratley), nelle cui
acque si riteneva esistessero importanti giacimenti di idrocarburi e che, comunque,
costituivano importanti punti d’appoggio per la Marina cinese ai fini del controllo dei
vitali Stretti della Malacca. Tale atteggiamento risentiva delle grandi tradizioni imperiali
cinesi. Gli Stati confinanti versavano all’ “Impero di Mezzo” un tributo, spesso solo
simbolico, ma che indicava il riconoscimento della supremazia di Pechino. Gli scontri
maggiori si verificarono con il bellicoso Vietnam, sia terrestri, dove la PLA subì nel 1979
una disastrosa sconfitta, sia nel Mar Cinese Meridionale, in cui invece ebbe la meglio la
marina cinese, affondando diverse navi e provocando la morte di un centinaio di marinai
vietnamiti.
Tra il 1995 e il 1998 si verificò una nuova profonda svolta nella politica estera della
Cina. Dall’imperiosa salvaguardia dei propri diritti storici – che aveva anche provocato le
reazioni di diverse popolazioni asiatiche sud-orientali contro le minoranze cinesi che
vivevano nei loro territori – Pechino adottò con Jiang Zemin una politica del sorriso,
20
denominata peaceful rise e successivamente peaceful development, quando il termine rise
sembrò troppo aggressivo. Tale svolta fu facilitata dalla soluzione delle questioni di Hong
Kong e Macao, restituite alla Cina, ma soprattutto dalla prodigiosa crescita economica
cinese e dalla progressiva integrazione delle economie del Sud-Est asiatico – ed anche di
quella coreana e giapponese – con quella cinese. Si determinò al riguardo una vera e
propria complementarietà, consistente nel fatto che i paesi dell’ASEAN producono
componenti e sotto-sistemi, che vengono assemblati in Cina, per essere poi esportati sul
mercato mondiale, in particolare negli Stati Uniti e in Europa. Il valore aggiunto dalla
Cina in queste merci da esportazione – talune delle quali ad alta tecnologia – non supera
spesso il 30% del loro prezzo di vendita.
Come verrà specificato nella sezione del presente rapporto di ricerca dedicata
all’economia e alla situazione demografica e sociale, la Cina può continuare a crescere e
ad evitare un surriscaldamento della propria economia solo se la globalizzazione si
consoliderà e si svilupperà. In pratica, solo se conflitti geopolitici non interferiranno con lo
sviluppo economico e se l’economia mondiale, specie quella USA, non entrerà in crisi.
Per inciso, la globalizzazione è anti-inflattiva e quindi consente di continuare per anni,
senza crisi o scoppio di “bolle”, una fase di crescita economica accelerata 1 , quale è quella
necessaria alla Cina non solo per lo sviluppo e l’uscita dalla povertà di centinaia di milioni
dei suoi abitanti, ma anche per evitare il collasso del potere del Partito comunista, per le
contraddizioni che esso strutturalmente ha con il liberismo economico e il
“turbocapitalismo” dominanti in Cina. Altre fonti di tensione sono le enormi differenze di
benessere che la crescita sta producendo fra i ceti ricchi e quelli poveri, fra le città e le
campagne e fra le regioni costiere e quelle continentali.
Come si è detto, nei prossimi vent’anni, circa trecento milioni di cinesi si trasferiranno
dalle campagne alle città. La crescita economica pertanto non è un’opzione, ma una
necessità politica assoluta per la sopravvivenza del regime. Già negli ultimi anni si sono
verificate proteste e rivolte diffuse in tutto il paese. Esse hanno preoccupato grandemente
la dirigenza politica cinese. L’XI Piano Quinquennale - approvato nel dicembre 2006 –
risente chiaramente di tale preoccupazione. È anche una chiara dimostrazione delle
1
Martin Wolf, Inflation Is Not The Big Threat To Stability, in Financial Times, October 9, 2007, Special
Report China, p. 2.
21
difficoltà che incontra la dirigenza politica – passata con il Presidente Hu Jintao e il Primo
Ministro Wen Jiabao alla “quarta generazione” di leaders – di modificare la situazione,
anche a causa della resistenza opposta dai dirigenti nominati dalla “terza generazione”. La
situazione sociale è esplosiva. In tale quadro va valutata la possibilità che la Cina adotti
nel breve-medio termine una politica estera aggressiva, sostenuta da un notevole sforzo di
riarmo e di potenziamento delle componenti della PLA che dispongono di capacità di
proiezione di potenza. Essa sembra poco probabile. L’adozione di tale politica
presupporrebbe comunque che la crescita economica venisse basata, anziché sulle
esportazioni, sui consumi interni, oppure che scoppiasse una devastante crisi economica.
Per effettuare le riforme interne di cui ha assoluta necessità, Pechino ha bisogno che
l’attuale stabilità geopolitica mondiale perduri. Questo spiega la sua politica di
cooperazione ed apertura verso gli Stati Uniti, l’unica potenza che per la Cina conti
veramente. Il suo atteggiamento rimane conflittuale solo nei confronti del Giappone,
contro il quale si sono svolte manifestazioni nel 2005-06, ma con cui i rapporti sono
migliorati in seguito alla sostituzione del premier giapponese Koizumi con Abe. In caso di
crisi economica o di rivolte di dimensioni maggiori di quelle avvenute negli ultimi anni –
ad esempio del tipo di quella occorsa nel 1989 a Piazza Tienanmen – è però probabile che
la dirigenza politica comunista – oggi legittimata dalla crescita economica e dal maggior
benessere della popolazione – debba cercare un nuovo paradigma di legittimazione. Lo
potrebbe trovare solo nel nazionalismo e nella ricerca di un nemico esterno che faciliti la
coesione interna. Per ora esso è contenuto e mantenuto sotto controllo, ma affonda le sue
radici nella persuasione della Cina di essere uno Stato eccezionale (analoga a quella degli
Stati Uniti). Lo stimolo più forte al nazionalismo consiste nei ricordi del “secolo
dell’umiliazione”, iniziato nel 1840 con la “guerra dell’oppio” e continuato con i “trattati
ineguali”, la “rivolta dei Boxers”, con la guerra con il Giappone del 1894-96 (a seguito
della quale la Cina dovette cedere Taiwan), nonché con la terribile occupazione
giapponese dal 1937 al 1945.
22
3. Multipolarismo e multilateralismo. Visioni e ruolo globale presunti e futuri della
Cina
Per quanto riguarda la sua politica estera, Pechino ha adottato, sin dalla fine degli anni
Cinquanta, il paradigma dell’ “anti-egemonismo” e dell’opposizione sia a qualsiasi
ingerenza straniera sul proprio territorio sia alle condizionalità imposte dall’esterno. Tale
politica ha la sua formulazione attuale nel sostegno che Pechino dà ad obiettivi e concetti,
come il multipolarismo e il multilateralismo. Pechino li sostiene entrambi come se fossero
sinonimi. In realtà si tratta di due concetti strutturalmente differenti 2 . Multipolarismo
significa costituire alleanze per limitare la potenza e la libertà d’azione dell’unica potenza
oggi egemone, cioè degli Stati Uniti, ma salvaguardando appieno la sovranità nazionale,
cioè e resistendo alle interdipendenze e dunque alle ingerenze da parte di altri Stati o delle
istituzioni internazionali. Multilateralismo significa invece costruire un robusto sistema di
global governance, fondato su istituzioni e regole che influirebbero e condizionerebbero le
scelte di politica estera e anche interna cinese (ad esempio per quanto riguarda i diritti
umani e le condizionalità politiche ed etiche connesse con i rapporti internazionali sia
economici che politici). Per inciso, tale ambiguità cinese ha reso difficile una
cooperazione politica fra Pechino e Parigi – nella quale sperava il Presidente Chirac – a
parte il fatto che il governo cinese ritiene l’Europa politicamente e militarmente
irrilevante. I rapporti che in realtà contano per Pechino sono solo quelli con gli USA. Essi
oscillano fra il containment e l’engagement o il co-engagement, come li ha denominati
Condoleezza Rice. La questione verrà approfondita nel capitolo dedicato ai rapporti fra la
Cina e gli USA.
Già da una decina d’anni la “parola d’ordine” che sembra dominare la diplomazia
cinese è quella di evitare di entrare in rotta di collisione con Washington. La Cina è
consapevole della sua vulnerabilità, non solo per la sua inferiorità militare nei confronti
degli Stati Uniti (in particolare in campo navale), ma anche perché le sue SLOC (Sea
Lines of Communication) sono troppo vincolate ai choke points rappresentati dagli stretti
della Malacca. Per questi motivi, la Cina ha assorbito senza grandi difficoltà lo “sfregio”
2
Cfr. K. Barysh, con C. Grant e M. Leonard, Embracing the Dragon – the EU Partnership with China,
Center for European Reform, London, May 2005.
23
subito per l’attacco aereo USA alla sua ambasciata a Belgrado durante la crisi del Kosovo;
l’incidente dell’aprile 2001 fra un suo intercettore ed un aereo di sorveglianza marittima
americano, atterrato poi sull’isola cinese di Hainan; il rafforzamento dell’alleanza militare
fra gli Stati Uniti e il Giappone; la denuncia del protocollo ABM al Trattato SALT I
annunciata dal Presidente Bush nel dicembre 2001 e, più recentemente, l’avvicinamento
degli Stati Uniti all’India, volta chiaramente al containment della Cina. È un
comportamento non nuovo. Basti pensare alla “filosofia” con cui i cinesi nel 1995
“assorbirono” l’invio di due gruppi portaerei americani nello stretto di Taiwan, in reazione
a esercitazioni missilistiche fatte dalla “Seconda Artiglieria” della PLA (tale è la
denominazione delle forze missilistiche cinesi) in prossimità delle acque territoriali
dell’isola.
Anche le valutazioni fatte dagli USA sulla potenza militare cinese – nonostante la
naturale tendenza del Pentagono di “gonfiare” la minaccia e di considerare il worst case
scenario – concordano nel non considerare la Cina - almeno nel breve e nel medio termine
- una minaccia agli interessi americani, pur riconoscendo la crescita della potenza militare
cinese, il suo miglioramento tecnologico (dimostrato anche dall’abbattimento di un
satellite nel gennaio 2007) e le maggiori difficoltà e rischi che incontrerebbero gli USA
per sostenere l’indipendenza di Taiwan contro un attacco anfibio o un blocco navale
cinesi.
Beninteso, il lungo termine si limita al 2050 e presuppone che non si verifichi un
terremoto geopolitico, come un’alleanza fra la Cina e la Russia, o fra la Cina e l’India,
oppure fra la Cina e l’Europa (ipotesi fantasiosamente avanzata dall’ex-Presidente
Chirac), ovvero una “triangolare” fra Russia, Cina e India - auspicata da Evgenij Primakov
alla fine degli anni Novanta e denominata “dimensione continentale o eurasiatica” della
politica estera russa - da contrapporre alle tendenze allora molto forti a Mosca di
europeizzare od occidentalizzare la Russia.
Anche a Pechino coesistono tendenze diverse, in un certo modo speculari a quelle
esistenti negli Stati Uniti. Da un lato, vi sono coloro che ritengono inevitabile – più o
meno a lungo-lunghissimo termine – uno scontro fra la Cina e gli USA. Essi considerano
con sospetto le iniziative di Washington e tendono a “mostrare i muscoli” di tanto in tanto,
come nel caso della legge “antisecessione”, che autorizza la PLA ad attaccare Taiwan,
24
qualora l’isola fosse in procinto di dichiarare la propria indipendenza, violando il principio
– riconosciuto dagli stessi Stati Uniti – dell’“unità della Cina”, cioè dell’appartenenza
dell’isola alla Cina continentale. Essi considerano con preoccupazione il “doppio
contenimento” americano e utilizzano la SCO (Shanghai Cooperation Organization) per
far ritirare le forze americane dall’Asia centrale e per rafforzare l’alleanza con Mosca.
Recentemente i rapporti con Mosca si sono raffreddati, soprattutto all’inizio del 2007,
quando Pechino, per premere sulla Corea del Nord, aveva interrotto la fornitura di
petrolio. In quella occasione, Putin - per riaffermare la potenza russa e per dimostrare la
propria influenza sulla penisola – aveva concesso alla Corea del Nord il carburante non
fornito dalla Cina. La visita a Mosca del Presidente Hu Jintao, nel marzo 2007, ha messo
in evidenza un certo raffreddamento nelle relazioni fra i due paesi.
Prevalenti a Pechino sono comunque coloro che sostengono che la Cina abbia tutto
l’interesse a cooperare con gli Stati Uniti e a mantenere una stabilità globale. I cinesi sono
consapevoli che solo l’alleanza con gli USA impedisce al Giappone di riarmarsi e,
soprattutto, di dotarsi di armi nucleari e di uno scudo missilistico efficace, non solo contro
i pochi missili nord-coreani, ma anche contro le forze della “Seconda Artiglieria” della
PLA. Ciò non significa che la Cina non debba rafforzarsi militarmente e aumentare le
proprie capacità di proiezione esterna di potenza - ben oltre quelle necessarie per opporsi
all’indipendenza di Taiwan. Un ammodernamento militare potrebbe anche garantirla
contro imprevisti, quali una minaccia indiana alle vie di comunicazione marittime vitali
per la Cina, che vanno dal Golfo agli Stretti della Malacca e al Mar Cinese Meridionale.
Beninteso, l’economia cinese è tanto grande, il suo tasso di crescita rimarrà per diversi
anni ancora tanto rilevante e le sue riserve valutarie – che sono le più consistenti del
mondo – continueranno a crescere in maniera tale che non esistono vincoli economici ad
un poderoso riarmo cinese. I limiti – oltre che di convenienza politica - sarebbero
soprattutto tecnologici. I principali sono quelli politici. Uno Stato non si arma per il gusto
di riarmarsi, ma per conseguire obiettivi precisi. Tali obiettivi – in particolare l’apertura
dei mercati mondiali ai prodotti cinesi e la possibilità alla Cina di rifornirsi delle materie
prime, energetiche e no, necessarie alla sua enorme crescita – sono più facilmente
ottenibili con il soft power che con l’hard power. Un aumento eccessivo di quest’ultimo
25
avrebbe invece un effetto boomerang sulla possibilità della Cina di aumentare la sua
influenza esterna e potrebbe riflettersi negativamente sulla sua crescita.
Il riarmo guasterebbe infatti le relazioni fra Pechino e i paesi dell’Asia orientale e sudorientale e comprometterebbe la crescita economica, vitale anche per la stabilità politicosociale della Cina. La legittimazione che proverrebbe dalla carta di riserva della dirigenza
comunista cinese, cioè il nazionalismo, potrebbe poi non essere sufficiente per legittimare
il regime.
Tale conclusione è confermata dai successi che sta raccogliendo in tutto il mondo il
soft power cinese e dall’improbabilità di un’alleanza di Pechino - in funzione antiamericana - con la Russia, con l’India o con l’Europa e tanto meno con l’Islam. Esse
hanno la stessa scarsa probabilità di verificarsi di quella che ha l’“alleanza confucianoislamica”, “pezzo forte” del Clash of Civilization di Samuel Huntington. Un’intesa
organica con Washington appare invece probabile. Potrebbe però divenire impossibile se
dovesse prevalere negli USA un bashing China, per molti versi simile al bashing Japan
degli anni Ottanta. Esso potrebbe tradursi in un aumento del protezionismo americano e in
accuse e tensioni reciproche. Tuttavia, è del tutto probabile che per decenni ancora – pur
senza dar vita a un “duopolio imperiale” transpacifico – la Cina e gli Stati Uniti continuino
a cooperare. Da ciò potrebbero nascere i lineamenti della struttura e dei meccanismi di
funzionamento del “nuovo ordine mondiale” del XXI secolo, modificando di fatto
l’“ordine unipolare” oggi esistente e l’attuale prevalenza dei legami transatlantici rispetto
a quelli transpacifici. In altre parole, Chimerica (China + America) è molto più probabile
di qualsiasi altra combinazione geopolitica, che costituisce il paradigma del nuovo ordine
mondiale.
4. Gli obiettivi della “grande strategia” cinese
Una strategia globale consiste sempre nella combinazione di strumenti militari e non
militari per il raggiungimento degli obiettivi di uno Stato, cioè dei suoi interessi nazionali.
Questi ultimi devono tener conto della correlazione delle forze nelle varie regioni
geopolitiche, della loro importanza relativa e delle opportunità e vulnerabilità che
26
esistono. La “grande strategia” deve essere globale. Il recente intervento in Darfur e le
forti pressioni fatte dalla Cina sul governo sudanese - perché dia il suo assenso allo
schieramento di una forza di pace dell’Unione Africana - sono state certamente influenzate
dalla preoccupazione cinese che la propaganda delle ONG – le quali hanno iniziato a
parlare di “olimpiade del genocidio” – possa negativamente influenzare l’immagine
positiva che Pechino si sforza di ottenere dai Giochi Olimpici del 2008.
Pechino non è solo una superpotenza economica, ma anche l’erede di una grande
tradizione imperiale. La sua burocrazia – erede della classe dei “mandarini” – è eccellente.
Ha il senso dello Stato e l’orgoglio della nazione. Sa che la Cina è troppo potente per non
essere temuta dagli Stati confinanti. Non ha alleati sicuri, ma solo occasionali o, come si
dice, “di tempo sereno”. Sa anche che gli USA dispongono non solo di una grande
superiorità economica, tecnologica e militare, ma anche di un forte appeal nei confronti di
gran parte dei paesi del mondo. Esso permane nonostante l’aumento dell’antiamericanismo determinato dagli atteggiamenti aggressivi non solo dell’Amministrazione
Bush, ma anche delle burocrazie diplomatiche e militari statunitensi e soprattutto del
Congresso americano, luogo di competizione e di composizione delle lobbies più
disparate, esistenti nelle varie constituencies dei Congressmen.
In tale contesto di inferiorità globale e anche di fragilità economico-sociale interna, la
Cina ha formulato già alla fine degli anni ’90 una serie di obiettivi. La politica estera li ha
mantenuti da allora come paradigmi di riferimento, adattandoli e adeguando le strategie e
le tattiche per conseguirli in modo al tempo stesso brillante e pragmatico. Tali obiettivi
sono: i) il mantenimento ad ogni costo della stabilità interna, il che presuppone uno
sviluppo economico accelerato e un crescente fabbisogno di risorse energetiche, minerarie
e agricole (come la soya brasiliana). Inoltre, esso non può più fondarsi sullo sfruttamento
indiscriminato dei fattori produttivi, in particolare di quelli ecologici (potrà però avvalersi
fino al 2020 della disponibilità di una crescente quantità di manodopera, anche se il suo
livello qualitativo peggiorerà, poiché si tratta di contadini riconvertiti all’industria e ai
servizi). L’inquinamento ha ormai raggiunto livelli inaccettabili non solo nelle città, ma
anche nelle campagne e nei fiumi; inizia ad incidere sulla stessa salute pubblica. Inoltre, il
prossimo prevedibile sviluppo della motorizzazione civile li aumenterà ancora, con
conseguenze molto gravi sull’“armonia sociale” e sullo stesso sviluppo economico.
27
Quest’ultimo, dovendo essere indirizzato alla creazione di un gran numero di posti di
lavoro, non potrà riguardare i servizi e le industrie a più alta tecnologia, ma le produzioni
manifatturiere di livello medio-basso, sulle quali si fonda non solo la crescita economica
export-led, ma anche l’integrazione economica con gli Stati dell’Asia sud-orientale e
orientale; ii) cooperare anziché competere con gli Stati Uniti, beninteso con dignità e in
posizione non subordinata né servile, anche per soddisfare l’orgoglio nazionale del popolo
cinese; legittimare il potere del Partito Comunista Cinese (PCC) e dissuadere soprattutto
gli Stati Uniti e il Giappone, ma anche la Russia e l’India, dal compiere pressioni per
influenzare la politica cinese in modo incompatibile con gli interessi, la dignità e gli
obiettivi di Pechino; iii) assistere lo sviluppo dei paesi che appartengono alla medesima
regione geopolitica della Cina – cioè il sistema Asia-Pacifico – con accordi di amicizia e
di cooperazione strategica e con progetti di costituzione di aree di libero scambio, del tipo
di quella in corso di realizzazione con l’ASEAN, e di quelle già in funzione con il Cile e
in corso di negoziato con il Perù. Va notato che entrambi i paesi dell’America Latina sono
ricchissimi di materie prime, come il rame, indispensabile alla “vorace” economia cinese e
alla trasformazione della Cina nella “fabbrica del mondo”. Tale azione di sviluppo si basa
sia sul c.d. Beijing consensus che - a differenza del Washington consensus, il quale ispira,
almeno di massima, la politica economica estera occidentale – separa nettamente
l’economia e il commercio dalla politica e riconosce – in nome della sacralità del principio
di sovranità – la legittimità di regimi anche dispotici e sanguinari.
Tale politica è facilitata dalla disponibilità di enormi riserve finanziarie, che vanno
investite in qualche modo, specie nella prospettiva di una progressiva perdita di valore del
dollaro, e dalla centralizzazione finanziaria realizzata dalla Banca Centrale Cinese e
dall’esistenza di grandi imprese statali. Ciò permette la concessione di prestiti a
lunghissima scadenza alle imprese cinesi che costruiscono le infrastrutture necessarie alla
valorizzazione delle risorse minerarie ed anche agricole di regioni oggi inaccessibili, come
l’interno dell’Africa e dell’America Latina, per poi recuperarli con la vendita in Cina (e
nel Sud-Est asiatico) di materie prime, che è stato possibile sfruttare proprio per
l’esistenza di tali infrastrutture. Tale azione cinese si sviluppa anche in Asia centrale. Qui
si incontra/scontra con il desiderio di Putin di riprendere il controllo dell’immensa regione
- ricca di materie prime inutilizzate e che costituisce un’enclave continentale - attraverso
28
pressioni perché il trasporto di petrolio, gas e altre risorse minerarie transiti per il territorio
della Russia. Quest’ultima non solo si arricchirebbe con le royalties, ma potrebbe
esercitare una sorta di controllo politico-strategico sull’economia di tali Stati, da
trasformare anche in un condizionamento politico.
Le regioni cui è rivolta l’attenzione cinese sono soprattutto quelle dell’intera Africa e
dell’America Latina. In entrambi i continenti, la Cina è in competizione con gli USA. In
Africa però Pechino è consapevole di non rischiare di entrare in rotta di collisione con
interessi vitali degli Stati Uniti. Infatti, entrambi hanno interesse a ridurre la presenza
europea, soprattutto francese, ma anche britannica, vanificando definitivamente il concetto
di Eurafrica. Invece, in America Latina la Cina è molto più cauta. Non ha organizzato dei
forum simili a quello che ha riunito a Pechino, nel 2006, 48 capi di Stato e di governo
africani, non agisce con la sua Banca d’investimento e di sviluppo e, nonostante le
“infiammate” dichiarazioni del Presidente venezuelano Chàvez di voler vendere il suo
petrolio alla Cina anziché agli Stati Uniti, ha rallentato notevolmente il progetto della
costruzione di oleodotti fra il Venezuela e la costa del Pacifico – da dove il petrolio
verrebbe poi instradato verso la Cina. Il comportamento cinese è più geopolitico che
geoeconomico e tiene conto della convenienza di non creare tensioni con gli USA, che tra
l’altro sono il maggior importatore di prodotti cinesi; iv) un quarto interesse strategico
fondamentale è quello relativo alla riunificazione con Taiwan. Essa rappresenta un
obiettivo vitale per l’orgoglio cinese. La Cina aveva ceduto l’isola al Giappone dopo la
sfortunata guerra del 1894-96. L’aveva recuperata al termine del secondo conflitto
mondiale, per poi “perderla” nuovamente nel 1949, allorquando i resti dell’esercito del
Kuomintang (KMG) di Chiang Kai-shek si erano ritirati nell’isola a seguito della sconfitta
subita sul continente ad opera di Mao Zedong. La riunificazione – la cui legittimità è
riconosciuta anche dagli USA, che dal 1971 hanno aderito al principio di “una sola Cina”deve però avvenire senza l’uso della forza, come quelle di Hong Kong e di Macao. Per
Pechino, però, la forza è considerata strumento di ultimo ricorso, qualora il partito
nazionalista del Presidente Chen attuasse il suo progetto di indipendenza dell’isola (il
partito erede del KMG è invece sostenitore della politica “una sola Cina” e molto più
disponibile a riunificare lo Stato, purché vengano garantiti a Taiwan condizioni di
particolare autonomia giuridica, sociale ed economica). L’indipendenza di Taiwan è
29
garantita dagli USA (e oggi anche dal Giappone). Sotto il profilo formale, Washington
non ha però il dovere di intervenire militarmente in caso di attacco all’isola. L’invio da
parte di Clinton, nel 1995, di due gruppi portaerei nello stretto di Taiwan, in risposta a
provocatorie esercitazioni missilistiche cinesi ai limite delle acque territoriali dell’isola, ha
però costituito un precedente, per il quale oggi Washington è praticamente obbligata ad
intervenire. Se non lo facesse, perderebbe ogni credibilità non solo dissuasiva, ma anche
politica nei confronti di tutta l’Asia. Gli USA cercano di scongiurare tale eventualità – che
potrebbe essere attivata non da una decisione deliberata, ma anche solo da un incidente
con successiva escalation - e di confermare a Pechino la loro ferma adesione al principio
dell’unità della Cina. A tal fine, esercitano forti pressioni su Taipei affinché moderi i suoi
toni e i suoi obiettivi; sostengono il KMG rispetto al partito nazionalista e indipendentista
del Presidente Chen e cercano – dopo l’incidente occorso nei cieli di Hainan, nell’aprile
2001, ad un aereo di pattugliamento marittimo ed elettronico – di evitare per quanto
possibile tutte le iniziative che possano essere ritenute provocatorie da Pechino (ad
esempio la vendita a Taiwan di incrociatori antimissili tipo Aegis Standard III, che sono
stati invece ceduti al Giappone).
Dal canto suo, la Cina – dopo aver spodestato Taipei dal Consiglio di Sicurezza
dell’ONU nel 1971 – cerca di “fare il vuoto” attorno a Taiwan, condizionando la
concessione di prestiti alla rottura delle relazioni diplomatiche con l’isola. Tale politica ha
avuto successo soprattutto in Africa e in America Latina. Oggi solo una ventina di paesi
riconosce Taipei - la cui presenza viene erosa anche nelle varie Organizzazioni
Internazionali. Tuttavia, i suoi rapporti economici con la Repubblica Popolare Cinese sono
molto stretti; tutte le maggiori imprese dell’isola hanno succursali sul continente, dove
hanno delocalizzato una gran quantità delle loro produzioni; v) un altro obiettivo della
politica estera cinese è infine quello di mantenere la pace e la stabilità internazionale, pur
contrastando l’egemonia americana, intrattenendo buoni rapporti con l’Europa, la Russia e
l’India, ma approfittando del vuoto determinatosi in Africa e in America Latina con la fine
del colonialismo e con il minor interesse dedicato a quelle regioni dagli Stati Uniti a
seguito della fine del mondo bipolare e dell’impegno nel Golfo.
La Cina ritiene che verso il 2020-2025 gli USA vedranno diminuire la loro potenza
relativa. Si determinerà allora una situazione di stallo, che dovrebbe permetterle di
30
migliorare le proprie posizioni. Fino ad allora, però, sarebbe disastroso per Pechino sfidare
la potenza di Washington, non solo militare, ma anche economica, dato il carattere exportled dell’economia cinese e il fatto che più del 60% delle esportazioni cinesi sono effettuate
da ditte straniere, più o meno direttamente collegate con le multinazionali americane,
attraverso le loro succursali esistenti in Asia orientale e sud-orientale. Tali due principi
hanno trovato un’esplicitazione ufficiale da parte del vice-premier Qichen, il quale ha
affermato che la cooperazione con gli Stati Uniti debba avere priorità rispetto ad ogni
forma di competizione non solo economica, ma anche per Taiwan o per l’influenza in altre
regioni del mondo.
La Cina deve perciò sopportare senza reagire critiche e anche iniziative anti-cinesi,
come la proposta fatta al Congresso e al Senato USA di sottoporre ad un tasso di dogana
del 27,5% tutte le importazioni di prodotti cinesi, a meno che la Cina non rivaluti lo yuan
del 30% rispetto al dollaro. Tale affermazione – ricorrente nella retorica politica interna
agli USA, nella quale il bashing China ha la stessa intensità del bashing Japan degli anni
’80 – a parte il suo rozzo populismo, sarebbe contraria agli stessi interessi USA, in
particolare a quelli dei consumatori americani, sostanziosamente sovvenzionati dai bassi
salari cinesi. Come hanno dimostrato recenti studi, una rivalutazione dello yuan non
sarebbe efficace tanto per diminuire il deficit commerciale USA, quanto per stimolare i
consumi interni in Cina. Il loro basso livello è uno dei maggiori squilibri di cui soffre
l’economia mondiale. Una rivalutazione costituirebbe la misura più efficace per far
decollare i consumi cinesi, aumentando tra l’altro le opportunità che offre per l’economia
mondiale il potenzialmente enorme mercato interno rappresentato dal miliardo e trecento
milioni di cinesi.
Nella sua politica estera, la Cina ha di fatto seguito tali priorità, giungendo ad
approvare – nel novembre 2002 – la risoluzione ONU proposta dagli USA sull’Iraq,
sostenendo Bush nella “guerra al terrore”. Ha accolto con preoccupazione, ma senza
reazioni particolarmente aspre, gli accordi nucleari e di transfer di armamenti e di
tecnologie militari fra USA e India - chiaramente in funzione anti-cinese – e ha
accompagnato gli Stati Uniti nella loro politica di contenimento delle pressioni della
Russia di Putin – che vuole riprendere il suo ruolo di grande potenza. A parer mio, esiste
l’impossibilità di un accordo strategico organico russo-cinese, sul quale hanno fantasticato
31
molti esperti strategici. Molto più probabile è un’intesa con gli Stati Uniti, purché essi
rispettino non solo gli interessi, ma anche l’amor proprio e l’orgoglio nazionale cinese nel
mondo.
5. Logica cinese e strategia del soft power adottata dalla Cina per espandere la sua
influenza nel mondo
Qualche cenno appare necessario sui fondamenti della logica cinese, poiché essa
influisce sulla definizione degli obiettivi e delle strategie di Pechino. La logica politica
cinese – valida in politica sia interna che estera – è fondata sulla “risonanza” (anziché su
un’hegeliana esclusione reciproca) dei criteri di ordine e di disordine, di stabilità e di caos.
Ciò indipendentemente dal tipo di organizzazione politica e di legittimità interna o
internazionale. Questa concezione del tutto peculiare alla cultura cinese – basata sul “terzo
risonante”, anziché sul “terzo escluso” della logica occidentale – ha permesso alla Cina di
considerarsi nel passato “Impero di Mezzo”, tramite fra la Terra e il Cielo, e oggi consente
la coesistenza di un’economia iper-capitalista, caratterizzata da un liberismo e da uno
sfruttamento del lavoro da “padrone delle ferriere”, con un regime comunista a partito
unico, che permette l’ordine, che definisce interessi e politiche e che, soprattutto,
comporta la centralizzazione del potere, considerata da sempre in Cina come presupposto
indispensabile per l’ordine contro le tendenze alla conflittualità e alla frammentazione, che
altrimenti prevarrebbero. Anche se il sistema di equilibri sociali è molto fragile – come è
dimostrato dall’elevato numero di rivolte che si verificano in Cina, soprattutto nelle
campagne (quasi 100.000 all’anno!) – con una delle economie più aperte alla
globalizzazione, non si può concludere che il sistema debba crollare 3 . Tradizionalmente,
l’autoritarismo viene considerato in Cina preferibile al disordine. Il potere è concepito
come un meccanismo che genera l’obbedienza. La politica si interessa del potere; non del
diritto né della libertà. La Cina è uno “Stato delle Leggi”, data la minuziosità della sua
3
Richard McGregor, An Intimidating But Brittle Colossus, in Financial Times, October 9th, 2007, Special
Report “China”, p. 1.
32
tradizione burocratica. Non è, invece, uno “Stato della Legge”, nel senso che la
concezione etica confuciana è collettivista, non individualista.
La concezione eroica, spettacolare - quasi teatrale – dell’efficienza e dell’efficacia propria all’Occidente - non è condivisa dalla Cina, abituata a ragionare non in termini di
rapporto mezzi-fini, ma di opportunità e di conseguenze. L’efficacia consiste nell’afferrare
ciò che è favorevole e nello sfruttare il “potenziale della situazione”. La Cina è molto più
attenta dell’Occidente alle trasformazioni silenziose. Esse, per quanto riguarda il soft
power, non sono il by-product dell’hard power, ma di altre attività, così come l’appeal
americano è stato stimolato dai McDonald’s, dai jeans, dal jazz e via dicendo. Inoltre, è
importante notare che la logica – e quindi la strategia – cinese è sempre olistica, cioè
globale. Non è fondata sul modello occidentale, in cui l’analisi precede la sintesi come
nella logica cartesiana. La via indiretta (il c’i di Sun Zu) è da preferirsi all’azione diretta
(il c’ieng), anche se le due vanno sempre combinate fra di loro a seconda delle
circostanze.
Più che alla distruzione dell’avversario, la strategia – secondo gli esperti cinesi - deve
tendere alla sua destrutturazione, con un’azione progressiva e paziente, mirando più alla
modifica delle condizioni di contorno e all’acquisizione di vantaggi – anche indiretti e a
lungo termine – che all’urto frontale risolutivo.
Beninteso, il pensiero classico cinese è stato influenzato dal trauma subito nel “secolo
delle umiliazioni”, in cui la Cina è stata soverchiata dall’urto frontale dell’Occidente e ha
così scoperto la logica occidentale e la nozione di progresso. Anche se ha incominciato a
pensare nel modo occidentale, ha però mantenuto ben salde le radici tradizionali del suo
pensiero e quindi del suo approccio strategico.
Quanto prima detto, chiarisce la logica dell’uso che Pechino fa del soft power - e in
particolare della cultura della Cina classica - per aumentare la sua influenza nel mondo,
parallelamente all’intensificazione delle relazioni economiche. Ciò contribuisce a
diminuire le preoccupazioni che suscita l’aumento della potenza cinese. Il concetto
confuciano di “armonia” non esclude l’aumento della potenza e dell’influenza.
Quest’ultima è facilitata dalla penetrazione culturale. Non è una gran novità, perché anche
l’Occidente utilizza la stessa strategia. I Confucius Institutes proliferano in tutto il mondo.
33
Il numero di studenti cinesi all’estero e quello di studenti stranieri in Cina sono in costante
aumento (l’Italia purtroppo costituisce un’eccezione al riguardo).
L’esercizio delle public relations, che verranno effettuate in occasione dei Giochi
Olimpici, darà un impulso notevole in questo senso. La penetrazione culturale è mantenuta
dal governo cinese indipendentemente dallo stato delle relazioni politiche. Ad esempio,
proprio in occasione delle grandi manifestazioni anti-giapponesi in Cina, è stato aperto in
Giappone un secondo “Istituto Confucio”. La Cina è generalmente apprezzata dalle
opinioni pubbliche e non solo da quelle del Terzo Mondo. E’ ritenuta un minor pericolo
rispetto agli Stati Uniti, eccetto dai paesi confinanti, un tempo tributari di Pechino. Ma le
tendenze delle opinioni pubbliche sono estremamente mutevoli. Basta un episodio per
cambiarle. Basti pensare alla distruzione – effettuata senza preavviso, con l’evidente scopo
di lanciare un avvertimento agli Stati Uniti dimostrando l’efficacia di un’arma ASAT, che
potrebbe degradare notevolmente l’efficienza della U.S. Navy – del vecchio satellite
meteorologico cinese, che ha suscitato nel gennaio 2007 vivissime preoccupazioni negli
Stati Uniti. Nell’uso di segnali simbolici i cinesi sono dei veri maestri, sostenuti da
un’antica tradizione.
Il soft power cinese si estrinseca anche con numerosi viaggi di personalità politiche,
nell’alto livello di partecipazione ai vari fori e conferenze internazionali, nei finanziamenti
di studi e ricerche internazionalistiche e strategiche, nella ricerca di un dialogo anche con
le ONG che si interessano della tutela dei diritti umani, come Amnesty International, e –
ultimamente – anche con il Vaticano, con il quale i rapporti sono stati sempre tesi, da
quando fu fondata la Chiesa Cattolica Nazionale. In essa i vescovi vengono nominati da
Pechino anziché da Roma, poiché ciò è considerato un’indebita ingerenza negli affari
interni della Cina.
Beninteso, la ricerca del consenso e del prestigio in campo internazionale ha un
prezzo. Il regime, tradizionalmente chiuso ed autoritario e portato a prendere decisioni in
segreto e ad attuarle in seguito autonomamente, diventa permeabile alle critiche e alle
pressioni esterne. Ma così facendo deve dimostrare di essere un attore geopolitico
responsabile, uno stakeholder dell’ordine internazionale e quindi della sua stabilità e
sicurezza. Solo così Pechino potrà aumentare grandemente la sua influenza negli affari
mondiali ed evitare che sorgano resistenze contro le sue iniziative.
34
Gli altri attori geopolitici mondiali, in particolare gli USA, debbono adattarsi alla
crescita geopolitica della Cina. Come ha affermato il Sottosegretario di Stato Christopher
Hill, la politica degli Stati Uniti verso la Cina è stata fondata su paradigmi quali il
contenimento, il coinvolgimento o una combinazione dei due (co-engagement), decisi
pressoché unilateralmente e gestiti da Washington autonomamente. Oggi la politica
americana dovrebbe invece essere anche quella dell’adattamento o, accomodation, cogestita con Pechino, anziché diretta da Washington 4 . Solo così sarà possibile per
Washington coinvolgere la Cina nella costruzione e gestione del nuovo ordine mondiale.
Con la politica del soft power, la Cina ha conseguito importanti successi. Non si vede
perché dovrebbe mutarla, date le sue vulnerabilità non solo militari, ma anche
economiche. Parlando di compatibilità economica di un riarmo cinese, la questione non si
pone tanto in termini di capacità di finanziamento del riarmo e neppure di capacità
dell’industria militare cinese di costruire armi a tecnologia – simmetrica o asimmetrica –
competitiva con quella degli USA. Si tratta di approfondire la compatibilità di uno sforzo
di riarmo con l’esigenza politica e sociale della Cina di mantenere un alto tasso di crescita
e, prima ancora, di concorrere al mantenimento di un ordine internazionale che lo
permetta. La geopolitica della Cina è mutata. Non è più un continente autarchico, ma
un’isola aperta al commercio mondiale e dipendente sia dalle vie di comunicazioni
marittime per le sue importazioni ed esportazioni, sia dalla globalizzazione del capitalismo
liberale.
4
C. Hill, North East Asia: A Region of Vital Concern for the US – Testimony Before the House Committee
on International Relations, May 26th, 2005.
35
CAPITOLO II
LA CINA E I SUOI VICINI – CINDIA E DINTORNI
1. Cenni sulla geopolitica del sistema Asia-Pacifico e sulla sua correlazione con
l’Asia meridionale
Per fare previsioni sull’evoluzione del bilancio e delle capacità militari cinesi –
nell’ottica che stiamo seguendo, di collegarli cioè a quelli che la Cina ritiene
verosimilmente siano i suoi interessi nazionali e le politiche e strategie più idonee a
conseguirli nell’attuale contesto del mondo unipolare - è necessario analizzare i rapporti
della Cina con i paesi che appartengono alla sua sfera di interesse strategico diretto, e in
cui un’azione militare avrebbe la possibilità di ottenere risultati positivi, proprio in
relazione alla ridotta distanza dalla Cina continentale. Non è comunque prevedibile che,
ancora per 3-4 decenni almeno, la Cina possa acquisire una capacità globale di proiezione
di potenza competitiva con quella degli USA. Solo in tal modo, potrebbe divenire una
potenza globale, capace di costituire una delle colonne portanti di un nuovo ordine
bipolare, analogo in quanto a logiche, strutture e meccanismi di funzionamento a quello
esistente nella Guerra Fredda. <potrebbe però essere anche cooperativo, poiché non è
inverosimile che intervenga un accordo strutturale fra Washington e Pechino, per costruire
prima e, gestire poi, congiuntamente l’ordine mondiale della globalizzazione, da cui
entrambe traggono consistenti vantaggi.
L’evento più importante dell’inizio del XXI secolo è il ritorno geopolitico e
geoeconomico sulla scena mondiale dei due giganti asiatici: la Cina e l’India. Dai loro
rapporti reciproci - cooperativi o competitivi - e dalle loro relazioni con gli Stati Uniti
dipenderanno non solo l’ordine mondiale e la sua sicurezza, ma anche l’economia
internazionale dei prossimi decenni. Dipenderà anche il fatto che il XXI secolo sia il
“secolo asiatico” o “del Pacifico”, oppure che si verifichi un nuovo confronto bipolare fra
gli Stati Uniti (con il Giappone) e la Cina, oppure “triangolare”, a cui partecipi l’India,
divenuta alleata degli Stati Uniti. La possibilità che il XXI secolo rimanga “americano” o
“atlantico” - come lo fu il XX – si è attenuata sia per la sclerosi politica, militare,
demografica ed economica dell’Europa, sia per la divisione dell’Occidente europeo da
quello americano 1 e con la tendenza ad elaborare due “dottrine Monroe”; una per gli USA,
la seconda per l’Europa. La speranza che un ordine transatlantico possa ricostituirsi è stata
riaccesa dalla proposta del Cancelliere tedesco Angela Merkel di costituire la TAFTA
(Trans Atlantic Free Trade Area) e dall’elezione in Francia del Presidente Nicolas
Sarkozy, con il conseguente abbandono delle fantasie “multipolari”, cioè antiamericane, di
Jacques Chirac.
La geopolitica dell’intero continente asiatico ha risentito dal terremoto provocato dal
collasso dell’URSS, dopo che, a partire dal viaggio a Pechino di Nixon e Kissinger nel
1972, la Cina era divenuta oggettivamente alleata di Washington contro Mosca. L’idillio
strategico fra Washington e Pechino cessò con la fine della Guerra Fredda e con la
repressione di Piazza Tienanmen del 1989. I rapporti economici però divennero sempre
più stretti e la cooperazione con gli USA si rafforzò nell’ambito dell’APEC e poi anche
dell’OMC e del “Gruppo dei Sei” (Cina, USA, Russia, Giappone e le due Coree), che ha
trattato con successo il problema della proliferazione nucleare della Corea del Nord e che
potrebbe trasformarsi in un raggruppamento regionale per l’Asia nord-orientale, analogo a
quello che è l’ASEAN per l’Asia del Sud-Est.
Gli USA sono oggi l’unica superpotenza, sceriffo forse riluttante, ma sempre più
“gendarme”, degli equilibri mondiali. La Cina, invece, è ancora un attore regionale sotto il
profilo strategico, anche se ultimamente ha dato segni di maggior dinamismo e di volere
assumere responsabilità per il mantenimento dell’ordine internazionale, ad esempio nel
Libano e nel Darfur. La sua geoeconomia ha invece acquisito una rilevanza sempre più
globale, in campo non solo commerciale e finanziario, ma anche in quello energetico:
dall’Iran al Sudan; dal Venezuela alla Russia, al tentativo fallito di comprare l’UNOCAL,
nona compagnia petrolifera americana, la Cina è sempre alla ricerca di nuove materie
prime energetiche e non e di nuovi sbocchi commerciali.
Pechino gioca a tutto campo nel settore energetico anche perché è ben consapevole
che, con il boom della motorizzazione privata, dovrà raddoppiare entro il 2015 le sue
importazioni di petrolio, che sono già le seconde mondiali dopo quelle americane, avendo
superato nel 2006 quelle giapponesi. Va notato sin d’ora che la Cina è meno vulnerabile
1
The Economist, The Tigers in Front – A Survey of India and China, March 5th, 2005.
37
strategicamente, sebbene non economicamente, ad un embargo petrolifero di quanto lo
fosse il Giappone nel 1940. Infatti, la sola produzione interna cinese di petrolio (circa 3
milioni di barili al giorno) è più che in grado di soddisfare le esigenze della PLA. Pechino
sa benissimo di essere però vulnerabile economicamente. I mari sono dominati dagli Stati
Uniti. Dalla libertà di uso delle SLOC (Sea Lines of Communications) dipende il
commercio, indispensabile per la crescita economica della Cina, la quale costituisce la
principale fonte di legittimazione del suo regime. Il comunismo, autoritario ed
accentratore, deve convivere con un’economia molto aperta al mercato mondiale,
sicuramente molto più di quelle del Giappone e dell’India, paesi che però sono
democrazie, alleate con gli Stati Uniti.
Qualsiasi previsione sul futuro della Cina deve considerare che cosa è stata la Cina nel
mondo a partire da quattromila anni fa. Il “peso della storia” è dimostrato dalle
manifestazioni anti-giapponesi in Cina (e Corea del Sud), dovute alle mancate scuse del
Giappone per le violenze commesse 70-80 anni fa nel corso della seconda guerra
mondiale. E’ messo anche in evidenza dalle numerose rivendicazioni territoriali, non solo
per Taiwan – in nome del “sacro” principio dell’unità della Cina - ma anche fra
quest’ultima, l’India e il Giappone e fra Tokyo e Seul; e, infine, dall’intento di Pechino di
riprendere l’antica influenza sull’intera penisola coreana. Ciò ha un’importanza rilevante
nel “Dialogo a Sei”, dove la Cina gioca un ruolo centrale per bloccare la proliferazione
nucleare in Corea del Nord. Quest’ultima produrrebbe un effetto “domino” sulla Corea del
Sud e sul Giappone, soprattutto qualora l’ombrello nucleare americano divenisse meno
credibile. Comunque, gli accordi raggiunti sembrano soddisfacenti e il problema è stato
forse risolto, aprendo una nuova fase della dinamica geopolitica dell’Asia nord-orientale.
Ma l’interesse maggiore di Pechino sta negli Stati Uniti. Essi sono gli unici che
contano per Pechino. Per i cinesi, l’Europa invece è irrilevante sotto il profilo geopolitico
e geostrategico, benché il suo commercio complessivo con la Cina abbia superato quello
che quest’ultima ha con gli USA.
38
2. Scenari sul futuro della Cina
Sin d’ora sono plausibili due scenari estremi, polarmente contrapposti: da un lato, che
continui l’attuale cooperazione economica e complementarietà finanziaria con gli USA, in
cui Pechino, beninteso per il suo interesse nazionale, finanzia una larga parte del “doppio
deficit” USA e contribuisce anche al benessere dei consumatori americani con i suoi
prodotti a basso costo. Dall’altro lato, è possibile una nuova guerra fredda o calda
nell’area Asia-Pacifico, dovuta al successo dei tentativi di Pechino di escludere gli USA
dalla regione, eliminando così l’elemento che assicura al sistema Asia-Pacifico una
stabilità geopolitica. Una crisi potrebbe essere deliberata, oppure scoppiare a seguito di
incidenti involontari per Taiwan. Un generale cinese ha recentemente affermato che, in
caso di interferenze americane sull’isola, il suo paese potrebbe ricorrere all’uso di armi
nucleari sulle città statunitensi. Tale minaccia - sicuramente autorizzata dal governo di
Pechino - potrebbe essere stata una semplice conseguenza della riconosciuta impossibilità
dell’Armata di Liberazione (PLA) di contrastare la potenza convenzionale degli Stati Uniti
e di acquisire la capacità di invadere l’isola.
Dal canto suo, il Pentagono ha pubblicato nel luglio 2006 un rapporto sul
rafforzamento della PLA 2 , in cui si lancia un allarme sul potenziamento militare cinese.
Esso fa eco alle vere e proprie “grida di guerra” contro Pechino, sollevate non solo dagli
ambienti neo-conservatori americani 3 , ma anche dalle varie lobbies che sono danneggiate
dall’entità delle esportazioni cinesi negli USA e dalla conseguente perdita di posti di
lavoro (che è però tutta da dimostrare). Il rapporto del Pentagono riconosce però che la
PLA – nonostante il suo potenziamento - rimane polarizzata sulla questione di Taiwan, per
dissuaderne una dichiarazione di indipendenza. Afferma poi che le capacità cinesi di
proiezione di potenza, anche nelle sue immediate periferie - in particolare nei Mari Cinesi
Meridionale e Orientale e nel Mar Giallo - restano molto limitate. Riconosce infine che la
Cina continua a disporre solo di una quarantina di testate nucleari strategiche in condizioni
di colpire il territorio americano, anche se il loro potenziamento è prevedibile a breve
termine.
2
3
The Economist, July 23rd, 2005, p.42.
Robert D. Kaplan, How We Would Fight China?, The Atlantic Monthly, June 2005.
39
Entrambi gli scenari – quello della continuità della cooperazione e quello dello scontro
- sono possibili, oltre, beninteso, una ricca gamma di ipotesi intermedie. In questo senso la
Cina “è un giallo”, come ha affermato Limes. Il futuro dipenderà anche dalla prevalenza
dell’ala moderata o di quella radicale del Partito Comunista Cinese, nonché dalla capacità
di Pechino di risolvere i suoi difficili problemi interni, dando luogo a quella che il
Presidente Hu Jintao confuciamente chiama “la società armoniosa”.
Nella politica interna cinese, da un lato si pongono i sostenitori del programma delle
quattro modernizzazioni di Deng Xiaoping del dicembre 1978, fautori del peaceful rise
della Cina. Si contrappongono ad essi i nazional-comunisti, l’“ala dura” promotrice delle
tendenze espansioniste e di un rafforzamento del controllo anche sull’economia da parte
del Partito Comunista Cinese (PCC). Essi utilizzano il nazionalismo, alimentato dai ricordi
dell’antica grandezza e dal risentimento per le umiliazioni subite ad opera degli
imperialismi occidentali e zarista prima, e di quello giapponese poi. Oggi, influiscono
quelle che sono considerate ingerenze indebite negli affari interni cinesi sulla questione di
Taiwan e anche le proteste di responsabili politici stranieri o di ONG per le violazioni dei
diritti umani e per le violenze di Piazza Tienanmen, accuse che colpiscono particolarmente
i cinesi (mentre lasciano più indifferenti i russi), anche perché il regime di Putin è più
saldo di quello del PCC.
Per inciso, la repressione di Piazza Tienanmen ha salvato la Cina da un caos, simile a
quello conosciuto dalla Russia di Gorbacev e di Eltsin. È stata il risultato di scelte simili a
quelle del Cile di Pinochet, oggi considerate con interesse da tutti i paesi del cosiddetto
gruppo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), cioè delle nuove superpotenze
geoeconomiche mondiali, in rapida crescita di importanza anche sul piano politico, ma che
mantengono regimi politici sostanzialmente autoritari o a democrazia imperfetta.
L’eurosclerosi economica e il declino demografico stanno invece emarginando l’Europa
dalla storia, determinandone l’irrilevanza geopolitica globale e la sua subordinazione agli
Stati Uniti.
Il futuro della Cina avrà una rilevanza centrale sui destini del mondo. In modo diretto,
nella regione Asia-Pacifico, nell’intera Eurasia, dal Pacifico agli Urali, nonché dall’Asia
centrale al Golfo. Indirettamente, la avrà sull’intero globo non solo perché Pechino si pone
in Asia, almeno potenzialmente, come competitor diretto degli USA, ma anche per la
40
differenza di interessi economici fra l’Unione Europea e gli Stati Uniti nei riguardi
dell’Asia. All’ambizione europea di giocare un ruolo geopolitico mondiale, si
contrappongono capacità che restano solo regionali, mentre la capacità di decisione
politica rimane esclusivamente nelle mani dei governi nazionali; è cioè intergovernativa,
non comunitaria, più locale che regionale, come si è visto nei Balcani. A breve termine, le
tensioni transatlantiche potrebbero accrescersi o attenuarsi a seconda delle decisioni che
verranno prese dalla UE sull’embargo delle armi alla Cina, la cui eliminazione è stata
promessa a Pechino da vari leaders europei, ma sospesa soprattutto per il timore di
reazioni americane.
La questione dell’embargo è, in effetti, più formale che sostanziale e viene trattata con
un’ampia dose di ipocrisia. L’esportazione di armi verso la Cina non è mai cessata da
parte né dell’UE, né degli USA (Giappone e Australia hanno poi formalmente annullato i
loro embarghi a metà anni novanta). Per inciso, le esportazioni di armi USA verso la Cina
sono all’incirca il doppio di quelle europee (che sono state nel 2004 di circa 450 milioni di
dollari). Inoltre, per l’UE, non si tratta di un vero e proprio embargo, ma solo di
limitazioni sancite da un “codice di condotta”, che consiste nella promessa dei governi di
non aumentare il livello di esportazioni di armi alla Cina esistente nel 1989 e, soprattutto,
di non cederle le tecnologie più avanzate per la proiezione di potenza a lungo raggio. Gli
interessi economici verso la Cina e il desiderio dell’Europa di dimostrare la propria
autonomia dagli Stati Uniti potrebbero però prevalere, scatenando prima le reazioni
populiste del Congresso e, poi, tendenze anti-americane in Europa (a cui paradossalmente
si assocerebbero anche i no-global). Vedremo forse manifestazioni di folla a favore delle
esportazioni di armi italiane alla Cina!
Per Pechino, l’abolizione formale dell’embargo è importante non solo dal punto di
vista politico, prima accennato, ma anche per consentirle di effettuare pressioni su Mosca.
Anch’essa, infatti, ha limitato le esportazioni delle tecnologie più sofisticate alla Cina. Le
tensioni manifestatesi durante la visita a Mosca del Presidente Hu del marzo 2007 – che
hanno impedito la firma di previsti accordi in campo sia energetico sia degli armamenti –
dimostrano i limiti della collaborazione fra Pechino e Mosca, derivanti anche dal fatto che
entrambe vogliono esercitare un’influenza in Asia centrale e il controllo sulle sue risorse.
Le importazioni di armi dalla Russia dimostrano che l’industria cinese degli armamenti
41
non possiede un elevato livello tecnologico, soprattutto da quando la Cina non può più
usufruire del sostegno israeliano, praticamente cessato nel 2004 a seguito di pressioni di
Washington.
Le limitazioni alle esportazioni delle armi russe più sofisticate potrebbero però essere
mantenute, nonostante la minaccia di una concorrenza europea, dato il programma del
Presidente Putin di aumentare il bilancio della difesa russa e di riacquistare influenza in
Estremo Oriente. Finora tale possibilità era da escludere data l’essenzialità del mercato
cinese per la sopravvivenza di quanto restava dell’enorme complesso militare-industriale
ex-sovietico.
3. Declino e grandezza della Cina e dell’India
I due “giganti” asiatici vanno esaminati congiuntamente. Non è possibile valutare
l’impatto geopolitico delle evoluzioni in corso nell’uno senza esaminare anche quelle
nell’altro. Non è possibile farlo per l’importanza che avrebbe - per qualsiasi futuro ordine
mondiale – la competizione o la cooperazione fra Pechino e New Delhi e di entrambe con
Washington. Sia la Cina che l’India hanno espresso ed esprimono tuttora grandi civiltà,
seppur molto diverse tra loro.
Quella cinese è sempre stata inseparabile dallo Stato unitario e autoritario. L’ordine è,
nella cultura etico-politica cinese, strettamente collegato con il concetto di autorità
centralizzata e viceversa. La popolazione cinese è poi molto omogenea e il sistema
istituzionale storicamente centralizzato, basato sulle tradizioni di una delle burocrazie più
brillanti ed illuminate della storia: quella dei mandarini, ineguagliata anche dagli “enarchi”
francesi e dai civil servants britannici.
Il paese ha esercitato fino al XIX secolo una grande influenza sulle regioni vicine:
dalla Corea all’intero Sud-Est asiatico; dalla Mongolia e, in parte, anche al Turkestan,
oggi denominato Asia centrale, che l’URSS artificialmente divise in cinque repubbliche.
Tutte erano vassalle o tributarie di Pechino, potenza continentale autarchica. Solo nel
secolo XV una flotta cinese si respinse fino al Corno d’Africa, ma la cosa fu considerata a
Pechino una “dispendiosa distrazione”. Molti nutrono però oggi il sospetto che la Cina
42
intenda oggi prendere il controllo delle sue SLOC, alternando le maniere forti - come con
il Vietnam nel 1979 o nel Mare Cinese Meridionale negli anni Novanta - all’“offensiva del
sorriso”, in atto oggi soprattutto verso i dieci paesi dell’ASEAN e le due Coree, ma anche
nei riguardi dell’Europa e degli Stati Uniti.
L’influenza cinese si esercita anche per il tramite delle numerose e dinamiche diaspore
presenti un po’ ovunque nella regione. Esse hanno mantenuto stretti legami con la
madrepatria. In taluni paesi monopolizzano il commercio. Spesso sono però considerate
con diffidenza, come lo è l’aumento della potenza di Pechino. In caso di instabilità, le
diaspore cinesi sono le prime a subire l’attacco delle folle, come è avvenuto negli anni
scorsi in Indonesia e in Malesia. Interessi economici dei vari paesi, offensiva del sorriso e
cessazione delle azioni di forza nel Mar Cinese Meridionale hanno oggi migliorato i
rapporti fra la Cina e i paesi dell’ASEAN. Se solo formalmente, oppure anche
sostanzialmente, è difficile dirlo. Certo è che il sospetto verso le intenzioni a lungo
termine di Pechino rimane elevato. E’ perciò del tutto improbabile che la Cina riesca ad
aggregare attorno a sé, con vere e proprie alleanze, i paesi del Sud-Est asiatico, nonostante
la crescente complementarietà delle loro economie con quella cinese. È interessante notare
come il soft power cinese, così efficiente nel resto del mondo, incontri qualche difficoltà
ad esercitarsi nelle immediate periferie della Cina, per i ricordi storici che ha lasciato il
millenario impero.
Stranamente, Pechino ha approfittato poco del maremoto del dicembre 2004 per
aumentare la propria influenza nel bacino occidentale dell’Oceano Indiano, se non altro
per contrastare la poderosa “diplomazia dello tsunami” seguita dagli Stati Uniti e
dall’India.
Ai sospetti dei paesi dell’ASEAN per l’aumento della potenza economica e militare
della Cina, si aggiunge la mancanza di una sua precisa proposta sull’ordine mondiale e
sulla stabilità regionale. L’appello al multilateralismo e al multipolarismo a livello globale
viene così inteso come un semplice mascheramento della ricerca dell’egemonia regionale
da parte di Pechino. Ciò attiva una naturale tendenza degli Stati della regione di rivolgersi
per protezione agli USA.
Dal Giappone all’India, l’equilibrio strategico è tutelato da Washington. Essi sono
garanti della sicurezza di Taiwan, pur rispettando formalmente il principio dell’“unità
43
della Cina”, cioè del ricongiungimento “pacifico” dell’isola al continente. Questo sarà
però possibile solo quando le condizioni saranno mature, come è avvenuto per Hong Kong
e per Macao. Il successo di tale strategia è però reso incerto dall’evoluzione politica
interna di Taiwan, in cui molto forti sono le tendenze nazionaliste – a capo delle quali è lo
stesso premier Chen – che si propongono l’indipendenza anche formale dell’isola, ma che
vengono ostacolate dagli stessi USA che minacciano di non intervenire a difesa dell’isola.
La garanzia americana al Giappone è invece considerata con favore a Pechino. Evita la
ricerca di un’autonomia strategica di Tokio, che determinerebbe necessariamente la
creazione di un deterrente nucleare autonomo e la rinascita del militarismo giapponese.
Nel 1500 la Cina produceva poco meno di un terzo della ricchezza mondiale; nel 1800
un quarto 4 . Nei secoli bui – da metà del XIX alla prima metà del XX secolo - la mancata
difesa marittima e i contrasti interni aprirono la Cina agli interventi occidentali, ai “trattati
ineguali” con la Russia zarista e all’occupazione giapponese. Il PIL cinese cadde a meno
del 2% di quello mondiale, con una popolazione rimasta un quarto di quella globale.
A partire dalle grandi modernizzazioni di Deng Xiaoping, cioè dalla fine degli anni
Settanta, l’economia cinese si è però rapidamente ripresa. Nel 1998 aveva raggiunto
l’11,5% di quella mondiale (in termini di parità di potere d’acquisto secondo gli standard
della Banca Mondiale) e il 3% in termini MER (Market Exchange Rate). La crescita
elevata ad un tasso medio che i più valutano al 7% all’anno continuerà ancora per almeno
uno-due decenni, se non altro per l’enorme serbatoio di manodopera rappresentato dalle
campagne cinesi. Qualora non dovessero verificarsi eventi catastrofici – naturali o
geopolitici - o un collasso finanziario mondiale, il PIL cinese dovrebbe raggiungere quello
americano nel 2030-2040, anche se il reddito pro capite continuerà ad essere molto
inferiore e una consistente parte della popolazione cinese rimarrà sotto la soglia di povertà.
La popolazione cinese è stabile da anni - sui 1.350 miliardi di persone – pari a poco
meno di un quarto di quella mondiale. È destinata a crescere solo per l’aumento della vita
media, data la rigidissima politica di controllo delle nascite adottata a partire dal 1970.
Una grave crisi demografica con l’invecchiamento della popolazione si farà sentire verso
il 2020, anche perché le condizioni di vita e di protezione sociale sono oggi molto carenti
e sono inevitabilmente destinate a migliorare, con gravi oneri per l’economia. La
4
Angus Madison, The World Economy: A Millenial Perspective, OECD, Paris, 2002.
44
consuetudine confuciana, secondo la quale i giovani provvedono al mantenimento dei
vecchi, non è del tutto praticabile con la crescente urbanizzazione. Essa comporterà lo
spostamento dalle zone rurali alle città di almeno 300 milioni di abitanti entro una
quindicina di anni, con tutte le difficoltà (abitazioni, infrastrutture, servizi, posti di lavoro,
ecc.) che tale “esodo biblico” comporterà.
I cinesi si considerano culturalmente superiori agli occidentali. Sono orgogliosi e
nazionalisti. Guardano al futuro consapevoli della grandezza del loro passato. Basta
andare all’Università di Pechino o alle Scuole Militari per averne un’immediata
percezione. Però, a differenza dell’Islam, pur guardando al passato, la Cina è entrata
appieno nella modernità. Inoltre, contrariamente all’India e al Giappone, la Cina è molto
più aperta all’economia globalizzata e al libero mercato. Nessun paese è più liberista e
“turbocapitalista” della Cina.
L’economia cinese è ancora oggi export-led, nonostante gli sforzi del governo cinese
di dare maggiore spazio ai consumi interni. E’ stimolata da enormi investimenti diretti
esteri, dalla delocalizzazione di grandi gruppi americani ed europei e dall’importazione di
tecnologie dal resto del mondo. Circa il 60% delle esportazioni e una quota simile delle
importazioni in Cina sono nelle mani di compagnie straniere. Il tasso di risparmio è
elevatissimo: oltre il 40% del PIL (contro poco più del 20% dell’India). La crescita cinese
però non può continuare ad essere basata solo sull’aumento delle esportazioni. A parte il
fatto, che ciò metterebbe fuori mercato gran parte delle industrie degli altri paesi e
provocherebbe reazioni protezionistiche, essa sta già squilibrando l’economia di molti
paesi. La crescita potrà essere mantenuta solo con l’aumento dei consumi interni. Il
problema politico fondamentale consiste nel come si possa realizzare tale trasformazione.
Essa, comunque, costituisce l’obiettivo centrale dell’XI Piano Quinquennale, approvato
nel dicembre 2006 ed è considerata presupposto per la creazione di una società armoniosa.
L’impiego dell’enorme risparmio per finanziare i consumi è alla base dello scenario
ottimistico dell’evoluzione della Cina, quello del peaceful rise (denominato oggi peaceful
development dato che il termine rise è sembrato troppo aggressivo). Tale mutamento
economico-sociale influenzerebbe naturalmente anche la politica estera di Pechino. Tale
45
scenario è auspicato anche da Henry Kissinger 5 , già fautore – prima con la diplomazia del
“ping-pong” e poi con importanti accordi politico-strategico-tecnologici del 1972 –
dell’alleanza di fatto, anche se non formale, fra Stati Uniti e Cina in funzione antisovietica. Oggi egli sostiene che gli USA hanno tutto l’interesse ad ottenere la
collaborazione cinese per la stabilità mondiale e lo sviluppo della globalizzazione e la
creazione e gestione di un nuovo ordine internazionale. E’ invece critico verso coloro che
pensano che convenga rovesciare il “triangolo” geopolitico euro-asiatico della guerra
fredda. Che cioè Washington debba cercare di allearsi con la Russia in funzione
anticinese. Tale ipotesi comunque è divenuta ancora meno credibile con il nuovo corso
della politica di Putin, che ha abbandonato l’obiettivo – che sembrava invece perseguire
nel 2001 – dell’occidentalizzazione della Russia e della sua apertura alla globalizzazione.
La politica di Mosca è tornata ad essere “zarista”.
Kissinger non considera minacciosa neppure la legge cinese anti-secessione di Taiwan.
Con essa, nel marzo 2005, è stato dato mandato alla PLA di intervenire qualora l’isola
stesse per dichiarare la propria indipendenza e, quindi, il distacco definitivo dalla Cina
continentale. Secondo l’ex-Segretario di Stato di Nixon, tale legge sarebbe stata approvata
solo per motivi di politica interna – cioè per ottenere il consenso del nazionalismo cinese irrilevanti sotto il profilo geopolitico. Egli considera la Cina indispensabile per l’equilibrio
geoeconomico mondiale, messo a rischio - oltre che dalla stagnazione economica europea
– dai ridotti consumi cinesi e dal doppio deficit americano. La Cina lo finanzia con
massicci acquisti di dollari e di Buoni del Tesoro USA. Lo fa, beninteso, per il proprio
interesse nazionale, per evitare reazioni protezionistiche degli USA. Un segno positivo
dato agli USA è costituito dalla recente rivalutazione “strisciante” dello yuan rispetto al
dollaro. Beninteso, essa non è rilevante per la sua portata: 8% complessivamente da
quando fu decisa, rispetto al 30-40% che taluni ritengono indispensabile per incidere in
modo significativo sul disavanzo commerciale statunitense, ammesso – ma non concesso che il tasso di cambio yuan-dollaro sia la causa del disavanzo commerciale. Secondo The
Economist le cose sarebbero esattamente all’opposto: una forte rivalutazione dello yuan
danneggerebbe i consumatori americani, impedirebbe alla Cina di finanziare il debito
USA e avrebbe un impatto molto limitato sul commercio internazionale (anche perché il
5
Henry Kissinger, Non abbiate paura della Cina, La Stampa, 16 giugno 2005, p.7.
46
valore aggiunto cinese alle esportazioni ammonta a solo il 30% del loro valore - dato che i
componenti sono importati dagli altri paesi dell’ASEAN, nonché dalla Corea del Sud e dal
Giappone - e provocherebbe crisi economiche e tensioni politiche nell’intera regione). Il
disavanzo commerciale dipende dal basso livello dei salari dell’abbondante e
laboriosissima manodopera cinese. Una rivalutazione dello yuan sarebbe però importante
come segnale politico – specie per il Congresso democratico - di accettazione delle
pressioni americane. Recentemente, nel corso dei colloqui del maggio 2007 dello Strategic
Economic Dialogue (SED) a Washington, i cinesi hanno accettato di aumentare dallo 0,3
allo 0,5% giornaliero il tasso di oscillazione dello yuan rispetto al dollaro, ma non rispetto
all’euro e allo yen, entrambi fortemente danneggiati, dato il forte deprezzamento della
moneta americana. Positiva sarebbe una dichiarazione di Pechino di non intervenire sul
tasso di cambio, lasciandolo al mercato. In pochi mesi, la rivalutazione potrebbe
ammontare al 15-20% 6 e trascinare tutte le monete del Sud-Est asiatico, oggi legate al
dollaro. Ciò contribuirebbe a stabilizzare l’economia mondiale – soprattutto quella
europea - e ad aumentare i consumi cinesi, attuando le riforme previste dall’XI Piano
Quinquennale. Il governo cinese incontra grosse difficoltà a realizzarle per la resistenza
delle regioni e dei ceti ricchi, appoggiati dai dirigenti residui della leadership di “terza
generazione”.
La classe dirigente del paese sta cambiando, non solo per ricambio naturale. Al potere
si è ormai consolidata la “quarta generazione” di leader cinesi dopo Mao. Essi devono
trovare un equilibrio fra i fautori della “crescita pacifica”, del decentramento, della
coesistenza e del capitalismo, sostenuti dagli aderenti del Foro per l’Asia (o Boao Forum),
e i neo-cons cinesi (denominati neo-comm o neo-comunisti), presenti soprattutto nella
PLA e nell’Università di Pechino. Essi sono fautori di un regime socialista con salde radici
marxiste e di un programma nazionalista e centralizzatore. La politica cinese sarà
determinata dall’equilibrio che si creerà fra tali due tendenze 7 . Per questo motivo, non
solo l’attenzione dell’élite dirigente del paese, ma anche quella degli analisti strategici
6
7
Making sense of China’s Choice, The Financial Times, July 22, 2005, p.12.
China Long and Winding Road, The Financial Times, 9-10 July 2005, pp. W1 e W2.
47
andrebbe concentrata sulla politica interna, più che su quella estera di Pechino8 .
Quest’ultima si adatta pragmaticamente alle esigenze e alle variazioni della prima.
La Cina ha un’economia aperta e integrata in quella globale, di cui gli Stati Uniti
costituiscono la locomotiva. Anche la Cina però sta facendo la sua parte, specie nei cicli di
stagnazione dell’economia. Nel 2004 ha contribuito al 20% della crescita mondiale; nel
2007 vi contribuirà per il 40%. Secondo l’ultimo sondaggio del PEW Research Center 9 , il
42% dei cinesi (5% sono gli indecisi) ha un’opinione positiva degli Stati Uniti,
percentuale superiore alla media europea, ma molto inferiore a quella dell’India, dove ben
il 71% degli intervistati è favorevole agli Stati Uniti. E curiosamente anche a quella della
Russia, con il 52% di intervistati ammirano gli USA, anche se li ritengono nemici mortali
che complottano per indebolire la Russia.
I dirigenti cinesi cercano un accordo con gli USA ad ogni costo. Sono stati i secondi,
dopo Putin, ad esprimere solidarietà a Bush dopo gli attentati dell’11 settembre. Lo hanno
appoggiato attivamente nella guerra al terrorismo, non solo per motivi di una comune
causa come antiterrorismo islamico - dovuta alla resistenza anti-cinese degli Uiguri dello
Xinjiang - ma anche per il timore che i terroristi di al-Qaeda possano allearsi con i pirati
degli Stretti della Malacca, da cui transitano vie di comunicazione marittima vitali per
l’economia cinese. È questo certamente uno dei motivi per i quali i contrasti con gli USA
sono stati finora sempre rapidamente appianati, in particolare nell’aprile 2001 dopo
l’incidente occorso fra un aereo da ricognizione americano e un caccia cinese. Agisce al
riguardo anche lo sforzo che Pechino fa per un pieno successo delle Olimpiadi del 2008 e
all’esposizione mondiale di Shanghai del 2010. Con entrambe, i dirigenti cinesi si
sforzano di aumentare il prestigio globale del loro paese e di darne un’impressione di
efficienza, di tolleranza e di apertura, anche per attenuare i timori tuttora esistenti,
soprattutto nei paesi dell’Asia sud-orientale, circa i pericoli del ritorno di una “Cina
imperiale”.
8
Michael Yahuda, China’s Foreign Policy Comes of Age, in International Spectator, September 2007, pp.
337-50.
9
PEW - http://pewglobal.org/reports/display.php?ReportID=247, Washington, June, 2005.
48
4. India e Cindia: alleanza asiatica o competizione strategica?
Come si è ricordato, l’India ha conosciuto una traiettoria storica simile a quella cinese.
Non ha sperimentato invece un’analoga tendenza all’omogeneità etnico-culturale e alla
centralizzazione statale. Dall’anno 1000 a metà del secolo XIX, il suo PIL era pari o poco
inferiore a quello della Cina. A differenza di quella cinese, legata ad uno stato
centralizzato ed efficiente, la civiltà e le istituzioni dell’India sono state sempre
condizionate dalle strutture della sua società, in particolare dalla frammentazione politica,
dal sistema delle caste e dalla molteplicità delle etnie, delle religioni e delle lingue.
Diversamente dalla Cina, l’India è una democrazia. Non è però integrata appieno nella
globalizzazione. Mantiene molti elementi del socialismo di Stato e del protezionismo
adottati dopo l’indipendenza dal Partito del Congresso. Il suo commercio estero non
raggiunge un quinto di quello cinese. Gli investimenti diretti esteri in India non superano
cumulativamente i 100 miliardi di dollari, contro gli oltre 500 della Cina. Il suo prodotto sia complessivo che pro capite - il tasso di risparmio e gli investimenti per il
miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sono nettamente inferiori a quelli cinesi.
I rapporti si invertono per quanto riguarda la demografia. Mentre la popolazione cinese
è stabile e invecchia, quella indiana cresce rapidamente. Oggi è di oltre un miliardo di
persone. Fra vent’anni supererà quella cinese e dovrebbe assestarsi sul miliardo e mezzo
di abitanti. La crescita demografica indiana durerà almeno fino al 2050. Questo significa
l’immissione nell’economia di centinaia di milioni di giovani lavoratori. Anche la Cina ha
oggi una grande disponibilità di manodopera da immettere nell’industria e sei servizi.
Come ricordato, circa 300 milioni di agricoltori cinesi dovranno trasferirsi dall’agricoltura
all’industria e ai servizi. Si tratta di una massa d’urto che potrebbe sconvolgere nel breve
termine l’economia globale, portando ad una ulteriore modifica dell’attuale divisione
mondiale del lavoro. A più lungo termine, invece, il minore invecchiamento della sua
popolazione aumenterà il peso dell’India rispetto a quello della Cina. L’Occidente non
potrà contrastarla con misure protezionistiche - del tipo di quelle sostenute dai no-global,
dai fautori del “neocolbertismo europeo”, dalle varie corporazioni e dai demagoghi
populisti - ma solo con profonde ristrutturazioni dell’economia europea, indirizzandola
49
verso settori meno vulnerabili all’irresistibile concorrenza dei due giganti asiatici, cioè
verso quelli hi-tech.
Non è certo che l’India conoscerà un boom industriale dirompente come quello cinese.
Lo potrà fare solo in caso di una grave crisi economica e sociale in Cina e solo se la sua
economia si liberalizzerà, attirando ingenti capitali stranieri. In tal caso, l’economia
indiana conoscerà un percorso simile a quello sperimentato dalla Cina negli ultimi
venticinque anni e, precedentemente, dal Giappone e dalla Corea del Sud 10 .
Secondo taluni esperti, le grandi differenze di specializzazione economica fra i due
paesi dovrebbero costituire la matrice di una loro stretta cooperazione, se non addirittura
di un’integrazione. L’economia cinese è concentrata sull’industria, mentre l’India è più
specializzata nei servizi. Secondo taluni studiosi, l’hard e il soft potrebbero integrarsi,
dando luogo ad una vera e propria alleanza asiatica: la Cinindia, base della trasformazione
del XXI secolo nel “secolo asiatico”.
È però un’ipotesi del tutto fantasiosa. I contrasti e i sospetti fra i due paesi rimangono
insanabili. Solo l’1% del commercio cinese è per ora con l’India. I rapporti strategici sempre più stretti fra Washington e New Delhi - che trovano riscontro anche nel favore di
cui godono gli Stati Uniti nell’opinione pubblica indiana - inducono a ritenere che non
possa esservi fra i due paesi un’alleanza strategica. Potranno esservi tutt’al più
convergenze contingenti, specie per opporsi alle tendenze protezionistiche esistenti negli
Stati Uniti e in Europa. Ma l’India – come d’altra parte la Cina - guarderà sempre a
Washington. Il recente accordo per il nucleare civile con gli USA sembra confermarlo,
così come il trasferimento dagli USA in India di tecnologie militari avanzate. La Cina, dal
canto suo, continuerà a seguire la sua politica di cautela, non una di contrasto nei
confronti dell’India, ben sapendo tuttavia che New Delhi preferirà sempre Washington a
Pechino.
Formalmente, le relazioni fra Cina e India sono migliorate negli ultimi anni. Quale sia
la realtà è difficile dire. Il nazionalismo induista e quello cinese stanno radicalizzandosi.
Entrambi i paesi si sentono destinati ad un futuro grandioso e glorioso, anche per il loro
passato e la loro cultura. Entrambe ritengono la propria universale. Nello stesso modo con
10
Martin Wolf, Inflation Is Not the Major Threat to Stability, Financial Times, October 9th, 2007, Special
Report “China”, p. 2.
50
cui la Cina guarda agli Stati Uniti come modello da imitare, l’India guarda oggi alla Cina.
Pensa di essere nella situazione in cui quest’ultima si trovava dieci-quindici anni fa e
cerca di imitarne la crescita.
Tra le due “tigri” asiatiche persistono, come si è detto, forti sospetti e gelosie. Basti
ricordare la “velata” irritazione di Pechino per i recenti accordi politico-strategici fra
l’India e gli Stati Uniti e soprattutto quella manifestata nei riguardi di New Delhi nel
dicembre 2001, allorquando gli indiani si espressero favorevolmente sul ritiro americano
dal protocollo ABM e sul programma del Presidente Bush di difese antimissili. Pechino
ritiene invece che esse siano dirette a neutralizzare le sue capacità di “secondo colpo”
nucleare. L’India, dal canto suo, teme che la Cina la stia circondando, con l’alleanza con
il Pakistan e la crescente presenza in Myanmar e Sri Lanka. A sua volta, Pechino ritiene
di essere circondata. Teme che l’India partecipi attivamente al contenimento operato dagli
Stati Uniti nei suoi confronti. Esso si estende dal Giappone all’ASEAN, dall’Asia
centrale e ai tentativi – ormai superati - di Washington di un accordo strategico con
Mosca in funzione anti-cinese. Gli accordi militari con l’Australia e le grandi basi
aeronavali di Okinawa, di Guam e di Diego Garcia conferiscono profondità strategica alla
doppia “cintura sanitaria” statunitense.
La Cina sta cercando di “forzare” - per ora pacificamente - quello che ritiene essere un
tentativo di contenimento da parte degli USA. La sua politica di sicurezza è “antiegemonica” e multilateralista/multipolarista. Pechino si è espressa più volte a favore di un
mondo multipolare. E’ più attiva in campo internazionale di un decennio fa. Da un lato,
tende a migliorare i rapporti con Seul, forse nella speranza di essere considerata sponsor e
garante dell’unificazione coreana, a cui l’unisce il comune astio nei riguardi di Tokyo,
originato dai ricordi della pesante occupazione giapponese.
Dall’altro lato, la Cina cerca di migliorare – pur con qualche perplessità e riserva - i
rapporti con la Russia. Approfitta del raffreddamento fra Putin e l’Occidente e della
tradizionale reazione della Russia di volgersi ad Oriente ogni qualvolta trovi difficoltà ad
Ovest. L’Occidente è sempre più irritante per il Cremlino. Non si accontenta di fare buoni
affari, ma “pretende” di democratizzare le Repubbliche ex-sovietiche - come l’Ucraina e
la Georgia - ed anche la Russia. Washington ha collocato la Bielorussia fra le
“avanguardie della tirannia”. Il cambiamento di regime rappresenta una delle priorità
51
della seconda Amministrazione Bush. Ciò è considerato una minaccia dal gruppo che fa
capo a Putin. L’intesa con Washington, molto forte dopo l’11 settembre, sta
indebolendosi. Un duro colpo le è derivato dall’affare Yukos. Un altro dalle “rivoluzioni
colorate” della Georgia, dell’Ucraina e del Kirghizistan, dall’allargamento della NATO e
dal progetto USA di schierare componenti del proprio sistema di difesa antimissili in
Polonia ed in Repubblica Ceca. Da poco, si è aggiunto ad aggravare i contrasti il
problema dell’indipendenza del Kosovo, a cui Mosca è contraria. Ma la Russia teme
istintivamente ancor più il “pericolo giallo” e la pressione demografica cinese nella
Siberia centrale e nelle Province Marittime, oltre che l’estensione dell’influenza di
Pechino in Asia centrale e della sua presa di controllo dei flussi di petrolio e di gas da
quella regione. Ben difficilmente, l’Eurasia si trasformerà in “Eurocina”, dal Pacifico agli
Urali. Nell’immaginario collettivo russo è ancora vivo il ricordo dell’Orda d’Oro,
l’impero asiatico che aveva soggiogato la Russia. Putin continua ad essere persuaso che
l’unico modo per salvare il suo paese sia di europeizzarlo. Lo vuole fare alle sue
condizioni non a quelle di Washington o di Bruxelles. La Cina non costituisce per Mosca
un’alternativa all’Occidente. Tutt’al più è un’opportunità da sfruttare tatticamente sia in
campo economico sia per rafforzare Mosca nei suoi rapporti con Washington e con
Bruxelles.
Sia la Cina che l’India, pur in enorme crescita, presentano numerose vulnerabilità. Per
entrambe la principale è rappresentata dal crescente divario sociale e territoriale, fra i ceti
e le regioni ricchi e quelli poveri. In Cina convive un capitalismo selvaggio, da “padroni
delle ferriere”, con un regime rimasto comunista, a partito unico ed autoritario –
soprattutto nelle campagne dove le rivolte sono più contrastabili - anche se finora ha
dimostrato un notevole pragmatismo e una grande flessibilità. Il sistema bancario è
fortemente arretrato. Molti crediti sono inesigibili. Le industrie di Stato sono inefficienti e
gravano fortemente sulle finanze pubbliche. Assorbono il 60% dei crediti pubblici e delle
agevolazioni agli investimenti. Una riforma è difficile perché le industrie statali sono
dislocate in gran parte nelle regioni interne. La loro ristrutturazione comporterebbe il
licenziamento di parte della loro sovrabbondante manodopera e aumenterebbe la protesta
sociale. Inoltre, è impossibile che venga mantenuto in Cina ancora a lungo l’attuale
livello primitivo di protezione sociale, di fronte alle crescenti proteste e sommosse. Come
52
si è ricordato, il sistema “confuciano” per il quale i giovani provvedevano alle necessità
degli anziani andava bene per una società agricola, non con l’urbanizzazione e la
industrializzazione,
che
hanno
grandemente
modificato
le
strutture
sociali 11 .
Ulteriormente è aumentata l’inflazione che penalizza ancora di più le classi povere 12 .
Per quanto riguarda l’India, la frammentazione politica e la stessa natura della
democrazia rendono difficile sia un impulso modernizzante, simile a quello verificatosi
nella Cina di Deng, sia l’abolizione delle regolamentazioni sociali molto rigide,
l’aumento del risparmio, l’attrazione degli investimenti diretti esteri e il miglioramento
delle infrastrutture e dell’amministrazione. Anziché dall’alto, lo sviluppo indiano avviene
dal basso.
Se si può prevedere con una certa sicurezza che la Cina consoliderà il suo ruolo di
grande potenza economica e, prima o poi, anche politica e militare, per ora non si capisce
che cosa possa o intenda fare della sua potenza. L’India, pur destinata ad accrescere la sua
importanza non solo regionale, ma anche mondiale, non dovrebbe invece diventare nei
prossimi cinquant’anni una grande potenza globale, ma una regionale nell’Oceano
Indiano, di cui si sforza di garantirsi il controllo. Sarà però una grande democrazia,
verosimilmente sempre più integrata nella “lega delle democrazie” a leadership
statunitense. Il consolidamento di tale lega e, in primo luogo, dei rapporti transatlantici,
rappresenterà il principale fattore di equilibrio del sistema internazionale dei prossimi
decenni. Esso rimarrà unipolare o cadrà nel caos. Quello della multipolarità è un mito.
Tutt’al più, consisterebbe in un instabile sistema di balance of power. Il XXI secolo
rischierebbe così di essere un secolo sanguinoso come lo fu il XX. Gli Stati in crescita,
desiderosi di mutare lo status quo, diventerebbero più potenti di quelli che hanno
interesse a difenderlo.
11
Francesco Scisci, Chi ha paura della Cina, ed. Ponte alle Grazie, Milano, 2006.
Albert Keidel, China’s Looming Crisis – Inflation Return, Carnegie Endowment for International Peace,
Policy Brief 54, September 2007.
12
53
5. Il nuovo grande gioco nell’Asia centrale e nella Siberia orientale: dall’Eurasia
all’Eurocina? Forza e debolezza della SCO (Shanghai Cooperation Organization)
Da anni la Cina dedica particolare attenzione all’Asia centrale, cioè all’antico
Turkestan, attraverso cui passava la “via terrestre della seta”, che la collegava con il
Medio Oriente, il Mar Nero ed il Mediterraneo. Pechino spera di trasformarla in “via del
petrolio e del gas naturale”. Lo vuole anche per ridurre la sua dipendenza dalle vulnerabili
importazioni via mare, attraverso gli Stretti della Malacca - facilmente bloccabili dagli
USA - e l’eccessiva vulnerabilità all’“arma energetica”, che la Russia di Putin ha
dimostrato di poter impiegare con molta disinvoltura nei riguardi dell’Europa.
L’influenza cinese in Asia centrale si concretizza soprattutto con iniziative bilaterali.
Esiste poi un foro multilaterale, in cui Pechino persegue la sua politica: è l’Organizzazione
della Cooperazione di Shangai (SCO), che co-presiede con Mosca. Di essa fanno parte
quattro delle cinque Repubbliche centro-asiatiche. Quest’ultime – che sono tutte satrapie
di tipo orientale – cercavano di avere buone relazioni anche con gli Stati Uniti. Esse sono
state indebolite dalla ripresa della Russia che non intende perdere il controllo della regione
e delle sue risorse soprattutto energetiche 13 . L’influenza russa è facilitata dalla presenza
sui loro territori di consistenti minoranze slave. Le repubbliche centroasiatiche temono
inoltre l’Islam radicale.
Nella Siberia centrale e in quella orientale la situazione è diversa. Mosca tende a
diversificare verso la Cina e verso il Giappone le sue esportazioni energetiche – oggi
concentrate soprattutto verso l’Europa. Da esse dipendono il 25% del suo PIL e il 50% del
bilancio statale. Mosca tende in questo a conseguire un equilibrio, sia fra Est e Ovest, sia
fra il Giappone (e la Corea) e la Cina, in modo da aumentare la propria libertà d’azione e
la propria forza negoziale. Oleodotti e gasdotti vengono utilizzati come strumenti di una
geopolitica intesa a garantirsi non solo buoni rapporti con Tokyo e con Pechino, ma anche
13
Gazprom e Rosneft – le due grandi imprese che monopolizzano le esportazioni russe di gas e di petrolio –
non sarebbero in condizioni di fronteggiare i loro impegni di forniture all’Europa, senza poter utilizzare
soprattutto il gas centro-asiatico. Di qui, una forte pressione sulla Georgia e sull’Azerbeijan, perché non
potenzino oltre un certo limite il Blue Stream, cioè il sistema di oleodotti/gasdotti che, attraverso la Turchia,
consente all’Europa di accedere alle risorse petrolifere del Mar Caspio. Analoga pressione viene esercitata
da Mosca sulle Repubbliche centro-asiatiche, perché accettino il controllo russo dei rifornimenti energetici
alla Cina.
54
una certa influenza nei loro riguardi. Mosca non intende comunque divenire troppo
dipendente da Pechino. Sarebbe avvenuto qualora la Yukos di Kodorkosky avesse potuto
portare a termine i suoi progetti. Il terminale del grande oleodotto siberiano sarà
sull’Oceano Pacifico senza attraversare la Cina. Pechino l’ha presa molto male, tanto più
che nei successivi negoziati, Mosca si è comportata in modo considerato arrogante dai
cinesi. Dal canto suo, in Russia, la Cina è percepita non solo con invidia per i cuoi
successi economici, ma come un pericolo crescente. Nell’immaginario collettivo cinese
affiora poi, con sempre maggiore intensità, la volontà di rivalsa contro i “trattati ineguali”
e un’ostilità per ora mascherata, ma nella sostanza simile a quella che la Cina nutre verso
il Giappone.
I rapporti di forza nell’Estremo Oriente stanno mutando a favore di Pechino. Solo gli
Stati Uniti possono garantire la sicurezza russa a Est, di fronte al sofisticato gioco del
“dragone cinese”, che continua ad accrescere la propria forza, forse per acquisire
un’egemonia regionale nel sistema Asia orientale-Pacifico occidentale, oppure – ipotesi
che ritengo più verosimile – per trattare con gli USA su un piano di maggiore parità.
Un problema drammatico per Mosca è la crisi demografica. La Russia perde quasi un
milione di abitanti all’anno. La Cina segue attentamente tale indebolimento e lo
spopolamento progressivo della Siberia centrale ed orientale. Dagli attuali 140 milioni di
abitanti (di cui il 18% non è slavo), la popolazione della Russia passerà ad 80-120 milioni
nel 2050 14 . Inoltre, dato il maggior indice di natalità della popolazione islamica, la
preminenza slava nella Federazione è destinata a diminuire. Secondo il recente rapporto
PEW 15 , l’84% dei russi è preoccupato per l’estremismo islamico; il 71% è persuaso che
l’Islam sia violento e il 72% che i musulmani tendano a divenire un gruppo separato
all’interno della popolazione russa (per inciso, le preoccupazioni e le percezioni negative
riguardo l’Islam sono molto inferiori negli Stati Uniti, dove i tre-quattro milioni di
musulmani sono ben integrati nel melting pot americano). Analoghe – se non maggiori –
preoccupazioni sono rivolte verso la pressione demografica cinese, particolarmente
dinamica nelle Province Marittime e che potrebbe accrescersi ancora nei prossimi anni.
14
Dmitri Trenin, Russia’s Foreign and Security Policy Under Putin, Carnegie Endowment for International
Peace, Moscow Center, May 2005.
15
The Pew Global Attitudes Project, Islamic Extremism. Common concern for Muslim and Western Publics,
Washington D.C., July 14th, 2005.
55
L’emigrazione cinese (circa 300.000 persone all’anno) - oggi diretta soprattutto verso
l’Occidente e il Sud-Est asiatico - potrebbe dirigersi verso le ricche e spopolate immensità
siberiane.
Non è pensabile che Mosca possa mantenere un territorio grande e ricco come la
Siberia, con una popolazione tanto ridotta. Non basterà neppure l’europeizzazione del
paese, a cui peraltro si oppongono Chiesa Ortodossa e forze politiche “rosso-brune”, ed
oggi anche i siloviki che fanno capo a Putin e che sono subentrati agli “oligarchi” di Eltsin.
Sicuramente la Russia dovrà ricorrere all’immigrazione. L’ideale per essa sarebbe
attingere all’enorme serbatoio umano dell’India. Ma ciò è quanto meno problematico.
Saranno i cinesi a riempire il vuoto. La Russia rischia quindi – beninteso nel lunghissimo
periodo - di essere nuovamente dominata, dopo 600 anni, da un impero asiatico e di
vedere attenuata o perdere la propria identità, non solo slava e ortodossa, ma anche
europea.
Il “pericolo giallo” è molto sentito fra i russi, unito alle frustrazioni per il loro collasso
economico e geopolitico degli ultimi vent’anni, e per i brillanti successi cinesi, che molti
attribuiscono al pugno di ferro usato a Piazza Tienanmen, rispetto al caos provocato dalla
glasnost di Gorbacev. Putin ha stabilizzato la situazione e fatto rinascere nei russi il loro
tradizionale senso di orgoglio nazionale. Però Mosca, pur essendo una grande potenza
nucleare ed energetica, non può più avere l’influenza mondiale che aveva ai tempi
dell’URSS. Potrebbe riacquistarlo almeno in parte, solo assorbendo l’Ucraina nella sua
area di controllo. È un problema che il Cremlino e l’Occidente dovranno prima o poi
affrontare.
Per il momento, nel disastro dell’immenso apparato militare-industriale sovietico, la
Russia ne ha mantenuto in vita una parte con le esportazioni di armi alla Cina (oltre che
all’India). Esse sono ammontate a circa un miliardo di dollari all’anno nel decennio 1990,
per salire a circa due miliardi all’anno oggi a partire dal 2000. Tuttavia lo Stato Maggiore
si è opposto a fornire alla Cina alcune delle tecnologie più sofisticate, nel timore che
prima o poi vengano impiegate contro la Russia. Il principale motivo che induce la Cina a
chiedere agli europei l’eliminazione dell’embargo sulle armi – peraltro già pieno di buchi,
dato che i paesi dell’Unione hanno esportato nel 2003 461 milioni di dollari di armi alla
56
Cina, aumentati negli anni successivi 16 - non consiste forse tanto nell’intento di utilizzarla
per accrescere la potenza militare cinese, ma di effettuare pressioni su Mosca per poter
ottenere da essa le tecnologie più sofisticate di cui dispone. Nei recenti colloqui di marzo
2007 con Hu Jintao, sembra che Putin sia stato molto freddo al riguardo, talché non sono
stati firmati, contrariamente alle previsioni, nuovi grandi contratti di acquisto di armi. Va
tenuto anche conto che la tecnologia militare russa – non tanto nel settore delle
piattaforme, quanto in quello dei sistemi “network-centrici” è ormai più arretrata di quella
statunitense. È inevitabile che la crociata per la libertà e la democrazia del Presidente Bush
spinga il Cremlino di Putin - sempre più accentratore, autoritario ed imperiale - a
mantenere buoni rapporti con la Cina, cercando di dimenticare il timore di una nuova
“orda gialla”. E’ però del tutto improbabile che la Russia possa allearsi con Pechino contro
gli Stati Uniti, garanti degli equilibri nel Pacifico occidentale e, quindi, almeno
indirettamente, anche della Russia. Se ciò avvenisse, l’Eurasia tradizionale nella
geopolitica russa diverrebbe un’Eurocina. È probabile invece che la coesione
dell’immensa Federazione sia sottoposta a forti tensioni nella Siberia centrale e nelle
Province Marittime. Inevitabilmente esse spingeranno Mosca a ricercare l’appoggio
dell’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone contro la Cina.
La Russia si è preoccupata anche per il fatto che le due priorità che il Libro Bianco
cinese per la difesa del dicembre 2006 indica per la PLA sono l’informatizzazione e la
meccanizzazione. Quest’ultima non si riferisce ad un’“emergenza Taiwan”, ma
accompagna la dichiarata volontà cinese di ristabilire un’influenza nelle zone che
gravitavano sull’“Impero di Mezzo”.
Questi sono i limiti oggettivi dello SCO. Esso ebbe origine nel 1996 con il c.d.
“Accordo a cinque di Shanghai”, per regolare taluni contenziosi territoriali della Russia e
delle Repubbliche centro-asiatiche con la Cina. Divenne organizzazione nel 2001, con lo
scopo di combattere il terrorismo di matrice islamica. Successivamente, si propose di
contenere e di eliminare la presenza e l’influenza degli USA in Asia centrale, dove erano
state installate basi aree a supporto del conflitto in Afghanistan. Entrambi gli obiettivi
sono stati raggiunti. Oggi lo SCO – a parte un po’ di “turismo” diplomatico e militare e
qualche esercitazione congiunta fra la PLA e l’ex-Armata Rossa – è alla ricerca di che
16
IISS, Strategic Survey 2004-2005, London, May 2005.
57
cosa deve fare, a parte l’essere un “foro” di dialogo, la cui esistenza tanto appassiona i
politici e suscita curiosi interrogativi degli esperti strategici sugli oggetti del dialogo.
La sostanziale rivalità fra la Russia e la Cina lo indebolisce. Il fatto di aver invitato
India, Pakistan e Iran come osservatori, ne erode ulteriormente coesione ed omogeneità 17 .
Non costituisce sicuramente un “blocco continentale” che dovrebbe opporsi a quello
marittimo, a leadership americana, che domina il mondo. Molto più promettente, come
foro in cui possano essere avviate a soluzione i problemi di sicurezza è il “gruppo dei sei”
(USA, Cina, le due Coree, il Giappone e la Russia), che ha dimostrato una certa efficacia
nel risolvere il problema del nucleare nord-coreano e che potrebbe essere istituzionalizzato
come un’OSCE dell’Asia nord-orientale. Esso costituisce l’ossatura per costruire nell’Asia
nord-orientale un accordo regionale del tipo di quello dell’ASEAN per l’Asia sudorientale.
In sostanza, lo SCO non costituisce né la base di un’alleanza russo-cinese, né un
mezzo con cui la Cina possa superare l’opposizione di Mosca all’espansione della propria
influenza in Asia centrale.
6. Giappone, Corea ed “estero vicino” cinese
I cinesi pensano di essere “naturalmente” destinati a ridivenire una superpotenza. Per
poterlo essere, dovrebbero però esercitare un appeal almeno sull’intera Asia sud-orientale,
un tempo vassalla e tributaria del “Celeste Impero”. La strategia per raggiungere tale
obiettivo è ispirata alla cautela, alla moderazione e all’autolimitazione. In altre parole, la
Cina ha “paura di far paura”. Alza la voce solo per criticare il Giappone, anch’esso odiato
in tutta l’Asia sud-orientale, oppure quando è in gioco il principio dell’“unità della Cina”,
sancito dalla “legge anti-secessione” di Taiwan, prima ricordata.
Le tensioni con il Giappone sono aumentate con il premier Koizumi, per poi attenuarsi
con il suo successore, Abe. La storia continua ad esercitare un grande peso. Il Giappone
non avrebbe – secondo Pechino, ma anche secondo Seul - chiesto adeguatamente scusa
per le violenze praticate durante il secondo conflitto mondiale. Oggi, poi, alleato degli
17
STRATFOR, The Limits of SCO, Special Intelligence Report, September 2, 2007.
58
Stati Uniti, è più interventista in tutta l’Asia orientale e meridionale e ha recentemente
dichiarato che la sicurezza di Taiwan – sua ex-colonia - costituisce un suo vitale interesse
nazionale. Il nuovo trattato di alleanza nippo-americano, del febbraio 2005, è
verosimilmente all’origine delle dimostrazioni anti-giapponesi avvenute soprattutto a
Shanghai, a cui sono seguite manifestazioni anti-cinesi in varie città giapponesi. Un altro
motivo di attrito è rappresentato dall’orientamento nipponico di abolire il “pacifista” art. 9
della Costituzione giapponese, nonché a dispute per le isole Sen Kadu, a Sud di Okinawa,
le cui acque sembrano ricche di idrocarburi.
L’irritazione dei dirigenti di Pechino verso Tokyo è certamente dovuta anche
all’interesse politico di ottenere il consenso – o, almeno, di attenuare l’opposizione – della
componente “rosso-bruna”, costituita soprattutto dai comunisti ortodossi cinesi che si sono
trasformati in nazionalisti. È interessante notare che il nazionalismo cinese – affermatosi
solo dopo l’abbandono della teoria maoista della lotta di classe e del conflitto fra
campagna e città – è soprattutto anti-giapponese. Solo dopo la metà degli anni ottanta,
sono stati costruiti mausolei per ricordare la resistenza anti-giapponese. 18
Quello del fiorire del nazionalismo – eufemisticamente denominato pattriotismo – non
è un fenomeno esclusivamente cinese. Si verifica anche in Russia e, in parte, in taluni Stati
dell’Europa centro-orientale. A parte la politica interna, la Cina intende però sostituire
completamente il Giappone come superpotenza del sistema Asia-Pacifico, riprendendo il
rango che aveva sempre occupato nella storia. Inoltre, è preoccupata per la partecipazione
di Tokyo ai programmi di difesa antimissili e per i progetti giapponesi di dotarsi di una
capacità missilistica a lunga gittata e di una forza anfibia basata sulla trasformazione della
cinquantina di navi oceaniche porta-containers di cui dispone il Giappone, nonché da
ripetute affermazioni circa la necessità giapponese di dotarsi di un deterrente nucleare
autonomo. Tokyo ha i missili necessari e in qualche mese potrebbe costruire un numero
più che sufficiente di testate nucleari.
L’antipatia storica fra i due paesi è alimentata da considerazioni strategiche del tutto
attuali. Il premier Koizumi ha affermato che il Giappone deve divenire una nazione
“normale”, uscendo dallo stato di minorità e di autolimitazione, in cui l’ha posta il Trattato
di Pace e la Costituzione imposta dal Generale McArthur dopo la guerra. Preoccupa
18
Michael Yahuda, China’s Foreign Policy Comes of Age, cit.
59
Pechino soprattutto la possibilità che il Giappone si doti di armi nucleari, prendendo a
scusa la proliferazione in Corea del Nord. Non si tratta solo di ipotesi fantasiose. Il Capo
di Stato Maggiore delle Forze di Autodifesa giapponesi ha chiesto lo sviluppo di un
programma nucleare militare, sicuramente dopo esserne stato autorizzato dal suo governo.
Gli interessi economici costituiscono però un importante freno all’escalation della
rivalità sino-giapponese 19 . L’interscambio fra Cina e Giappone ha superato i 200 miliardi
di dollari nel 2005. Le esportazioni giapponesi in Cina sono divenute superiori a quelle
verso gli USA. Inoltre, 30.000 società giapponesi hanno filiali in Cina, che impiegano
oltre 10 milioni di lavoratori cinesi. Nel 2005 vi erano 86.000 studenti cinesi nelle
università giapponesi e 20.000 giapponesi in quelle cinesi. Anche il turismo cresce:
sempre nel 2005, 4 milioni di turisti giapponesi hanno visitato la Cina e 600.000 cinesi il
Giappone.
La posizione cinese è ambivalente nei riguardi dell’alleanza militare nippo-americana.
Pechino è consapevole che solo la garanzia degli Stati Uniti impedisce al Giappone di
riarmare e di dotarsi di una capacità autonoma di difesa. Quindi, è stata sempre disposta –
e sembra esserlo ancora – ad accettarla come un male minore. È un altro motivo che
induce Pechino a ricercare a tutti i costi l’accordo e la cooperazione di Washington.
Pechino cerca di aumentare la propria influenza nella penisola coreana. Fa leva sulle
tensioni storiche esistenti fra i coreani e i giapponesi e sulla volontà di Seul di allentare i
vincoli con gli Stati Uniti, riunificando le due Coree, obiettivo non conseguibile qualora i
rapporti strategici con gli USA rimanessero molto stretti e continuasse l’opposizione di
Washington alla sunrise policy, che è una specie di Ostpolitik in salsa coreana. Con essa
Seul si propone di attenuare progressivamente le tensioni con Pyongyang e di creare le
condizioni per la riunificazione della penisola.
La Cina non può accettare senza reazioni che uno Stato alleato con gli Stati Uniti
raggiunga la sua frontiera settentrionale, anche per l’esistenza di rivendicazioni coreane
sulle regioni di confine cinese. Questo determina anche una certa ambiguità cinese nei
“negoziati a sei”, volti ad evitare la proliferazione nucleare in Corea del Nord. Da un lato,
la Cina teme il collasso del regime comunista, che potrebbe essere facilitato da sue forti
pressioni sul regime nord-coreano, e la situazione di caos che lo seguirebbe. Dall’altro
19
Denny Roy, The Sources and Limits of Sino-Japanese Tensions, Survival, Summer 2005, pp. 191-214.
60
lato, teme però, in assenza di successo delle iniziative controproliferazione, un attacco
militare americano alla Corea del Nord, che sa di non essere in condizioni né di
dissuadere, né di contrastare. Tale iniziativa consoliderebbe l’influenza degli Stati Uniti su
una futura Corea unificata, riducendo l’importanza dei legami che Pechino tende a creare
con l’intera penisola, un tempo suo Stato vassallo.
A Sud, nei confronti dei paesi dell’ASEAN, a partire da quelli rivieraschi del Mar
Cinese Meridionale, Pechino usa dal 1995 toni sempre più concilianti e collaborativi, dopo
i periodi di tensione e di scontri armati, specie con il Vietnam. Essi si prefiggevano
l’obiettivo di acquisire il controllo delle riserve petrolifere ritenute esistenti nella Zona
Economica Esclusiva che circonda gli arcipelaghi delle Isole Spratley e Paracelso, nonché
punti di appoggio della Marina cinese per poter intervenire verso gli Stretti della Malacca
vitali per le SLOC cinese.
Anche la presenza militare cinese in Myanmar, in Sri Lanka e nel Golfo del Bengala è
elevata, anche se non molto propagandata, forse per non inasprire rapporti con l’India. La
Cina continua a costruire due grandi basi navali: una in Myanmar, sul Golfo del Bengala;
l’altra in Pakistan, sul Mare Arabico. Come contrappeso a quest’ultima, l’India sta
costruendo una base navale - sempre sul Mar Arabico - sulle coste iraniane. New Delhi
intende esercitare un’egemonia sulle vie di comunicazione marittime dell’Oceano Indiano
e sta potenziando la sua flotta. Per diminuire la propria vulnerabilità marittima, la Cina sta
invece costruendo una rete di imponenti infrastrutture stradali e ferroviarie che, attraverso
il Myanmar, dovrebbero metterla in collegamento con il Golfo del Bengala e, attraverso il
Pakistan, con il Mare Arabico. E’ inoltre programmata la costruzione di un canale
navigabile attraverso la penisola malese, per consentire l’aggiramento da nord degli Stretti
della Malacca, ancora infestati dalla pirateria.
L’atteggiamento della Cina verso le sue periferie può derivare da diversi motivi.
Primo, dalla convinzione di Pechino che il soft power - cioè una politica di cooperazione e
di appeal - sia più vantaggioso di ogni competizione e pressione, sia per ristabilire
l’influenza e la leadership regionale cinese, sia per affermare il rango della Cina come
superpotenza mondiale, competitrice dell’egemonia statunitense o partner eguale degli
USA.
61
Secondo, il fatto che Pechino ha deciso di concentrarsi soprattutto sugli enormi
problemi interni. Per questo è vitale per la Cina il mantenimento di una stabilità strategica
globale, soprattutto nelle sue periferie, sempre più integrate nell’economia mondiale e nel
suo centro, costituito dagli USA.
Terzo, la consapevolezza di Pechino di non possedere il livello di potenza necessario
per sfidare gli Stati Uniti, dalla cui presenza dipendono gli attuali equilibri e lo status quo
in Asia meridionale e sud-orientale. In un certo senso, la Cina oggi approfitta dell’“ordine
mondiale” garantito unilateralmente dagli Stati Uniti, che gli ha consentito l’enorme
crescita degli ultimi due decenni.
Quarto, l’inevitabile diminuzione – anche se in un futuro a medio termine - della
potenza giapponese, a causa del declino demografico del paese. Anche se la demografia
non influisce direttamente sulla potenza militare – che dipende più dalla tecnologia che
dalla demografia – l’invecchiamento della popolazione e l’inevitabile aumento delle spese
sociali impediranno a Tokyo di procedere ai cospicui finanziamenti necessari per dotarsi
di una capacità militare che possa impensierire Pechino.
È difficile per gli occidentali rendersi conto delle conseguenze di una politica
perseguita da Pechino tanto a lungo termine e in modo così indiretto. Ma il senso del
tempo – che gli attuali governanti cinesi hanno ereditato dalla grande cultura burocratica
dei mandarini – è molto diverso da quello dell’Occidente. Non si possono analizzare le
tendenze geopolitiche della Cina se non con un approccio globale e di lungo periodo e
tenendo in debito conto la particolare cultura strategica derivante a Pechino dalla
millenaria esperienza imperiale e dalla logica del “terzo risonante”. Essa favorisce
l’adozione di approcci indiretti e asimmetrici, al contrario della logica del “terzo escluso”,
che porta agli approcci diretti e decisivi, prevalenti nel pensiero strategico occidentale dai
tempi dell’antica Grecia.
62
CAPITOLO III
LA CINA IN AMERICA LATINA, IN AFRICA E NELL’OCEANO INDIANO
1. Considerazioni introduttive
La Cina sta effettuando notevoli sforzi per penetrare nelle regioni ricche di materie
prime energetiche e di altre risorse naturali e agricole, per soddisfare le crescenti esigenze
della sua rapida industrializzazione, nonché per ampliare i suoi mercati e le opportunità di
investimento e d’influenza economica, culturale e politica.
La sicurezza dei rifornimenti energetici e di materie prime rappresenta l’obiettivo
prioritario di tale penetrazione. Non vanno però trascurati altri obiettivi: quello di
accrescere la sua influenza internazionale, specie all’ONU, dove cerca di raggiungere una
maggioranza che la metta al riparo da eventuali ritorsioni USA per Taiwan, o per le accuse
di violazioni dei diritti umani. Con tale capillare opera di presenza e penetrazione cerca
anche di creare le premesse per alleanze strategiche, basate sull’assunto della superiorità
dei valori asiatico-confuciani su quelli occidentali e, più concretamente del Beijing
Consensus, rispetto al Washington Consensus. Quest’ultimo impone condizionalità
economiche e ingerenze politiche. Pretende di diffondere democrazia, buon governo e
tutela dei diritti umani e civili, anche procedendo, con le buone o con le cattive, al
cambiamento dei regimi politici incompatibili con i principi e valori e, a più lungo
termine, anche con gli interessi occidentali. Tale ultimo obiettivo dovrebbe posizionare
favorevolmente Pechino nel suo eventuale confronto con gli Stati Uniti e l’Occidente e, a
più breve termine, soddisfare il desiderio del nazionalismo cinese di trasformare la Cina in
uno degli attori principali delle relazioni internazionali e di rioccupare nel mondo il rango
e il ruolo che aveva giocato fino all’Ottocento e alla “guerra dell’oppio”.
Come si è ricordato, Pechino si avvale del suo soft power e, rispetto agli Stati Uniti e
all’Europa, è grandemente favorita dal non porre condizionamenti politici alle relazioni
economiche in nome del rispetto della sovranità completa negli affari interni, “dominio
riservato” degli Stati. L’unica eccezione in proposito riguarda i rapporti degli altri paesi
con Taiwan. Un numero crescente di paesi africani, latino-americani e mediorientali ha
rotto le relazioni diplomatiche con l’isola e riconosciuto Pechino come capitale dell’unica
Cina. Oggi, solo una ventina di paesi riconosce ancora il governo di Taipei. Il loro numero
è però in costante diminuzione, nonostante gli sforzi che Taiwan effettua per contrastare
tale tendenza, concedendo aiuti economici e contribuendo finanziariamente alle
organizzazioni regionali, ad esempio all’Organizzazione degli Stati Americani. Tuttavia,
Taipei non può competere con la forza finanziaria e con il crescente dinamismo
internazionale delle classi dirigenti della Repubblica Popolare Cinese.
Solo ultimamente, anche per il rischio di trovarsi isolata – soprattutto nell’ambito delle
Nazioni Unite – la Repubblica Popolare Cinese ha tenuto conto degli inviti di Washington
di assumere maggiori responsabilità nel mantenimento dell’ordine mondiale. Ha influito
su tale decisione di Pechino anche l’azione di ONG, ad esempio di Amnesty International.
Esse sfruttano la grande importanza che Pechino attribuisce ad una completa riuscita dei
Giochi Olimpici del 2008 e dell’esposizione mondiale di Shanghai del 2010. Le ONG
premono indirettamente sul governo cinese, utilizzando come leva la minaccia di impedire
il pieno successo dei Giochi e dell’Expo, attraverso il boicottaggio dei prodotti delle
società occidentali sponsors dei primi o partecipanti alla seconda.
Il punto centrale delle proteste delle ONG sono le vendite di armi al Sudan e il veto
sinora posto da Pechino al rafforzamento della missione umanitaria internazionale nel
Darfur – diretta dall’Unione Africana – per arrestare il genocidio in corso in quella
regione. Le minacce delle ONG sono state prese sul serio e hanno suscitato gravi
preoccupazioni nelle autorità di Pechino. Anche per tale motivo, esse hanno deciso di
cessare il sostegno indiscriminato al Sudan, sia effettuando pressioni su Khartoum per la
fine degli eccidi, sia orientandosi a non opporre più il veto al Consiglio di Sicurezza nei
riguardi di un intervento umanitario. Per ora continua però la costruzione di fabbriche di
armi in Sudan. Per inciso, una collaborazione con Bruxelles in Sudan potrebbe essere
un’occasione per Pechino per migliorare i rapporti con l’Unione Europea, che ha deciso di
sostenere logisticamente l’intervento dell’Unione Africana.
La presenza cinese - soprattutto in Africa, ma anche in America Latina – è stata
ripetutamente accusata di neo-colonialismo. Gli aiuti economici, i prestiti e gli
investimenti cinesi sono finalizzati soprattutto allo sfruttamento delle risorse naturali e
all’apertura dei mercati al made in China. Con il loro basso costo e con una qualità
64
compatibile con la domanda non molto sofisticata di tali continenti, i prodotti cinesi
conoscono un grande successo. Impediscono però la crescita delle industrie locali e
quindi contrastano con le necessità di uno sviluppo più sostenibile e duraturo, rispetto a
quello attuale “pompato” dagli alti prezzi delle materie prime, sia naturali che agricole.
Le economie che dipendono dall’esportazione di materie prime stentano sempre a
decollare, alimentando autoritarismo e corruzione, dato che la ricchezza viene
monopolizzata dai clan al potere nei paesi del Medio Oriente, dell’Africa e dell’America
Latina. È quella che – in riferimento alle satrapie petrolifere del Golfo e dell’Asia centrale
- viene denominata la “maledizione del petrolio”, la quale – unitamente alla struttura
sociale rimasta spesso premoderna e tribale – impedisce il diffondersi del pluralismo, la
creazione di una borghesia e l’affermarsi di istituzioni democratiche o almeno
rappresentative. Il detto no taxation without representation può essere capovolto in no
representation without taxation. Il fatto che i governi di quegli Stati traggono dal
monopolio delle industrie estrattive gran parte delle risorse a loro necessarie, li esenta
dall’imporre tasse e, quindi, dal doversi sottoporre al consenso e al controllo dei cittadini,
che in realtà in quei paesi sono sudditi, legati allo Stato non da rapporti di cittadinanza, ma
da dipendenze di tipo personale per il tramite dei clan e tribù di appartenenza.
Dall’altro lato – come ricordato - l’apertura dei mercati ai prodotti a bassissimo costo
dell’industria manifatturiera cinese impedisce – o quanto meno ostacola – lo sviluppo
delle industrie locali, unica possibilità per fare uscire i paesi emergenti dalla povertà. Tale
effetto è stato criticato soprattutto in Messico e in Sudafrica – ma anche in Zimbabwe - e
prende in prestito talune espressioni del bashing China, così popolari un USA.
A ciò si aggiunge la quantità crescente di esportazioni di armi cinesi, che alimentano
in molti paesi sia la politica repressiva dei governi sia movimenti secessionisti. La Cina ha
finora proseguito tale politica in modo indiscriminato ed esporta soprattutto armi leggere.
Non ha agito con i fini ideologici. Essi erano perseguiti nel corso della guerra fredda con
l’esportazione della rivoluzione maoista nel Terzo Mondo. Agisce essenzialmente con
finalità economiche e - solo subordinatamente - per l’interesse nazionale di dare alla Cina
influenza e ritagliarle un adeguato rango e ruolo nel mondo. Tale politica cinese contrasta
però in ciò con l’azione degli Stati Uniti e dell’Europa, volta a migliorare la tutela dei
diritti umani e civili e a diffondere qualche forma di democrazia. A lungo andare, dovrà
65
essere mutata, anche perché schiera automaticamente Pechino con gli oppressori e crea
tensioni con l’Occidente e accuse che Pechino considera sempre più fastidiose.
Dal punto di vista economico, il grande consumo di materie prime e la ridotta
efficienza energetica cinese hanno provocato tensioni sui prezzi mondiali del petrolio, dato
che l’offerta ha difficoltà a fronteggiare la crescente domanda. Tale effetto inflativo è
compensato però in gran parte da quello deflativo dell’esportazione di prodotti
manifatturieri cinesi a basso prezzo, che frena anche la dinamica salariale nei paesi la cui
industria è specializzata in produzioni ad alta intensità di manodopera e di livello
tecnologico medio-basso. Ciò grava particolarmente sui lavoratori italiani.
Tuttavia, gli aiuti e gli investimenti cinesi in campo infrastrutturale stanno
contribuendo ad accrescere il benessere di molte regioni, conseguendo risultati del tutto
convergenti con gli interessi e le politiche occidentali. Ciò avviene in Africa, in Asia
centrale ed anche in America Latina. Peraltro, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale hanno espresso preoccupazioni sul fatto che i prestiti cinesi potrebbero
aumentare eccessivamente la situazione debitoria dei paesi emergenti e, di conseguenza,
creare il rischio dello scoppio di nuove devastanti crisi finanziarie. È una preoccupazione
difficile da condividere, poiché gli investimenti infrastrutturali cinesi sono finalizzati allo
sfruttamento di risorse minerarie e agricole di zone interne, finora inaccessibili. I fondi
necessari vengono anticipati dalla Banca Centrale Cinese a imprese cinesi – in gran parte
statali - e rimborsati con i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse divenute
accessibili.
È in quest’ottica che va analizzata la penetrazione economica cinese in paesi
tradizionalmente al di fuori dell’orbita dell’interesse di Pechino, ma facenti parte della
sfera di influenza occidentale.
A lunghissimo termine, attraverso tale azione Pechino potrebbe trovare alleati
strategici, che influiscano sull’ordine e sulla stabilità mondiale, cioè anche in campo
politico-strategico. Nel medio-lungo periodo tende però solo a consolidare e a sviluppare
la sua economia, anche perché non potrebbe proteggere le sue vie di comunicazione
marittima, in caso di contrasto con gli USA.
Il coinvolgimento di un gran numero di paesi nel sistema di commercio cinese può
però creare interessi, che renderebbero difficile all’Occidente imporre sanzioni o embarghi
66
contro la Cina. Infatti, provocherebbero gravi danni all’economia e alla stabilità politica di
quei paesi e, verosimilmente, una sollevazione mondiale contro gli Stati Uniti e l’Europa.
I successi della Cina hanno destato notevoli preoccupazioni. Gli esperti si dividono al
riguardo – come spesso avviene – in due categorie. I “catastrofisti” affermano che è in atto
una vera e propria offensiva mondiale cinese nell’intero Terzo Mondo. A lungo termine,
essa si estenderebbe – come ricordato - dal settore economico, anche a quelli politico e
strategico. Dall’altro lato, i “moderati” – che sono gli stessi che guardano alla Cina, dal
punto di vista economico, come un’opportunità più che come un pericolo – sostengono
che si tratti di una conseguenza naturale della globalizzazione e dell’uscita cinese dal
sottosviluppo. Per essi, la perdita relativa di posizioni subita dall’Occidente non è dovuta
ad una volontà aggressiva della Cina, ma alle carenze delle politiche americana ed europea
verso l’America Latina e l’Africa, nonché alla disattenzione nei confronti dei loro
problemi. Influiscono al riguardo anche le condizionalità politiche e umanitarie del
Washington Consensus. Esse pongono in molti paesi l’Occidente in posizione di
svantaggio rispetto al Beijing Consensus, molto apprezzato soprattutto dai regimi più
autoritari e dai paesi che meno rispettano i diritti umani e civili.
Almeno fino al 2050 la penetrazione economica in continenti che non erano mai stati
oggetto d’attenzione e – tanto meno – d’influenza cinese, avrà un impatto solo marginale
sui rapporti globali di potenza. Potrebbero invece diminuire i prezzi mondiali delle materie
prime. Gli enormi investimenti cinesi nel settore stanno infatti aumentando l’offerta, in
modo da fronteggiare la domanda. Non è quindi detto che in un futuro – anche più
prossimo di quanto si pensi – possano verificarsi “bolle” nel settore energetico e delle altre
materie prime, simili a quelle che hanno avuto effetti tanto devastanti negli anni Ottanta
sugli Stati produttori di petrolio.
La Cina riuscirà però a mobilitare un crescente consenso e ad attivare un forte appeal,
anche perché, è portatrice di un modello di sviluppo alternativo a quello occidentale.
Quest’ultimo suscita crescenti resistenze nelle classi dirigenti dei paesi emergenti. Con
esso Pechino si pone a capo dei paesi emergenti, unitamente all’India, al Brasile e anche al
Sud Africa (anche la Russia sta cercando di farlo ad esempio in Medio Oriente e in Africa
Settentrionale). Pechino è stata uno dei fondatori del “Gruppo dei 20”, costituitosi a
seguito del fallimento della riunione dell’OMC di Cancun. In campo internazionale si
67
atteggia a difensore dei paesi in via di sviluppo, soprattutto contro le ingerenze politiche,
l’imperialismo economico e il protezionismo agricolo e tessile americano ed europeo. La
sua azione è però estremamente cauta: cerca di evitare in qualsiasi modo di suscitare
reazioni americane contro le sue iniziative. In un certo senso, sta abbandonando il Terzo
Mondo a se stesso per perseguire i proprio interessi nazionali.
Ciò avviene anche nella sua politica di sostenere organizzazioni regionali a cui non
appartengano gli Stati Uniti, specie nel sistema Asia-Pacifico, come l’EAS (East Asia
Summit) o l’ASEAN Plus Three (APT), cioè l’ASEAN più la Cina, la Corea del Sud e il
Giappone. Tali organizzazioni subregionali romperebbero l’unitarietà dell’APEC (Asia
Pacific Economic Cooperation), istituzione essenziale, unitamente all’ARF (ASEAN
Regional Forum), per mantenere un forte ancoraggio economico e strategico degli Stati
Uniti in Asia orientale. L’importanza delle organizzazioni subregionali aumenterebbe in
caso di tensioni fra gli USA e la Cina. Tuttavia, esse non hanno grande possibilità di
affermarsi, per l’opposizione del Giappone (e nell’EAS anche dell’Australia e della Nuova
Zelanda) alla diminuzione dell’influenza americana in Asia orientale.
Come si è ricordato, la Cina – seguendo le direttive date da Jiang Zemin a metà degli
anni novanta e pienamente accolte dai leaders della quarta generazione – è estremamente
cauta nell’adottare politiche che potrebbero portarla in rotta di collisione con gli USA.
Il suo interesse maggiore sta nella globalizzazione e nel libero mercato.
Significativamente, limita, ad esempio, il sostegno ai fautori della c.d. “rivoluzione
bolivariana” in America Latina – quali il Presidente venezuelano Chàvez e quello
boliviano Morales – mentre, in quel continente, sviluppa la collaborazione economica con
i governi sostanzialmente favorevoli agli Stati Uniti, come il Brasile, il Perù e soprattutto
il Cile.
2. America Latina
È interessante analizzare a fondo la penetrazione e la presenza cinese in America
Latina, continente considerato dagli Stati Uniti come facente parte della loro tradizionale e
irrinunciabile area di influenza. Il confronto fra la Cina e gli USA in America Latina
potrebbe degenerare in una crisi, molto più facilmente di quanto possa accadere in Africa.
68
2.1 La presenza cinese in America Latina: i “catastrofisti”
L’aumento della presenza cinese in America Latina ha attirato l’attenzione degli
analisti strategici 1 , poiché si tratta di un subcontinente posto tradizionalmente nell’area
americana di influenza strategica, dalla dottrina Monroe, a quella emisferica, al contrasto
con i movimenti filocomunisti di guerriglia durante la guerra fredda. Fino ad un decennio
fa, l’“impero di mezzo” era assente dal sub-continente, eccetto in Cile ed in Messico. Le
relazioni fra la Cina e il Cile divennero molto strette già all’inizio degli anni ’80. La Cina
fu uno dei primi paesi a riconoscere il Cile di Pinochet. Non solo per il suo rame, ma
anche per il modello di sviluppo in cui il liberalismo economico – suggerito da Milton
Friedman, consulente del dittatore cileno – conviveva con l’autoritarismo politico. Tale
modello fu giudicato molto interessante da Deng Xiaoping e ne influenzò le riforme. Oggi
la Cina è presente ovunque in America Latina, soprattutto in Cile e Perù, ma anche in
Brasile e Venezuela.
I commentatori più allarmisti sostengono che gli Stati Uniti abbiano “perduto
l’America Latina” 2 , che la “scelta cinese” abbia prevalso su quella americana e che il
Beijing Consensus 3 sia all’origine dei successi di Pechino.
Si tratta di valutazioni decisamente eccessive, ispirate dalle tendenze del bashing
China prevalenti in numerose corporations e lobbies statunitensi e anche nel Congresso,
soprattutto nel Partito Democratico. L’America Latina - considerata “Occidente di
Riserva” durante la guerra fredda - poiché, a differenza dell’Europa e degli USA, sarebbe
sopravvissuta ad una guerra nucleare – rimarrà legata all’Occidente a cui appartiene per
cultura, istituzioni e interessi. È da escludere che possa divenire un “trampolino di lancio”
cinese contro gli USA, non solo per il fatto che sia Pechino che Washington intendono
evitare uno scontro che sarebbe disastroso per entrambe, ma anche perché i vari paesi
sudamericani sono più vicini all’Occidente che alla Cina, pur denunciando forti
complementarietà economiche con quest’ultima.
1
Joshua Kurlanzick, China’s Latin Leap Forward, World Policy Journal, Fall 2006, pp. 33-41.
Peter Hakim, Is Washington Loosing Latin America?, Foreign Affairs, January-February 2006, pp. 39-53;
Stephen Johnson, Balancing China’s Growing Influence in Latin America, Backgrounder 1988, The
Heritage Foundation, October 24, 2005.
3
Joshua Cooper Ramo, The Beijing Consensus, Foreign Policy Center, London 2004.
2
69
La Cina è oggi concentrata a risolvere i suoi difficili problemi interni più che ad
espandere la sua influenza strategica. Lo dimostra anche il suo recente XI Piano
Quinquennale 4 e anche il Libro Bianco della Difesa. La dura lotta in atto per la
ricentralizzazione del potere evidenzia le sue difficoltà. L’errore compiuto dai
“catastrofisti” è di non tener conto di come e di quanto la globalizzazione e la rivoluzione
delle ICT abbiano cambiato la geopolitica mondiale. Essi trascurano le vulnerabilità
geopolitiche cinesi, non solo per la sopravvivenza del regime comunista in una delle
economie liberiste del mondo, ma per le enormi tensioni sociali e territoriali, che possono
produrre, al limite, una nuova frammentazione della Cina.
Non si debbono affrontare i problemi della crescita della Cina in America Latina o in
altre regioni con la logica della guerra fredda, o con le teorie geopolitiche dominanti
durante la prima e la seconda rivoluzione industriale. La modernizzazione cinese è
avvenuta nell’era della globalizzazione di “internet”, delle reti e dei jet. Ha caratteristiche
differenti dalle precedenti, che – in Europa, negli Stati Uniti e nel Giappone – si erano
basate sul protezionismo e sull’autarchia, sull’imperialismo e sul colonialismo. Quella
cinese è stata resa possibile dall’apertura al mondo (finanziaria, tecnologica, commerciale,
ecc.). Pechino sarebbe gravemente danneggiata da una chiusura del mercato globale,
inevitabile in caso di scontro con gli USA. La crisi economica che ne conseguirebbe
provocherebbe la crisi della sua economia e gravi disordini sociali. Diverrebbero
comunque impraticabili le necessarie riforme previste dall’XI Piano Quinquennale, volte
ad estendere alle zone interne e alle popolazioni rurali il relativo benessere di quelle
costiere e di quelle urbane. L’arresto della crescita renderebbe impossibile ridistribuire la
ricchezza e fronteggiare il “biblico” esodo che si prevede avvenga nei prossimi anni dalle
campagne alla città. Un rallentamento della crescita al di sotto del 7% nei prossimi dieci
anni, provocherebbe il collasso del potere comunista, già gravemente indebolito
dall’autonomia conquistata dalle regioni marittime e dai ceti imprenditoriali, che resistono
ai tentativi di ricentralizzazione del Presidente Hu Jintao per creare in Cina una “società
armoniosa”, da attuarsi con l’aumento dei consumi e la redistribuzione della ricchezza.
4
Elisa Calza, L’XI Piano Quinquennale cinese, in “La Cina allo specchio”, Quaderni di Relazioni
Internazionali, ISPI, Milano, dicembre 2006.
70
Per realizzare tale obiettivo, la “quarta generazione” di dirigenti cinesi – quella di Hu
Jintao e del suo premier Wen Jiabao – deve sostituire i responsabili politici e
amministrativi ancora legati alla “terza generazione” – quella di Jiang Zemin e di Li Peng.
Lo sta facendo in modo efficace, ricorrendo a metodi “disinvolti” simili a quelli utilizzati
in Russia da Putin contro gli “oligarchi” che lo osteggiano. Lo dimostra, ad esempio,
l’incarcerazione del governatore di Shanghai, accusato di corruzione e l’uso spregiudicato
delle recenti leggi anticorruzione e antiriciclaggio. Rispetto a quanto avviene in Cina, lo
spoil system italiano è a livelli decisamente “artigianali”! Quando si compiono operazioni
politiche di questo genere, si desidera avere sempre un contesto internazionale stabile. Le
teorie catastrofiste appaiono quindi irrealistiche, anche quando sono formulate da
istituzioni e responsabili statunitensi generalmente affidabili5 , ma che adottano
sistematicamente la logica del worst case scenario.
Le analisi dei “catastrofisti” sono giustificate soprattutto dal fatto che il processo
decisionale politico cinese non è trasparente 6 . Altri analisti hanno espresso il timore che
Pechino destabilizzi l’America Latina – oltre che l’Africa - fornendo armi in cambio di
materie prime, o che addirittura sostenga i programmi di Chàvez di sviluppare capacità
nucleari in Sud America (come ha proposto al Brasile e all’Argentina).
Secondo le interpretazioni più estremiste, la Cina intenderebbe addirittura utilizzare la
sua presenza in America Latina come piattaforma per minacciare direttamente gli USA,
beninteso nel lungo termine. Lo sviluppo di satelliti spia cinesi con il Brasile e l’esistenza
di stazioni cinesi SIGINT a Cuba vengono giudicati indizi precursori di tale piano. Gli
USA temono, in particolare, che armi antisatellitari vengano dislocate in America Latina.
Il territorio brasiliano è geograficamente ideale per lo schieramento di missili ASAT,
destinati a distruggere o inabilitare i satelliti ad orbita bassa e intermedia da cui dipende
gran parte della potenza militare degli Stati Uniti.
Nonostante la naturale tendenza dei militari e degli esperti strategici di tener conto del
worst case scenario, anche tra i militari USA dominano valutazioni molto meno
allarmistiche. Ad esempio, la Quadrennial Defence Review 2006, pur riconoscendo le
5
Department of Defence, Annual Report to Congress on Military Power of People Republic of China, The
Pentagon , Washington D.C., May 2006.
6
RAND, Forecasting China’s Military Spending Through 2025 - A Project for Air Force, Santa Monica
(CA), 2005.
71
potenzialità della Cina di divenire in futuro una superpotenza globale, competitrice degli
Stati Uniti, afferma che le sue attuali capacità di proiezione di potenza sono limitate e che
la Cina può tutt’al più essere considerata una potenza regionale. Almeno per un paio di
decenni è impossibile una minaccia cinese agli interessi americani anche nel solo sistema
Asia-Pacifico occidentale. Gli sviluppi della tecnologia militare e il potenziamento delle
Forze Armate cinesi sembrano oggi finalizzati quasi esclusivamente a possibili crisi per
Taiwan e alla c.d. area denial, volta a contrastare l’intervento dei poderosi gruppi
portaerei e anfibi americani a sostegno dell’isola. Per decenni ancora, le Forze Armate
USA saranno comunque in grado di prevalere su qualsiasi forma di aggressione diretta.
Presentano invece vulnerabilità alle guerre indirette, asimmetriche o di “quarta
generazione”.
2.2 Le valutazioni “moderate” circa il significato della presenza cinese in America
Latina: “Chimerica”, cioè le ragioni strutturali di una cooperazione fra Washington e
Pechino
Secondo le tesi prevalenti, gli Stati Uniti e la Cina hanno in comune non solo molti
interessi, ma anche pericolose vulnerabilità, che possono fronteggiare solo assieme. Ad
esempio, quella della dipendenza dall’estero per le materie prime strategiche e per
l’energia. Essa è destinata ad aumentare nei prossimi decenni. E’ la tesi sostenuta dall’exnumero due del Dipartimento di Stato (oggi Presidente della Banca Mondiale) Robert
Zoellick e dal Segretario al Tesoro Henry Paulson. Quest’ultimo ha accennato, nella sua
recente visita in Cina, alla possibilità che gli Stati Uniti collaborino con Pechino per
aumentare le riserve strategiche cinesi di petrolio – oggi inferiori ad un mese
d’importazioni - in modo da attenuare la preoccupazione di Pechino nei riguardi della
propria sicurezza energetica. Tra i più ottimisti, sostenitori della cooperazione fra gli USA
e la Cina, vi sono i fautori di “Chimerica”, visione secondo la quale il futuro ordine
mondiale sarà centrato su di un’intesa fra Washington e Pechino. La ritengo più probabile
di altre combinazioni geopolitiche illustrate da catch-words, come Cindia, Eurocina,
Cinislam, e via dicendo.
In tale contesto rientrerebbero anche i buoni uffici esercitati dagli Stati Uniti, su
richiesta di Pechino, per attivare un dialogo fra la Cina e il Vaticano. A Pechino,
72
quest’ultimo viene considerato una potenza in grado di mobilitare i 12 milioni di cattolici
cinesi e forse anche parte dei 100 milioni di evangelici, questi ultimi in rapida crescita e
quindi fattore importante per la stabilità sociale 7 . Il loro consenso è ritenuto molto
importante anche per il successo dei Giochi Olimpici del 2008 e dell’Expo 2010.
Insomma, secondo le tesi “moderate”, la presenza cinese nell’America Latina avrebbe
finalità prevalentemente, se non esclusivamente, economiche: la garanzia dei rifornimenti
energetici e di materie prime minerarie e agricole, nonché l’apertura dei mercati ai prodotti
cinesi. Non avrebbe invece fini politici, come quello di “esportare la rivoluzione”,
obiettivo di Mao Zedong fino al 1970. Se la Cina perseguisse tale obiettivo, la
collaborazione con i paesi sud-americani diventerebbe difficile, se non impossibile. La
Cina non intende trasformare il XXI secolo in quello del dominio cinese, dopo che il
secolo tra il 1842 e il 1949 è stato quello dell’umiliazione. Talune preoccupazioni
derivano dal fatto che Pechino segue, nel settore della sicurezza energetica e dei
rifornimenti di materie prime, un “approccio strategico”, non uno “di mercato” 8 . Vi sono
però segni che la Cina stia modificando la sua politica del settore, e che, seppur
progressivamente, abbandoni l’approccio strategico, per orientarsi più verso il mercato.
Uno dei motivi di tale movimento è rappresentato dalle critiche rivoltole da molti paesi
emergenti di praticare una forma di neo-colonialismo, per assicurarsi il controllo delle
materie prime del Terzo Mondo. Ciò dovrebbe facilitare un’intesa o, quanto meno,
diminuire le tensioni con gli Stati Uniti.
Pechino comunque è ancora persuasa che sia pericoloso dipendere da mercati mondiali
che non controlla, ma che sono regolati dai centri finanziari di Londra e di New York.
Continuerà quindi a seguire almeno parzialmente l’attuale “approccio strategico” – cioè
“autarchico” o “neo-colbertista” – soprattutto in campo energetico, fino a quando non si
7
STRATFOR, Geopolitical Diary: Chinese-Vatican Relations Warming, 19 January 2007 e Joshua
Kurlantzick, Fragile China, in Carnegie Endowment for International Peace, Democracy – A Journal of
Ideas, Winter 20006, sostengono che i dirigenti di Pechino sono persuasi che il Vaticano abbia giocato un
ruolo determinante nel collasso dell’URSS e temono che possa fare altrettanto in Cina, quantomeno facendo
crescere nel mondo il timore per l’aumento della potenza cinese ed esasperando le tensioni sociali esistenti
in Cina. In realtà, a parer mio, si tratta di timori infondati. Il Vaticano è costretto ad essere estremamente
cauto, per il rischio di spaccare i cattolici cinesi fra quelli fedeli a Roma e gli appartenenti alla “chiesa
patriottica”. Un miglioramento dei rapporti è però visto favorevolmente sia dalla Santa Sede sia dalla Cina.
8
Philip Andrews-Sped, Xuanli Liao and Roland Daunreuthe, The Strategic Implications of China Energy’s
Needs, International Institute for Strategic Studies, Adelphi Papers n. 346, London 2002; vds. anche Steven
Lewis, Beijing Oil Diplomacy, Survival, Spring 2002, pp. 15-34.
73
convincerà che esso è troppo costoso rispetto a quello “di mercato”, derivante
dall’“interdipendenza liberale” propria del mondo globalizzato, a meno che le tendenze
protezioniste, mercantiliste e di intervento diretto dello Stato nell’economia non si
diffondano in tutto il mondo.
In campo energetico, la Cina tende con le sue tre grandi compagnie petrolifere statali 9
ad acquisire il controllo di tutta la catena logistica del petrolio e del gas, dall’esplorazione
alla distribuzione. La sicurezza energetica costituisce una delle maggiori preoccupazioni
del governo. I suoi temi sono ampiamente trattati nell’XI Piano Quinquennale, in cui si
sottolinea anche la necessità dell’aumento dell’efficienza e della diminuzione
dell’intensità energetica dell’economia cinese (cioè della quantità di energia necessaria per
produrre un’unità di PIL), nonché della costituzione di riserve strategiche in grado di
soddisfare i consumi cinesi per almeno cinquanta giorni. Ciò spiega anche il lancio del
programma di costruzione entro il 2020 di ben 32 centrali nucleari (quattro sono state già
appaltate alla società nippo-americana Westinghouse), nonché il fatto che la Cina, già nel
2005, abbia importato più petrolio dall’Angola che dall’Arabia Saudita. Sono aumentate
anche le importazioni di petrolio dall’Ecuador e soprattutto dal Venezuela (esse
cresceranno da 140.000 a 500.000 barili al giorno quando sarà stato completato
l’oleodotto attraverso Panama, fra il Venezuela e l’Oceano Pacifico).
È però errato pensare che tale politica persegua obiettivi ostili agli Stati Uniti, oppure
che sia dovuta a timori cinesi sulla possibilità di un embargo del tipo di quello deciso dagli
USA contro il Giappone negli anni trenta, dopo la sua invasione della Manciuria. In
questo caso, l’embargo poteva incidere grandemente e in modo diretto sulla potenza
militare giapponese, essendo irrilevante la produzione locale di idrocarburi. La Cina ne
produce invece tre milioni di barili al giorno, pari oggi a poco meno del 50% del consumo.
La quota della produzione nazionale è però destinata a diminuire, soprattutto quando si
verificherà l’esplosione della motorizzazione privata. La Cina sarebbe comunque più che
in grado di soddisfare le esigenze delle proprie Forze Armate, in caso di un ipotetico –
9
La China National Offshore Oil Cooperation (CNOOC), la Sinopec responsabile della raffinazione e
distribuzione e la China National Petroleum Company specializzata nell’esplorazione e produzione (a cui va
aggiunta la Petrochina, recentemente creata e destinata ad integrare verticalmente tutta la catena logistica
del petrolio). Per maggiori dettagli vds. Franco Bernabè, Chi finirà nel barile della CNOOC?, in Liberal
Risk, ottobre 2005, pp. 25-35.
74
sebbene del tutto improbabile, se non fantasioso - blocco navale degli Stretti della
Malacca e delle coste cinesi da parte statunitense. Tuttavia, la dipendenza energetica
cinese sta aumentando rapidamente, determinando una vulnerabilità economica e
strategica che condizionerà la politica estera e di sicurezza cinese nei prossimi anni.
Poiché il petrolio si compra, non si conquista, è probabile che tali condizionamenti
indurranno Pechino ad una politica pacifica, non ad una aggressiva.
2.3 Il vero “pericolo giallo” in America Latina: il blocco della democratizzazione
Per quanto riguarda il Beijing Consensus, esso è basato sul principio business is
business e che la collaborazione economica con la Cina non debba essere subordinata a
condizionalità, quali il rispetto dei diritti umani, la democratizzazione, ecc., che sono tanto
popolari nei parlamenti e nelle opinioni pubbliche occidentali. La coesistenza di un potere
politico autoritario e centralizzato con un’economia liberista e aperta al mondo, capace di
produrre uno sviluppo accelerato, è considerata attraente da molti paesi emergenti. In
America Latina non è però del tutto accettata. I moderati sono entusiasti del liberalismo
cinese, ma non dell’autoritarismo. La sinistra radicale, invece, rifiuta il liberismo di
Pechino. E’ più no global. Inoltre, talune promesse fatte dalla Cina in tema di investimenti
e aiuti non sono state mantenute. Ciò ha generato malcontenti e proteste. Infine – come
ricordato - si sta diffondendo il sospetto che la penetrazione economica cinese (specie in
Africa ed in America Latina) consista in una nuova forma di colonialismo. La Cina
sfrutterebbe i paesi produttori di materie prime - i cui giacimenti sono nelle mani di
oligarchie corrotte legate al potere politico o, specie in Sud America, di grandi proprietari
terrieri – inondandone poi i mercati con prodotti cinesi a basso prezzo ed impedendone
così l’industrializzazione. La Cina importa da tali paesi solo materie prime minerarie ed
agricole. Perciò una dipendenza eccessiva renderebbe le economie sud-americane e
africane vulnerabili a diminuzioni del prezzo mondiale delle commodities. Altri, infine,
temono che si possa produrre anche in America Latina – per effetto di un fenomeno simile
a quello della “maledizione del petrolio” - il blocco della democratizzazione. Verrebbero
così favoriti corruzione, clientelismo e resistenza alla modernizzazione.
Il vero pericolo della penetrazione cinese in America Latina – come nelle altre parti
del Terzo Mondo - non solo per i loro abitanti, ma anche per gli Stati Uniti e l’Europa,
75
consisterebbe proprio in questo. Altri commentatori esprimono valutazioni più
ottimistiche. I massicci investimenti cinesi e l’importazione di materie prime hanno
aumentato i PIL dell’America Latina e dell’Africa, sebbene l’aumento del prezzo delle
materie prime incida molto negativamente sulle economie dei paesi che ne sono privi.
Pechino, poi, privilegia gli investimenti negli Stati in cui la presenza occidentale è molto
ridotta o assente, promuovendone quindi la crescita. In sostanza, la Cina con la sua
politica di sviluppo di continenti altrimenti “dimenticati” persegue obiettivi non solo
compatibili con quelli occidentali, ma addirittura vantaggiosi per tutto l’Occidente,
risolvendo uno dei problemi globali che è più difficile affrontare. Inoltre, lo sviluppo
economico indotto dalla Cina contribuirebbe - con la valorizzazione delle risorse locali - a
contenere la disoccupazione in Africa e America Latina, diminuendone le spinte
immigratorie verso l’Europa e gli USA.
2.4 Il soft power cinese come strumento di penetrazione politica, economica e culturale
La penetrazione cinese in America Latina non è basata solo sull’economia, ma anche –
e, in taluni casi, soprattutto - su una sapiente utilizzazione del soft power 10 . Esso riveste
varie forme: dall’attrazione del modello cinese, cioè del Beijing Consensus, all’esaltazione
del multilateralismo anti-capitalista nel G-20, costituito dopo il fallimento del Doha
Round a Cancun; dalla cooperazione tecnologica a quella culturale. Quest’ultima è
stimolata dal fatto che i cinesi ritengono che la loro cultura millenaria abbia valore
universale e, come tale, appartenga al mondo e vi debba essere diffusa, con l’approccio
quasi missionario, adottato dagli Istituti Confucio.
La Cina si sforza non solo di essere, ma anche di apparire, membro responsabile della
comunità internazionale. I suoi aiuti annuali allo sviluppo sono aumentati in 10 anni da
100 milioni di dollari a oltre 2,5 miliardi (di cui 700 milioni all’America Latina). Secondo
altre fonti, però, gli aiuti effettivamente erogati si aggirerebbero solo sul miliardo di
dollari. Il resto sarebbero prestiti o investimenti diretti. La Cina ha poi condonato molti
debiti (un miliardo di dollari alla sola Cuba e oltre due all’Africa) e sta effettuando prestiti
a lungo termine e a basso tasso di interesse (ad esempio, quasi un miliardo di dollari al
10
Bates Gill and Yauzhong Huang, Sources and Limits of Chinese Soft Power, Survival, Summer 2006, pp.
17-36.
76
Venezuela per lo sviluppo delle risorse petrolifere dell’Orinoco). Partecipa infine come
donatore alla Banca Sud-americana di Sviluppo, alla Banca Africana e, come osservatore,
all’Organizzazione degli Stati Americani e all’Unione Africana. Il denaro che elargisce le
suscita consensi e simpatia.
La Cina sta sviluppando ovunque un importante programma di costruzione delle
infrastrutture. Oltre il 50% sono dedicate alla valorizzazione delle risorse naturali ed
agricole, in particolare ai collegamenti della regione andina – ricca di minerali - con i porti
del Pacifico. La Cina è favorita per l’attuazione di tali programmi dalla proprietà statale
delle principali imprese cinesi, sia petrolifere che minerarie, dalle loro dimensioni e dalle
enormi riserve valutarie di cui dispone. Lo Stato anticipa, sotto forma di prestiti spesso a
tasso zero, il costo delle infrastrutture alle grandi società cinesi, che saldano i loro debiti
con gli introiti delle materie prime e dei prodotti agricoli (come la soia brasiliana ed
argentina), il cui sfruttamento è stato reso possibile proprio da tali infrastrutture. Tale
metodo non è praticabile dagli Stati occidentali, le cui multinazionali sono private, la
concessione di crediti pubblici è sempre più limitata e il sistema bancario si trova
ostacolato da sanzioni e embarghi o dal fatto che le società private non possono accettare
rischi politici, come possono invece fare le società dello Stato, braccio economico della
politica estera cinese.
Il soft power cinese si esercita infine con le relazioni culturali. Sono stati creati
numerosi Confucius Institute; in molte università sono state create cattedre denominate
Mandarin Process per la diffusione del cinese; viene organizzato un crescente numero di
incontri e convegni; sono offerte molte borse di studio nelle università cinesi e inviati
numerosi frequentatori cinesi nelle università africane e sud-americane (per inciso, il
numero degli studenti stranieri negli USA è invece diminuito per le restrizioni poste dopo
l’11 settembre alla concessione dei visa). Queste iniziative stanno avendo un grande
successo. Il Presidente Lula da Silva – cioè il leader politico “chiave” del sub-continente –
ha inviato addirittura una commissione di alti funzionari in Cina, per valutare quanto del
modello cinese possa essere adottato in Brasile 11 . Infine, Pechino sovvenziona
generosamente istituti e centri di ricerca internazionalistica e strategica all’estero e pratica
11
STRATFOR, 2007 Annual Forecast, January 2007, pp. 52-54.
77
un efficace “lobbismo” sia negli USA (dove società cinesi hanno finanziato le campagne
presidenziali di Clinton e Al Gore) sia in Europa.
Nonostante gli indubbi progressi realizzati dalla Cina - il cui interscambio con i paesi
dell’America Latina è aumentato di sei volte in cinque anni, mentre quello con l’Africa si
è addirittura decuplicato - i rapporti dei due continenti con gli Stati Uniti e con l’Europa
sono ancora nettamente predominanti. Il commercio dell’America Latina sia con gli USA
che con l’Europa è per entrambi ancora dieci volte superiore a quello con la Cina. Gli
investimenti occidentali ammontano mediamente a 30 miliardi di dollari all’anno, rispetto
ai 5 della Cina. Tuttavia, sia commercio che investimenti sono destinati a crescere
rapidamente e l’influenza e penetrazione cinese ad espandersi.
Gli Stati sud-americani sono peraltro consapevoli che il loro futuro e la loro
modernizzazione dipendono più dagli Stati Uniti e dall’Europa che dalla Cina. L’Europa e
gli Stati Uniti assorbono circa l’80% del commercio estero sud-americano. Solo per il Cile
(8,9%) e il Messico (4,1%), e ultimamente per il Perù, il commercio con la Cina supera il
4% del totale del loro import-export. Nonostante il prevedibile aumento della sua quota, il
commercio cinese non potrà per decenni raggiungere l’ordine di quelli americano ed
europeo. Il PIL dell’Occidente (espresso in valori di cambio o MER, non come parità di
potere d’acquisto o PPP) supera i 23 trilioni di dollari, mentre quello cinese raggiunge
appena i 3 trilioni. La Banca Mondiale ritiene però che se il prodotto cinese fosse
calcolato in termini di PPP andrebbe moltiplicato per tre volte.
L’enorme crescita dell’economia cinese induce Pechino a non trascurare nessun
continente 12 per cercare sbocchi all’esportazione dei suoi prodotti, per soddisfare i suoi
fabbisogni energetici e di materie prime e per posizionarsi meglio nel “mercato” della
politica internazionale. Dal 2001, si susseguono in Africa e in America Latina le visite di
Stato dei presidenti e dei premier cinesi, veri e propri rappresentanti commerciali delle
grandi imprese di Pechino. In ognuna di esse, vengono firmati contratti, con quella
particolare formula di “infrastrutture contro materie prime” che caratterizza la
penetrazione economica cinese, non solo in Africa e in America Latina, ma anche
nell’Asia centrale e in Medio Oriente. Essa viene denominata da Pechino the win-win
strategy. Come si è detto, determina però una dipendenza che non si sa per quanto tempo
12
Erik Izraeliwicz, L’économie chinoise à l’assault du monde, Politique Internationale, été 2005, pp. 341-52.
78
ancora verrà accettata. Determina anche la possibilità di crisi finanziarie, simili a quella
avvenuta nell’Asia e nel Sud-Est nel 1997-98 che, peraltro, fu superata anche per la
fermezza dimostrata dalla Banca Centrale Cinese, che resistette alle pressioni volte a far
svalutare lo yuan.
Un obiettivo politico perseguito esplicitamente da Pechino è l’isolamento di Taiwan.
L’isola era riconosciuta da dodici paesi sud-americani - su un totale mondiale di ventisei e faceva parte dell’Organizzazione degli Stati Americani. L’obiettivo di Pechino è stato
raggiunto. Un consistente numero di Stati sud-americani ha rotto le relazioni diplomatiche
con Taipei. Si tratta di un fatto irrilevante sotto il profilo geopolitico, sebbene Pechino gli
attribuisca notevole importanza.
Molto più importante è il concorso cinese alla crescita economica dell’America Latina
e alla valorizzazione delle sue potenzialità. Esso è vantaggioso per l’Occidente, per la
globalizzazione e per la stabilità mondiale, dato che comporterà una diminuzione della
povertà e la creazione di nuovi mercati.
In conclusione, né gli Stati Uniti né l’Europa hanno perso l’America Latina. Anzi,
forse la stanno addirittura recuperando, proprio grazie alla presenza cinese 13 , nonostante la
scarsa attenzione e risorse che dedicano ad essa. La disattenzione è dimostrata anche dal
fatto che il Presidente Bush non l’ha neppure menzionata nel “Messaggio sullo Stato
dell’Unione” del 2006. L’allarmismo espresso da taluni esperti è inconsistente, come lo è
anche la possibilità di successo del “neo-leninismo narcisista” degli esponenti della
“rivoluzione bolivariana”, soprattutto del Presidente venezuelano Chavez. Lo sviluppo
dell’America Latina rafforzerà quindi l’Occidente nel mondo, soprattutto qualora
Washington e Pechino riescano a trovare un’intesa generale, che regolerà i nuovi equilibri
mondiali. I recenti accordi fra Bush e Lula hanno dato vita ad un asse privilegiato fra
Washington e Brasilia, volto anche alla neutralizzazione della “rivoluzione bolivariana”
del Presidente Chàvez, che ha preso dalla Cuba di Fidel Castro il testimone dell’antiamericanismo nel sub-continente. Dal punto di vista strategico-militare, l’aumento della
presenza economica cinese in America Latina è irrilevante. Per generazioni ancora, la
13
Henry Kissinger, Non abbiate paura della Cina, La Stampa, 16 giugno 2005, p. 7; Martin Wolf, A
Colossus with Feet of Clay, in Financial Times, January 24th, 2007, Special Report: The World in 2007, p.6
79
Cina non può sperare di sfidare la potenza della U.S. Navy, che conferisce a Washington
un dominio globale.
3. La Cina in Africa
La Cina aveva già considerato l’Africa – come l’America Latina - un continente in cui
espandere la propria influenza strategica ai tempi della rivoluzione maoista 14 . Oggi non è
più interessata all’espansione del comunismo né all’influenza politica, ma al commercio,
alle materie prime e - solo subordinatamente – al proprio rafforzamento politico, in
particolare nell’ONU e nell’OMC. In tali due istituzioni, gli Stati africani possono formare
un blocco di una cinquantina di voti a favore delle posizioni di Pechino, ad esempio per
evitare condanne della Cina per la scarsa tutela dei diritti umani o per il sostegno a regimi
autoritari. Per raggiungere tale obiettivo, la Cina possiede numerosi vantaggi rispetto
all’Occidente e sa sfruttarli con estrema abilità e finezza diplomatica.
Come ha posto in rilievo il Financial Times 15 , l’influenza cinese in Africa è vista da
molti governi africani come l’unica alternativa al neo-liberismo occidentale. Questo è
percepito come un grave pericolo da numerosi governi, poiché li pone in discussione, per
renderli democratici e rispettosi dei diritti umani e civili. Lo provano i successi delle
riunioni dei Capi di Stato e di governo africani in Cina, nonché quelli delle visite di alti
esponenti cinesi in Africa 16 . Inoltre, la Cina ha a sua disposizione riserve valutarie enormi
con cui finanziare le società di Stato, che trainano la penetrazione cinese nei paesi
emergenti. Le enormi possibilità di Pechino di finanziarle in settori strategici, con
investimenti che possono essere anche in perdita, conferiscono alle imprese cinesi enormi
vantaggi concorrenziali rispetto alle imprese occidentali. L’interscambio con l’Africa è
aumentato dai 3 miliardi di dollari nel 1995 alla cinquantina del 2006. Si prevede che esso
raddoppi nei prossimi cinque anni. La Cina è così diventata, dopo gli USA, il secondo
partner commerciale dell’Africa, superando le potenze ex-coloniali europee. Il sogno di
14
Peter Brookes, Into Africa: China’s Scramble for Influence and Oil, Heritage Foundation Lecture 1006,
The Heritage Foundation, Washington D.C., February 9, 2007.
15
Financial Times, No panacea for Africa, February 6, 2007, p. 12.
16
The Economist, China in Africa – Never too Late to Scramble, October 28th, 2006, pp. 53-55.
80
Eurafrica è scomparso, nonostante il sostegno che l’Europa dà allo sviluppo dell’Africa e
di cui approfitta anche la Cina per espandere la sua presenza, senza “sprecare” denaro in
aiuti umanitari di dubbia efficacia.
Anche in questo caso, i costi della “non-Europa” sono pesanti, poiché spesso le
iniziative di un paese europeo neutralizzano quelle di un altro.
Molti paesi africani ricevono vantaggi dai prestiti cinesi per sviluppare le loro
infrastrutture e accrescere così la capacità di estrazione di materie prime e di aumento
della produzione agricola 17 . Sicuramente, gli investimenti cinesi in Africa sono molto
positivi per lo sviluppo del continente, ma sono diretti quasi solo a soddisfare le esigenze
cinesi e, solo indirettamente, contribuiscono a migliorare la qualità di vita delle
popolazioni, a combattere la povertà e l’AIDS e a contrastare la desertificazione delle
regioni subtropicali. Per questo motivo, la Cina è stata molte volte rimproverata, perché
non assume le responsabilità internazionali che il suo livello di ricchezza dovrebbe
imporle e perché con il suo comportamento contrasta con le politiche occidentali volte a
combattere la corruzione e a sviluppare buongoverno e democrazia 18 .
Il 2006 fu dichiarato dalla Cina l’anno dell’Africa. Esso fu caratterizzato dallo slogan
dei “tre cinquanta”: cinquanta anni delle relazioni fra la Cina e l’Africa; cinquanta governi
africani presenti a Pechino; cinquanta miliardi di dollari dell’interscambio sino-africano.
La Cina ha già concesso a vari paesi africani prestiti per quasi 13 miliardi di dollari
soprattutto per progetti infrastrutturali e cancellato una grande quantità di debiti pregressi.
La presenza cinese in Africa è oggi in competizione diretta con quella degli Stati Uniti,
mentre quella europea – in particolare quella francese – è in netta regressione. L’Europa
sta “perdendo” l’Africa nonostante la complementarietà delle due economie e l’interesse
europeo allo sviluppo africano, anche per evitare ondate immigratorie e possibili
pandemie. La presenza dell’UE si sta limitando sempre maggiormente alla sola Africa
settentrionale, in cui peraltro la Cina – e anche la Russia – sono presenti in misura
crescente, specie in Algeria. Può darsi che in progetto di “Unione Mediterranea” proposto
dal dinamico Presidente francese Sarkozy modifichi la situazione. C’è da augurarsi che
riesca a farlo.
17
Thomas Kane and Lawrence Serewicz, China’s Hunger: the Consequences of Rising Demand for Food
and Energy, Parameters, Autumn 2001, pp. 63-75.
18
Chris Alden, China in Africa, Survival, Autumn 2005, pp. 147-164.
81
L’Africa fornisce oggi alla Cina circa il 30% delle sue importazioni di petrolio. Viene
preferita da Pechino nella sua ricerca di sicurezza energetica – attraverso la
diversificazione delle fonti di approvvigionamento - rispetto all’instabile regione del
Golfo e alla limitazione delle importazioni dalla Siberia e dall’Asia centrale. Queste
ultime peraltro sono più sicure dal punto di vista strategico, poiché trasportate via terra e
non per le vie di comunicazione marittime, che sono dominate dalla U.S. Navy e dalle
marine indiana e giapponese.
Beninteso, le vie di comunicazione marittime tra la Cina e l’Africa sono ancora più
vulnerabili di quelle del Golfo. La Marina cinese sta sviluppando capacità di area denial
finalizzate a dissuadere o a contrastare l’intervento della 7ª Flotta a sostegno di Taiwan,
ma verosimilmente non potrà mai sviluppare una capacità di sea control a protezione delle
SLOC meridionali, o quelle orientali del Pacifico, di fronte alle potenti marine americana,
giapponese ed indiana, a meno, beninteso, di acquisire una superiorità navale globale. Ciò
costituisce una grave vulnerabilità strategica della Cina, che dipende dal commercio
internazionale in misura ben maggiore di quella del Giappone degli anni trenta. Quindi è
più vulnerabile a sanzioni, embarghi e blocchi. Essi produrrebbero una grave crisi
economica 19 .
La Cina ha fatto immensi sforzi ed effettuato grandi investimenti per sviluppare i
campi petroliferi off-shore dell’Africa occidentale, specie del Golfo di Guinea e le risorse
minerarie dell’interno, in particolare in altri rogue states africani: lo Zimbabwe e il Sudan.
Le valutazioni circa l’impatto politico a lungo termine di tale penetrazione cinese sono
addirittura opposte 20 , come peraltro avviene per quella in America Latina. Secondo taluni,
la Cina persegue una politica d’influenza, anche con l’acquisizione del sostegno di una
cinquantina di Stati – quelli africani cioè – facenti parti dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Oltre che emarginare
Taiwan, si premunisce così da eventuali condanne della Commissione dei Diritti Umani.
Indipendentemente dal loro effetto pratico, i cinesi sono sensibilissimi alle critiche. Hanno
uno spiccato orgoglio nazionale, anche perché si ritengono appartenenti ad una civiltà
19
Chris Alden, China in Africa, op. cit.
Philip Andrews-Speed, Xuanbi Liao and Roland Dannrenthur, The Strategic Implications of China’s
Energy Needs, IISS, Adelphi Papers 346, Oxford, 2002.
20
82
superiore. I loro straordinari successi economici degli ultimi decenni li hanno convinti
definitivamente di tale superiorità.
Altri sostengono invece che il commercio cinese con l’Africa – che è ammontato nel
2006 a 56 miliardi di dollari, che sta crescendo esponenzialmente e che è in leggero attivo
a favore dei paesi africani – costituisca un fattore critico per attenuare la povertà di molti
paesi del Continente Nero, che sono tra i più poveri del mondo. La delocalizzazione o
l’istituzione di filiali in Africa di circa 800 imprese cinesi dà un contributo di rilievo
all’economia di parecchi paesi. Ha contribuito ad aumentare il reddito di popolazioni
sempre più trascurate dall’Occidente, anche dalle sue agenzie – governative e non – di
aiuto umanitario. Gli aiuti e gli investimenti cinesi, nonché l’assistenza tecnica fornita
dalla Cina rappresentano ormai fattori critici per lo sviluppo dell’intera Africa 21 . La
maggiore concretezza di Pechino contrasta con la retorica occidentale (anche in sede G8),
fatta di grandi promesse non mantenute.
Nel medio-lungo termine, il più grave impatto negativo dei successi della politica
economica seguita dalla Cina è quello di dimostrare che l’autoritarismo sia compatibile
con lo sviluppo, con il libero mercato e con la partecipazione alla globalizzazione. Ciò
contrasta con l’emergere in Africa di una società civile democratica e può anche essere
all’origine – come avvenuto in Sudan, dove la Cina ha investito circa 3 miliardi di dollari
– dell’aumento delle spese militari. La Cina asseconda tali tendenze per compiacere i
governi che le permettono di perseguire i propri interessi economici. Ad esempio ha
costruito in Sudan tre fabbriche di armi, vanificando l’efficienza dell’embargo decretato
dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 22 . Si è poi opposta a lungo con il suo veto
al Consiglio di Sicurezza ad un intervento umanitario internazionale nel Darfur. Molto
forti – come ricordato – sono però le proteste contro quello che viene considerato un
cinismo cinese e, sempre maggiormente, come una violazione dello spirito delle regole
dell’ordine internazionale. È probabile che, in futuro, la Cina cambi la sua politica, anche
per la crescente consapevolezza che la globalizzazione – di cui è una delle maggiori
beneficiarie – richiede l’esistenza di regole non solo riguardante gli aspetti tecnici del
21
Joseph Kahn, China Aims its Clout in Africa, International Herald Tribune, November 3rd, 2006, pp. 1 e 6.
Howard W. French, China in Africa: All Trade and No Political Baggage, New York Times, August 8,
2004.
22
83
commercio internazionale, ma anche etico-politiche, corrispondenti a standard
internazionali ben precisi.
Tale trasformazione sarà facilitata dal fatto che l’aumento della presenza cinese in
Africa è considerato con crescente risentimento, anche perché le maestranze cinesi (oltre
30.000 tecnici cinesi lavorano in Africa) hanno ritmi di lavoro insostenibili per i lavoratori
locali. Il risentimento è poi alimentato dalla tradizionale xenofobia cinese, che porta le
loro comunità ad isolarsi da quelle indigene. Per contro, l’opera della Cina è vista con
favore dalle classi dirigenti non solo per gli investimenti e per gli aiuti, ma anche perché
appare l’unica alternativa al modello capitalistico occidentale, che interferisce
pesantemente con il loro potere e privilegi.
A lungo termine, la penetrazione economica in continenti lontani trasformerà la Cina
da potenza economica mondiale in grande potenza e influirà prima o poi anche sulla sua
politica estera, inclusa quella di sicurezza. La Cina si troverà sempre più confrontata al
dilemma se continuare nella politica seguita finora di mantenere un basso profilo politicostrategico (eccetto in Asia orientale e sud-orientale), di resistere ad ogni coinvolgimento in
contrasti e tensioni e di affidare la sicurezza delle sue SLOC agli Stati Uniti. In
particolare, l’aumentato coinvolgimento delle proprie imprese in Africa costringerà la
Cina – prima o poi – a mutare l’attuale politica di non ingerenza negli affari interni
africani e forse, ad aumentare l’assunzione di impegni e di responsabilità dirette, almeno
nel settore delle operazioni di pace. Ciò corrisponde alla logica sostenuta da Robert
Zoellick dell’interesse USA di coinvolgere la Cina nel mantenimento dell’ordine
mondiale, con l’obiettivo geopolitico finale di dar vita ad una “Chimerica”, cioè ad un
accordo fra Pechino e Washington che gestisca l’ordine mondiale del XXI secolo.
Le probabilità di una convergenza anche politico-strategica della Cina con gli Stati
Uniti appaiono superiori a quelle di una rotta di collisione. Questo influirà indubbiamente
anche sull’entità del bilancio militare cinese e quindi sul tema oggetto della presente
ricerca, centrato sull’analisi della sua compatibilità con l’andamento dell’economia cinese.
La probabilità di “Chimerica” sarà tanto più alta quanto più equilibrato sarà lo sviluppo
economico cinese e, quindi, la stabilità interna della Cina. Pertanto, gli USA hanno un
diretto interesse ad attuare la strategia suggerita da Robert Zoellick, neutralizzando le
tendenze del bashing China, tanto vive in talune parti del Congresso e in molte
84
corporazioni e lobbies americane. La collaborazione della Cina sarebbe grandemente utile
per gli USA. Non bisogna sottovalutare l’attrazione che il modello cinese esercita in molti
paesi emergenti e neppure il prestigio di cui gode la Cina, sin dal tempo del “nonallineamento” e dell’esportazione della rivoluzione maoista, con la sua retorica della
solidarietà nel Terzo Mondo - di cui ambisce ad essere rappresentante - e della noningerenza negli affari interni degli Stati che ne fanno parte.
La collaborazione è più una necessità che un’opzione sia per la Cina che per gli Stati
Uniti 23 . Per la prima, data la vulnerabilità delle sue vitali SLOC attraverso gli oceani
Pacifico ed Indiano, specie per gli Stretti della Malacca, oltre che per la dipendenza dalle
esportazioni in USA. Per la seconda, dato l’overstretching a cui essi sono sottoposti sia
militarmente che politicamente per il mantenimento dell’ordine mondiale (overstretching
più politico e psicologico che economico e militare). Quindi, appare essenziale per
entrambe evitare un confronto sulla questione di Taiwan. La “guerra al terrore” sta
imponendo gravi oneri alle forze americane; la Cina ha capacità di proiezione di potenza
molto limitate, pur essendo invincibile nella difesa del suo territorio. Così come la
“Cindia”, altrettanto improbabile è l’alleanza “confuciano-islamica” contro l’Occidente
prevista da Samuel Huntington. Essa provocherebbe il collasso dell’attuale ordine
mondiale e un’alleanza organica dell’India con gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia in
funzione anti-cinese. Segnerebbe anche la fine del regime comunista in Cina, la cui
legittimità si fonda sulla crescita economica e, quindi, sul mantenimento di un contesto
internazionale stabile.
In quest’ottica vanno valutati gli impatti politico-strategici globali dell’espansione
della presenza cinese in continenti lontani, come l’Africa e l’America Latina. Per ora non
hanno particolari impatti politico-strategici. In futuro potranno avvicinare ulteriormente
Cina e USA.
23
Peter Brookes, The Global Dragon – China’s New Strategy, Armed Forces Journal, July 2006, pp. 32-35;
Rosemary Foot, Chinese Strategies in a U.S.-Hegemonic Global Order: Accommodating and Hedging,
International Affairs, Winter 2006, pp. 77-94.
85
4.
Dilemma della sicurezza e strategia globale della Cina nell’Oceano Indiano
4.1 Generalità sulla politica estera di Pechino
L’argomento è già stato accennato nel II Capitolo, quando si sono esaminati i rapporti
fra il “dragone cinese” e l’“elefante indiano”. Esso è centrale per comprendere la grande
strategia cinese, i suoi obiettivi di lungo termine e le possibili evoluzioni geopolitiche
dell’Asia e dell’ordine mondiale 24 .
L’attenzione degli analisti si è sinora polarizzata sugli avvenimenti dello Stretto di
Taiwan, del Mar Cinese Meridionale e del Mar Cinese Orientale. Con la fine della guerra
fredda e con la tendenza cinese di guardare al lungo-lunghissimo periodo, lo sguardo di
Pechino si è volto ad Ovest. In realtà, solo la libera e sicura utilizzazione delle SLOC
dell’Oceano Indiano e del Pacifico occidentale e meridionale può consentire alla Cina di
essere una grande potenza mondiale 25 , non dipendente dalla cooperazione di altri paesi.
La politica cinese nella regione dell’Oceano Indiano (ROI) è globale, nel senso che
coinvolge vari settori: diplomatico, economico, culturale, politico e militare. Essa è
estremamente indicativa della strategia nazionale di sicurezza della Cina, delle percezioni
dei suoi capi politici e delle sue esigenze di sicurezza, nonché, eventualmente, di
espansione da potenza regionale a globale, in grado di competere o di cooperare per gli
Stati Uniti in condizioni di sostanziale parità.
Occorre tener conto che il regime comunista cinese ha rinunciato all’ideologia
universalistica, abbracciandone una nazionale. Assume l’inevitabilità di un riscatto della
Cina dalle umiliazioni del 1842-1949 e la sua trasformazione in una grande potenza
mondiale, con un rango e ruolo simili a quelli che aveva il “Celeste Impero” nell’Asia
orientale e sud-orientale, fino al XIX secolo. Tale idea fu sviluppata da Deng Xiaoping e
posta alla base delle sue riforme, denominate in un primo tempo di “sviluppo nazionale” e
- dopo il massacro di Piazza Tienanmen - di “nazionalismo patriottico”, inteso a restaurare
l’onore e la dignità (termini retorici che, in concreto, significano potenza ed influenza)
24
Avery Goldstein, Rising in the Challenge: China’s Grand Strategy and International Security, Stanford
University Press, Stanford (CA), 2005.
25
David Walgreen, China in the Indian Ocean Region: Lessons in PRC Grand Strategy, in Comparative
Strategy, Winter 2006, pp. 55-73.
86
della Cina 26 . Il nazionalismo continua anche oggi ad essere la “carta di riserva” del Partito
Comunista Cinese per mantenere il potere, qualora dovesse cadere la legittimità
conferitagli dalla crescita dell’economia e dall’aumento del benessere della popolazione.
Esso capitalizza la convinzione che hanno i cinesi della loro eccezionalità e
dell’universalità della loro antica, brillante cultura.
Essere consapevoli di tale tendenza di fondo è essenziale anche per comprendere la
politica cinese nell’Oceano Indiano. Essa mira a conferire alla Cina la massima possibile
autonomia dai condizionamenti esterni che possano esserle imposti - in particolare da
parte degli USA, ma anche dall’India o dal Giappone - approfittando della vulnerabilità
geografica cinese.
Tale atteggiamento di Pechino costituisce, per inciso, una conferma della teoria di
Kenneth Waltz secondo la quale gli Stati che aumentano il loro potenziale economico
sono pressoché inevitabilmente portati ad impegnarsi in una politica di potenza. Cioè, ad
accrescere la propria sicurezza e, quindi, la capacità di manipolare a proprio favore il
contesto internazionale 27 . Beninteso, nell’era nucleare, in cui le grandi guerre fra gli Stati
sono divenute irrazionali – se non impossibili – tale manipolazione avviene soprattutto
con mezzi economici e comunicativi o ricorrendo a forme di strategia indiretta e a
strumenti asimmetrici, in modo da evitare un confronto diretto che sarebbe disastroso per
tutti, spiralizzandosi inevitabilmente in uno scambio nucleare.
Non è detto che la Cina consideri inevitabile un conflitto con gli USA. Non lo
considererà però tale fino a quando avrà la percezione che l’unipolarismo americano tuteli
anche gli interessi nazionali cinesi e che la cooperazione con Washington sia quindi più
favorevole della competizione.
Beninteso, per la sicurezza, è valido un dilemma analogo a quello del prigioniero: la
ricerca di una maggiore sicurezza da parte di uno Stato comporta una maggiore
insicurezza per gli altri o almeno la percezione che sia così. Ciò sta avvenendo sia in Cina
che negli Stati Uniti. Basti considerare le reazioni del Pentagono all’aumento della
potenza militare cinese (aumento in assoluto, ma non relativamente agli USA), oppure le
26
Maria Hsia Chang, Return of the Dragon – China’s Wounded Nationalism, Westview Press, Boulder (CO),
2001.
27
Kenneth N. Waltz, The Emerging Structure of International Politics, International Security, Autumn 1983,
pp. 64-78.
87
preoccupazioni per le capacità antisatellitari e di guerra cibernetica della Cina. Le
percezioni però hanno in politica, come in strategia, un’importanza pari a quella della
realtà; soprattutto quando esse vengono manipolate a fini di politica interna (ricerca di un
nemico) o per interessi particolari (del complesso militare-industriale, o di una forza
armata, ad esempio). La Cina soffre di un complesso di accerchiamento da parte degli
USA, specie dopo la conclusione degli accordi indo-americani e dopo il rafforzamento
dell’alleanza fra Tokyo, Canberra e Washington.
In sostanza, consistenti aspetti del “dilemma della sicurezza” sono strutturali alle
attuali relazioni sino-americane dopo la fine della guerra fredda. Oggi gli Stati Uniti
godono di una accentuata superiorità militare, economica e tecnologica. Nonostante la
Cina possegga un trilione di dollari, in parte in BOT americani, gli USA dipendono dalla
Cina meno di quanto quest’ultima dipenda da loro.
Qualsiasi strategia cinese mirante alla realizzazione di un certo equilibrio di potenza –
o ad un’egemonia cinese - deve perciò necessariamente essere a lungo termine. Deve cioè
tendere a mantenere elevata la crescita economica della Cina, pur continuando a
sviluppare una sfera d’influenza nelle regioni strategicamente critiche ed a tutelarsi contro
l’imprevisto che potrebbe indurre Washington a sfruttare la sua attuale superiorità
militare, anche se non si comprendono quali potrebbero essere gli obiettivi. Tali
preoccupazioni di Pechino sono aumentate soprattutto dopo la codificazione, nella
National Security Strategy americana del settembre 2002 della dottrina dell’attacco
preventivo (e pre-emptivo) e dall’efficacia , dimostrata nelle guerre del Golfo e del
Kosovo, e in Afghanistan e Iraq della Network Centric Warfare statunitense.
4.2 La politica della Cina nella regione dell’Oceano Indiano (ROI)
La ROI si estende dalla penisola indocinese e dall’Indonesia fino alle coste
dell’Africa. A Nord comprende il Pakistan, l’Iran e l’Arabia Saudita. Sotto il profilo
geostrategico, anche la regione del Golfo appartiene alla ROI e, come tale, è considerata
nella politica di sicurezza di Pechino nella regione.
Il baricentro geopolitico della ROI è costituito dall’India, che ha l’ambizione di
equilibrare la potenza cinese in Asia e nel mondo e, comunque, di mantenere il controllo
delle SLOC – vitali per la Cina e per il Giappone - che attraversano l’Oceano Indiano.
88
Quest’ultimo è diviso dall’India in due bacini: il Golfo del Bengala, da un lato, e il Mare
Arabico, dall’altro.
Tra Pechino e New Delhi le relazioni sono sempre state alquanto difficili. Nella guerra
fredda, soprattutto dopo l’alleanza di fatto fra la Cina e gli Stati Uniti, l’India si è
fortemente appoggiata all’URSS. Oggi, si è avvicinata agli USA in funzione anti-cinese,
pur mantenendo buoni rapporti sia con Pechino che con Mosca. Ma sullo sfondo rimane la
rivalità. Lo dimostra anche il fatto che l’India giustificò nel 1998 i suoi esperimenti
nucleari, affermando l’esistenza di una minaccia cinese e la necessita di un equilibrio
strategico con Pechino. Va poi tenuto conto del grande e costante sostegno fornito dalla
Cina al Pakistan, nemico storico dell’India. Ciò provoca tensioni che solo formalmente
sono state attenuate dal c.d. “partnership strategica ed economica” fra i due “giganti
asiatici”. Essa ha contribuito a risolvere gran parte del contenzioso territoriale prima
esistente e che aveva originato la guerra del 1962. I rapporti fra New Delhi e Pechino sono
migliorati anche a causa delle preoccupazioni cinesi per la crescita in Pakistan del
fondamentalismo islamico, che entrambi i paesi considerano una minaccia.
La crescita economica della Cina e le strutture industriali cinesi - centrate
sull’assemblaggio di componenti costruiti soprattutto nel Sud-est asiatico, ma anche in
Corea e in Giappone – hanno modificato la geopolitica della regione. Su di essa ha influito
anche la crescente necessità cinese di importare materie prime e di esportare prodotti finiti,
utilizzando le vie marittime dell’Oceano Indiano, le cui capacità logistiche non sono molto
elevate, ma sono in corso di sviluppo grazie soprattutto ai massicci investimenti di
Pechino.
Gli sforzi cinesi si sono diretti anche nei riguardi degli Stati rivieraschi. In particolare,
lo Sri Lanka, il Bangladesh e il Myanmar, questi ultimi ricchi di petrolio e di gas
naturale 28 . Il petrolio del Golfo del Bengala è particolarmente importante per la Cina,
perché la sua distanza è inferiore a quella delle altre fonti di approvvigionamento
energetico situate in Medio Oriente e in Africa. Anche l’India cerca di aumentare la
propria influenza e il suo controllo sulla regione. Ciò conduce inevitabilmente a tensioni
con la Cina, che peraltro, almeno per ora, sono state molto contenute e ben mascherate,
28
Sugei Tronsh, China’s Changing Oil Strategy and its Foreign Policy Implications, CNAPS Working
Paper, Fall 1999.
89
anche per la volontà di entrambe di limitarne l’impatto politico. In pratica, esiste un great
game nell’Oceano Indiano, per molti versi simile a quello – che è molto più propagandato
dagli esperti strategici – in atto in Asia centrale fra la Cina, la Russia e gli Stati Uniti.
Nella ROI, dal controllo delle SLOC, esso si estende a quello delle risorse naturali, anche
di quelle del Golfo. Coesistono al riguardo forme sia di cooperazione sia di competizione.
La collaborazione economica fra gli Stati è sempre stata compatibile con la ricerca del
mantenimento dell’equilibrio delle forze. Quella fra Cina ed India lo è ancora. Ma la
competizione strutturale fa sì che Cindia – cioè un’alleanza organica fra Pechino e New
Delhi – sia un miraggio, non una eventualità da considerare possibile e, quanto meno,
probabile.
4.3 La sicurezza nell’Oceano Indiano
La Cina ha effettuato negli ultimi anni notevoli sforzi per accrescere la sicurezza sia
delle vie terrestri che di quelle di comunicazione marittima della ROI. In essa non è però
riuscita ad istituire un’organizzazione multilaterale come lo SCO (Shanghai Cooperation
Organization che opera in Asia centrale, sotto la copresidenza russo-cinese), anche per la
profonda differenza dei suoi interessi rispetto a quelli dell’India. Ha invece sviluppato
legami bilaterali, soprattutto con il Pakistan, il Myanmar, lo Sri Lanka, l’Iran e il
Bangladesh, oltre che con l’Arabia Saudita e il Kuwait.
In Myanmar - sul Golfo del Bengala - e in Pakistan - sul Mare Arabico – la Cina sta
costruendo basi navali, a cui la sua Marina (PLA-N) potrebbe appoggiarsi per controllare
le SLOC e contrastare la supremazia marittima americana ed indiana. La Cina avrà
comunque molta difficoltà a farlo, anche perché il sea control è da sempre molto più
difficile – anche tecnologicamente – e oneroso del sea denial. Nella situazione
geostrategica della Cina richiederebbe il completo dominio degli oceani, quindi una
superiorità navale completa, impossibile da conseguire.
Le relazioni con l’Iran sono particolarmente strette, anche perché la Cina – con la
Russia - è il maggior fornitore d’armi al regime degli Ayatollah 29 . In Myanmar la Cina sta
29
In realtà durante la guerra tra l’Iraq e l’Iran (1980-88), la Cina ha fornito armi ad entrambi i contendenti,
per l’enorme somma, nel solo 1986, di circa 5,5 miliardi di dollari. L’utilizzazione della cooperazione
militare e della fornitura di armamenti per gli obiettivi della politica estera cinese verrà esaminata
allorquando si esamineranno situazioni e prospettive dell’industria cinese degli armamenti.
90
costruendo un corridoio ferroviario, stradale e di pipelines che le darà l’accesso via terra al
Golfo del Bengala e le consentirà anche di sostenere la flotta senza essere sottoposta alle
limitazioni costituite dagli Stretti della Malacca. Sulla sua costa ha poi costruito numerose
installazioni radar e stazioni di ascolto elettronico. La presenza navale cinese si avvarrà
anche della base navale in corso di costruzione sulle coste del Baluchistan (Pakistan), sul
Mare Arabico, anch’essa raggiungibile con il miglioramento della viabilità della “via
meridionale della seta”, che unisce le regioni sud-occidentali cinesi con il Pakistan. Infine,
è in progetto un canale navigabile che attraverserà la penisola malese, costituendo
un’alternativa al traffico attraverso gli stretti di Malacca.
La presenza militare cinese – soprattutto navale – è in crescita in tutta la regione. Il
potenziamento in corso della Marina sarebbe orientato ad acquisire una capacità di
proiezione di potenza che, secondo taluni esperti, andrebbe ben oltre le esigenze di un
conflitto negli Stretti di Taiwan o nel Mare Cinese Meridionale. È un problema centrale
per la strategia navale della Cina. Essa si sta trasformando da potenza continentale – quale
è sempre stata nel corso della sua storia – in una anche marittima. Secondo taluni, la Cina
starebbe trasformandosi in un’isola. Il collasso della minaccia sovietica da Nord e
l’integrazione nell’economia globalizzata hanno comportato un mutamento della
geopolitica e della “grande strategia” di Pechino, proiettandola verso gli oceani.
In realtà, la politica seguita da Pechino nella ROI è simile e parallela a quella adottata
in Asia centrale. Essa potrebbe essere destinata ad intensificarsi ancora, soprattutto per
contrastare l’intesa indo-americana, anche se è molto più probabile che per lungo tempo
ancora Pechino segua una politica di basso profilo e ricerchi un’intesa con Washington,
anche perché non possiede le capacità tecniche per contrastare la U.S. Navy.
L’accresciuta importanza del mare nella pianificazione della PLA non comporta
necessariamente il fatto che la Cina sia orientata ad uno scontro con gli USA. La sua
probabilità è comunque tanto minore quanto più gli USA potranno avvalersi del sostegno
dell’Europa e dell’India, oltre che quelli – molto più sicuri – del Giappone e
dell’Australia. Un mutamento dello status quo, che veda la Cina e i suoi alleati assumere
una posizione di superiorità nell’Oceano Indiano, è da escludersi, almeno per diversi
decenni. Nell’attesa, è verosimile che la Cina prosegua la collaborazione con gli USA.
91
Ciò non significa che la Cina non cercherà di aumentare la propria influenza
nell’intera regione ROI e che non continuerà a rafforzare le proprie forze. Si tratta di
vedere se darà maggiore importanza alla ROI, oppure ad un’espansione in Asia centrale.
La prima potrebbe comportare tensioni con l’India e con i suoi alleati, dal Giappone agli
Stati Uniti. La seconda porterebbe inevitabilmente ad una rotta di collisione con la Russia.
Sia Pechino che Mosca considerano l’intero Turkestan loro zona d’influenza
irrinunciabile, e tendono ad esercitarvi un controllo almeno economico.
Se continuerà per decenni ancora lo sviluppo con gli attuali tassi di crescita, la Cina
non potrà tollerare, orientativamente verso il 2040-2050, che la sicurezza delle sue vitali
linee di comunicazione marittime sia nelle mani degli Stati Uniti, cioè di una grande
potenza competitrice. Non potrà neppure far meno della sicurezza che le possono dare i
rifornimenti energetici dall’Asia centrale e dalla Siberia. Pechino intende mantenere una
grande libertà d’azione. Forse è anche per questo che sta potenziando non solo la Marina,
ma anche l’Esercito. Non lo fa sicuramente per la difesa del suo territorio – per la quale è
invincibile, basata come è sulla “guerra di popolo” e la mobilitazione delle immense
risorse demografiche cinesi. Anche in campo terrestre intende garantirsi una capacità di
proiezione di potenza esterna o, quanto meno, diminuire lo stato di isolamento
geostrategico, in cui la pone l’esistenza di notevoli ostacoli naturali - dal Karakhorum al
Deserto del Gobi - e di grandi potenze militari come la Russia e l’India.
Strategicamente, la Cina si trova di fronte a dilemmi per la scelta della priorità della
pianificazione delle sue forze. Tale dilemma riguarda soprattutto la PLA-N ed i tempi e
criteri con cui procedere al suo potenziamento. Influirà al riguardo anche la percezione dei
dirigenti cinesi dell’importanza relativa del soft e dell’hard power e su quanto il primo
verrebbe danneggiato qualora l’importanza attribuita al secondo suscitasse preoccupazioni
e allarme non solo negli USA e nei suoi alleati, ma nei paesi dell’ASEAN e forse anche a
Mosca, provocandone la reazione.
92
CAPITOLO IV
I RAPPORTI FRA CINA E USA
Cooperazione e competizione. Bilateralismo, regionalismo e globalizzazione nel sistema
Asia-Pacifico
1. Il quadro geopolitico del sistema Asia-Pacifico ed i rapporti fra gli USA e la Cina
Il sistema Asia-Pacifico è costituito da due regioni geopolitiche: il Nord-Est e il
Sud-Est asiatico. Tra di esse la Cina occupa una posizione centrale sul continente e gli
Stati Uniti sull’Oceano Pacifico, dominato dalla 7ª Flotta, la più consistente della U.S.
Navy.
La prima regione è storicamente caratterizzata dalla rivalità fra la Cina e il
Giappone per la supremazia in Manciuria e nella penisola coreana. Quest’ultima è ancora
divisa dagli esiti del secondo conflitto mondiale. La Corea del Sud è formalmente un
solido alleato di Washington. Come tale, ha inviato un contingente militare in Iraq.
Tuttavia, i suoi legami con gli USA si sono allentati soprattutto da quando questi ultimi
hanno contrastato la sunshine policy di Seul, mirante alla riconciliazione delle due Coree
in vista della loro riunificazione. La Corea del Nord è retta da una rigida autocrazia
comunista, che mantiene il potere con un vero e proprio terrorismo di Stato all’interno e
con il ricatto nucleare all’esterno.
La sunshine policy di Seul metteva Pyongyang in notevoli difficoltà. Dopo aver
cercato inutilmente un negoziato bilaterale con gli USA – che Washington respinse per il
timore che tale approccio potesse “seminare zizzania” con Seul – e sotto rudi pressioni
cinesi, la Corea del Nord si è rassegnata al negoziato multilaterale “a sei” (che, oltre Cina,
Stati Uniti e le due Coree, ha incluso Giappone e Russia). Esso è pervenuto ad una
soluzione soddisfacente e forse duratura del contenzioso relativo al programma nucleare
nord-coreano. A medio-lungo termine si potrebbe modificare la stessa collocazione
geopolitica della penisola. Nel corso del negoziato, la Corea del Sud ha spesso sostenuto
le posizioni della Cina contro quelle degli Stati Uniti e del Giappone, considerato ancora
un arrogante, tradizionale nemico. Pechino non vuole però l’unificazione delle due Coree,
non tanto per la “solidarietà di sangue” che lo lega a quella del Nord, dall’intervento
nell’autunno 1950 contro la coalizione ONU a guida americana, quanto per non trovarsi a
fronteggiare le rivendicazioni territoriali su talune province cinesi, abitate da popolazioni
coreane, e soprattutto per non dover confinare con un nuovo potente Stato, che potrebbe
rimanere alleato degli USA. Infine, la riunificazione delle due Coree potrebbe stimolare
un riarmo del Giappone, che la Cina teme più di ogni altra cosa, consapevole com’è delle
potenzialità tecnologiche giapponesi.
Un altro fattore geopoliticamente rilevante nell’Asia del Nord-Est è rappresentato dal
tentativo della Russia di riprendere una certa influenza nella regione, avvalendosi della
potenza politica che le conferiscono le enormi riserve siberiane di petrolio e di gas
naturale. Tale tentativo, fatto con la brutalità che spesso contraddistingue la politica di
Putin, ha creato tensioni fra Mosca e Pechino. Esse emersero in superficie in occasione
della visita al Cremlino nella primavera 2007 del Presidente Hu Jintao. La Russia probabilmente per far “sentire” la propria presenza - aveva contrastato le pressioni cinesi
sulla Corea del Nord per indurla ad ottemperare alle decisioni prese dal “Gruppo dei Sei”.
Esse consistevano nell’interruzione da parte cinese dei rifornimenti a Pyongyang, di
petrolio e di gas naturale.
Mosca aveva invece “rotto” l’embargo cinese, determinando un forte risentimento a
Pechino. I rapporti russo-cinesi sono meno amichevoli di quanto sembri – specie quando
lo SCO effettua esercitazioni congiunte – per l’invidia della Russia per i successi della
Cina, per la preoccupazione per il crescente divario di potenza anche demografica a favore
di Pechino e per lo sforzo di Mosca di mantenere sotto il suo controllo i prodotti energetici
e le altre materie prime dall’Asia centrale. Pechino invece considera tale regione, fino al
Mar Caspio, come una propria “naturale” area d’influenza. Cerca di mantenere in essa una
forte presenza anche con la SCO (Shanghai Cooperation Organization). La considera
strategicamente critica poiché consente i rifornimenti di materie prime per via terrestre,
non vulnerabili come quelli marittimi.
La seconda regione geopolitica del sistema Asia-Pacifico è centrata sul Mar Cinese
meridionale e sulla questione di Taiwan. Include anche l’intera penisola indocinese, fino
al Golfo del Bengala. In tale area, si sviluppano le vie di comunicazione marittima vitali
per l’economia cinese (a parte quelle del Pacifico). Come nella regione del Nord-Est,
94
anche nell’Asia del Sud-Est non esistono istituzioni internazionali della saldezza di quelle
europee e atlantiche, cioè dell’UE e della NATO. La situazione è molto simile a quella
dell’Europa di fine XIX secolo, con rivalità non sopite e tensioni potenziali. È presente
solo un’associazione non molto robusta, del tipo OSCE (Organizzazione per la
Cooperazione e la Sicurezza in Europa) - l’ARF o l’ASEAN Regional Forum – e una serie
di accordi bilaterali e subregionali, che si interessano soprattutto di problemi economici.
Essi tendono a promuovere aree di libero scambio e a conferire all’Asia orientale una
presenza internazionale corrispondente all’importanza che hanno assunto la sua economia
e il suo commercio estero e l’entità delle sue riserve valutarie.
Negli ultimissimi anni, approfittando anche dalla “distrazione” USA nella guerra al
terrore, la Cina ha avuto la tentazione di cercare di diminuire la presenza americana nel
sistema Asia-Pacifico, rompendo l’unità dell’APEC e tracciando una specie di confine o
di “nuova cortina di ferro” a metà Pacifico. In tal senso vanno letti gli sforzi di Pechino di
creare una maggiore integrazione nel sistema “ASEAN PLUS THREE-APT” (cioè,
ASEAN più Cina, Giappone e Corea del Sud) e soprattutto con l’East Asia Summit-EAS,
comprendenti l’APT più l’Australia e la Nuova Zelanda. Tali tentativi sono stati sempre
contrastati, oltre che dal Giappone. anche dagli Stati asiatici sud-orientali, consapevoli che
la loro sicurezza nei confronti della crescente potenza cinese dipende dal sostegno e della
presenza americani. Vi è anche da dire che l’egemonia globale USA corrisponde
perfettamente agli interessi di breve termine della Cina, Stato che più di ogni altro si è
avvantaggiato della globalizzazione e sta attraversando un difficile periodo di
trasformazione politico-sociale ed economica. È perciò probabile che l’APEC mantenga la
sua unità e che Pechino non persegua obiettivi simili a quelli della “zona di co-prosperità
asiatica”, come fece Tokyo prima della seconda guerra mondiale 1 .
D’altro canto, il “multilateralismo istituzionale” nel settore della sicurezza è molto
limitato, dato anche che la potenza più forte è la Cina. Domina invece il nazionalismo,
spesso considerato una valvola di sfogo delle tensioni interne. In questo senso, tutta l’Asia
orientale – sia a Nord che a Sud – conosce nazionalismi più o meno latenti, che potrebbero
portare a tensioni e a conflitti. Però, a parte le difficoltà materiali per farla, la potenza
cinese è tanto rilevante e i legami economici con la Cina tanto importanti per tutti i paesi,
1
STRATFOR, Global Intelligence Brief, APEC: Taking the Lead on Trade, July 7th, 2007.
95
che non è ipotizzabile un’alleanza regionale per equilibrare l’“impero di mezzo”. Ciò
conferma l’indispensabilità della presenza di un attore esterno – gli Stati Uniti. Essa
conferisce unitarietà all’Asia orientale, collegandola con il Pacifico occidentale e con il
“cerchio esterno” di contenimento, rappresentato dal Giappone, dall’Australia e – dopo gli
accordi indo-americani sul nucleare civile e sul transfer di tecnologie militari avanzate –
anche dall’India. Il “cerchio interno” è costituito da paesi dell’ASEAN, in particolare da
quelli che più temono la potenza cinese. Pechino invece non dispone di alleati permanenti,
ma solo di amici occasionali, “da tempo sereno”. Ciò lo pone di fronte ad un dilemma. La
Cina deve dimostrare la sua potenza militare - anche per incutere rispetto a frenare
qualche spirito bellicoso, specie della U.S. Navy – ma, nel contempo, non deve spaventare
i vicini con la sua potenza. È sicuramente questo un motivo che ha spinto Pechino ad
enfatizzare la sua politica di stabilità e di pace 2 .
Nonostante la liberalizzazione economica, l’aumento del benessere e il sorgere di una
classe media di commercianti e di imprenditori, i regimi politici dell’Asia sud-orientale
rimangono in gran parte autoritari. Sono così contraddetti gli assunti del Washington
Consensus e i preconcetti politici diffusi in Occidente, in merito alle convergenze fra
sviluppo economico, formazione di una classe media, diffusione di istituzioni
democratiche e tutela dei diritti umani e della rule of law. Il Beijing Model, fondato sulla
convivenza tra autoritarismo politico e liberismo economico e sulla separazione fra
politica ed economia, è prevalente. Prodotto “naturale” dell’autoritarismo politico è il
nazionalismo, che cerca in esso la sua legittimazione, soprattutto quando essa non può
essere fondata sui successi economici. Esistono numerose rivalità, tensioni territoriali e
gelosie storiche fra i vari paesi. L’assenza di organizzazioni multilaterali robuste
impedisce ogni contrasto – come è avvenuto in Europa - alla frammentazione, che emerge
soprattutto nei momenti di crisi. Solo la forza della istituzioni collettive potrebbe frenare i
nazionalismi. L’obiettivo primo della politica USA dovrebbe consistere proprio nel
favorire l’emergere di tali istituzioni. La loro esistenza potrebbe poi facilitare
un’evoluzione interna verso la democrazia e l’assorbimento delle tensioni. L’APEC è
2
STRATFOR, Global Intelligence Brief, China: Molding Perceptions of Military Powers, September 18th,
2007.
96
troppo vasta per poterlo fare. Comunque, nel medio periodo, l’aumento della potenza
dell’India, permetterà un maggiore equilibrio almeno nell’Asia sud-orientale.
La Cina è al centro delle due regioni geopolitiche dell’Asia orientale. Storicamente le
ha dominate attraverso non tanto la conquista, quanto l’influenza dell’“impero di mezzo”.
Tutti i paesi dell’Asia orientale, sia a nord che a sud, hanno avuto e hanno tuttora interesse
a mantenere i più stretti rapporti di collaborazione e di amicizia con Pechino. E’ terminato
il periodo delle tensioni, durato fino al 1995. In quell’anno, il Presidente Jiang Zemin
aveva enunciato la politica del peaceful rise e aveva iniziato un avvicinamento sia
all’ASEAN che alla Corea e al Giappone. Tale processo si è esteso alla Russia con la
costituzione, nel 1996, del “gruppo dei cinque di Shanghai”, trasformatosi nel 2001 nello
SCO, con l’adesione dell’Uzbekistan. Precedentemente, su tutti i confini cinesi si erano
verificati scontri: con l’India, con la Russia e con vari paesi dell’ASEAN (Vietnam,
Filippine e Indonesia), sia a terra che in mare, soprattutto per il controllo dell’arcipelago
delle Spratley, nel Mare Cinese Meridionale, considerato importante un tempo per il suo
petrolio e oggi come base d’appoggio per il controllo degli Stretti della Malacca.
Di tale politica di garantirsi la sicurezza dei confini e di rivendicazioni territoriali fa
parte anche l’intervento a sostegno della Corea della Nord nell’autunno del 1950. A parte i
motivi già detti, secondo taluni esperti ed un’opinione largamente diffusa in Cina,
l’intervento dei “volontari” della PLA fu imposto da Mosca, anche con la promessa che,
contemporaneamente, l’URSS avrebbe esercitato pressioni militari in Europa. Che cioè la
solidarietà comunista avrebbe retto e che l’URSS non avrebbe lasciato la Cina - appena
uscita da una disastrosa guerra civile - a fronteggiare da sola la potenza americana.
L’obiettivo di tale “tradimento” di Mosca nei confronti di Pechino – evocato sempre più
frequentemente dai cinesi – sarebbe stato quello di contrapporre la Cina a Washington,
che stava riprendendo la sua tradizionale politica di alleanza e di buoni rapporti con la
Cina 3 , prendendo pragmaticamente atto che la vittoria di Mao Zedong sul Kuomintang
fosse irreversibile.
I rapporti fra Pechino e Mosca hanno sempre influito su quelli fra la Cina e gli USA.
Un avvicinamento fra Pechino e Washington provoca reazioni negative a Mosca, a Tokyo
3
James Mann, About Face: a History of America’s Curious Relations With China – From Nixon to Clinton,
Knopf, New York, 1999; Harry G. Gelber, The Dragon and the Foreign Devils: China and the World, 1100
B.C. to the Present, Walker, New York, 2007.
97
e a New Delhi. I rapporti di tutti tali Stati con Washington migliorano invece quanto più la
Cina si lega alla Russia.
Tali scontri alle frontiere sono ormai definitivamente cessati. Sotto il profilo
geostrategico la Cina si è così trasformata in un’isola 4 , pur rimanendo un grande Stato
continentale. È un’isola perché è sempre più integrata nell’economia internazionale e
dipendente per il rifornimento di materie prime - energetiche e non – e per i suoi
commerci dalla libera disponibilità delle SLOC (Sea Lines of Communications) sia verso
est – cioè quelle del Pacifico, che mettono la Cina in comunicazione con la costa orientale
degli USA e con l’America Latina – sia, e soprattutto, quelle ad ovest che – attraverso gli
Stretti della Malacca – la collegano con il Golfo, con l’Europa e con l’Africa, oltre che
con i paesi dell’ASEAN. I traffici marittimi riguardano oltre il 95% dell’import e
dell’export cinesi. Il grandioso piano infrastrutturale in corso dovrebbe farlo scendere in
vent’anni al 70%, di cui il 15% dall’Asia centrale (ora all’1%).
Anche la politica interna influisce su quella estera cinese. Ricorrenti nella storia cinese
sono due situazioni esterne, tra di loro competitive. La prima – impersonata nella
premiership di Jiang Zemin – è quella di dare massimo impulso alla crescita economica.
Ciò avvantaggia le regioni costiere rispetto a quelle dell’interno. Per resistere al potere
centrale, le regioni e grandi città costiere si appoggiano a Stati esteri, oltre a difendere con
accanimento la loro ricchezza e prospettive di crescita da Pechino. Il decentramento dello
sviluppo rischia di tradursi in tensioni e frammentazioni politiche, oltre che in un aumento
della presenza americana nella politica cinese. La seconda soluzione consiste nel
riequilibrare il sistema e nel ridistribuire la ricchezza della costa all’interno. Ciò implica
una minore apertura al mondo, una chiusura sia politica che economica, una
ricentralizzazione del potere e il sorgere di un forte nazionalismo ed anche di
un’aggressività esterna. Eccetto per questi ultimi aspetti, è la politica perseguita dal
Presidente Hu Jintao, preoccupato per le numerose rivolte nelle campagne, ma anche per il
rischio di frattura fra le classi dirigenti del PCC a livello centrale e quelle delle regioni
costiere, che non vogliono rinunciare alla loro ricchezza. Se la Cina graviterà sulla prima
4
STRATFOR, George Friedman, The Geopolitics of China, April 25th, 2006.
98
tendenza, i rapporti con gli USA saranno eccellenti. Se si affermerà maggiormente la
seconda tendenza, potrebbero sorgere tensioni e conflitti 5 .
2. Dalla geopolitica alla geostrategia
In un certo senso la situazione cinese è simile a quella della Germania del boom
industriale e commerciale di fine XIX secolo. Allora, le vie di comunicazione marittime
tedesche erano dominate dalla Royal Navy. Oggi, quelle cinesi sono controllate dalla U.S.
Navy, a cui si aggiungono le marine indiana, giapponese e quella dell’Australia (alleato
organico degli USA nel Pacifico, come la Gran Bretagna lo è nell’Atlantico). Data la
geografia con la doppia catena di isole e penisole che domina gli accessi oceanici della
Cina – oltre che per ritardo tecnologico militare nei confronti degli USA e del Giappone e forse anche dell’India – la Cina non può sperare di realizzare il sea control delle sue
SLOC. Forse non lo vuole neppure, per non far sorgere coalizioni anti-cinesi. Non può che
seguire una strategia navale limitata al sea denial – denominata comunemente di area
denial – per diminuire l’efficacia della potente Marina degli Stati Uniti soprattutto per
Taiwan, dissuadendo i gruppi portaerei ed anfibi della 7ª Flotta USA dall’accorrere a
sostegno dell’Isola, sicuri della loro invulnerabilità. Limitatamente a tale obiettivo, la
PLAN ha adottato una strategia navale simile a quella introdotta in URSS dall’Amm.
Gorshkov: rinunciare al contrasto della U.S. Navy in superficie, ma puntare sui
sommergibili, sui missili anti-nave a lunga gittata e su tecnologie asimmetriche, quali le
armi anti-satellitari e quelle cybernetiche. Le costellazioni di satelliti costituiscono un
moltiplicatore di potenza essenziale per l’efficacia della Marina statunitense e per la
dottrina USA della network centric warfare. È su di esse che la Cina punta, non tanto
perché consideri probabile o addirittura imminente uno scontro con gli USA, ma perché
intende realizzare un certo “equilibrio degli squilibri” anche in campo militare, volto ad
evitare che a Washington prevalga la linea “dura” di confronto con la Cina, anche per
quelli che Pechino considera suoi interessi nazionali essenziali.
5
STRATFOR, Peter Zeihan, Dissecting the Chinese Miracle, December 29th, 2006; vds. anche James
Kynke, China Shakes the World: A Titan’s Breakneck Rise and Troubled Future – And the Challenge for
America, Houghton Mifflin, 2006.
99
In tale senso vanno “letti” i messaggi strategici 6 inviati dalla Cina agli Stati Uniti.
Primo, lo sviluppo di una poderosa flotta sottomarina (che sta raggiungendo le 70 unità) e
di missili balistici e anti-nave a lunga gittata, tra cui il supersonico missile anti-nave
acquisito dalla Russia SS-N-22 Sunburn. Secondo: l’esperimento ASAT, del gennaio
2007, che distrusse con impatto diretto a quasi 850 km di altezza un vecchio satellite
meteorologico, nonché lo sviluppo di armi anti-satellitari laser e ad impulso
elettromagnetico (EMP).
Lo sviluppo delle capacità cinese anti-U.S. Navy si ispira largamente alle concezioni
dell’Ammiraglio russo Gorshkov. Si è consapevoli che la Cina non sarà mai in grado di
sfidare in superficie la poderosa flotta USA per realizzare un sea control regionale o
globale. Deve invece puntare sull’area denial fondato sul progressivo ampliamento del
“confine marittimo mobile” cinese, in relazione al potenziamento delle capacità militari
cinesi, non solo nella sua componente marittima, ma anche in quella aerea, satellitare ed
elettronica.
Tali orientamenti della pianificazione cinese non significano che Pechino ritenga
inevitabile un conflitto con Washington. La creazione di un certo equilibrio militare anche
se asimmetrico – basato sulle capacità ASAT – che colpiscono la forse maggiore
vulnerabilità della flotta americana – e su quelle di area denial progressivamente ampliate
dalla 1ª catena di isole (Okinawa, Taiwan, Spratley) alla 2ª catena (Giappone, Guam,
Filippine, Stretti della Malacca) verosimilmente costituisce solo una misura puramente
difensiva, in grado di inviare a Washington e ai paesi geostrategicamente confinanti con la
Cina (Giappone, Australia e India) un messaggio sostanzialmente conciliante. Con esso
Pechino comunica di poter fondare la sua cooperazione solo su un ragionevole equilibrio,
che impedisca a potenze esterne – in pratica agli Stati Uniti – di ricorrere a pressioni
umilianti per Pechino, quali fu nel 1995-96 l’invio di due gruppi portaerei americani nello
Stretto di Taiwan.
La Cina non ha sviluppato almeno per ora portaerei, pur avendo acquistato dalla
Russia una trentina di Sukhoi 33, versione navalizzata sul Su 30. Vi ha rinunciato, almeno
per ora, nonostante il fatto che la Marina indiana programmi di acquisire ben quattro
portaerei
6
e
il
Giappone
mini-portaerei,
pudicamente
denominate
“incrociatori
STRATFOR, Chinese Military Messages, February 11th, 2007.
100
portaelicotteri”. Il fatto stesso di aver trasformato in ristoranti e luoghi di divertimento due
portaerei ex-sovietiche la dice lunga sulla finezza e sofisticazione a cui ricorre Pechino per
non preoccupare i propri vicini.
Anche se è sempre difficile formulare previsioni sul futuro a medio-lungo termine,
appaiono infondate le affermazioni delle “Cassandre strategiche” statunitensi, secondo cui
la Cina perseguirebbe una politica di potenza tradizionale, intesa ad allargare
progressivamente la sua presenza navale negli Oceani Pacifico e Indiano, anche a costo di
un conflitto con Washington. Le Cassandre aggiungono alla 1ª e 2ª catena di isole, una
terza. Essa svilupperebbe dalle Aleutine, alle Hawaii e alla Nuova Zelanda, per spingersi
nell’Oceano Indiano, fino ad includere Indonesia, Sri Lanka e il Mare Arabico, dove la
Cina sta costruendo una base navale sulle coste del Baluchistan pakistano. Oltre i rapporti
di forza, è la geografia ad impedire alla Cina di divenire una superpotenza globale in
grado di sfidare gli USA. Infatti, le coste cinesi sono circondate da basi americane e da
alleati degli USA. Un confronto con gli Stati Uniti avrebbe conseguenze disastrose per
l’economia cinese (oltre che per i consumatori americani, che comprano prodotti cinesi a
buon prezzo e che vedono parte consistente del proprio twin deficit finanziato dalla Cina).
Gli USA potrebbero sopportarne gli effetti, poiché essi sarebbero meno disastrosi di quelli
che colpirebbero l’economia cinese.
In sostanza, il “pericolo giallo”, la minaccia cinese alla pax pacifica o il “secolo
cinese” sembrano solo ipotesi irrealistiche, finalizzate soprattutto a sostenere un aumento
delle spese militari USA, facendo balenare il rischio di perdere la superiorità globale che
oggi Washington possiede.
I diversi settori dell’Amministrazione statunitense lanciano alla Cina segnali
contraddittori. Il Pentagono, con il suo annuale rapporto al Congresso sulla potenza
militare cinese 7 , è portato ad evidenziare l’aumento della potenza militare, la scarsa
trasparenza del bilancio, nonché gli aspetti più aggressivi della politica cinese. Ad
esempio, si insiste sulle dichiarazioni del Direttore dell’Accademia Militare della PLA in
merito alla necessità della Cina di modificare la strategia non solo del no first use, ma
anche del no first strike nucleari; oppure le affermazioni del Presidente Hu Jintao, circa la
necessità di potenziare la Marina; oppure ancora la “legge antisecessione”, che autorizza
7
Report to the Congress on China Military Power, The Pentagon, Washington D.C., December 2006.
101
la PLA ad attaccare Taiwan in caso di rischio della dichiarazione di indipendenza
dell’isola; oppure infine l’aumento dei bilanci militari e il ritardo dell’inizio delle
discussioni sulle rispettive dottrine nucleari 8 , che erano state concordate fra i Presidenti
Bush e Hu Jintao, nella sua visita a Washington del 2006.
La Cina non redige un documento del tipo della National Security Strategy of the U.S..
Pubblica però, dal 1998, un Libro Bianco della Difesa (l’ultima edizione è del dicembre
2006), in cui vengono valutati sia “la potenza nazionale globale”, relativa agli altri paesi in pratica agli Stati Uniti e ai loro alleati - sia “la configurazione strategica della
potenza” 9 , cioè i rapporti di forza militari. In questi documenti è sottolineato che il
maggior pericolo che corre la Cina è la frammentazione della sua unità nazionale e la
perdita del controllo sull’Inner Asia, cioè sul Tibet, il Sinkiang (o Est Turchestan) e sulla
Mongolia, nonché il pericolo e le sfide derivanti dal crescente divario fra ricchi e poveri,
fra le regioni costiere e quelle interne. Viene anche affermata implicitamente la difficoltà
dalla convivenza del regime comunista con il liberismo di un’economia forse più aperta
del mondo.
I dirigenti cinesi sono anche preoccupati dei limiti del soft power usato dalla Cina per
accrescere la propria influenza, per garantirsi l’accesso alle materie prime necessarie per il
suo sviluppo e anche per contrastare possibili tentativi di accerchiamento o di
contenimento da parte degli Stati Uniti. Le loro critiche all’unipolarismo e
all’unilateralismo americani sono attenuate dal fatto che la Cina ha necessità assoluta di
un contesto internazionale stabile per poter continuare a crescere. Senza crescita è in gioco
la stessa sopravvivenza del regime comunista. Come si è ricordato, nei prossimi vent’anni
la Cina conoscerà uno spostamento “biblico” di popolazione. Almeno 300 milioni di
persone si trasferiranno dalle campagne alle città e dovrà procedere ad una ridistribuzione
della ricchezza anche per frenare le crescenti rivolte rurali (quasi centomila nel 2006).
Tutto ciò richiede una crescita economica elevata (almeno del 7-8% all’anno), ma
territorialmente più equilibrata fra le coste e l’interno. I due obiettivi sono contraddittori
fra di loro, dato che le regioni costiere più ricche ed integrate nell’economia
internazionale non solo non intendono rinunciare alla loro crescita, ma neppure trasferire
8
Bill Gertz, China Arms Talks – Reciprocity Stalled, The Washington Times, June 14th, 2007.
AAVV, China Debates the Future Security Environment, National Defense University, Fort McNair,
Washington D.C., 2000.
9
102
la loro ricchezza alle zone dell’interno e ad aumentare il potere centrale rispetto ai poteri
devoluti alle periferie.
L’XI Piano Quinquennale, approvato a fine 2006, illustra chiaramente tali priorità e
conferma che la geopolitica cinese continuerà ad essere polarizzata e condizionata dai
problemi interni. I dirigenti cinesi ne sono consapevoli. Sanno anche che non possono
sfidare, ancora per decenni, la potenza degli Stati Uniti. Cercano perciò un accordo con
essi, che beninteso salvaguardi gli interessi nazionali fondamentali della Cina e anche il
suo “onore” e prestigio. Il significato dei “messaggi militari” 10 inviati dalla Cina agli Stati
Uniti (ad esempio, ASAT, legge antisecessione, affermazioni contro le strategie del no
first use e no first strike nucleari) è che la Cina non vuole essere aggressiva, ma che la sua
stessa dignità ed autoimmagine richiedono che gli USA siano cauti e moderati e tengano
conto dei suoi interessi. Per inciso, analoghe sono le reazioni della Cina alle tendenze
protezioniste del Congresso, invano contrastate dall’Amministrazione Bush, e a talune
forme di bashing China (molto simile a quelle del bashing Japan degli anni ottanta),
sempre più frequenti negli USA.
Non è escluso che la ricentralizzazione del potere determini l’esigenza di avere un
nemico. Ad esempio, nella situazione di crisi intervenuta con il cambio dei dirigenti cinesi
della 3ª generazione con quelli della 4ª 11 , le autorità hanno contribuito a suscitare
polemiche con il Giappone, pur mantenendo ottimi rapporti di cooperazione economica
con Tokyo. La Cina è stata immediatamente disponibile a modificare il suo atteggiamento,
allorquando è avvenuto il cambio della leadership giapponese fra i primi ministri Koizumi
e Abe.
La Cina cerca non solo di utilizzare la presenza strategica statunitense in Asia – ad
esempio per evitare coalizioni anti-cinesi e il riarmo nucleare del Giappone; lo spettro
della rinascita del militarismo giapponese è ripetutamente agitato – ma anche di limitarla,
promuovendo un regionalismo asiatico orientale.
Tale regionalismo è stato finora “aperto” anche per le pressioni esercitate sulla Cina
dagli Stati asiatici più legati agli USA (Giappone, Australia e anche Singapore). Si
contrappone però all’APEC, che tende a formare un’unica grande area di cooperazione
10
IISS, Chinese Military Messages, Strategic Comments, Volume 13, Issue 1, London, February 2007.
Robert G. Sutter, China’s Rise. Implications for U.S. Leadership in Asia, Policy Studies 21, East-West
Centre, Washington D.C., 2006.
11
103
economica – e non solo – fra le Americhe, l’Oceania e l’Asia orientale. Un rafforzamento
da un lato dell’APEC e dall’altro dei legami prima economici e poi politici fra USA e
Cina (ad esempio attraverso il c.d. “Dialogo Economico Strategico”, riunione semestrale
ad alto livello tra USA e Cina) 12 , potrebbe costituire la soluzione preferita dai fautori di
una collaborazione più organica e al limite di un’alleanza, almeno informale, fra gli USA
e la Cina, per la costruzione, la gestione e la difesa dell’ordine mondiale della
globalizzazione, tanto vantaggioso per entrambi i paesi.
Si determinerebbe così un nuovo ordine – quello di “Chimerica”, termine che
sintetizza China and America – fondato sulla trasformazione della Cina – come aveva
suggerito il Vice sottosegretario di Stato Robert Zoellick – in uno “stakeholder
responsabile” del nuovo ordine mondiale e, quindi, alleato di fatto degli USA. Esso
costituisce uno dei filoni fondamentali di come gli Stati Uniti vedono la Cina (e
viceversa), come potenza strutturalmente amica, anche se potenzialmente avversaria 13 . Per
renderla ancora più cooperativa, sarebbe però necessario costituire istituzioni
internazionali “forti” anche in Asia, in modo da consentire a Washington di influenzare le
priorità politiche cinesi e a Pechino quelle di Washington. Qualora invece la situazione
dovesse farsi tesa – anche per una crisi economica in Cina – non vi sarebbe alternativa ad
una politica di contenimento e di confronto della Cina. Il futuro del mondo dipenderà da
come Washington e Pechino riusciranno a trovare un punto di equilibrio fra tali visioni
politiche contrapposte, ma conciliabili fra di loro. Per ora danno “un colpo al cerchio e
uno alla botte”, seguendo contemporaneamente tali due politiche contraddittorie fra di
loro. A lungo andare, esse potrebbero però divenire incompatibili fra di loro.
3. Visioni contrapposte della Cina dominanti negli Stati Uniti
La Cina non è mai stata nettamente né amica né nemica degli Stati Uniti. Nella storia
hanno prevalso però rapporti di amicizia e collaborazione. Tale ambiguità – peraltro
comune a quasi tutti gli Stati - esiste tuttora. Da un lato, la Cina è un indispensabile
12
STRATFOR, Rodger Baker, The Strategic Economic Dialogue as a Tool for Managing Relations, May
22nd, 2007.
13
Francis Fukuyama, Re-Envisioning Asia, Foreign Affairs, January-February, 2005, pp. 75-87.
104
partner economico e commerciale, pilastro della globalizzazione liberale, con cui gli USA
possono collaborare e hanno anche un interesse essenziale a farlo. Dall’altro, può essere
considerata come un potenziale avversario da isolare e contenere, in quanto potrebbe non
solo far cessare la supremazia degli USA nel Pacifico occidentale, ma anche
compromettere la sicurezza di loro importanti alleati.
Washington è comunque ben consapevole che nessuno Stato asiatico - Giappone e
Australia inclusi – sarebbe disponibile a sostenerli in una coalizione esplicitamente anticinese. Ciò in relazione alla centralità che l’industria, la finanza e il commercio cinesi
hanno per l’intera Asia orientale. Una coalizione diventerebbe possibile solo in caso di
inequivocabile aggressione cinese, che Pechino non sembra affatto intenzionata a fare,
anche per i vantaggi che gli consente la politica del peaceful rise e l’esercizio del suo soft
power. Contrasti potrebbero sorgere per la contrapposizione fra il Beijing e il Washington
Consensus e per il fatto che il primo ostacola l’attuazione delle politiche americane in
Africa, America Latina e anche in Medio Oriente.
D’altro canto, gli USA sono ben consapevoli non solo dell’impossibilità di
sconfiggere la Cina con un attacco terrestre - ma anche del fatto che embarghi e blocchi
navali – pur teoricamente possibili – sarebbero disastrosi non solo per la Cina, ma per
l’intera economia globalizzata e per gli stessi USA. Non esiste quindi altra soluzione che
quella di coinvolgere la Cina in modo collaborativo, rafforzando i legami già esistenti con
gli Stati Uniti attraverso la costituzione di istituzioni internazionali più forti, in particolare
attraverso il rilancio e il rafforzamento dell’APEC. Pechino verrebbe così associato a
Washington come membro responsabile del nuovo ordine mondiale, che seguirà la fine
della guerra al terrorismo.
La coesistenza della concezione della Cina come partner non solo economico, ma
anche geopolitico, e di quella che la considera avversario potenziale e prossimo nemico, è
evidentemente molto difficile. Non può avvenire in modo esplicito, ma solo con una
considerevole dose di flessibile ambiguità. La composizione delle due visioni della Cina è
poi difficile anche per altri motivi. Il primo è che un rafforzamento dei legami degli Stati
Uniti con la Cina emarginerebbe il Giappone, come alleato “speciale” degli USA in Asia,
a cui molti americani - fautori della “dottrina Armitage” - vorrebbero riservare un ruolo
simile a quello giocato dalla Gran Bretagna in Europa. In secondo luogo, “Chimerica” –
105
simile all’intesa sino-americana che Nixon e Kissinger promossero nel 1972 in funzione
anti-sovietica, trasformando in vittoria politica la disfatta del Vietnam – provocherebbe un
avvicinamento a Mosca dell’India, entrata invece a far parte della cintura USA di
contenimento della potenza cinese e che Washington spera sempre di poter avere alleata,
anche per promuovere la stabilità nel Golfo. Anche i paesi dell’ASEAN sostanzialmente si
avvantaggerebbero di tale accordo. Esso infatti consoliderebbe la stabilità strategica
dell’Asia sud-orientale e, forse, faciliterebbe una soluzione pacifica della vertenza su
Taiwan. In terzo luogo, le due visioni della Cina (e dei rapporti fra USA e Giappone)
trovano divise le istituzioni americane. Nel Pentagono prevale quella della Cina come
potenziale avversario - illustrata nei rapporti annuali che presenta al Congresso sulla
potenza militare cinese - mentre nel Dipartimento di Stato, del Tesoro e del Commercio
prevale la visione opposta. Tale divisione esiste anche fra la Casa Bianca e il Congresso.
La prima, più portata a considerare gli interessi americani generali e di lungo termine, è
stata, almeno negli ultimi anni, favorevole ad un’intesa con la Cina, soprattutto da quando
essa si è dimostrata un partner responsabile nel “negoziato a sei” con la Corea del Nord e
nella guerra al terrorismo. Il secondo è più legato agli interessi a breve termine delle
lobbies che tanto influenzano i suoi orientamenti. È più protezionista e più disponibile a
polemizzare con la Cina per l’enorme passivo commerciale americano, che attribuisce al
dumping permesso dalla sottovalutazione del renmimbi/yuan 14 .
Tale contrapposizione tra una strategia “nippo-centrica” e una “sino-centrica” è
sintetizzata in due “dottrine” fatte risalire a due Vicesegretari di Stato. La prima è
attribuita a Richard Armitage; la seconda a Robert Zoellick, oggi Presidente della Banca
Mondiale. L’interrogativo fondamentale riguarda la compatibilità o no delle due visioni,
se cioè sia possibile considerare la Cina al tempo stesso partner e avversario (o peer
competitor come lo denominano i neoconservatori americani). In entrambe va considerato
anche il ruolo del Giappone e i suoi “rapporti speciali” con gli Stati Uniti. Cioè, se il
rafforzamento dei legami fra gli Stati Uniti e il Giappone, considerato un partner
essenziale degli Stati Uniti in Asia – e in futuro anche nel mondo – sia compatibile con il
mantenimento dei buoni rapporti con la Cina e ne possa anche facilitare la trasformazione
14
James J. Przystupa e Phillip C. Saunders, Vision of Order: Japan and China in U.S. Strategy, Strategic
Forum n. 206, Institute for National Strategic Studies, National Defense University, Fort McNair,
Washington D.C., June 2006.
106
interna in senso democratico, per renderla un partner più stabile e sicuro per il
mantenimento del nuovo ordine mondiale.
Nella “dottrina Armitage”, viene data una netta priorità all’alleanza con il Giappone e
alla partecipazione attiva di Tokyo al mantenimento dell’ordine mondiale. Esse sono
considerate premesse indispensabili per convincere Pechino dell’impossibilità di
perseguire una politica di egemonia in Asia orientale, dato che non potrà, almeno fino alla
metà del XXI secolo, uguagliare la potenza economico-finanziaria e militare di
un’alleanza nippo-americana. Ne consegue anche l’impossibilità per la Cina di perseguire
una politica di regionalizzazione economica e strategica asiatica, che escluda gli Stati
Uniti o che ne limiti l’influenza economica, a premessa di una loro esclusione anche
politico-strategica. La strategia “nippo-centrica” fu elaborata da un gruppo di lavoro
copresieduto da Armitage e da Joseph Nye ed esposta in un documento del 2000 della
National Defense University 15 . Esso fu preso come riferimento nel programma elettorale
del Presidente Bush, che nutrì, fino all’11 settembre 2001, grosse riserve nei riguardi
dell’aumento della potenza cinese. Tale percezione è riflessa nella Quadrennial Defence
Review dell’ottobre 2001 e nella National Security Strategy del settembre 2002, seppure in
quest’ultimo documento con toni molto sfumati, dato il sostegno che Pechino stava dando
a Washington nella guerra al terrorismo.
In contrapposizione completa della “dottrina Armitage” si pone quella “Zoellick”,
Vice Segretario di Stato fino al giugno 2006. Le sue dimissioni - forse dovute al fatto di
non esser stato nominato Segretario del Tesoro, quando John Snow venne sostituito da
Henry Paulson - furono interpretate come segno della prevalenza dei sostenitori dello
scenario “Cina come minaccia” 16 . Zoellick sostiene che la Cina debba essere convinta a
divenire uno “stakeholder responsabile” del nuovo ordine mondiale.
Zoellick si pone nella scia della grande tradizione filocinese della politica estera
americana. I suoi maggiori esponenti erano stati i presidenti Franklin D. Roosevelt e
Richard Nixon. Il primo considerava la Cina come un attore essenziale per ogni stabilità in
Asia, con cui gli USA avrebbero dovuto mantenere relazioni di stretta collaborazione. A
tal fine, aveva voluto che Pechino divenisse membro permanente del Consiglio di
15
The United States and Japan: Advancing Towards e Mature Partnership, Special Report, Institute of
National Strategic Studies, National Defence University, Fort McNair, Washington D.C., October 2000.
16
STRATFOR, Geopolitical Diary: Washington Staffs for a New View Of China, June 21st, 2006.
107
Sicurezza. Nixon, dal canto suo, aveva considerato che l’apertura alla Cina e la sua
alleanza di fatto con gli USA costituissero elementi essenziali per la vittoria nel confronto
bipolare con l’URSS, privandola dei benefici che aveva conseguito Mosca per la disfatta
USA in Vietnam.
I presidenti Carter e Reagan avevano seguito il medesimo orientamento, decidendo
anche di rafforzare il potenziale militare cinese con un allentamento degli embarghi sulle
tecnologie strategiche critiche. Anche Clinton aveva cercato, dopo le tensioni del 1995-96
relative a Taiwan, di stabilire una partnership strategica costruttiva con Pechino 17 . Fino
all’11 settembre, il Presidente Bush – come ricordato – mantenne nei riguardi della Cina
una posizione di cautela, se non di sospetto. Essa si attenuò notevolmente per il sostegno
che la Cina dette alla “guerra al terrorismo”, ma riprese per la dura opposizione cinese al
programma americano di difesa antimissili e all’intervento in Iraq. Prevalse il sospetto che
la Cina volesse sfidare l’egemonia americana ed escludere gli USA dall’Asia con
iniziative regionali, del tipo dell’East Asia Summit 18 , dell’area di libero scambio CinaASEAN e dell’East Asia Summit, dividendo gli USA dall’Asia a metà del Pacifico e
determinando la fine dell’APEC 19 .
A poco a poco, tali sospetti diminuirono. Gli USA si resero conto che “nell’equilibrio
degli squilibri” esistente nell’economia globale la Cina era un attore determinate. Furono
esercitate forti pressioni sia sul Pentagono, che sui centri studi più conservatori, come
l’Heritage Foundation, perché diffondessero una visione più moderata del futuro della
Cina 20 .
Tale mutamento, volto a migliorare i rapporti con la Cina ed a coinvolgerla negli affari
mondiali, è sostenuto dall’attuale Segretario del Tesoro, Henry Paulson. Egli si avvale
dello strumento degli incontri bilaterali semestrali ad alto livello, voluti da Zoellick,
17
Gli ottimi rapporti con il Partito Democratico, a cui corrispondevano grosse riserve cinesi nei riguardi di
quello Repubblicano, sono indubbiamente all’origine del supporto finanziario dato dalla Cina alle campagne
elettorali di Clinton e Al Gore. Con il protezionismo del Congresso a maggioranza democratica, le posizioni
si sono quasi invertite. Molti Congressmen danno priorità ad interessi contingenti e “populistici” delle loro
costituencies rispetto a quelli generali degli Stati Uniti.
18
IISS, The East Asia Summit - Towards a Community or a Cul de Sac? Strategic Comments, vol. 11, Issue
10, December 10th, 2005.
19
C. Fred Bergsten, Toward a Free Trade Area of the Asia-Pacific, remarks at the APEC CEO Summit,
Santiago del Cile, November 19th, 2004; ibidem, Embedding Pacific Asia in the Asia Pacific: The Global
Impact of an East Asian Community, Speech at the Japan National Press Club, Tokyo, September 2nd, 2005.
20
Robert S. Ross, Assessing the China Threat, in The National Interest, Fall 2005, pp. 81-87.
108
denominati “Dialogo Strategico Economico” (SED). Nell’ultimo incontro, tenutosi a
Washington nel maggio 2007 21 , sono state rilanciate da parte sia americana che cinese
molte proposte di collaborazione. Sempre più i SED stanno divenendo uno strumento
essenziale per gestire le relazioni bilaterali sino-americane e per superare eventuali
malintesi.
Risulta che, nella riunione del SED prima citata, non si sia parlato solo di economia,
ma anche di difesa antimissili e di armi antisatellite (ASAT). La stessa percezione del c.d.
“pericolo giallo” è divenuta più realistica 22 .
Negli USA cresce la consapevolezza della vulnerabilità strategica della Cina, potenza
continentale che dipende sempre più dalle vie di comunicazione marittima, sulle quali non
è in grado di esercitare un sea control. Gli USA sono poi sempre più consci delle
preoccupazioni cinesi circa possibili disordini interni, dovuti alle tensioni fra ricchi e
poveri, fra città e campagne e fra le regioni costiere e quelle dell’interno. Si sono poi resi
conto della fragilità del sistema finanziario cinese, che potrebbe non solo bloccare la
crescita, ma anche far precipitare la Cina in una crisi simile a quella asiatica del 1997 23 .
Anche le ultime valutazioni circa la compatibilità fra le due dottrine “Zoellick” e
“Armitage” sembrano positive. Rispetto alla National Security Strategy del 2002, quella
del maggio 2006 24 non afferma più il rischio di un conflitto con la Cina e il carattere
prioritario dell’alleanza con il Giappone né, tanto meno, il sostegno incondizionato degli
USA a Tokyo nella sua disputa con Pechino circa il possesso delle isole Senkaku/Diaoyu.
La posizione è molto più equilibrata e riconosce che il supporto giapponese – anche se
Tokyo abolisse le sue limitazioni costituzionali all’impiego della forza – sarebbe
insufficiente a compensare la mancata collaborazione della Cina. Beninteso, per poterne
usufruire, gli USA devono attenuare le critiche alla Cina per l’assenza di democrazia, per
la scarsa tutela dei diritti umani e, più in generale, il bashing China in ragione del suo
dumping commerciale, quale la minacciata imposizione di un dazio del 27% alle
importazioni negli Stati Uniti di prodotti cinesi. Per inciso, tale misura non risolverebbe il
21
Rodger Baker, The Strategic Economic Dialogue, cit.
STRATFOR, Gorge Friedman, U.S. Perception of a Chinese Threat, Geopolitical Intelligence Report,
May 31st, 2006.
23
George Friedman, Implications, Strategic Forecasting, June 21st, 2006.
24
whitehouse.gov/nss/2006/nss2006.pdf
22
109
problema degli squilibri commerciali (peraltro essenziali per finanziare il doppio deficit
USA). Essi continueranno a persistere fino a che prevarrà un’economia export-led – cioè
quella di Jiang Zemin - su quella – sostenuta nell’XI Piano Quinquennale e da Hu Jintao –
che dovrebbe essere trainata dai consumi interni.
“Chimerica” sembra oggi molto meno una “chimera” di quanto venisse considerata
qualche anno fa. In particolare, richiede l’abbandono da parte americana della pretesa di
democratizzare il mondo e di poter imporre anche alla Cina – Stato che si crede anch’esso
“eccezionale” – il loro manifest destiny e i loro valori.
Pechino teme anche l’effetto destabilizzante di una possibile “rivoluzione colorata”,
stimolata da ONG americana nei suoi riguardi. Lo dimostra la sensibilità dimostrata nei
confronti della campagna condotta soprattutto da Amnesty International contro le imprese
sponsor delle Olimpiadi di Pechino del 2008, con lo slogan “Olimpiadi del genocidio”, in
riferimento a quello in corso nel Darfur e al sostegno dato da Pechino al governo
sudanese. C’è da augurarsi che tale proposta di boicottaggio non venga effettuata da
qualche irresponsabile personalità politica europea
4. “Chimerica”: fattori positivi e negativi
Generalmente le relazioni internazionali vengono “lette” con l’ottica propria del
“paradigma realista”, in cui la competizione per il potere e fra gli interessi nazionali è
naturale. In termini relativi, il potere è un “gioco a somma zero”, anche se in termini
assoluti, le sue variazioni possono essere a somma diversa da zero, positiva o negativa. La
Cina ha indubbiamente approfittato della “distrazione” degli USA nella guerra al terrore,
della crescita dell’antiamericanismo nel mondo e del calo del prestigio subito dalla
“moralità internazionale” americana. Ha sfruttato a proprio vantaggio anche gli effetti
negativi del Washington Consensus e degli interventi della Banca Mondiale e del Fondo
Monetario Internazionale nella crisi finanziaria asiatica del 1997-98. Pur essendo un
vincitore della globalizzazione si è posta dalla parte dei vinti, per espandersi soprattutto in
Africa e in America Latina. Pechino propone con il suo esempio un modello di sviluppo
accelerato, permesso dal mantenimento di un regime autocratico, che riesce a gestire le
110
trasformazioni socio-economiche senza provocare traumi politici. Tale modello è stato
apprezzato da molti governi. Nei suoi rapporti con gli altri Stati, la Cina separa nettamente
l’economia dalla politica e dall’ingerenza negli affari interni degli Stati. La sua
cooperazione economica non è subordinata a condizionalità politiche o etiche, quale il
rispetto dei diritti umani e delle norme internazionali. Pechino ha perciò eroso il “potere”
– o, almeno, l’immaginario del potere – americano. Il suo soft power 25 le ha fatto
guadagnare molta influenza e anche qualche simpatia. La sua diplomazia, pur inflessibile
sui problemi di principio e nella difesa degli interessi nazionali cinesi, è abile, capace di
sfruttare tutte le opportunità e volta, innanzitutto, a garantire alla Cina gli
approvvigionamenti di materie prime e gli sbocchi commerciali indispensabili per la sua
crescita economica. Quest’ultima – va ancora ricordato – condiziona la sopravvivenza
stessa del regime comunista. Tale politica “disinvolta” la porta però a sostenere anche i
regimi più tirannici e sanguinari. Per tale motivo, la Cina si è trovata spesso in rotta di
collisione con gli USA non solo nel campo del mutamento democratico dei regimi politici,
ma anche in quello dell’approvvigionamento delle materie prime, specie energetiche.
Da parte sia di Pechino che di Washington i contrasti non sono stati però esasperati.
Anzi, si sono sempre ricercati – e trovati – compromessi pragmatici, sicuramente per la
persuasione dell’esistenza di interessi di fondo comuni. Un’istituzionalizzazione –
possibilmente multilaterale - di tali rapporti potrebbe rendere più organica la
collaborazione secondo i lineamenti espressi dalla “dottrina Zoellick”. Potrebbe anche
facilitare i mutamenti interni in Cina, poiché il PCC avrebbe minori possibilità di ricorrere
alla “carta nazionalista” per rafforzare il suo potere, in caso di crisi economico-sociale.
Esiste già il grave rischio che essa venga giocata nelle regioni interne qualora il governo
centrale non riuscisse a svilupparle ridistribuendo la ricchezza di quelle costiere. Le
difficoltà che Hu Jintao sta affrontando sono enormi, come dimostrano la spietata
applicazione della legge anticorruzione e il licenziamento di 170.000 funzionari. Esse
sono complicate dal fatto che gli interessi dello stesso PCC – e anche dalla PLA – sono
diversi a livello centrale e a livello periferico. Potrebbero comportare uno scontro, che
causerebbe un rallentamento o un arresto della crescita, se non rivolte sociali sia
25
Chong-Pin Lin, Bejing’s New Grand Strategy: An Offensive With Extra-Military Instruments, China Brief,
vol. 6, issue 24, The Jamestown Foundation, December 6th, 2006.
111
all’interno – in caso di fallimento delle riforme - sia nelle regioni costiere, qualora esse
dovessero venire attuate.
La ripresa della Russia e la sua politica più attiva non solo in Asia centrale, ma anche
nell’Estremo Oriente costituisce un fattore che favorisce il riavvicinamento strategico
sino-americano.
Tentativi di contrasto potrebbero invece originarsi in Giappone. Tokyo è scettico sul
ruolo che può giocare la Cina per il consolidamento e la gestione di un ordine mondiale.
Nega la possibilità che il suo coinvolgimento esterno possa contribuire alla
democratizzazione della Cina. È contrario al dichiarato rispetto che gli USA dovrebbero
riservare agli interessi cinesi, base della “dottrina Zoellick”. Critica il fatto che non è
precisato quali essi siano e come reagiranno gli Stati Uniti qualora essi non coincidessero
con i loro principi ed interessi o con quelli dei loro alleati. I giapponesi sono
evidentemente preoccupati che, per ottenerne il sostegno, gli USA diano preferenza alla
Cina rispetto al Giappone. Se i legami sino-americani divenissero più stretti, il Giappone
perderebbe la sua attuale importanza per gli USA. Tokyo perciò preferirebbe che la
politica USA seguisse la “dottrina Armitage”. E’ anche per questo che il Giappone, pur
continuando collaborare con la Cina – divenuta il suo primo partner commerciale e luogo
privilegiato per gli investimenti e per la delocalizzazione delle industrie giapponesi –
tende a ricordare in ogni occasione la minaccia, almeno a lungo termine, rappresentata
dalla Cina, e il rischio di un confronto militare nello Stretto di Taiwan. Cerca cioè di
sottolineare quanto divide gli USA dalla Cina, non quello che li unisce.
Beninteso, anche la Russia e l’India sono preoccupate di un avvicinamento degli Stati
Uniti alla Cina. L’UE è invece indifferente, un po’ perché ha rinunciato a gestire le sorti
del mondo, limitandosi a fare affari, un po’ perché non ha gli strumenti necessari per
influire sia sulla situazione del sistema Asia-Pacifico sia sulle decisioni di Washington e
tanto meno su quelle di Pechino.
Si è verificata un’ampia convergenza di vedute – nella SED di Washington del maggio
2007 e nella riunione dei ministri degli esteri dell’APEC in Australia due mesi dopo (6
luglio 2007) 26 – e una forte volontà di collaborazione, con l’obiettivo di riassorbire gli
26
STRATFOR, APEC: Taking the Lead on Trade, Global Intelligence Brief, July 6th, 2007.
112
squilibri esistenti fra l’economia americana e quelle asiatiche. L’APEC, che sembrava
agonizzante si è ripresa anche nel Summit del 8-9 settembre.
Dalle riunioni prima citate, oltre che una rivitalizzazione dell’APEC, emerse anche la
tendenza di farla subentrare all’OMC, resa inefficiente sia dal numero dei suoi membri
(180 rispetto ai 21 dell’APEC) sia dal blocco del Doha Round. Tale operazione potrebbe
riuscire dato che gli Stati dell’APEC posseggono il 60% del prodotto e il 50% del
commercio mondiali. L’Europa si trova particolarmente a rischio, poiché potrebbe trovarsi
di fronte a fatti compiuti, quale quello di vedere marginalizzate le istituzioni finanziarie
internazionali (quelle di Bretton Woods), in cui oggi gode di una posizione privilegiata.
Nella riunione dell’APEC, è stato anche stabilito di dare un deciso impulso all’istituzione
di zone di libero scambio asiatiche, conciliando la regionalizzazione con l’unità del
sistema Asia-Pacifico, ed è stata adottata una soluzione innovativa per evitare le pesanti
condizioni che il protocollo di Kyoto impone soprattutto agli Stati più poveri, al fine di
limitare l’emissioni di anidride carbonica ed il conseguente “effetto serra”. Invece di
stabilire – come prevede Kyoto - limiti alle emissioni, che poi gli Stati non
rispetterebbero, è stato deciso di stimolare il trasferimento di tecnologie per aumentare
risparmio ed efficienza energetica.
Tali accordi sono stati possibili grazie alla collaborazione fra Pechino e Washington e
rappresentano un grosso passo avanti per rafforzare ed istituzionalizzare l’APEC.
“Chimerica” è quindi più all’orizzonte di quanto si pensasse un anno fa.
Determinante al riguardo è anche una chiarificazione delle differenze esistenti fra
multipolarismo e multilateralismo, che gli esperti internazionalisti e strategici cinesi,
nonché i responsabili politici di Pechino, spesso utilizzano invece come sinonimi 27 . Il
multipolarismo comporta la scomparsa della supremazia “unipolare” dell’iperpotenza
americana nel mondo, attraverso le formazioni di coalizioni anti-egemoniche o
l’istituzione di un nuovo “concerto delle grandi potenze”, che gestiscano collettivamente il
nuovo ordine internazionale. Il multilateralismo consiste invece nella concertazione e
nella collaborazione fra gli Stati. Non deve essere ad hoc, basato su coalizioni contingenti,
formate per affrontare un particolare problema, come è il caso del “Gruppo dei Sei” per la
27
Katinka Barysch, with Charles Grant and Marc Leonard, Embracing the Dragon – The EU’s Partnership
With China, CER, London, 2005.
113
proliferazione nucleare in Corea del Nord. Per essere solido, deve essere invece
istituzionalizzato con la creazione di organizzazioni internazionali permanenti, dotate di
procedure, regole ed obiettivi fissi. Nessuno pensa, beninteso, che gli Stati – soprattutto le
grandi potenze – seguano sempre le decisioni prese collettivamente. Tuttavia, la presenza
di istituzioni e di norme fornisce un “foro” che facilita il negoziato per una soluzione
pragmatica dei problemi. Lo facilita perché l’appartenenza all’istituzione modifica
l’ordine di preferenza degli Stati, dati i vantaggi e il prestigio che essi traggono dal
parteciparvi in forma positiva.
Non è pensabile che nel sistema Asia-Pacifico possano sorgere istituzioni
internazionali solide come quelle esistenti in Europa. Gli interessi, le rivalità storiche ed
anche territoriali, il nazionalismo e la disomogeneità delle culture ed etiche politiche sono
tali che il processo di istituzionalizzazione potrebbe essere solo molto epidermico:
maggiore in campo economico ed ecologico; tutt’al più simile a quella che in Europa è
l’OSCE nel campo della sicurezza. E’ inevitabile anche che cooperazione ed integrazione
vengano realizzate non con istituzioni “forti”, organizzate verticalmente, ma con la
composizione e la coesistenza di una rete orizzontale di accordi bilaterali e subregionali,
che potranno convergere fra di loro solo dopo un lungo periodo di funzionamento.
Comunque, esse conterranno inevitabilmente sempre un potenziale di frammentazione
anche conflittuale.
Oggi, l’equilibrio del sistema è prodotto dalla presenza degli Stati Uniti, equilibratori
off-shore - e, talvolta, on-shore - dell’intero sistema Asia-Pacifico. Tale struttura li
contrappone alla Cina e determina una potenzialità di scontro con essa. Infatti, del tutto
naturalmente, gli USA sono portati ad esercitare tale funzione – peraltro utile a tutti – in
modo spesso “brusco”, determinando contrasti e disaccordi che diminuiscono
notevolmente la loro capacità di convinzione e di arbitraggio fra le numerose tensioni
esistenti nel sistema.
Un modello a cui ispirare le nuove strutture di sicurezza è quello del “Gruppo dei Sei”,
di fatto co-presieduto da Cina e Stati Uniti. Tale modello potrebbe essere applicato anche
al sistema asiatico sud-orientale, ad esempio, inserendo nell’APT o nell’EAS gli Stati
Uniti e cercando di sperimentare l’applicazione di misure di fiducia (CBM) prima, e di
fiducia e sicurezza poi (CSBM), simili a quelle attuate con successo in ambito OSCE,
114
specie nella gestione del peacekeeping e del peacebuilding nei Balcani. Inizialmente, le
istituzioni all’Asia nord-orientale dovrebbero essere distinte da quelle della sezione sud.
Successivamente, potrebbero unificarsi in un’istituzione parallela all’APEC (è opportuno
mantenere separati i negoziati relativi alla sicurezza da quelli economici, in modo da non
bloccare anche questi ultimi in caso di difficoltà) e progressivamente estendersi verso
ovest fino ad inglobare l’India.
Cina e Stati Uniti dovrebbero costituire le due potenze-guida del sistema Asia-Pacifico
e, quindi, il perno dello stesso nuovo ordine mondiale. Il quadro delle istituzioni da
prevedere deve essere molto flessibile ed anche a geometria molto variabile a seconda dei
settori. Deve esserci spazio sia per i “rapporti speciali” nippo-americani, sia per lo SCO
(Shanghai Cooperation Organization).
Dei rapporti nippo-americani si è già parlato trattando della “dottrina Armitage”. Lo
SCO merita un cenno, anche perché le sue funzioni e la sua solidità sono messe in
discussione dal crescere della potenza della Russia che, con la Cina, copresiede
l’organizzazione. Essa è ormai istituzionalizzata con una “Struttura antiterrorismo” in
Uzbekistan; un “Consiglio economico” a Mosca e un Segretariato a Pechino. La SCO è
resa fragile dal fatto che esistono tensioni strutturali fra gli interessi dei due paesi-guida.
La Russia, colpita da una grave crisi demografica, teme la pressione cinese e intende
mantenere il controllo dell’Asia centrale, a cui aspira anche la Cina, la quale ritiene che
l’Asia centrale – il tradizionale Turkestan occidentale - debba entrare a far parte della
zona d’influenza cinese.
Tali contrasti strutturali non esistono fra la Cina e gli Stati Uniti. Poiché non può
competere con gli Stati Uniti sul mare, Pechino deve per forza di cose cercare di
accordarsi con essi. Sia Cina che Stati Uniti trarrebbero vantaggi dall’istituzionalizzazione
economica e della sicurezza nel sistema Asia–Pacifico. Pechino non tenta più di sfruttare
il regionalismo per erodere l’importanza dell’APEC. Le difficoltà che potrebbero
frapporre il Giappone, timoroso di una sua emarginazione strategica, sono superabili,
anche perché Tokyo non ha alternative credibili al mantenimento di una stretta alleanza
con gli Stati Uniti. L’unica alternativa possibile – quella di una cooperazione di Tokyo
con l’India o con la Russia – è resa improbabile dalla crescente debolezza russa nella
115
Siberia orientale e nelle province marittime, nonostante gli “eroici” sforzi di Putin di
mantenere alla Russia lo status di grande potenza nucleare ed energetica.
Entrambi tali fattori della potenza di Mosca sono meno rilevanti nel sistema Asia–
Pacifico. Le armi nucleari non sono impiegabili. La dipendenza dell’Asia orientale dalle
forniture russe di gas e di petrolio è molto inferiore a quella europea. Le armi a
disposizione della Russia sono quindi in gran parte spuntate, anche per il rischio, corso da
Mosca, che l’Occidente in generale e gli USA in particolare, sfruttino la divergenza
strutturale di interessi fra la Cina e la Russia, per sostenere la prima in Asia centrale e in
Siberia centro-orientale. E’ probabilmente questa eventualità che induce la PLA a
destinare sforzi e risorse notevoli per la “meccanizzazione” delle sue forze terrestri,
obiettivo esplicitamente menzionato dal Libro Bianco cinese della Difesa del 2006 e che –
come detto - viene considerato importante quanto l’“informatizzazione” e il rafforzamento
della Marina.
116
CAPITOLO V
POLITICA DI SICUREZZA E DOTTRINA MILITARE CINESI
- DALL’ISOLAMENTO AL COSMOPOLITISMO STRATEGICO -
1. L’evoluzione della politica estera e di sicurezza e della strategia militare cinesi da
Mao alla fine della guerra fredda
La dottrina militare cinese è ancora influenzata dalla strategia globale e dalle teorie del
Presidente Mao Zedong, dalle esperienze della resistenza contro l’occupazione giapponese
prima, e della vittoriosa guerra civile contro il Kuomintang e Chiang Kai-shek poi, ed
anche dal tradizionale approccio della cultura strategica cinese ai problemi della sicurezza,
della pace e della guerra. Per comprendere gli obiettivi della Cina, occorre quindi
approfondire innanzitutto la sua storia millenaria e la sua cultura, che è estremamente
sofisticata. Esistono profonde differenze fra la logica cinese e quella occidentale. Non
tenerne conto può indurre a gravi errori, poiché tali logiche si riflettono sulle concezioni
strategiche. La cosa è tanto più importante dal momento che la Cina vive un momento di
transizione politico-strategica molto importante – messo in evidenza dal Nuovo Libro
Bianco della Difesa del 2006 – e che suscita preoccupazioni, quando non allarmismi,
anche per la segretezza, l’ambiguità e la ridotta trasparenza sia dei vari obiettivi perseguiti,
sia dei programmi e dei bilanci militari cinesi 1 . Lo prova la distruzione – senza preavviso
– di un satellite meteo nel gennaio 2007, sul cui significato - non tanto tecnologico e
strategico, quanto politico – è tuttora in corso un’accesa discussione. Lo dimostra anche lo
sviluppo di capacità offensive nel cyberspazio.
L’impero cinese – “Impero di Mezzo” o “Celeste Impero” -, stanziale e in possesso di
una superiore civiltà, dovette difendersi per secoli dai barbari nomadi, provenienti dalle
steppe del Nord e dell’Ovest. La maggior parte delle guerre della Cina imperiale fu di
questo tipo, cioè difensiva e combattuta soprattutto sulle frontiere terrestri. Dopo la fine
della guerra fredda la situazione è completamente mutata: il teatro principale di operazioni
1
International Institute for Strategic Studies, Chinese Military Messages, Strategic Comments, vol. 13, Issue
1, February 2007.
è divenuto il mare, mentre la geopolitica e la geoeconomia di Pechino da regionali si sono
trasformate in globali.
L’Impero dovette poi difendersi dalla frammentazione interna. Molti dei “classici”
strategici cinesi vissero al tempo dei c.d. “regni combattenti”, che videro l’impero
frammentato e dilaniato da disastrose guerre civili. Inoltre, la paranoia della sovranità e
dell’unità nazionale – tipica della psicologia collettiva cinese - è stata alimentata dal
“secolo dell’umiliazione”, che si sviluppa dalla “guerra dell’oppio” del 1842 alla vittoria
di Mao del 1949. In tale secolo, la Cina fu occupata, saccheggiata, impoverita e divisa, pur
continuando a ritenersi più civile ed avanzata dei suoi barbari conquistatori.
Dall’Occidente ereditò il marxismo-leninismo, da un lato, e il nazionalismo, dall’altro.
La ricca tradizione strategica cinese si sviluppò in un periodo particolarmente difficile
per la storia della Cina: dal VI al IV secolo a.C. Essa è sempre stata caratterizzata da un
approccio globale e multidimensionale ai problemi della sicurezza e della guerra, oltre che
essere influenzata dalla logica cinese del “terzo risonante”, diversa da quella occidentale
del “terzo escluso” 2 . A differenza della sintesi occidentale che annulla tesi e antitesi,
secondo la logica cinese nel tao continuano ad esistere lo ying e lo yang. Specularmente,
nella strategia, devono essere sempre presenti il c’i, cioè l’azione indiretta, decisiva e poco
costosa, e il cieng, l’azione diretta, frontale, volta a concludere rapidamente lo scontro. Il
c’i ha sempre maggiore importanza del cieng.
Anche la politica cinese dei leaders della “terza” e della “quarta generazione”,
soprattutto del Presidente Hu e del Premier Wen, comporta una combinazione
“armoniosa” – di un’armonia tutta confuciana, oggi riscoperta e posta a base della politica
cinese - dell’azione diretta e di quella indiretta. Esse si devono sempre combinare fra di
loro nel modo più economico, che è poi sempre anche quello più efficace. La realizzazione
della “società armoniosa” impone una ridistribuzione della ricchezza e, quindi, una ricentralizzazione del potere, sfuggito al Partito e trasferitosi alle regioni, città e ceti sociali
più ricchi. Ma la ridistribuzione deve permettere la crescita.
Tornando al campo strategico, all’azione indiretta, all’inganno, alla sorpresa, al segreto
e alla dissimulazione viene attribuita importanza centrale. L’uso reale della forza e,
2
Dan Blumenthal and Christopher Griffin, Understanding Strategy: A Delicate Dance-America Must Learn
to Comprehend China’s Culture and Tactics, Armed Forces Journal, April 2006, pp. 24-29.
118
soprattutto, il combattimento frontale, vengono considerati strumenti da usare solo come
ultima risorsa, quando si sia attaccati direttamente, oppure quando siano indispensabili per
annientare l’avversario, logorato dall’azione indiretta.
La priorità va insomma sempre attribuita all’impiego di mezzi asimmetrici, propri
delle strategie indirette. Il pensiero strategico occidentale non ignora questi ultimi. Coloro
che sostengono la tesi opposta 3 fanno riferimento ad un’interpretazione parziale del
pensiero clausewitziano, effettuata dalla “scuola militarista” dominante nelle guerre totali
del XX secolo e tuttora influente nel Pentagono, non tanto in teoria, quanto nella prassi.
Ciò avviene anche perché i “modi” strategici indiretti richiedono molto tempo per
produrre risultati, di durata superiore a quello che politici e comandanti occidentali hanno
a disposizione, data l’impazienza delle loro opinioni pubbliche e le pressioni dei media
nelle democrazie moderne.
Mao Zedong e i suoi generali erano ben consapevoli della superiorità materiale e
tecnologica americana e sovietica e delle carenze tecnologiche della base industriale della
difesa cinese. Cercarono quindi di sviluppare strategie alternative, incentrate sul contrasto
all’occupazione permanente del territorio cinese con una “guerra di popolo”,
sull’utilizzazione del tempo e – subordinatamente - dello spazio, come fattori
moltiplicatori della potenza della difesa, nonché sulla mobilitazione delle risorse
demografiche e sull’incredibile capacità di resistenza della “civiltà del riso”, diffusa in
tutta l’Asia sud-orientale. In tale quadro attribuivano – almeno dichiaratamente importanza limitata non solo alla difesa diretta, ma anche alle armi nucleari. Quando nel
1964 ne entrarono in possesso, adottarono una strategia di second strike e di no first use
nucleare, complementari alla difesa prolungata, e costruirono un deterrente minimo,
anziché dissanguarsi economicamente nell’irragionevole corsa al riarmo nucleare,
verificatasi fra i due blocchi. Tali caratteristiche – sempre centrali nella dottrina nucleare
di Pechino – sembrano oggi rimesse in discussione, soprattutto dopo che la RMA
americana e la network centric warfare hanno dimostrato la straordinaria potenza delle
forze convenzionali degli Stati Uniti4 .
3
4
cfr. in particolare Fabio Mini, L’altra strategia, Einaudi, Torino, 2004.
Robert D. Kaplan, How We Would Fight China, Atlantic Monthly, June 2005.
119
Dopo il mancato uso delle armi nucleari nel conflitto coreano, chiesto invano dal
generale Mc Arthur al Presidente Truman, Mao dichiarò che le armi nucleari erano “tigri
di carta”. Di fatto non doveva pensarlo veramente. Lo dimostrano gli sforzi che effettuò
per procurarsele – che ebbero successo nel 1964 - e le conseguenti tensioni con l’URSS,
che cercava in ogni modo di impedire che la Cina se le costruisse da sola, rifiutando di
trasferire a Pechino la tecnologia necessaria. Ciò convinse definitivamente i cinesi che
Mosca desse molta più importanza agli interessi nazionali dell’URSS che alla “causa”
dell’espansione del comunismo nel mondo. Pechino si persuase di poter contare solo sulle
proprie forze in un mondo strutturalmente ostile o - tutt’al più - abitato da amici solo “da
tempo sereno”, pronti a cambiar di bandiera non appena la situazione si facesse difficile o
mutassero i loro interessi nazionali. Tale profonda diffidenza verso gli stranieri – peraltro
ampiamente ripagata dagli Stati confinanti dalla Cina verso Pechino - costituisce un
aspetto peculiare della cultura dei leaders cinesi. Influisce sulle loro ambiguità e
mancanza di trasparenza - ad esempio sull’entità dei bilanci militari e sugli obiettivi
perseguiti con la modernizzazione della PLA. In particolare, molti interrogativi sono posti
sul significato e sugli obiettivi perseguiti con l’ammodernamento delle componenti navale,
nucleare, spaziale e del cyberspazio della PLA, nonché su quello della componente
terrestre, anch’essa in corso di ammodernamento, anche oggi che ogni minaccia di
invasione della Cina è scomparsa. I programmi militari cinesi suscitano sospetti e
preoccupazioni negli Stati confinanti con la Cina, in particolare nel Vietnam, nonostante
che le precedenti dispute territoriali siano state in gran parte risolte con compromessi e che
le economie asiatiche siano sempre più integrate con quella cinese.
Il numero di armi nucleari cinesi è sempre stato molto limitato. Quelle strategiche
hanno un targeting antirisorse, cioè anticittà – come si è detto – quali armi di second strike
e di no first use. Recentemente, però, il Direttore dell’Università militare di Pechino ha
affermato – sicuramente con l’autorizzazione del suo Governo – che la Cina potrebbe
colpire le città americane, qualora gli USA dovessero impiegare le loro moderne
tecnologie della RMA contro la PLA in uno scontro per Taiwan. Ha denominato tale
dottrina “dissuasione e difesa attive”. Essa comporta la capacità di effettuare un
120
“contrattacco strategico”, anche nucleare 5 . Beninteso, si è potuto trattare di un semplice
tentativo di intimidazione degli USA, per dissuaderli dall’intervenire in sostegno di
Taiwan e per contribuire così a realizzare quell’area denial, che costituisce uno degli
obiettivi prioritari della strategia cinese nei confronti dell’isola, per bloccare le tendenze
indipendentiste del partito nazionalista del Presidente Chen, rendendo meno sicuro
l’intervento americano, che – giova ricordarlo – non è automatico, né giuridicamente
vincolante.
Alla sopravvivenza dello Stato e della popolazione a bombardamenti nucleari anche
massicci la strategia di Mao attribuiva la massima importanza, forse anche per convincere
gli USA, prima, e l’URSS, poi, della capacità cinese di “assorbire” un attacco nucleare.
Una netta priorità fu data, fino a metà degli anni Novanta, alla componente terrestre della
PLA, che, in caso di invasione, sarebbe stata rinforzata dalla milizia territoriale e avrebbe
dato vita a una difesa prolungata del territorio. Quest’ultima, secondo le teorie di Mao
Zedong, avrebbe dovuto esaurire le forze di qualsiasi aggressore e realizzare, dunque,
anche un effetto dissuasivo. La Cina pensava di avvalersi dell’immensità della sua
popolazione e del suo territorio per rovesciare i rapporti di forza iniziali. Essi venivano
considerati sfavorevoli soprattutto sotto il profilo tecnologico e facevano escludere la
possibilità di una difesa diretta contro un invasore. Va comunque ricordato che
l’inferiorità delle forze non fu considerata sempre un fatto limitativo degli interventi
esterni della Cina. Lo dimostra l’intervento del 1950 a sostegno della Corea del Nord, le
cui forze stavano per essere travolte da quelle degli USA e dei loro alleati, con il rischio
per Pechino di vedere a contatto delle proprie frontiere una coalizione ostile.
All’intervento in Corea seguì la fase “eroica” del programma maoista di porsi a capo
del Terzo Mondo, esportando la “rivoluzione permanente” o, quanto meno, indicando
strategie e tattiche per le lotte di liberazione dei popoli colonizzati. Ancora oggi i ricordi
di quel periodo influiscono sull’immagine della Cina in molti paesi emergenti o in via di
sviluppo, di campione cioè del Sud contro l’imperialismo capitalista del Nord. Essa non
corrisponde più alla realtà. Taluni paesi africani e sudamericani accusano la Cina di
comportarsi come una potenza coloniale sia nello sfruttamento delle risorse energetiche,
5
Larry M. Wartzel, The Trouble with China’s Nuclear Doctrine, Jane’s Defense Weekly, February 22nd
2006, p. 23.
121
minerarie ed agricole, sia nell’invasione dei mercati locali con i suoi prodotti, che spiazza i
timidi tentativi di industrializzazione di quei paesi. Ho l’impressione che i governanti e gli
imprenditori e commercianti cinesi non siano del tutto consapevoli di ciò e che dovranno
confrontarsi con crescenti ostilità e diffidenze in molti paesi del Terzo Mondo. Ciò – pur
discendendo in parte dalla tradizione dell’impero di ricevere tributi anche simbolici dalle
regioni circostanti e di considerarli normali se non dovuti – finirà per trasformare la Cina
in un paese più simile a quelli ex-colonizzatori dell’Occidente.
Dalla metà degli anni sessanta, la politica cinese di sicurezza fu ispirata nelle sue linee
generali ai cinque principi della c.d. “coesistenza pacifica”: rispetto dell’integrità
territoriale e della sovranità interna degli Stati; non aggressione; non ingerenza;
eguaglianza formale e di dignità fra tutti gli Stati, con cui sono possibili accordi basati su
reciproci vantaggi (c.d. win-win strategy); coesistenza pacifica nel senso che, con i leaders
della “seconda generazione” - cioè dopo la morte di Mao nel 1976 - Pechino rinunciò
esplicitamente ad esportare la rivoluzione nelle “campagne” del Terzo Mondo, per poi
circondare le città capitaliste del ricco Nord e affermare il comunismo nel mondo.
È da notare che i principi della coesistenza pacifica comportavano quasi un
disimpegno di Pechino dal giocare un ruolo globale, anche nell’ambito delle
organizzazioni internazionali di cui faceva parte. Ancora oggi implica la difficoltà di
essere uno stakeholder responsabile dell’ordine mondiale, nonostante che, a partire dal
1971, sia divenuta membro permanente del Consiglio di Sicurezza e che, ultimamente,
abbia aumentato la propria partecipazione alle missioni di pace dell’ONU. I principi della
“coesistenza pacifica” sono infatti in netto contrasto con le esigenze della globalizzazione,
di cui la Cina è beneficiaria.
La “strategia globale di sicurezza” più conveniente alla Cina andrebbe – e forse è in
realtà - fondata sulle teorie di Adam Smith più che su quelle di Hobbes. La
globalizzazione – e anche la “società armoniosa” - comporta l’esigenza di regole comuni,
concordate fra i governi almeno per la tutela della libertà del mercato contro le naturali
derive monopolistiche. Non può convivere con l’hobbesiana “anarchia internazionale”, ma
richiede l’esistenza di regole, quindi di limitazioni della sovranità e di ingerenze esterne,
quanto meno delle istituzioni internazionali che tutelano tali regole.
122
La globalizzazione e le conseguenti interdipendenze limitano necessariamente
l’autonomia degli Stati. Pechino sta rendendosene conto e sta aumentando la sua presenza
nelle istituzioni internazionali, a livello sia regionale sia globale, anche se molti
continuano a contrapporre il c.d. Beijing Consensus, basato sulla netta separazione della
politica dagli affari – secondo i principi della “coesistenza pacifica - dal Washington
Consensus, che subordina i rapporti economici a condizionalità politiche interne (rispetto
dei diritti umani) e internazionali (per esempio, la non-proliferazione).
Solo dalla metà degli anni Novanta – con l’avvicinamento all’ASEAN, con l’entrata
nell’APEC e con la costituzione del “Gruppo dei cinque” (divenuto poi la Shanghai
Cooperation Organization, SCO) e successivamente di quello “dei Sei” per la
proliferazione nucleare in Corea del Nord – la Cina ha attribuito maggiore importanza alla
partecipazione ad istituzioni internazionali e regionali e ne ha tratto, con indubbia capacità
diplomatica, il massimo beneficio per i propri interessi nazionali. Invece, all’inizio, ebbe
un atteggiamento estremamente cauto nell’impegnarsi e nell’assumere responsabilità e
conseguenti oneri e vincoli.
Lo stesso multilateralismo auspicato dalla Cina – che, come si è in precedenza detto,
viene spesso erroneamente assimilato al multipolarismo (che consiste nel bilanciamento
dell’egemonia americana) 6 – richiede l’esistenza di global governances settoriali, se non
addirittura di un “governo mondiale”. Comporta quindi ingerenze, regole ed istituzioni, la
cui intrusività contraddice i principi della “coesistenza pacifica”, in particolare quello del
rispetto completo della sovranità degli Stati. È questa una contraddizione che sta
cominciando a pesare sull’intera politica estera cinese, in particolare sull’affermazione che
Pechino non intende condizionare i rapporti commerciali con condizionalità, quali il
rispetto dei diritti umani, a differenza di quanto praticato – anche se spesso in modo
ondivago e contraddittorio - dagli Stati Uniti e dall’Europa. Tale scelta cinese ostacola
l’azione occidentale e può portare a contrasti sia politici che economici, che Pechino
vorrebbe invece evitare.
Le tendenze del mondo globalizzato vanno verso la creazione di limiti alla sovranità,
sia per evitare conflitti che influirebbero negativamente sull’economia, sia per stabilire
6
Katinke Barysh con Charles Grant e Mark Leonard, Embracing the Dragon – The EU Partnership with
China, Centre for European Reform, London, May 2005.
123
regole – ad esempio in termini di anti-trust e di rispetto della proprietà intellettuale – che
sono indispensabili per la stessa esistenza di un libero mercato 7 .
Tale contraddizione sta divenendo sempre più evidente agli occhi degli attuali dirigenti
cinesi. Prelude verosimilmente ad una revisione dei “cinque principi” della coesistenza
pacifica e ad un maggior impegno internazionale della Cina, auspicato fortemente dall’exsottosegretario di Stato USA Robert Zoellick 8 . Molti dirigenti cinesi incominciano a
rendersi conto che l’adesione acritica ai cinque principi della coesistenza pacifica
isolerebbe la Cina, rendendola vulnerabile a critiche non solo da parte dei governi
occidentali, ma anche delle ONG – prima fra le quali Amnesty International – le quali si
occupano di diritti umani e civili e si sentono rappresentanti autentiche di una, peraltro
non meglio precisabile, “società civile mondiale”.
Il comportamento futuro di Pechino sarà condizionato dai suoi rapporti con
Washington, soprattutto dalla tendenza emersa nel summit dell’APEC, tenutosi in
Australia nel settembre 2007, di dar vita ad un mercato unico dell’Asia-Pacifico,
contrapposto all’OMC, specie qualora quest’ultima non riuscisse a trovare un
compromesso sul Doha Round 9 . Il rilancio dell’APEC migliorerà ulteriormente i rapporti
fra la Cina e gli Stati Uniti, facendo superare le diffidenze sorte a Washington quando la
Cina con la promozione di accordi subregionali asiatici, sembrava volesse erodere la
presenza americana in Asia orientale, creando quasi una frattura a metà dell’Oceano
Pacifico.
2. La strategia globale (grand strategy) cinese nel corso della guerra fredda
Dopo l’emergere di tensioni politiche tra Pechino e Mosca, che portarono alla rottura
fra i due paesi all’inizio degli anni Sessanta, la Cina, pur seguendo in linea di massima un
approccio di disimpegno dagli affari mondiali – per influire sui quali non disponeva né
delle risorse, né del livello di potenza necessario - adottò invece verso le sue immediate
7
Carlo Jean e Giulio Tremonti, Guerre Stellari. Società ed economia nel cyberspazio, F. Angeli, Milano
2000.
8
Francis Fukuyama, Re-Envisioning Asia, in Foreign Affairs, Jan-Feb. 2005, pp. 75-87.
9
STRATFOR: APEC – Taking the Lead on Trade, Global Intelligence Brief, July 6th, 2007.
124
periferie una politica molto più aggressiva, volta a difendere od a ripristinare “diritti”
storici, veri o presunti, ma molto popolari nell’immaginario collettivo cinese. Ne seguì
l’occupazione del Tibet e una serie di guerre e di scaramucce con l’India nel 1962, il
Vietnam nel 1979 e con la stessa Russia nel 1969, sull’Amur e sull’Ussuri. Questi ultimi
scontri segnarono la rottura dell’alleanza comunista, avvenuta formalmente con gli accordi
con gli USA del 1972, ma già iniziata dopo la condanna dello stalinismo fatta da Kruscev
Segnarono anche l’allineamento di fatto, anche se non formale, della Cina con il blocco
occidentale in funzione anti-sovietica.
Tale rovesciamento di fronte ebbe un’incidenza non solo sulla politica estera, ma
anche su quella interna cinese. Verso l’esterno, diminuì il complesso – radicato
nell’esperienza storica cinese – dell’accerchiamento e dell’ingerenza straniera. Diminuì
anche l’importanza dell’ideologia a favore del pragmatismo. All’interno, creò le
condizioni che resero possibili dopo la morte di Mao Zedong (1976) le “modernizzazioni”
di Deng Xiaoping, l’apertura al mercato mondiale capitalista, cioè alla globalizzazione, e
l’adozione di un sistema economico di capitalismo liberale, se non di liberismo assoluto,
pur subordinato ad un regime comunista rimasto autoritario. Tale assetto fu largamente
ispirato dalle esperienze del Cile di Pinochet (il cui consigliere economico era Milton
Friedman), studiate con attenzione dallo stesso Deng.
Il Partito Comunista intanto si era trasformato da partito ideologico in partito
nazionale, interprete degli interessi della sola Cina, non di quelli del mondo. Influirono al
riguardo i ricordi delle terribili convulsioni, i milioni di vittime, i disastri economici che la
Cina aveva conosciuto dal “Grande Balzo in avanti” alla Rivoluzione Culturale. I radicali
e i filo-sovietici (la c.d. “Banda dei Quattro”) furono rapidamente estromessi dal potere
immediatamente dopo la morte di Mao.
Vennero integralmente adottate le raccomandazioni del c.d. “Gruppo dei quattro
Marescialli”, che aveva proposto a Mao, già nel 1969, di riprendere i rapporti con gli Stati
Uniti e di cercare la loro collaborazione, cosa che questi aveva in realtà già fatto all’inizio
degli anni sessanta quando si palesava la rottura di Pechino con Mosca.
Nel 1978 il processo si era concluso. L’Occidente cercò di rafforzare le capacità
difensive cinesi contro un’offensiva sovietica. Vennero concessi crediti per l’esportazione
di armamenti (l’Italia concorse all’operazione nel 1983 con mille miliardi di lire) e fu
125
attenuato l’embargo delle tecnologie strategicamente critiche, allora applicato alla Cina
con le stesse regole del CoCom (Coordinationg Comittee) adottati nei riguardi del blocco
sovietico. In questo settore l’Italia svolse un ruolo “pilota”, coordinando in ambito CoCom
la definizione di una green line specifica per la Cina. Pur rafforzando le capacità di difesa
della Cina si cercò però di non aumentarne la sua capacità di proiezione di potenza, né
quella di interdizione delle vie di comunicazione marittima, soprattutto degli Stretti della
Malacca, utilizzati dalla U.S. Navy per spostarsi dal Pacifico all’Oceano Indiano. Mentre
la PLA manteneva una grande capacità di difesa territoriale e di impedire un’eventuale
occupazione delle Cina, le sue capacità di intervento esterno restavano molto limitate,
come si vide nel 1979 in occasione del disastroso attacco cinese al Vietnam.
L’ultima - la quarta - modernizzazione prevista nel programma di Deng, è quella
militare a cui venne – e verosimilmente viene ancora - attribuita minore priorità, almeno a
leggere l’XI Piano Quinquennale che la ignora 10 . La Cina non ha mai elaborato documenti
di orientamento politico-strategico generale, quali sono le National Security Strategy
approvate dai presidenti USA all’inizio del loro mandato, né tanto meno pubblica analisi
strategico-operativo-tecnologiche, come quelle contenute nelle Quadrennial Defense
Review degli USA o nelle Note Aggiuntive al Bilancio della Difesa italiano. Anche la
pubblicazione in Cina, a partire dal 1998, di un Libro Bianco della Difesa non ha colmato
le lacune esistenti 11 . La Cina ha comunque promesso all’ONU una maggiore trasparenza
circa l’ammontare dei propri bilanci della difesa e circa le priorità della programmazione
militare.
Le decisioni politico-strategiche cinesi possono essere ricostruite solo dal
comportamento concreto di Pechino, assumendo che dietro di esso ci sia un pensiero
organico che conferisca loro unitarietà e coerenza e che sulla pianificazione della PLA non
influiscano il peso delle “corporazioni” delle singole forze armate. Mentre Deng Xiaoping
credeva che gli Stati Uniti fossero destinati ad un’inevitabile decadenza e che il tempo
10
Elisa Calza, L’XI Piano Quinquennale cinese, in La Cina allo specchio, Quaderno di Relazioni
Internazionali n. 3, ISPI, Milano, dicembre 2006, pp. 90-92.
11
Information Office of the State Council of the People Republic of China, China’s National Defense in
2006, Beijing, December 2006; per commenti vds. Christopher Griffin and Dan Blumenthal, China’s
Defense White Paper: What It Does (and Doesn’t) Tell Us, The Jamestown Foundation, China Brief, volume
7, Issue 2, January 24, 2007; Willy Lam, China Outlines Ambitious Objectives in Its Defense White Paper,
ibidem, volume 7, Issue 1, January 10th, 2007.
126
operasse a favore della Cina, il suo successore Jiang Zemin era persuaso che Pechino non
potesse competere militarmente con Washington, neppure a medio-lungo termine, quale
che fosse lo sforzo fatto in campo militare.
Nel libro Bianco del dicembre 2006, viene affermato che la Cina si è ormai
trasformata da potenza militare locale in regionale e vengono indicate le scadenze per la
modernizzazione (“meccanizzazione” e “informatizzazione” della PLA). Entro il 2010 la
potenza militare cinese deve acquisire “solide fondamenta”; entro il 2020 deve effettuare
un “progresso decisivo” e a metà del XXI secolo deve acquisire la capacità di vincere
“guerre informatizzate”. È la prima volta che, in un documento ufficiale cinese, viene
ammessa l’esistenza di obiettivi che superano il quadro regionale.
3. L’evoluzione della politica di sicurezza e della dottrina militare cinese dopo la
fine della guerra fredda
Con la fine della Guerra Fredda, il collasso dell’URSS e il ritiro delle forze sovietiche
dalla Mongolia, il fronte principale della sicurezza esterna cinese si è spostato da Nord a
Sud, sulle coste del Pacifico e dei tre mari cinesi: Meridionale, Orientale e Mar Giallo,
tutti delimitati da isole che non sono sotto controllo cinese, ma che costringono la Cina in
una specie di “gabbia”. Ciò facilita la sorveglianza della U.S. Navy e delle marine alleate
sulle SLOC vitali per l’economia cinese. Quale che sia lo sforzo per costruire una marina
oceanica, Pechino non potrà mai esercitare un sea control adeguato alla protezione della
sua economia - soprattutto dei suoi rifornimenti energetici e dei suoi commerci - a meno di
non puntare ad una superiorità globale sugli USA, che possono concentrare le loro risorse
nel sistema Asia-Pacifico.
Ciò spiega, da un lato, il suo interesse per l’Asia centrale e per la Siberia centroorientale e, dall’altro lato, i tentativi di accordo e di cooperazione con Washington,
realizzando – in opposizione alla “Cindia” e all’“Eurocina” – la c.d. “Chimerica”, base di
un nuovo ordine mondiale della globalizzazione, fondato sull’intesa sino-statunitense. La
politica di rivendicazioni territoriali – soddisfatta con la restituzione alla Cina di Macao e
di Hong Kong – continua a manifestarsi con pressioni su Taiwan. Esse culminarono nel
127
1995-96 con provocatorie esercitazioni missilistiche ai limiti delle acque territoriali
dell’isola, che cessarono quando il Presidente Clinton inviò due gruppi portaerei nello
stretto che separa l’isola dalla Cina continentale. La legittimità di pressioni militari per
evitare l’indipendenza dell’isola è stata formalizzata nel 2003 nella “legge antisecessione”.
Essa autorizza la PLA ad usare la forza qualora i dirigenti di Taipei fossero chiaramente
intenzionati a proclamare l’indipendenza e a staccare l’isola dalla Cina.
Per evitare umiliazioni del tipo di quelle subite nel 1995-96, la Cina invia con
crescente frequenza “messaggi militari” agli USA, fra i quali fu, ad esempio,
l’esperimento di abbattimento di un vecchio satellite meteo cinese con un missile ASAT,
l’emersione di un nuovo silenziosissimo sommergibile tipo Song nelle vicinanze di un
gruppo portaerei americano, oppure lo sviluppo di capacità di guerra cybernetica. Tali
“messaggi” dimostrano da un lato che la Cina sta sviluppando tecnologie asimmetriche
per colpire le vulnerabilità della U.S. Navy 12 , e dall’altro lato il timore cinese che gli USA
utilizzino la loro attuale superiorità “network-centrica”, prima che la PLA abbia acquisito
le capacità necessarie per neutralizzarla13 .
Tale atteggiamento comportò anche l’estensione delle acque territoriali e della zona
economica esclusiva cinese, nonché la definizione di uno “spazio vitale marittimo
mobile”, di estensione corrispondente alla potenza navale cinese 14 . L’ampiezza di
quest’ultimo dovrebbe servire da guida per la pianificazione della Marina cinese (PLAN o
PLA Navy), che rappresenta uno degli argomenti principali del dibattito sui futuri obiettivi
strategici della Cina. La Marina è divenuta – insieme con le forze anfibie, con quelle aeree
a maggior raggio d’azione e con quelle missilistiche nucleari della “Seconda Artiglieria”
della PLA – lo strumento principale della strategia militare cinese, prima monopolizzata
dalle forze terrestri, regolari e di milizia, le quali avevano anche l’esclusività della
presenza militare nella Commissione Militare Centrale, organo di vertice politicostrategico sia del Partito che dello Stato. Ufficiali della Marina e dell’Aeronautica vi sono
stati ammessi solo negli ultimissimi anni.
12
Ashley J. Tellis, Punching the US Military’s “Soft Ribs”: China’s Anti-satellite Weapon Test in Strategic
Perspective, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Brief 51, June 2007.
13
STRATFOR, Rodger Baker, China’s Concerns in 2007: Fears of a Perfect Storm, Geopolitical
Intelligence Report, January 30th, 2007.
14
STRATFOR, Gorge Friedman, Space and Sea-Control in Chinese Strategy, January 23rd, 2007; in
http://www.stratfor.com/products/premium/283348.
128
Anche l’Esercito è in corso di modernizzazione. Il Libro Bianco pone fra gli obiettivi
da conseguire la meccanizzazione oltre che l’informatizzazione. I motivi e la portata del
potenziamento delle forze terrestri costituiscono oggetto di interrogativi da parte degli
analisti strategici. Per la difesa territoriale bastano la milizia e le altre forze paramilitari.
Inoltre, non andrebbero considerati scenari di intervento esterno terrestre, dato che i
contenziosi di frontiera con i paesi vicini sono stati quasi tutti risolti. Altri pensano che
l’ammodernamento dell’Esercito derivi dal peso politico che tuttora continuano ad avere
le forze terrestri - specie dopo che gli episodi di Piazza Tienanmen del 1989 hanno
dimostrato la scarsa affidabilità della “milizia” nel difendere l’ordine pubblico ed il
regime. Ma la massa degli analisti strategici ritiene che la Cina intenda realizzare
un’incontrastabile superiorità terrestre sulla Federazione russa - in Asia centrale - sulla
penisola indocinese e forse sulla stessa India. Questi ultimi si oppongono all’ipotesi,
sostenuta dalla PLAN, che la Cina - la cui frontiera terrestre è quasi ovunque protetta da
regioni poco praticabili ad offensive terrestri su larga scala - si sia trasformata in
un’“isola” con la scomparsa dell’URSS e che sia per essa vitale uscire dalla “gabbia” in
cui la costringono le catene di isole che circondano la Cina e la potenza della Marina
statunitense. Sono invece persuasi che la Federazione Russa conoscerà un’inarrestabile
decadenza demografica e militare, offrendo alla Cina la possibilità di accedere via terra
alle materie prime di cui necessita la sua economia, senza dover dipendere dalle vie di
comunicazione marittima che, ancora per decenni, saranno dominate dalle marine degli
USA e dei loro alleati.
Il mutamento della “grande strategia globale cinese” può comunque essere compreso
facendo riferimento soprattutto alla pianificazione e alla dottrina della Marina cinese e di
come i responsabili a Pechino prevedono la progressiva estensione dello “spazio vitale
marittimo”. Ne sono prove non solo le dichiarazioni dei presidenti Jiang Zemin e Hu
Jintao circa la priorità da attribuire alla componente navale e le celebrazioni, nel 2005, del
grande ammiraglio cinese Zheng He (che nel XV secolo aveva percorso la “via della seta
marittima” – allora dominata dalla marineria araba – giungendo alle coste occidentali
dell’Africa). Lo proverebbe anche la priorità data allo sviluppo di armi ASAT e
cyberspaziali, dirette a colpire le vulnerabilità principali della U.S. Navy.
129
I concetti di “frontiera marittima mobile” e di “spazio marittimo vitale” – centrali nel
dibattito geopolitico cinese - sono analoghi a quelli che caratterizzavano le teorie
geopolitiche europee dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Alla geopolitica
non viene però attribuito in Cina un significato deterministico, del tipo di quello della
scuola tedesca, ma uno analogo a quello della geopolitica “volontaristica” della scuola
italiana o di quella “possibilistica” francese 15 . Ad esse si contrappongono frequenti
accenni all’importanza della “nuova via della seta” che diventa “via del petrolio” e che
estende lo spazio vitale cinese all’intero Turkestan, sino al Mar Caspio.
Nel pensiero cinese il confine marittimo è considerato mobile in funzione dei rapporti
di forza esistenti sul mare, oggi dominato dalla 7ª e dalla 5ª Flotta USA e dalle Marine
indiana e giapponese, entrambe in corso di rapido potenziamento. Un “blocco anticinese”
sarebbe in grado di interdire alla Cina il libero uso delle sue vitali SLOC, non solo di
quelle ad ovest degli stretti della Malacca, della Sonda e di Lomback, ma anche di quelle
del Pacifico, che mettono in comunicazione la Cina con le Americhe.
Per quanto riguarda Taiwan, la capacità degli Stati Uniti e dei loro alleati di intervenire
a sostegno dell’isola preoccupa evidentemente i cinesi. Taluni vorrebbero limitarsi ad un
obiettivo di area denial attorno a Taiwan per dissuadere o contrastare l’afflusso di forze
aeronavali e anfibie americane. Altri invece, soprattutto la scuola geopolitica di Pechino,
affermano che il problema di Taiwan può essere risolto solo affrontando il “dopoTaiwan”. Il controllo cinese dell’Oceano dovrebbe estendersi ben oltre la “prima catena di
isole”, a cui appartiene Taiwan, per spingersi fino ad acquisire quello della “seconda
catena”, che va dalla penisola indocinese alle Filippine, per spingersi alla grande base
americana di Guam e risalire poi a Nord fino ad includere il Giappone e Sakhalin 16 .
Va inoltre tenuto conto che la globalità - propria della cultura strategica cinese –
considera al tempo stesso strategia diretta ed indiretta, nonché il soft e l’hard power. Tali
concetti trovano la loro organica collocazione in quelli di “potere nazionale globale” e di
“configurazione strategica della potenza” 17 .
15
Carlo Jean, Manuale di Geopolitica, Laterza, Roma-Bari, 2007 (4ª edizione).
Bernard D. Cole, The PLA Navy’s Developing Strategy, China Brief - The Jamestown Foundation,
October 25th, 2006.
17
Ding Bangquan, China’s Strategic Concepts for Asia-Pacific Security, in Michael D. Bellows (ed.), Asia
in the 21st Century-Evolving Strategic Priorities, National Defense University, Institute of National Strategic
Studies, Fort McNair, Washington D.C., 1996, pp. 157-69.
16
130
Oggi la Cina è consapevole che non è in grado di confrontare la potenza militare
americana e che ogni suo atteggiamento troppo aggressivo spinge i suoi vicini a ricercare
l’appoggio degli USA, mentre invece la “politica del sorriso”, il peaceful development e
“l’impiego coordinato di tutte le dimensioni del soft power” 18 , le consentono di rafforzare
la sua potenza ed influenza mondiali. Secondo molti esperti, il soft power sta facendo
conseguire alla Cina, in campo globale, vantaggi che non potrebbe mai conseguire con
l’hard power. La grand strategy del peaceful rise – ridenominato peaceful development,
perché rise è sembrato troppo aggressivo – corrisponde a tale scelta di fondo. Essa
dominerà verosimilmente la politica estera cinese, almeno fino a quando la Cina –
superate le sue drammatiche difficoltà interne – potrà eguagliare la potenza degli USA e
dei loro alleati prima nel sistema Asia-Pacifico e poi, forse, nel mondo. “Forse” perché,
mentre la posizione geografica centrale favorisce un dominio globale da parte degli Stati
Uniti, quella sostanzialmente periferica della Cina – i cui accessi marittimi sono controllati
dagli arcipelaghi che la circondano – induce Pechino a perseguire una superiorità
strategica solo regionale. La Cina non segue – almeno per ora – una geopolitica simile a
quella dell’“area di co-prosperità asiatica”, che aveva ispirato la politica del Giappone
prima del secondo conflitto mondiale. Non ha la possibilità di indurre gli USA a diminuire
la loro presenza ed influenza nel Pacifico occidentale e nell’Oceano Indiano. Deve fare i
conti – nella stessa Asia – con gli altri due “giganti asiatici”: l’India e il Giappone. Deve
infine fronteggiare la vulnerabilità non solo delle sue SLOC, ma anche quelle conseguenti
alla sua integrazione nell’economia mondiale, specie l’interdipendenza economica con gli
Stati Uniti. La Cina contribuisce ad arricchirli, esportando i prodotti manifatturieri della
sua manodopera a basso costo e mantenendo le capacità d’importazioni americane con
l’acquisto di dollari e di buoni del tesoro degli Stati Uniti. Contribuisce considerevolmente
a finanziare il twin deficit degli USA con un “equilibrio degli squilibri” che ha finora retto,
ma che viene giudicato estremamente fragile. Se si rompesse, le ricadute sull’economia
mondiale potrebbero essere drammatiche 19 .
Finora la dottrina militare cinese – a quanto traspare nei Libri Bianchi della Difesa,
negli interventi di responsabili politici e militari e negli scritti di esperti strategici – è stata
18
David M. Lampton, The Faces of Chinese Power, Foreign Affairs, January-February 2007, pp. 115-127.
Alastair Newton, Asia Rising: the Geopolitical Implication, paper distribuito in occasione dell’Aspen
Dialogue on World Economy - The New Geopolitics of the Global Economy, Florence, 6-7 July, 2007.
19
131
finalizzata all’eventualità di una guerra locale e limitata per Taiwan, cioè a quella che
Deng Xiaoping denominò “Campagna di Zona di Guerra” 20 . Tale denominazione subentrò
al concetto di Mao Zedong di “guerra di popolo di lunga durata”, cioè di una guerra totale,
che richiedeva la mobilitazione agli ordini del PCC di tutte le sue risorse psicologiche,
demografiche e materiali del Paese. La “Campagna di Zona di Guerra” – inizialmente
denominata “guerra di popolo nelle condizioni moderne” – è condotta non dal Partito, ma
dai responsabili dei Comandi locali (che assumono alle loro dipendenze anche le Regioni
militari e le forze in esse dislocate). Tali comandi, in caso di guerra, non rispondono allo
Stato Maggiore Generale, ma direttamente alla Commissione Militare Centrale, organismo
“a doppio cappello”, sia del Partito che dello Stato. E’ evidente la preoccupazione del
PCC, il cui potere è derivato da quello della PLA, di non lasciare che le forze terrestri
dipendano da un unico comando, che potrebbe contrapporsi al Partito.
In pratica, la priorità riguarda Taiwan e il contrasto (area denial) di un intervento
americano e giapponese in soccorso all’isola. Anche nel lungo periodo, non sembra che la
Cina – molto realisticamente - intenda garantire il sea control delle sue SLOC, se non
forse nei tre mari “cinesi” che la circondano, fatto che diventerebbe possibile solo se
Pechino esercitasse il controllo sulla prima catena di isole. Sembra però esclusa
l’intenzione di acquisire una capacità di proiezione globale di potenza, ad esempio per
proteggere sia le regioni da cui la Cina trae le materie prime indispensabili al suo
sviluppo, sia le comunità della diaspora cinese nel mondo.
Tuttavia negli ultimi anni le ambizioni cinesi sembrano presentare sintomi di maggior
dinamismo. Si sono estese dal contenzioso territoriale per il Mar Cinese Meridionale a
quello con il Giappone per il possesso delle isole Senkaku o Diaoyu, situate a Sud di
Okinawa, e al controllo delle loro “zone economiche esclusive”, ricche di idrocarburi.
Beninteso, le ambizioni degli esperti navali cinesi non si limitano alle immediate
periferie marittime della Cina. Almeno in una prospettiva di medio termine, prevedono
l’estensione progressiva dello “spazio marittimo vitale” al Pacifico occidentale e
all’Oceano Indiano e, nel lungo periodo, all’intero mondo. Tale estensione deve però
procedere in parallelo con il massiccio rafforzamento non solo della Marina e delle altre
componenti della PLA destinate alla proiezione di potenza, ma anche di quello delle forze
20
Sentinel.janes.com, China Armed Forces, Issue n.15, 2004.
132
nucleari strategiche di Pechino, che dovrebbero garantire un quadro dissuasivo sufficiente
ad evitare massicce reazioni americane. Si tratta di elaborazioni teoriche e di wishful
thinking che hanno ben pochi collegamenti con la realtà, quando si pensi al fatto che gli
Stati Uniti e i loro alleati dispongano di un prodotto annuo che si avvicina a 30 mila
trilioni di dollari, contro i poco più dei 3 cinesi; che il bilancio della difesa americano
supera il 45% del totale delle spese militari mondiali e che la U.S. Navy ha un
dislocamento complessivo di 2.500.000 tonnellate contro le meno di 250.000 della PLAN 21 .
Da un concetto “antiegemonico” di “deterrenza minima” (i cinesi lo denominano
“anti-imperialista”, dato che normalmente utilizzano il termine “imperialismo” al posto di
quello di “egemonia”) - valido sin dallo scoppio nel 1964 della prima bomba atomica
cinese - si è passati ad un concetto di “deterrenza limitata” (talvolta definita “sufficiente”),
sempre fondata sulla capacità di “secondo colpo” e sul no first use nucleare, ma realizzata
con strumenti meno vulnerabili ad un first use americano e russo (ad esempio, ICBM a
combustibile solido, anziché liquido, i quali richiedono tempi troppo lunghi di
preparazione al lancio) 22 .
I responsabili di Pechino sono molto preoccupati dagli sviluppi delle difese anti-missili
americane e giapponesi. Temono la loro estensione a Taiwan, a cui, peraltro, gli USA
hanno negato la cessione di incrociatori dotati di sistemi Aegis Standard III, limitandosi ad
esportare qualche batteria di Patriot PAK 3. Si sono sentiti “traditi” da Mosca, allorquando
il Presidente Putin non reagì, nel dicembre 2001, al ritiro USA dal Protocollo ABM del
Trattato SALT 1, che poneva forti limiti allo sviluppo di difese anti-missili balistici
strategici.
Il Presidente Hu Jintao ha condannato anche la scelta di Mosca di distinguere
nettamente fra le difese strategiche e quelle “di teatro”, che sono poi quelle che
interessano Taiwan 23 e che, comunque, Mosca ha sempre avuto contro le minacce dei
missili cinesi a gittata intermedia.
21
Bernard D. Cole, The Great Wall at Sea: China’s Navy Enters the Twenty-First Century, Naval Institute
Press, Annapolis, 2001.
22
Larry Wortzel, The Trouble With China’s Nuclear Doctrine , in Jane’s Defense Weekly, 22 February
2006.
23
Sentinel.janes.com, Issue n.15-2004, China and North East Asia, specie pp. 539-42.
133
Tali critiche sono state particolarmente dure nei confronti del Giappone, anche perché
la Cina ha ogni interesse alla divisione dell’Occidente. Per questo ha assunto una
posizione molto equilibrata nella disputa fra gli Stati Uniti e la Russia per l’indipendenza
del Kosovo e non ha pronunciato particolari critiche sull’estensione all’Europa del sistema
antimissile USA, con l’installazione di una base di intercettori in Polonia e di una stazione
radar in Repubblica Ceca.
Un’ultima evoluzione sta però verificandosi, come risulta dal discorso prima citato del
Presidente dell’Università Nazionale di Difesa di Pechino. Esso consiste nel nuovo
concetto di “deterrenza credibile”. Esso non escluderebbe il first use nucleare, qualora gli
USA dovessero impiegare contro la PLA la potenza della network centric warfare. In tale
caso, secondo l’esponente militare cinese, gli obiettivi non sarebbero però controforze, ma
controrisorse; consisterebbero cioè nella popolazione e nelle città americane.
È difficile dire fino a che punto tale mutamento di dottrina strategica nucleare sia reale
o solo dichiaratorio. Potrebbe essere stata in un certo senso una risposta alle dichiarazioni
del Capo di Stato Maggiore della Difesa giapponese, che ha insistito sulla necessità per il
suo paese di dotarsi di un armamento nucleare e di estendere esplicitamente a Taiwan le
garanzie di sostegno nipponico, già implicitamente previste dal Trattato di alleanza fra
Tokyo e Washington. Le affermazioni del Capo di Stato Maggiore sono condivise da
molti ambienti politici e militari giapponesi. Secondo altri ancora, il Giappone avrebbe
ogni interesse ad alimentare tensioni fra la Cina e gli USA, in modo da rendere
impraticabile una stretta cooperazione strategica fra Washington e Pechino, quale quella
verificatasi immediatamente dopo l’11 settembre. Essa non consisterebbe – come è stato
attribuito a dichiarazioni del Segretario di Stato Condoleezza Rice – in una combinazione
fra il contenimento della Cina e il suo coinvolgimento nella gestione dell’ordine mondiale
– come proposto da Robert Zoellick - ma addirittura in un’alleanza di fatto fra Stati Uniti e
Cina – quella che si è denominata “Chimerica” – analoga a quella esistente tra il 1972 e il
1989 in funzione anti-sovietica. Essa si avvarrebbe del “Dialogo Economico Strategico”
sino-americano, foro ad alto livello che si tiene ogni due anni, la cui prima riunione si è
svolta a Washington nel maggio 2007. Anche qualora non si trasformasse in un’alleanza
formale, “Chimerica” renderebbe meno importante geopoliticamente il Giappone, che
intende invece riprendere almeno in parte l’influenza in Asia orientale e meridionale, che
134
aveva sottratto alla Cina a partire dal conflitto sino-giapponese del 1894-96, ma che
Pechino gli aveva a sua volta sottratto approfittando anche dalla stagnazione
dell’economia giapponese, verificatasi dall’inizio degli anni novanta al 2004. Tale politica
è contrastata dagli ambienti imprenditoriali e commerciali giapponesi. Essi sono invece
fautori del sostegno - se non della partecipazione nipponica – all’intesa sino-americana,
dato che la Cina rappresenta oggi il più grande mercato per le merci e gli investimenti del
Giappone. Le due economie sono sempre più interdipendenti. La recente ripresa di quella
giapponese è dovuta alla funzione di traino che su di essa ha avuto la crescita cinese. Sta
emergendo un mercato regionale asiatico integrato, anche se aperto all’economia
mondiale, in misura maggiore di quanto avvenga negli gli Stati Uniti e in Europa.
La capacità di adottare la nuova strategia nucleare del “deterrente credibile” dipende
dal potenziamento delle forze della Seconda Artiglieria: nuovi missili intercontinentali (il
CSS-15 o 31-A dalla gittata di ben 14 mila Km) e soprattutto sommergibili nucleari
lanciamissili – invulnerabili ad un first strike americano. Oggi quest’ultimo avrebbe
ancora buone probabilità di distruggere le capacità nucleari strategiche della Cina, dato
che la massa dei suoi ICBM è a combustibile liquido e richiede un notevole tempo di
preparazione al lancio. La Cina, poi, dispone di un solo sommergibile nucleare lanciamissili. Parallelamente a tale potenziamento dell’arsenale strategico, la Cina sta
ammodernando sia le centinaia di missili a gittata corta e intermedia (ormai quasi un
migliaio) schierati di fronte a Taiwan, e i sommergibili convenzionali diesel-elettrici a
rigenerazione d’aria, capaci di rimanere immersi a bassa velocità per 40 giorni 24 , anziché
per quattro (come avviene per i sommergibili convenzionali), prima di far emergere lo
shnorkel, mettere in moto i motori diesel e ricaricare le batterie.
Le minacce alle frontiere terrestri settentrionali e occidentali, la cui difesa aveva
sempre avuto un carattere sostanzialmente statico, impersonato nel passato dalla “Grande
Muraglia”, sono scomparse. Caso mai è oggi la Cina ad acquisire una capacità di
proiezione di potenza anche a terra. Da potenza stanziale e terrestre - quindi
sostanzialmente locale - la Cina sta trasformandosi in una potenza marittima almeno
regionale, mantenendo però una capacità di pressione in Asia centrale e nella penisola
indocinese. Per la prima volta nella sua storia – a parte le crociere dell’ammiraglio Zhen
24
http://sentinel.janes.com, China and North East Asia, cit.
135
He del XV secolo, considerate dagli storici imperiali del tempo un “dispendioso
passatempo” – sarebbe quindi sempre più proiettata sugli oceani, in sintonia con la
globalizzazione della sua economia export-led e delle sue esigenze di materie prime.
Si tratta di un “cosmopolitismo” strategico nuovo nella storia cinese. In esso, Pechino
si trova confrontata con la supremazia globale degli USA, particolarmente accentuata in
campo navale e aerospaziale. Anche se non si può affermare che ci si trovi di fronte ad un
completo mutamento della strategia cinese – da difensiva e regionale ad offensiva e
globale – molti esperti USA sono sempre più preoccupati di quanto sta avvenendo in Cina,
anche per la scarsa trasparenza del bilancio cinese della difesa e per la difficoltà di
conoscere quali siano gli obiettivi cinesi di lungo periodo25 .
La costruzione di una marina militare oceanica, il cui raggio di azione sarebbe
destinato ad espandersi progressivamente, in parallelo con la crescita economica, è stata
teorizzata sin dal 1992, nella Legge Navale cinese. In essa si affermava abbastanza
chiaramente non solo che la Cina avrebbe dovuto occupare il vuoto di potenza
determinatosi nel Mar Cinese Settentrionale e nel Pacifico dal collasso dell’URSS, ma
anche che la sua condizione di superpotenza economica globale non le consentiva più di
dipendere dalla garanzia di un’altra superpotenza - cioè degli USA, considerati se non
nemici, almeno potenzialmente ostili – per il libero uso delle SLOC vitali per Pechino.
Come si è ricordato, è quanto meno dubbio che, anche nel lungo periodo, la geografia
renda possibile alla Cina la realizzazione del sea control delle sue SLOC o una proiezione
globale di potenza a garanzia dei suoi interessi economici e delle sue diaspore oltremare.
Tali obiettivi implicherebbero una netta superiorità della PLA-N sulla U.S. Navy e sulle
marine dai loro alleati, irraggiungibile per Pechino, anche con la disponibilità di basi
navali all’estero, come quelle che sta costruendo nel Golfo del Bengala e sul Mare
Arabico. Oggi, la Marina cinese non è in grado neppure di realizzare un sea denial
significativo per contrastare l’afflusso delle forze aeronavali e anfibie americane a difesa
di Taiwan, né il sea control dello Stretto che separa l’isola alla terraferma, per proteggere
le navi necessarie ad un’invasione dell’isola e al suo successivo sostegno logistico. Oggi,
le navi anfibie disponibili sono a malapena sufficienti per il trasporto di una sola divisione.
25
John J. Tkacik jr., China’s Quest for a Superpower Military, Backgrounder n. 2036, The Heritage
Foundation, Washington D.C., May 17th, 2007.
136
Beninteso, esse potrebbero rapidamente moltiplicarsi, dato che la cantieristica
commerciale cinese ha superato quella sud-coreana, divenendo la prima del mondo. A
parte ogni altra considerazione di ordine politico ed economico – relativa cioè agli enormi
danni che subirebbe l’economia cinese per un blocco navale che gli USA e i loro alleati
sarebbero in condizione di fare senza particolari difficoltà militari – queste limitazioni
tecniche rendono improbabile un’invasione anfibia dell’isola e anche un suo blocco navale
da parte di Pechino, almeno nel breve-medio periodo.
Le linee di sviluppo delle forze armate cinesi e quindi la loro sostenibilità economica e
tecnologica vanno valutate proprio in questa ottica, cioè esaminando in che modo Pechino
ritiene che il suo “spazio vitale marittimo” debba e possa essere esteso.
Solo in tal modo possono ragionevolmente essere fatte previsioni sull’evoluzione della
dottrina strategica, sul potenziamento della PLA, nonché sulla futura consistenza del
bilancio militare cinese. In ogni caso sono fattori che sembrano più collegati con
l’evoluzione più della politica che dell’economia cinese. Uno Stato non si riarma per il
gusto di farlo e perché ne ha la possibilità economica; lo fa per perseguire precisi obiettivi
geopolitici.
Nel valutare significato e prospettive del riarmo della PLA, occorre tener conto che il
pensiero militare cinese ha sempre attribuito la massima importanza a strategie e strumenti
asimmetrici e indiretti. Pertanto, gli approcci seguiti dall’Occidente nella valutazione dei
rapporti di forza conducono a risultati fuorvianti. Ancora meno significativi sono le
deduzioni che possono essere tratte dal confronto dei bilanci militari, a parte la difficoltà
di valutarne il potere d’acquisto, che è molto differente da paese a paese e che dipende
anche dal tipo di pianificazione delle forze e finanziaria che viene seguita. Occorre
soprattutto tener conto che un riarmo della Cina determinerebbe preoccupazioni e reazioni
nei suoi vicini, con conseguente attenuazione o scomparsa dell’attuale efficacia del soft
power, che sta aumentando la potenza e l’influenza cinese in Asia e nel mondo.
Nelle pagine che seguono si analizzeranno le strategie elaborate dalla Cina del dopoDeng in tema di guerra convenzionale. Successivamente verrà effettuata un’analisi di
significato strategico degli sviluppi di armi antisatelliti cinesi e nel settore della cyberwar,
per concludere con l’esame delle probabili linee di sviluppo della dottrina strategica e
strutturale della PLA.
137
Va subito detto che gli sviluppi finora avvenuti – pur adattandosi in modo assai
flessibile ed efficace ai mutamenti di situazione – sono stati sempre coerenti con le
direttive-chiave – cosiddette delle “ventiquattro lettere” – dettate da Deng Xiaoping per la
strategia e la conseguente pianificazione strategica cinese: “osserva con calma; non
esagerare nelle reazioni; non cedere ma difendi duramente i tuoi principi e interessi;
nascondi le tue capacità; guadagna tempo; non cercare di primeggiare ad ogni costo; cerca
di accumulare progressivamente piccoli successi per aumentare i tuoi vantaggi
competitivi”. Sono prescrizioni perfettamente in linea con gli insegnamenti dei classici
strategici cinesi. Esse rispecchiano anche la consapevolezza delle condizioni d’inferiorità
militare della Cina e dell’esigenza di sfruttare la sorpresa e le vulnerabilità degli Stati
Uniti, per posizionarsi nel futuro nel miglior modo possibile.
Da realistiche valutazioni dei rapporti di forza reali è sicuramente disceso da un lato il
cauto comportamento cinese volto ad evitare uno scontro frontale con gli USA, dopo
l’invio, nel 1995-96, da parte del Presidente Clinton di due gruppi portaerei nello Stretto
di Taiwan, e, dall’altro lato, la decisione del XVI Congresso del PCC del 2002 che la Cina
ha tutto da guadagnare nel proiettare un’immagine positiva e cooperativa nella comunità
internazionale, in altre parole nello sfruttare il suo soft power. Lo fa valorizzando
l’attrazione per il suo modello politico-economico ed avvalendosi non solo di accordi
bilaterali, ma anche di istituzioni come lo SCO, l’ASEAN+3 e il Summit dell’Asia
orientale. Tale politica di cautela e di collaborazione è seguita anche nei confronti degli
Stati Uniti con l’APEC e con il Foro Economico Strategico. Questi ultimi hanno
acquistato maggiore importanza da quando le relazioni fra Pechino e Tokyo sono
migliorate con l’avvento al potere del premier Abe al posto di Koizumi.
4. La strategia asimmetrica di Pechino
Per la PLA non solo oggi, ma anche nel futuro a medio termine, sarebbe un suicidio
affrontare frontalmente le forze USA, anche solo nello Stretto di Taiwan. Non è però detto
che Pechino non interverrebbe direttamente per salvaguardare il suo prestigio, qualora i
dirigenti di Taipei “forzassero la mano” dichiarando l’indipendenza dell’isola. Vanno
comunque ricordate ancora le pressioni di Washington sugli indipendentisti di Taiwan, per
138
farli recedere dai loro propositi e la sua minaccia di non intervenire a sostegno dell’isola,
qualora Taiwan provocasse la Cina. A tal riguardo, gli USA ripetono a Taipei che il
Trattato di amicizia con l’isola non li impegna a farlo. Ma anche in assenza di un impegno
formale, gli Stati Uniti sarebbero in pratica obbligati ad intervenire, anche a rischio di un
conflitto globale con la Cina. Se così non fosse, perderebbero ogni credibilità nell’intera
Asia orientale e anche meridionale. Inoltre, dalla persuasione che gli USA interverrebbero
dipende la capacità dissuasiva nei confronti di Pechino, perché non impieghi la forza per
riunificare l’isola al continente.
Ad ogni buon conto, le analisi e la pianificazione strategiche devono tener conto più
delle capacità che delle intenzioni, le quali possono mutare rapidamente. La Cina ha da
tempo considerato la possibilità di realizzare i propri obiettivi di dissuadere e, se del caso,
impedire la secessione di Taiwan con tattiche e tecniche non convenzionali, quelle che il
pensiero strategico classico cinese denominava “le armi magiche” (in termini occidentali
si chiamano armi asimmetriche, usate per determinare vantaggi competitivi). Essi vanno
dalla guerra politica del “Fronte Unito” 26 alla guerra elettronica e a quella cibernetica, per
giungere a quella del “controspazio”, con armi ASAT 27 .
Il Fronte Unito è un termine che era già utilizzato da Mao e indica la ferma volontà di
realizzare l’unità della Cina, magari con la formula “una Cina, due sistemi”, già utilizzata
per Hong Kong e per Macao. Il termine è stato ripreso dai vari leaders cinesi – Deng,
Jiang e Hu – e consiste nel mantenimento di elementi favorevoli all’unificazione dell’isola
con la Cina all’interno dei vari partiti politici taiwanesi, in particolare di quello del
Kuomintang, più unionista dei nazionalisti del Presidente Chen Shui-bian. Esso implica
l’infiltrazione e l’utilizzazione dei numerosi taiwanesi (quasi un milione) che lavorano
nella Repubblica Popolare, nonché il finanziamento dei partiti politici dell’isola favorevoli
alla Cina e anche di quelli degli Stati Uniti. Ad esempio, la Cina ha generosamente
finanziato la campagna presidenziale di Clinton e quella di Al Gore.
A tale azione, si accompagna l’opera di propaganda “patriottica”, rivolta in particolare
alla classe imprenditoriale e commerciale taiwanese, che ha consistenti interessi in Cina;
investimenti per oltre 50 miliardi di dollari e diverse migliaia di joint ventures industriali e
26
John J. Tkacik, From Surprise to Stalemate, in Laurie Burkitt et alia (eds), The Lessons of History: the
People Liberation Army, U.S. Army War College Strategic Studies Institute, Fort Carlisle (VA), 2003.
27
David Lague, China Enchances Cyberwar Power, International Herald Tribune, August 30th, 2007, p. 6.
139
commerciali. Solo in casi eccezionali, a tale azione psicologica sono state affiancate vere e
proprie forme d’intimidazione, come quella del 1995-96, effettuando lanci di missili nelle
acque prospicienti i principali porti di Taiwan.
Sotto il profilo propriamente militare, la PLA attribuisce grande importanza
all’information warfare e alla cyberwar. Gli obiettivi sono quelli di essere in grado di
creare caos nell’isola, inabilitandone o distruggendone le infrastrutture critiche sia delle
comunicazioni che informatiche, nonché di contrastare l’afflusso delle forze navali USA e
la loro information dominance. La PLA ha costituito a tale scopo talune “unità di guerra
delle informazioni”, composte da specialisti ad altissimo livello, e ha elaborato una
dottrina d’impiego coordinata con quella delle forze d’attacco “fisico”, cioè il lancio di
missili, i bombardamenti aerei e gli attacchi di commandos di forze speciali o di agenti
infiltrati a Taiwan o di simpatizzanti locali. A parte l’utilizzazione di tali tecniche e
tattiche per favorire il successo di un’aggressione, secondo i responsabili cinesi, tali azioni
potrebbero infliggere enormi danni all’economia dell’isola, valutati pari a quelli di un
attacco missilistico o di un blocco navale 28 .
Gli apparati e gli specialisti del settore sono stati talvolta impiegati anche per attaccare
le reti di comunicazioni e radar delle forze americane e giapponesi. La Cina dispone di
buone tecnologie a riguardo, di provenienza soprattutto russa e israeliana. In particolare, la
PLA ha schierato un UAV anti-radar, del tipo Harpy, prodotto da Israele 29 , che sarebbe in
grado di neutralizzare i principali sistemi radar di Taiwan.
Inoltre, la PLA ha istituito unità di élite aviotrasportate e speciali, sul modello
occidentale. Ha costituito in particolare la 15ª Armata Aviotrasportata, forte di quattro
divisioni. Attualmente avrebbe 40 mila effettivi, destinati a divenire 70 mila e forse 100
mila. In tal caso si sdoppierebbe, originando la 16ª Armata Aviotrasportata. I velivoli da
trasporto sono però ancora in numero ridotto ed importati dalla Russia. La PLA possiede
una cinquantina di Il-76, mentre per il trasporto completo di una divisione aviotrasportata
ne occorrono almeno una settantina. Sono comunque in corso trattative per acquistare o
co-produrre gli enormi Antonov An-124, con una capacità di carico di 120 tonnellate.
28
Timothy Thomas, China’s Electronic Strategies, in Military Review, May-June 2001; vds. anche Micheal
Pillsbury (ed.), Chinese View of Future Warfare, National Defense University, INSS, Washington D.C.,
1997.
29
Bill Gertz, China Deploys Drones from Israel , in Washington Times, July 2nd, 2002.
140
L’industria cinese non ha ancora prodotto nessun velivolo large-body, anche se
all’acquisizione di tale capacità viene attribuita una priorità elevata.
Infine, la PLA sta dedicando grandi sforzi e risorse alla costituzione di Forze Speciali.
L’obiettivo sarebbe quello di raggiungere i 25 mila effettivi. La dottrina militare cinese,
tra l’altro, ne prevede l’impiego per distruggere nodi di comunicazione e radar e
componenti della difesa antimissili e contraerea e per effettuare operazioni diversive e
psicologiche. Molto bene addestrate, le Forze Speciali giocherebbero un ruolo essenziale
in qualsiasi attacco a Taiwan. Rappresentano uno “strumento asimmetrico” capace di
contrastare la rilevante potenza convenzionale non solo delle forze anfibie e aeronavali
americane, ma anche di quelle aeroterrestri taiwanesi, in possesso di un ottimo livello
tecnologico e di una consistenza tale da poter respingere qualsiasi attacco anfibio di
consistenza inferiore alle quattro-cinque divisioni.
5. Implicazioni strategiche delle capacità antisatellitari cinesi
L’11 gennaio 2007, la testata di un missile balistico a raggio intermedio distrusse all’altezza di 864 km dalla Terra e con impatto diretto – un vecchio satellite meteorologico
cinese 30 . Le preoccupazioni USA furono molto forti, anche perché il missile intercettore
distrusse il satellite in condizioni molto difficili, quando il missile era ancora nella sua fase
ascensionale. Il successo dell’esperimento dimostra l’elevato livello tecnologico posseduto
dalla Cina nel settore. Occorre tener conto che il satellite aveva una velocità di circa 7.5
km/secondo, cioè una molto simile a quella di un missile intercontinentale, e che, secondo
le valutazioni americane, l’esperimento non è stato manipolato, ad esempio, con segnali
elettronici provenienti dal satellite per dirigere contro di lui la testata attaccante. I cinesi
mantennero segreto il loro esperimento, anche se avrebbero dovuto segnalarlo, per il
pericolo che i pezzi del satellite distrutto, dispersi nello spazio, rappresentano per le
migliaia di satelliti commerciali in servizio. Furono gli USA ad annunciarlo, alquanto
preoccupati per l’effetto negativo che le capacità ASAT cinesi avrebbero sulle loro forze
30
Ashley J. Tellis, Punching the U.S. Military Soft Ribs – China’s Antisatellite Weapon Test in Strategic
Perspective, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Brief 51, June 2007.
141
navali e aeree che operano nel Pacifico occidentale e la cui potenza dipende dalla
possibilità di utilizzazione delle reti satellitari di ricognizione, di comunicazione, di
posizionamento e di guida delle armi di precisione.
Secondo la gran parte degli esperti strategici USA, la dimostrazione di tali capacità ha
rappresentato un chiaro segnale di Pechino a Washington, per diffidarla dal fare eccessivo
affidamento sulla sua potenza convenzionale. Molto correttamente essa viene contrastata
dalla Cina non in modo diretto, ma ricorrendo a tattiche e tecniche indirette, colpendo cioè
non la flotta americana, ma i satelliti che le sono indispensabili per esprimere tutta la sua
potenza. Ciò corrisponde alla logica di base del pensiero strategico cinese di colpire le
vulnerabilità dell’avversario, anziché i suoi punti di forza. È stato, altresì, un avvertimento
a Washington della facilità con cui potrebbero essere neutralizzate le sue difese
antimissili.
L’analisi dettagliata delle implicazioni dell’esperimento ASAT cinese - sulla strategia
e sulle pianificazioni delle forze statunitensi - non rientra negli obiettivi della presente
ricerca. Va peraltro notato che la sicurezza degli USA di poter utilizzare completamente lo
spazio come moltiplicatore di potenza delle loro forze di superficie e aeree ha subito un
grosso colpo. Sicuramente, gli USA effettueranno in futuro enormi sforzi per ridurre la
vulnerabilità delle loro reti satellitari (corazzatura, manovrabilità, difese attive sistemate a
bordo di satelliti e soprattutto disponibilità di missili per il lancio di satelliti di riserva,
ecc.). Inoltre, le prospettive di una “Pearl Harbour spaziale” – che finora costituivano
un’ipotesi alquanto fantasiosa - divengono più realistiche. L’attacco ai satelliti dovrebbe
precederne uno a Taiwan. Ciò potrebbe provocare una rapida escalation del conflitto,
tanto più che sia gli USA che la Cina, sarebbero indotti ad effettuare attacchi preventivi
sia contro i satelliti che contro le basi si lancio dei sistemi ASAT, ad esempio impiegando
missili balistici o cruise a testata convenzionale.
In ogni caso, l’esperimento ASAT rappresenta un caso tipico dell’approccio indiretto
sempre preferito dalla strategia orientale rispetto a quella occidentale, sin dai tempi della
falange greca, e potrebbe rendere irrilevanti tutte le valutazioni basate sul semplice
rapporto materiale - quantitativo e tecnologico – delle forze. L’ASAT potrebbe
compensare almeno in parte l’inferiorità navale della Cina rispetto agli Stati Uniti e ai loro
alleati. Va quindi usata molta cautela nel valutare le effettive capacità cinesi sia di
142
proiezione di potenza sul mare, sia d’interdizione del libero uso del mare da parte degli
Stati Uniti.
Le capacità di interdizione spaziale e cybernetica potrebbero modificare i rapporti di
forza nel Pacifico Occidentale e nell’Oceano Indiano. Infatti, più delle altre forze armate,
le Marine moderne dipendono dalla capacità di utilizzare lo spazio 31 . Lo sforzo cinese nel
settore delle armi antisatelliti (ASAT) - basate non solo su missili intercettori ad impatto
diretto, ma anche su armi con laser di potenza o disturbatori elettromagnetici, volti ad
accecare i satelliti, sia sull’EMP (Electric Magnetic Pulse), ottenibile anche con lo
scoppio di piccole armi nucleari ad alta quota - è molto rilevante.
Ancora più interessanti le risposte che si possono ipotizzare agli interrogativi provocati
dal modo con cui è stata gestita la comunicazione dell’evento non solo da parte della Cina,
ma anche del Pentagono 32 , che per primo ha dato notizia dell’esperimento. Non si sa se
ciò sia avvenuto in modo deliberato o casuale e, nel primo caso, perché gli USA l’abbiano
fatto. Si tratta di un interrogativo molto interessante per individuare quale sia la realtà
delle relazioni strategiche sino-americane. La questione non è stata discussa dai media,
troppo concentrati sulla “guerra al terrore” e verosimilmente ignari della rilevanza militare
dello spazio sui rapporti di forza fra gli Stati Uniti e la Cina.
La neutralizzazione, ovvero un forte degrado, della rete satellitare americana
inciderebbe gravemente sulla funzionalità del sistema “network-centrico”, riducendo in
misura considerevole l’incontestata ed incontrastabile superiorità convenzionale aeronavale e di proiezione di potenza degli Stati Uniti. Non solo renderebbe problematico un
intervento a favore di Taiwan, ma ridurrebbe anche grandemente la capacità del sea
control della U.S. Navy nel Pacifico occidentale e nell’Oceano Indiano. Annullerebbe poi
l’affidamento che può essere riposto nelle difese antimissili americani, che tanto
preoccupano Pechino, dato che oggi la Cina dispone solo di poche decine di missili
intercontinentali.
31
STRATFOR, George Friedman, Space and Sea-Lane Control in Chinese Grand Strategy, January 23rd,
2007.
32
International Institute for Strategic Studies, Chinese Military Messages, Strategic Comments, February
2007.
143
6. Le prospettive future
In sostanza, la politica di sicurezza, la grand strategy e la dottrina militare della Cina
non considerano il loro paese come un attore geopolitico statico, soddisfatto della sua
potenza e del suo prestigio, come era l’“Impero di mezzo” ai tempi del suo splendore.
Pensano invece che sia una “grande potenza emergente”, che debba posizionarsi sin d’ora
nel mondo e avere una capacità d’azione e di proiezione esterna di potenza e d’influenza
corrispondente all’aumento delle sue capacità economiche e militari. Esse stanno
accrescendosi sia nel senso verticale di una maggiore potenza, sia in quello orizzontale di
un maggior raggio d’azione, ormai planetario in campo economico e a livello di soft
power, ma che rimangono regionali in campo militare. Ciò corrisponde ad un vero e
proprio cosmopolitismo economico e politico e, allo stato nascente, soprattutto per ora con
la partecipazione agli interventi ONU, in campo strategico e militare. In questa sua
espansione, Pechino non segue necessariamente una rotta di collisione con Washington, né
si prepara ad un conflitto contro gli USA, eccetto in casi estremi che potrebbero essere
innescati da una provocatoria dichiarazione d’indipendenza da parte di Taiwan.
Dichiarazione che, giova ancora sottolinearlo, è fortemente contrastata dagli stessi Stati
Uniti.
In Cina si parla di anti-egemonismo (anche se il termine più usato è “antiimperialismo”) e di un mondo multipolare e multilaterale (i due concetti, strutturalmente
diversi fra loro, sono – come si è ricordato - utilizzati negli scritti cinesi come sinonimi).
Non si parla di contenimento degli Stati Uniti e del loro ritiro dal sistema Asia-Pacifico.
Anzi, i leaders cinesi hanno più volte dichiarato – anche recentemente - che la presenza
degli Stati Uniti costituisce un fattore indispensabile per la stabilità del tale sistema. Non
esiste cioè – almeno per ora - una “dottrina Monroe” asiatica, erede in un certo senso di
quella giapponese della “co-prosperità asiatica”, precedente la seconda guerra mondiale e
di cui certi ambienti cinesi ritengono che Pechino debba prendere il testimone.
Tale trasformazione, volta ad accrescere la collaborazione con gli USA e
subordinatamente anche con l’UE – considerata da Pechino potenza decadente o
addirittura una “non-potenza”, poiché non ha elaborato una politica unitaria nei confronti
dell’Asia orientale in generale e della Cina in particolare, come dimostrano i comunicati
144
dell’ASEM (Asia-Europe Meetings) -, si è affermata soprattutto a partire dalla metà degli
anni Novanta, dopo la morte di Deng Xiaoping. Quest’ultimo era persuaso che gli USA
fossero in declino. I suoi successori - Jiang Zemin e Hu Jintao – sono convinti invece che
gli Stati Uniti rimarranno ancora per decenni – forse per gran parte del XXI secolo - la
potenza strategicamente dominante nel mondo, con cui la Cina dovrà fare i conti.
Sembrano altresì persuasi che la Cina abbia tutto l’interesse a cooperare con essi e ad
assumere in modo attivo le sue responsabilità per il mantenimento dell’ordine mondiale.
L’economia cinese è strettamente interdipendente con quella americana. Se dovessero
sorgere contrapposizioni geopolitiche sarebbe impossibile per la Cina sostituire l’attuale
crescita export-led verso gli USA e l’Europa con una trainata dai consumi interni, come
previsto dall’XI Piano Quinquennale). Ciò nonostante il fatto che l’entità delle riserve
accumulate (ben 1160 miliardi di dollari a fine 2006) permetta a Pechino un notevole
margine di flessibilità. Una crisi economica americana si propagherebbe immediatamente
alla Cina, con conseguenze politiche disastrose per il potere del Partito Comunista.
La Cina è giustamente persuasa che le sia più facile raggiungere un accordo con gli
USA, basato sul comune interesse di mantenere stabile il sistema Asia-Pacifico, anziché
stringere legami sub-regionali con i paesi dell’Asia sud-orientale, divisi, instabili,
turbolenti e caratterizzati da un crescente nazionalismo e da tensioni reciproche. In tale
quadro, la regionalizzazione non costituisce un’alternativa alla globalizzazione, sebbene la
Cina tenda a sfruttarne tutti i vantaggi, anche per migliorare in Asia la sua posizione
competitiva anche nei riguardi degli USA. Tale tendenza è particolarmente evidente nello
SCO (che Pechino co-presiede con Mosca) e con l’EAS (East Asia Summit), che
escludono gli USA e che potrebbe tendere a creare una divisione nell’APEC, ma le cui
potenzialità sono contenute, da un lato dal Giappone, che non può rinunciare all’alleanza
con gli USA, e dall’altro dalla ripresa dell’importanza dell’APEC stesso (60% del PIL e
50% del commercio mondiali), dato il fallimento dell’OMC, incapace di pervenire ad un
accordo nel Doha Round, soprattutto per l’opposizione europea ad attenuare la PAC
(Politica Agricola Comune), che danneggia fortemente il Terzo Mondo.
Una diminuzione della presenza americana preoccuperebbe grandemente i paesi
dell’ASEAN (oltre che il Giappone) e li spingerebbe a costituire coalizioni anti-cinesi,
appoggiandosi verosimilmente all’India da un lato e al Giappone all’altro.
145
Anche i rapporti della Cina con il Giappone, che si erano notevolmente deteriorati
quando Primo Ministro a Tokyo era Koizumi, sono migliorati con il suo successore Abe,
ma restano sempre variabili. A parte quelle derivanti dalla storia - in particolare il ricordo
delle umiliazioni inferte dal Giappone alla Cina alla fine del secolo XIX e della terribile
occupazione dal 1937 al 1945 - esistono tensioni di natura strategica. Esse sono almeno in
parte dovute alle iniziative giapponesi di includere Taiwan nel perimetro dell’alleanza
nippo-americana, nonché di sviluppare difese anti-missili o, addirittura, di dotarsi di un
deterrente nucleare autonomo.
Un evidente obiettivo di Tokyo è quello di evitare intese troppo strette fra Washington
e Pechino. Esse diminuirebbero l’importanza del Giappone. Esistono però fra quest’ultimo
e la Cina consistenti interessi comuni, soprattutto economici. Una tensione politica, con le
sue inevitabili ripercussioni sui rapporti commerciali, potrebbe determinare una grave crisi
nelle economie di entrambi i paesi, ma soprattutto in quella giapponese. È questa una
realtà di cui i responsabili politici e gli imprenditori giapponesi sono perfettamente
consapevoli e che cercano di evitare in ogni modo.
Per questo motivo appare scarsamente credibile l’ipotesi fatta da taluni esperti,
secondo la quale la “grande strategia cinese” – quella del “confine oceanico o strategico
mobile” – sarebbe concepita soprattutto in funzione antigiapponese, per evitare che
Tokyo, in possesso di una tecnologia molto avanzata, possa contrastare nuovamente la
supremazia cinese in Asia orientale 33 .
Proprio in funzione antigiapponese, i rapporti fra Pechino e Seul sono notevolmente
migliorati, facilitati anche dal crescente anti-americanismo in Corea del Sud.
Recentemente, l’intesa fra Pechino e Seul si è fatta più stretta ed è stata prevista la
costituzione di un’Area di Libero Scambio e di una partnership strategica sino-coreana.
Comunque, almeno per ora, l’alleanza fra la Corea del Sud e gli USA continua ad essere
molto forte, come dimostra l’invio di un contingente militare sud-coreano in Iraq. Ma nel
futuro, le cose potrebbero mutare. Con l’avvicinamento alla Cina, Seul cerca di averne il
sostegno per la sua politica sunshine, che ha finora incontrato una forte opposizione a
Washington.
33
Ashley J. Tellis, Interpreting Chinese Grand Strategy: Past, Present and Future, Carnegie Endowment for
International Peace, Washington D.C., 2000.
146
Dalle considerazioni fatte, appare evidente la probabilità che la Cina intenda divenire
un attore sempre più responsabile e attivo delle relazioni internazionali e sempre meno
portata a definire le proprie responsabilità ed interessi secondo un’ottica molto ristretta ed
egoistica. Ciò comporta l’acquisizione di capacità militari che le conferiscano il carattere
di potenza regionale, e le capacità d’intervento che accrescano la sua influenza nel mondo
in parallelo all’aumento della sua potenza economica e all’espandersi delle sue relazioni
commerciali e dei suoi investimenti.
Nonostante la priorità data alla Marina e alle forze missilistiche, la Cina proseguirà un
programma di ammodernamento, potenziamento e trasformazione globale della PLA, da
forza orientata alla difesa di confini terrestri e del territorio e al mantenimento dell’ordine
pubblico e dell’unità nazionale della Cina, in uno strumento militare capace di attuare la
“difesa attiva” e la “deterrenza credibile” inclusa una capacità d’intervento terrestre. Essa
sarebbe orientata ad approfittare del declino della potenza russa, che Pechino considera
inevitabile, specie in Asia centrale.
Nell’avvenire prevedibile, la Cina continuerà a sviluppare le proprie capacità di area
denial nei riguardi di Taiwan. Per farlo, si concentrerà sulle c.d. disruptive technologies,
cioè su strategie, tattiche e tecnologie asimmetriche, sempre privilegiate nella storia del
pensiero militare cinese. Intensificherà quindi gli sforzi diretti ad acquisire una capacità di
distruzione e almeno di inabilitazione dei sistemi satellitari, tanto centrali non solo per le
capacità operative della Flotta USA, ma per l’intero sistema della network centric warfare,
nonché di migliorare le sue capacità di guerra informatica, in cui sembra aver raggiunto
capacità notevoli successo.
Comunque sia, le future capacità e strategie cinesi non dipenderanno tanto
dall’economia, quanto dalla politica e saranno condizionate dal livello tecnologico
dell’industria degli armamenti. Quest’ultimo è un indicatore più affidabile della politica,
dato che le intenzioni possono mutare rapidamente e, comunque, sono difficili da
individuare, anche per il DNA della cultura cinese, portato al mantenimento del segreto e
alla realizzazione della sorpresa.
147
Secondo numerosi esperti, il livello tecnologico militare cinese è ancora limitato 34 ,
nonostante il rientro in Cina dagli Stati Uniti di migliaia di scienziati ed ingegneri e
l’aumento degli sforzi nel settore della ricerca scientifica, dello sviluppo tecnologico e del
management industriale. Beninteso, la Cina fa tale sforzo in primo luogo per aumentare il
livello tecnologico e il valore aggiunto delle sue produzioni commerciali. Oggi le
tecnologie avanzate sono quasi tutte dual use e molti approvvigionamenti militari sono on
the shelf. Un incremento della qualità delle produzioni commerciali avrà immediate
ricadute positive sulla base industriale della difesa.
Per qualche decennio ancora è però probabile che le priorità cinesi rimarranno interne,
volte a fronteggiare gli enormi problemi sociali che Pechino dovrà affrontare nei prossimi
decenni. Solo una grave crisi economica potrà modificare tali priorità e indurre la
dirigenza di Pechino a legittimare con un nazionalismo aggressivo il mantenimento del
potere da parte del Partito Comunista Cinese (PCC). In un certo senso paradossalmente,
sarebbe quindi proprio una grave crisi economica a provocare un aumento massiccio del
bilancio militare cinese.
In conclusione una valutazione circa il futuro delle capacità militari cinesi va collegata
ad una valutazione approfondita sia dei rapporti fra USA e Cina sia degli sviluppi
scientifici e tecnologici cinesi, nonché all’analisi dei mutamenti delle percezioni politiche
dei dirigenti cinesi a riguardo dei loro interessi nazionali e delle strutture dell’ordine
internazionale, che ritengono più convenienti allo sviluppo in Cina della “società
armoniosa”, su cui tanto insiste il Presidente Hu Jintao.
Paradossalmente la Cina potrebbe abbandonare la politica del sorriso e del peaceful
development e divenire più aggressiva militarmente, solo qualora la sua economia
conoscesse una grave crisi. Sarebbe facile per la dirigenza cinese mobilitare l’opinione
pubblica a favore di un programma di riarmo e di una politica di espansione territoriale e
dell’influenza politica. Il nazionalismo è presente nel DNA cinese e riprodurrebbe l’ordine
asiatico dell’“Impero di Mezzo”, a cui i popoli vicini erano tenuti a rendere omaggio e a
versare un tributo.
34
Antonio Missiroli e Alessandro Pansa, La difesa europea, Il Nuovo Melangolo, Firenze, 2007, specie nelle
pagine che Pansa dedica all’industria cinese della difesa.
148
È quindi nell’interesse anche politico-strategico degli Stati Uniti e dell’Europa – oltre
che economico del mondo - che continui la crescita dell’economia cinese e che,
progressivamente, essa si trasformi da un sistema export led ad uno basato sui consumi
interni. Ciò garantirebbe un maggiore equilibrio all’economia mondiale e favorirebbe
anche una trasformazione politico-sociale del gigante asiatico, sviluppando un ceto medio,
attenuando l’attuale autoritarismo del PCC e rendendo l’intero sistema più compatibile
con le esigenze dell’ordine mondiale della globalizzazione. Tale trasformazione
dell’economia cinese contribuirebbe a dare stabilità all’“equilibrio degli squilibri”, che
oggi domina l’economia mondiale, rendendola vulnerabile ad una crisi: il fatto che la Cina
consumi troppo poco e risparmi troppo, mentre gli USA consumano più di quello che
producono e che, quindi, il loro debito estero cresce a dismisura e viene finanziato dal
resto del mondo, dall’Europa all’Asia e ai paesi produttori di petrolio. Se la
trasformazione non avvenisse in modo molto graduale, si determinerebbe però una brusca
svalutazione del dollaro, che sarebbe in definitiva pagata dall’Europa con una riduzione
netta delle sue esportazioni. “Chimerica” rappresenta una speranza per l’Europa.
La strategia globale e la dottrina militare cinese ne risulterebbero profondamente
mutate, anche se è inevitabile – per la stessa logica delle cose del mondo e delle relazioni
internazionali – che Pechino continui nel suo sforzo di ammodernamento del proprio
apparato militare. La possibilità di un accordo stabile con gli USA dipende infatti sempre
dall’esistenza di un certo equilibrio strategico, che elimini in questo caso la tentazione di
Washington di utilizzare la forza militare come mezzo per conseguire obiettivi di politica
estera, come hanno consigliato di fare alcuni dei neoconservatori più radicali.
149
CAPITOLO VI
IL BILANCIO MILITARE CINESE: SITUAZIONE E PROSPETTIVE
1. Variazioni della spesa militare cinese
Negli ultimi dieci anni il bilancio militare cinese è aumentato mediamente del 15%
all’anno, più che triplicando la sua entità in termini reali, mentre la PLA diminuiva di
circa un terzo i suoi effettivi, quadruplicando così la capitalizzazione pro capite. Dalla
combinazione dei due provvedimenti risulta evidente l’ammodernamento della PLA
cinese in tutte le sue componenti, ma specie della “Seconda Artiglieria” (forze
missilistiche sia nucleari che convenzionali) - dalla forza di 90-120.000 effettivi - della
Marina e delle forze di reazione rapida, dipendenti direttamente dalla Commissione
Militare Centrale, cioè del 15° Corpo Aviotrasportato (35.000 effettivi), delle due Brigate
anfibie (12.000 effettivi) e le Forze Speciali della PLA (30-50.000 effettivi). Nel 1978,
all’inizio delle riforme di Deng Xiaoping, la percentuale del bilancio della difesa rispetto
al PIL era molto superiore dell’attuale: 4,3% contro l’1,7-1,8% ufficialmente dichiarato
nel 2007 e al 2,2-2,3% valutato dalla maggior parte degli esperti. 1
I dati a cui si fa riferimento sono quelli ufficiali, che sono caratterizzati da una scarsa
trasparenza. Innanzitutto, molte spese militari – come si dirà in seguito – non sono iscritte
nel bilancio della difesa. Inoltre, esiste una notevole discordanza fra le valutazioni degli
esperti circa l’effettivo potere d’acquisto del bilancio cinese della difesa. Ogni confronto
con i bilanci occidentali andrebbe effettuato in termini di Purchasing Power Parità (PPP).
Ma i tassi di PPP sono calcolati dalla World Bank per un basket di spesa molto diverso da
quello militare. Gli studi approfonditi fatti al riguardo dalla RAND, dell’IISS e dal SIPRI
giungono a risultati molto differenti, come d'altronde avviene per il bilancio militare russo.
1
David Shambaugh, Calculating China’s Military Expenditure, Report to the Council of Foreign Relations,
June 25th, 2002.
Tabella 1:
Entità delle spese militari rispetto al PIL
Bilancio
SIPRI
RAND
Pentagono
ufficiale
CINA
1,8 %
1,8 %
1,9-2,4 %
2,3-4,2 %
RUSSIA
2,8 %
4,3 %
___
12 %
* I dati ufficiali si riferiscono al bilancio 2007, quelli del SIPRI al 2004, quelli della RAND al 2004 e quelli
del Pentagono al 2007. Si è ritenuto opportuno aggiungere le valutazioni relative alla Russia, in cui le spese
militari hanno una trasparenza molto ridotta, per il mantenimento della vecchia tradizione sovietica del
massimo segreto sulla pianificazione militare. La Russian Accademy of Sciences – Institute of World
Economy and International Relations, Russia – Arms Control and International Security, p. 125, afferma che
quasi il 40% della spesa militare russa è mantenuta segreta.
Infine, le valutazioni dell’effettiva entità dei bilanci della difesa cinesi sono influenzate
dai preconcetti circa la natura cooperativa o competitiva della Cina rispetto agli Stati
Uniti. Va anche considerato che esse sono spesso manipolate dalle lobbies industriali e
militari degli USA, nel tentativo di assicurarsi maggiori assegnazioni di bilancio 2 .
Come risulta dalla Tabella 2, la Cina, dopo la fine della guerra fredda ridusse
drasticamente il bilancio militare, fino alla metà degli anni novanta. Le ragioni furono
almeno tre. Intanto, la scomparsa della minaccia sovietica da Nord, a seguito del collasso
dell’URSS. Poi, nonostante la loro obsolescenza, gli armamenti della PLA - in gran parte
risalenti agli anni sessanta - erano valutati ancora validi per la difesa territoriale
prolungata, prevista dalla dottrina della guerra di popolo, mentre oggi devono essere
integralmente cambiati per tener conto della le esigenze della proiezione di potenza.
Infine, la priorità data all’economia e la persuasione del Presidente Deng che - sebbene il
tempo lavorasse a favore della Cina e gli USA dovessero conoscere inevitabilmente un
declino – Washington avrebbe avuto per decenni una schiacciante superiorità militare, che
nessun riarmo cinese avrebbe potuto modificare, per poter sfidare la potenza americana
anche nel solo teatro operativo dello Stretto di Taiwan. Un motivo ulteriore fu la
progressiva adozione della strategia del peaceful rise, in cui la Cina si sforzò di non creare
preoccupazioni strategiche ai suoi vicini, provocandone uno sforzo di riarmo che avrebbe
annullato i risultati del potenziamento militare cinese.
2
Per una descrizione dei meccanismi di manipolazione dei bilanci della difesa cfr. Carlo Jean, L’Economia
della Difesa, Edizioni Rivista Militare, 1986.
151
Tabella 2: Dati ufficiali e stime del bilancio cinese della difesa ∗
Anno
Bilancio ufficiale
Spese per la difesa
Bilancio stimato
1978
16.8
0.046
33.6
Spese nazionali
per la difesa
“reali”
(in miliardi di
yuan ai prezzi del
2003)
…
1980
19.4
0.043
38.8
…
1985
19.2
0.021
38.3
113.7
1990
29.0
0.016
58.1
97.2
1991
33.0
0.015
66.1
102.8
1992
37.8
0.014
75.6
104.6
1993
42.6
0.012
85.2
95.6
1994
55.1
0.012
110.1
96.0
1995
63.7
0.011
127.3
95.5
1996
72.0
0.011
144.0
100.3
1997
81.3
0.011
162.5
109.1
1998
93.5
0.012
186.9
120.0
1999
107.6
0.013
215.3
133.1
2000
120.8
0.013
241.5
140.0
2001
144.2
0.015
288.4
157.9
2002
170.8
0.016
341.6
180.0
2003
190.8
0.016
381.6
190.8
(in miliardi di yuan a
(% del PIL)
∗∗
(bilancio uff. x2 )
prezzi correnti)
…= dati non disponibili per la deflazione
Metodologia: Il bilancio ufficiale per la difesa nazionale a prezzi correnti è stato ricavato dagli annuari
dell’Ufficio Nazionale delle Statistiche. La percentuale di tale bilancio rispetto al PIL è stata ricavata
dividendo il PIL ufficiale cinese a prezzi correnti per il bilancio militare ufficiale. Il bilancio totale per la
difesa stimato è stato ottenuto moltiplicando per due il bilancio ufficiale. Molti tentativi di stimare l’esatta
dimensione del bilancio militare riportano dati raddoppiati rispetto a quelli ufficiali, ma ci sono alcune stime
più basse ed altre più alte. Il bilancio totale della difesa ai prezzi del 2003 è stato calcolato innanzitutto
∗
Dwight Perkins, China Economic Growth: Implication for the Defense Budget, NDU, Fort McNair,
Washington D.C., 2004; cfr. anche D. Shambarugh, Calculating China’s Military Expenditure, cit.
∗∗
L’entità del bilancio della difesa cinese è stato raddoppiato sulla base delle valutazioni medie effettuate
dagli esperti del settore. Beninteso, al bilancio militare non possono essere applicate indiscriminatamente le
valutazioni in PPP (Purchasing Power Parity) della Banca Mondiale. Se al personale, alle infrastrutture e a
taluni servizi logistici fossero applicati tali criteri, si arriverebbe all’assurdo che la Cina spenderebbe, per le
forze militari e paramilitari, all’incirca l’entità del bilancio del Pentagono.
152
tenendo conto che un terzo delle spese per la difesa è per il personale (questo è il dato a volte fornito da fonti
cinesi sebbene sia sconosciuto se esso debba riferirsi alle spese totali, incluse poste escluse dal bilancio
ufficiale) e due terzi per spese non per il personale come gli equipaggiamenti. Il bilancio per il personale a
prezzi correnti è stato poi convertito nei prezzi del 2003 usando l’indice dei salari nel settore statale come
deflettore per gli stipendi del personale. Le altre spese sono state convertite ai prezzi del 2003 usando
l’indice dei prezzi franco fabbrica. I dati per il personale e per le altre poste sono stati poi sommati per
arrivare al dato presentato in questa tavola. Questa metodologia – occorre sottolinearlo – è solo un indicatore
molto approssimativo dei reali cambiamenti nelle spese per la difesa nel periodo in questione, essendoci una
varietà di assunti plausibilmente soggetti a un non trascurabile margine di errore, che possono essere stati
utilizzati proprio per manipolare i dati ai propri fini.
A metà degli anni novanta, la Cina iniziò ad aumentare i bilanci della difesa, sia per
potenziare la PLA, sia per migliorare le capacità tecnologiche della sua base industriale
della difesa. Inoltre, aumentò la quantità di armamenti importati dall’estero, specie dalla
Russia, approfittando anche dell’esistenza di enormi stocks dimessi dall’Armata Rossa 3 e
della necessità russa di mantenere in vita la base tecnologica ed industriale della propria
difesa, nonostante il crollo delle commesse delle FF.AA. russe. Va sin qui sottolineato
che, con una bilancia commerciale tanto positiva e con l’enorme entità di riserve
possedute, Pechino non avrebbe alcuna difficoltà finanziaria ad acquistare dall’estero
decine di miliardi di dollari di armamenti ogni anno. Non lo fa anche per non perpetuare la
sua dipendenza da paesi stranieri. Infine, solo la Russia è disposta – seppure con varie
limitazioni – a vendere alla Cina equipaggiamenti e armamenti avanzati, nonché a
trasferirle tecnologie, anche sotto forma di joint ventures per consentirle produzioni
nazionali. Ma anche a Mosca esistono crescenti perplessità al riguardo.
L’aumento della potenza cinese viene osservato con preoccupazione e sospetto. La
Cina è considerata come un paese potenzialmente ostile, anche per la competizione che ha
con Mosca per controllare le risorse energetiche e minerarie dell’Asia centrale e della
Siberia centro-orientale. La popolazione russa non ha dimenticato l’invasione dell’“orda
d’oro” e il “pericolo giallo”. La comune appartenenza alla Shanghai Cooperation
Organization (SCO) non ha attenuato le diffidenze di fondo, pur corrispondendo a due
interessi comuni russo-cinesi: l’eliminazione della presenza americana in Asia centrale e
la lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Oggi che tali due obiettivi sono stati
sostanzialmente raggiunti, la SCO è alla ricerca di nuove funzioni e di una nuova identità.
Ma le divergenze fra gli interessi geopolitici di fondo russi e cinesi permangono. Da
3
Michael J. Barron, China’s Modernization: the Russia Connection, Parameters, U.S. Army War College
Quarterly, Winter 2001-02.
153
questo fatto può essere derivato il fallimento della visita a Mosca del Presidente Hu Jintao
nel marzo 2007, conclusasi senza che fossero firmati i grandi contratti nel settore degli
armamenti e dell’energia, che erano stati preannunciati e predisposti a livello tecnico 4 .
Come detto, i rapporti fra Mosca e Pechino conoscono molte difficoltà. Lo dimostra il
progressivo distacco con cui Mosca considera la SCO, che copresiede con Pechino e che
comprende quattro delle cinque repubbliche centro-asiatiche. Infatti, per la Cina è un
mezzo per inserirsi nel “grande gioco” dell’Asia centrale, regione che, come si è ricordato,
viene considerata da Mosca di esclusiva influenza russa.
La crescente resistenza russa a cedere le armi e le tecnologie più sofisticate può essere
derivata da altri motivi, oltre che dal tradizionale timore russo del “pericolo giallo”. In
primo luogo, dal fatto che, mentre negli ultimi quindici anni gli acquisti da parte cinese di
armi avevano contribuito a far sopravvivere interi settori del complesso militareindustriale russo, oggi la Russia – che si è ripresa economicamente - sta aumentando gli
approvvigionamenti delle proprie forze armate. Quindi, l’apporto cinese ha diminuito la
sua importanza. In secondo luogo, sul fallimento dei colloqui del Presidente cinese a
Mosca, ha influito certamente la volontà di Putin di “mostrare i muscoli”, anche per
acquisire una parte dell’influenza perduta anche in Asia orientale. Tale tendenza è stata
dimostrata anche dal fatto che, con grande dispetto di Pechino - che aveva deciso nel
febbraio-marzo 2007 un embargo petrolifero alla Corea del Nord, perché rispettasse le
clausole concordate nel “gruppo dei sei”, sulla sua proliferazione nucleare – Mosca fornì a
Pyongyang il petrolio negato dalla Cina.
Tra Mosca e Pechino i rapporti non sono del tutto amichevoli. Va ricordata in
proposito la decisione di Mosca di far sboccare sul Pacifico, in corrispondenza delle coste
del Giappone, il grande oleodotto e gasdotto siberiani. Essa non è stata dovuta solo a
ragioni economiche. Pechino avrebbe invece voluto che gas e petrolio russo fossero
instradati attraverso il territorio cinese. Mosca continua a temere un avvicinamento tra
Pechino e Washington - cioè “Chimerica” - data la crescente interdipendenza delle due
economie e il fatto che la Cina è sostanzialmente favorevole al mantenimento dell’attuale
ordine unipolare che le garantisce il peaceful rise economico, rispetto alle incertezze e
4
Roberto Bendini, La visita del Presidente Hu Jintao a Mosca, Pagine di Difesa, 3 maggio 2007. Per
un’analisi approfondita del problema cfr. Richard Weitz, The Sino-Russian Arms Dilemma, The Jamestown
Foundation, China Brief, vol. 6, Issue 22, November 8th, 2006.
154
turbolenze che avrebbe un ordine multipolare. Il primo le consente infatti di avvalersi
della stabilità strategica globale – che esso produce - per poter crescere, aumentando la sua
potenza, senza suscitare eccessivi timori nei suoi vicini asiatici orientali, dal Giappone ai
paesi dell’ASEAN, secondo la linea tracciata da Deng e dai suoi successori.
La Cina sa che, comunque, la cooperazione con gli USA sarà su basi paritetiche solo
se esiste un certo equilibrio delle forze. Prima o poi dovrà provvedere da sola alla
costruzione delle proprie armi. L’acquisto di armi russe è un palliativo. Pechino è invece
più interessata agli armamenti occidentali. Aspetta in particolare di poter accedere alle
tecnologie militari europee, quando l’UE eliminerà l’embargo deciso dopo Piazza
Tienanmen. I miglioramenti tecnologici della sua industria commerciale cominciano
comunque ad avere spin-in positivi su quella della difesa. Date le sue ambizioni di
divenire una grande potenza mondiale, anche militare, la Cina ha deciso di dotarsi di una
propria industria degli armamenti, in grado di competere a livello globale con gli Stati
Uniti e, a livello regionale, con il Giappone, con l’India e, a parer mio, in primo luogo con
la Russia.
Va notato che, nonostante tutti gli sforzi effettuati al riguardo, è difficile valutare non
solo l’entità reale di un bilancio militare (eccetto - seppur sempre con difficoltà, come
dimostra la differenza delle varie valutazioni effettuate - la sua percentuale rispetto al
PIL), ma anche e – soprattutto – ciò che esso significhi in termini di capacità operative che
produce e, ancor più, quali obiettivi politico-strategici tale livello di bilancio consenta di
raggiungere. L’analisi dei trends del passato rimane essenziale per le previsioni future.
Queste, pur riferendosi alle capacità tecniche ed operative, consentono di valutare – o,
quanto meno, di ipotizzare con qualche attendibilità anche le intenzioni e gli obiettivi
politicostrategici.
Comunque sia, si possono effettuare le seguenti conclusioni sulla capacità della Cina
di finanziare la sua potenza militare: i) il vincolo finanziario, sia esterno che interno, non
rappresenta una remora ad un riarmo anche massiccio. Il contenuto debito pubblico, la
bassa pressione fiscale e l’inflazione cinese (tutto sommato ridotta, nonostante i recenti
aumenti) permetterebbero un cospicuo aumento del budget della difesa, eventualmente in
deficit spending da far gravare sulle future generazioni. A metà 2007, il tasso di inflazione
cinese è aumentato dal 2% al 6,5%, il che fa temere ad alcuni economisti che sia in atto un
155
surriscaldamento dell’economia. Nonostante ciò, la Cina – senza particolari ricadute
negative sulla propria crescita economica – potrebbe raddoppiare, se non triplicare
l’attuale bilancio militare; ii) le risorse valutarie consentono alla Cina di acquistare
all’estero tutte le armi e le tecnologie di cui creda di aver bisogno. In questo campo però,
esistono limitazioni decise dagli Stati Uniti e dall’Europa, ed alcune adottate
autonomamente dalla Russia, per motivi di sicurezza nazionali; iii) nessuno Stato ha né
avrà interesse al potenziamento militare della Cina. Qualora si verificasse, esso
provocherebbe un riarmo generalizzato che neutralizzerebbe gli effetti strategici e politici
degli sforzi cinesi; iv) come verrà dato in seguito, l’industria degli armamenti cinesi potrà
raggiungere l’attuale livello tecnologico occidentale non prima di 15-20 anni.
Occorre comunque tener conto che il ricorso da parte cinese a strategie e tecnologie
asimmetriche rende estremamente difficoltosa una valutazione dell’output di capacità
operative e strategiche conseguenti all’entrata in servizio di nuovi sistemi d’arma e, ancor
meno, a quelle dovute a variazione del bilancio militare. L’effetto di un dato livello di
spesa militare dipende – spesso ancor più della sua consistenza – dalle priorità adottate
negli approvvigionamenti, dal rapporto delle spese slow cost rispetto a quelle fast cost e
dalla continuità della programmazione. La capacità operativa reale dipende dall’effetto
cumulativo del procurement dei precedenti 15-20 anni.
2. L’attuale bilancio militare cinese
a. Le difficoltà di valutazione dell’entità del bilancio della difesa
Il bilancio della difesa cinese è poco trasparente, anche se la sua opacità è in corso di
attenuazione da quando, nel 1998, è stato pubblicato il primo Libro Bianco della Difesa.
La sua trasparenza aumenterà se Pechino rispetterà la promessa fatta all’ONU di notificare
le proprie spese militari in forma più completa e chiara di quanto avvenga oggi. Il bilancio
ufficiale è diviso in tre categorie – di dimensioni pressoché analoghe. Esse riguardano
rispettivamente il personale, l’esercizio e gli approvvigionamenti. Tutti gli esperti del
settore concordano sul fatto che il bilancio ufficiale sia molto inferiore a quello reale. Le
ragioni sono diverse.
156
Primo: il valore dello yuan in termini monetari (il Market Exchange Rate o MER) era
all’inizio del 2007 di 8,19 yuan o renminbi per un dollaro. La moneta cinese è stata
leggermente rivalutata rispetto al dollaro (8%), il quale ha però, rispetto all’euro, ha subito
un deprezzamento di oltre il 30% negli ultimi quattro anni. Nel corso del “Dialogo
Economico Strategico USA-Cina”, tenutosi a Washington nel maggio 2007, Pechino ha
accettato di aumentare dallo 0,3 allo 0,5% il tasso d’oscillazione giornaliero consentito
alla propria moneta. Ciò è di scarso ausilio per valutare l’effettiva capacità d’acquisto
della PLA e i suoi mutamenti nel tempo. Se come base del confronto si fosse utilizzato
l’euro al posto del dollaro, si avrebbero risultati molto differenti, in particolare un minor
aumento del bilancio della difesa, oltre che del PIL cinese, data la rivalutazione che ha
subito l’euro rispetto al dollaro. Occorrerebbe valutare il bilancio militare cinese in termini
di Purchasing Power Parity (PPP, parità di potere d’acquisto), ma quest’ultima varia a
seconda della composizione del “paniere di spesa” considerato. Nel caso militare non è
disponibile una specifica PPP, anche perché intervengono fattori - come la qualità dei
sistemi d’arma o il numero di ore di volo di addestramento per pilota - molto disomogenei
e impossibili da ridurre a valutazioni comparabili tra di loro con qualche attendibilità. Tale
difficoltà origina valutazioni molto diverse. Un esempio è riportato nella Tabella 3.
Mentre il bilancio ufficiale della difesa cinese per il 2007 è di 45 miliardi di dollari, quello
valutato dal Pentagono 5 varia da 85 a 125 miliardi di dollari, mentre il SIPRI ritiene che
esso ammonti a ben 188 miliardi di dollari per il 2006, cioè prima dell’aumento del 17,8%
del bilancio 2007 rispetto a quello dell’anno precedente.
Sono stati fatti vari tentativi per valutare l’entità effettiva del bilancio militare cinese 6 ,
per passare dall’input finanziario all’output operativo-strategico e da quest’ultimo alle
effettive capacità politico-strategiche, al fine di individuare – o almeno ipotizzare – le
intenzioni politiche dei dirigenti di Pechino. I risultati ottenuti sono molto difformi e, in
buona sostanza, poco affidabili.
5
Department of Defense, Military Power of the People’s Republic of China – A Report to Congress,
Washington D.C., March 2007.
6
Vds. in particolare IISS, Military Balance 2006, Calculating China’s Defence Expenditure, London 2005,
pp. 249-53; RAND Corporation, China, in http://www.rand.org; SIPRI, Military Expenditure Database, in
http://www.sipri.org/contents/milap/milex/mex_database1.html.
157
Tavola 3: Le spese militari nel 2006
I 15 paesi con le più alte spese militari in termini di tasso di cambio di mercato (MER)
e parità di potere d’acquisto (PPP).
I dati di spesa sono in dollari americani, a prezzi e tassi di cambio costanti (2005).
Spese militari (PPP) a
Spese militari (MER)
Posiz
Paese
.
Spesa
Spesa
% mondiale
(miliardi $)
pro capite ($)
--------------------Spesa
Posiz.
Paese
Spesa
(miliardi $)
Popol.
1
USA
528.7
1756
46
5
1
USA
528.7
2
UK
59.2
990
5
1
2
Cina
[188.2]
3
Francia
53.1
875
5
1
3
India
114.3
4
Cina
[49.5]
[37]
[4]
20
4
Russia
[82.8]
5
Giappone
43.7
341
4
2
5
UK
734.2
-
63
29
37.0
447
3
1
6
Francia
46.6
[34.7]
[244]
[3]
2
7
Arabia
36.4
Sub-totale top 5
6
Germania
7
Russia
Italia
9
Arabia
965.5
Sub-totale top 5
Saudita
8
51.4
b, c
29.9
514
3
1
8
Giappone
35.2
29.0
1152
3
-
9
Brasile
32.0
23.9
21
2
17
10
Germania
31.2
888.7
-
77
50
21.9
455
2
1
b,c
Saudita
10
India
Sub-totale top 10
11
Corea
del
Sub-totale top 10
11
Sud
30.1
Sud
c
12
Corea del
1147.0
Australia
c
13.8
676
1
-
12
Iranb
28.6
13.5
414
1
-
13
Italia
28.6
13
Canada
14
Brasile
13.4
71
1
3
14
Turchia
20.2
15
Spagna
12.3
284
1
1
15
Pakistan
15.6
Sub-totale top 15
963.7
-
83
56
Sub-totale top 15
Mondo
1158
177
100
100
Mondo
1270.2
--
[ ] = stima
Sources: Military Expenditure: Appendix 8A; PPP rates: World Bank, World Development Report 2006: Equity and Development
(World Bank: Washington, D.C., 2005), URL http://econ.worldbank.org/wdr/, table 1, pp.292-93, and table 5, p. 300; 2006 population:
United Nations Population Fund (UNFPA), State of the World Population 2006 (UNFPA: New York, N.Y., 2006), URL
http://unfpa.org.
a
I dati in PPP espressi in dollari sono basati sui tassi in PPP (per il 2005), calcolati dalla Banca Mondiale
tramite comparazioni tra i PIL e sulla base di un basket relativo soprattutto ai consumi delle famiglie.
b
I dati riguardanti Iran e Arabia Saudita includono le spese per ordine pubblico e sicurezza e potrebbero
essere fortemente sottostimati.
c
Le popolazioni di Australia, Canada e Arabia Saudita rappresentano ciascuna meno dello 0,5% della
popolazione mondiale.
158
Le valutazioni dell’entità reale di un bilancio militare è sempre un esercizio
estremamente complesso ed aleatorio. Apparentemente sembra oggettivo. Invece, è
sempre fortemente influenzato dai preconcetti esistenti e dall’ideologia geopolitica, cioè
dalla valutazione degli interessi di lungo termine della Cina e dal ruolo che nel loro
raggiungimento gioca la forza militare, oltre che dalla necessità di una completa
disaggregazione delle spese, che tenga conto dei diversi regimi di tassazione.
Un esercizio altrettanto complesso, legato all’utilizzo della PPP, è rappresentato dalla
valutazione dello sforzo militare complessivo sulla base della percentuale del PIL dedicata
alle Forze Armate. Tale parametro è inaffidabile almeno per due ordini di motivi. Intanto,
perché non esistono dati ufficiali al riguardo, eccetto quelli pubblicati dall’Istituto di
Economia Militare della PLA 7 , che però sono anch’essi affidabili solo relativamente, dato
che i loro compilatori intendono dimostrare – come fanno gli uffici finanziari delle Forze
Armate di tutto il mondo – che i bilanci sono insufficienti, ricorrendo spesso a “contabilità
creative” estremamente sofisticate ed anche divertenti. Gli Stati hanno poi talvolta
interesse a “gonfiare” le spese militari (ad esempio per dimostrare di sostenere un
adeguato burden sharing in un’alleanza), e talaltra a diminuirle, per dimostrare ai
Parlamenti l’inadeguatezza dei finanziamenti ricevuti (basti osservare a proposito le
differenze relative al bilancio della difesa italiana - espresso in termini di percentuale del
PIL – valutato dall’Ufficio Economico della NATO, e quello dichiarato dal Ministero
della Difesa.
Un secondo motivo di incertezza deriva da fatto che le valutazioni della consistenza
del PIL cinese differiscono grandemente fra di loro, anche se vengono generalmente prese
a riferimento quelle della Banca Mondiale - secondo cui il PIL cinese, che è stato nel 2005
di 2200 miliardi di dollari in termini MER (Market Exchange Rate), salirebbe a 8500
miliardi di dollari in termini di PPP, cioè ad una consistenza di 3,5-4 volte superiore.
Giova ripetere che la trasposizione in PPP dei dati economici in generale – specie di un
paese con un PIL pro capite molto ridotto, in cui una forte percentuale delle spese delle
famiglie è dedicato all’alimentazione – è del tutto indebita. Infatti, il bilancio militare,
specie nei capitoli relativi alla Ricerca e Sviluppo e agli Approvvigionamenti, ha un potere
7
Xia Jiren, Circumstances Affecting China’s Defence Budget Increase, Institute of Military Economics,
Beijing, December 2000.
159
d’acquisto espresso in MER del tutto differente da uno espresso in PPP secondo i
coefficienti impiegati dalla Banca Mondiale.
Nelle valutazioni solitamente fatte, si impiegano indici intermedi fra il MER e la PPP
o – in modo molto più sbrigativo - si segue il metodo suggerito da uno dei maggiori
esperti occidentali del settore 8 , che consiste nel semplice raddoppio dei dati del bilancio
ufficiale. Beninteso, la questione rimane incerta e provoca sempre un serrato dibattito in
tutti i fori internazionali che discutono di quanto effettivamente la Cina spenda per la
PLA.
Secondo: il bilancio della PLA rappresenta solo una parte della spesa cinese per la
difesa. Molti fondi non sono inclusi nel bilancio ufficiale. Non lo sono ad esempio
l’acquisto di armi dall’estero; le spese d’investimento; quelle per la scienza e la tecnologia
militari e per le attività spaziali e nucleari; i programmi di R&S non sono gestiti dalla
PLA, ma direttamente dalla Commissione Militare Centrale, massimo organismo di
decisione politico-strategica della Repubblica Popolare Cinese. Non compaiono nel
bilancio neppure i fondi relativi al sostegno e al miglioramento tecnologico e produttivo
dell’industria degli armamenti, che pur hanno una consistenza molto elevata. Non sono
inclusi infine i finanziamenti della Polizia dell’Esercito del Popolo e delle altre Forze
Paramilitari, quali le milizie provinciali, nonché molti programmi infrastrutturali e le
pensioni. Le spese per le missioni ONU all’estero vengono poi finanziate con capitoli di
spesa diversi da quelli del bilancio militare, così come lo sono le spese per la
partecipazione ad esercitazioni internazionali, che stanno avendo una crescente frequenza,
data l’importanza attribuita da Pechino alla “diplomazia militare”.
Terzo: la PLA fruisce di numerosi introiti extra-bilancio. Fino al 1998 le Forze Armate
gestivano direttamente un numero rilevante di industrie che effettuavano anche produzioni
commerciali, soprattutto nei settori tecnologicamente più avanzati, i quali utilizzano
spesso tecnologie dual use. Tali industrie ora sono state sottratte alla gestione della PLA e
sono passate sotto il controllo della COSTIND (Commissione per la Scienza, la
Tecnologia e l’Industria per la Difesa Militare). Ne è stata anche prevista la
8
D. Shambaugh, Calculating China’s Military Expenditure, op. cit.
160
privatizzazione, che peraltro risulta appena iniziata e che sarà comunque limitata
soprattutto alle imprese che producono componentistica e sub-assiemi.
Inoltre, la PLA incorpora una larga quota dei proventi delle esportazioni di armamenti,
che sono in rapida crescita, nonché dei fondi derivati dalla vendita di numerose
infrastrutture militari rese disponibili dalla forte diminuzione degli effettivi della PLA soprattutto delle sue forze terrestri - ridottisi negli ultimi dieci anni da circa 2,6 a circa 1,6
milioni di effettivi e di ulteriori 200.000 nel 1987 (trasferiti però alla “polizia armata”).
b. La valutazione dell’entità del bilancio della difesa
Il bilancio ufficiale della difesa cinese ammonta nel bilancio 2007, approvato
nell’aprile 2006, a 45 miliardi di dollari in termini MER, con un aumento del 17,8%
rispetto al bilancio 2006. Esso ha continuato la tendenza al rilevante aumento avvenuto
negli ultimi dieci anni 9 . Come consistenza, si colloca quindi, grosso modo, allo stesso
livello dei bilanci francese e britannico, ma ad uno inferiore di quello giapponese, nonché
di un decimo di quello USA. La valutazione in termini di PPP è però molto differente.
Come si è detto, il Pentagono lo valuta tra 85 e 125 miliardi di dollari e il SIPRI a 188
miliardi di dollari ( senza tenere peraltro conto degli aumenti di bilancio del 2007 rispetto
al 2006).
Come ricordato, secondo la Banca Mondiale il PIL cinese in PPP è di tre-quattro volte
superiore a quello espresso in MER. Tale rapporto non può essere applicato al bilancio
militare, che ha un basket di acquisti molto diverso da quello delle famiglie. Ad esempio,
secondo la Banca Mondiale il PIL cinese in termini MER era pari a circa 1500 miliardi di
dollari nel 2000, mentre quello in PPP avrebbe dovuto essere superiore a 6000 miliardi di
dollari. Nel 2006, il PIL cinese da 2500 miliardi di dollari avrebbe dovuto essere in PPP di
8-10 mila miliardi di dollari, il che appare decisamente sovrastimato.
Diverse sono poi le valutazioni dell’effettiva percentuale del PIL dedicato alla difesa.
Esse variano dal 2,3% al 4,3% del PIL, rispetto a una valutazione ufficiale dell’1,7-1,8%.
9
La Cina ha dichiarato i seguenti aumenti del bilancio della difesa: 1,5% nel 1987; 2,6% nel 1988; 12,6%
nel 1989; 15,4% nel 1990; 12% nel 1991; 12% nel 1992; 12,5% nel 1993; 20,3% nel 1994 (anno in cui lo
yuan fu svalutato da 6,10 a 8,28 yuan per dollaro); 14,6% nel 1995; 11,3% nel 1996; 12,7% nel 1997; 12,8%
nel 1998; 12,7% nel 1999; 12,7% nel 2000; 18% nel 2001; 17,7% nel 2002; 9,6% nel 2003; 11,6% nel 2004;
12,6% nel 2005; 14,7% nel 2006 e, come prima riportato, 17,8% nel 2007.
161
Nel primo caso, in termini di PPP, il bilancio militare reale ammonterebbe a 250-430
miliardi di dollari. Tali valutazioni sono decisamente fuori da ogni realtà. Vengono
accettate come veritiere solo da taluni esperti di centri studi molto conservatori, come la
Heritage Foundation 10 . Fonti esterne al Pentagono, dal canto loro, hanno valutato che il
bilancio militare cinese si aggiri nel 2007 tra i 90 e i 120 miliardi di dollari, tenendo conto
anche degli introiti extrabilancio e dei fondi che la PLA riceve da altri ministeri o da altre
fonti.
Molto incerte e spesso contraddittorie sono anche le valutazioni fatte a riguardo
dell’inflazione militare, che è diversa – anche in misura rilevante – da quella dei prezzi al
consumo. Se ne dovrebbe comunque tener conto per valutare le effettive tendenze della
spesa per la PLA e ipotizzarne gli impatti sulle capacità operative e strategiche nei vari
scenari di possibile impiego.
I fondi del bilancio ufficiale sono ripartiti in maniera grosso modo eguale fra il
personale, l’esercizio e l’equipaggiamento. Tale proporzione è sostanzialmente rimasta
inalterata dal 1998. Complessivamente, il bilancio militare ammonta al 15% delle spese
dello Stato. Anche tale percentuale non si è modificata sostanzialmente negli ultimi dieci
anni. Le autorità cinesi sostengono che gli aumenti degli ultimi anni siano derivati
soprattutto da quelli dei salari e dei fondi per la sicurezza sociale, nonché dalle maggiori
spese connesse con il ridimensionamento della PLA, dalla crescente inflazione dei costi
dei nuovi armamenti e, infine, dallo sforzo effettuato per aumentare il livello di
professionalizzazione dei militari, incrementando l’attrattività del reclutamento e la
percentuale delle rafferme dei volontari, che costituiscono ormai il 50% degli effettivi
della PLA.
Tutti questi dati vanno assunti con estrema cautela. Non rappresentano l’effettivo
sforzo militare fatto dalla Cina, né possono essere presi a base delle valutazioni di
compatibilità delle spese per la PLA con l’economia cinese, ammesso – per i motivi prima
illustrati circa la struttura dell’economia cinese – che l’interrogativo abbia qualche
significato. Il bilancio dello Stato si aggira sul 20% del PIL (rispetto al 40-50% nei paesi
occidentali) e che l’inflazione è ancora contenuta, nonostante il recente aumento dovuto
10
John J. Tkacik, jr., China’s Quest for a Superpower Military, Backgrounder n. 2036, Heritage Foundation,
Washington D.C., May 17th, 2007.
162
forse al surriscaldamento dell’economia e, sicuramente, all’aumento dei prezzi mondiali
dei prodotti agricoli.
c. Finanziamenti alla PLA che non figurano nel bilancio della difesa
Non figurano nel bilancio della difesa diversi fondi che sono a carico di altri ministeri
o organismi statali. Un tentativo di valutazione è stato fatto dall’International Institute for
Strategic Studies 11 che si è avvalso anche delle analisi effettuate per il Pentagono dalla
RAND Corporation.
i)
Acquisto di armi dall’estero, in particolare dalla Russia. Esso è sempre molto
elevato, nonostante il potenziamento tecnologico dell’industria degli armamenti cinese,
che ormai è in grado di soddisfare una crescente parte del fabbisogno della PLA e di
alimentare un’importante flusso esportativo. L’importazione di armamenti (senza tener
conto del materiale dual use) si è aggirata negli anni Novanta sul miliardo di dollari
all’anno ed è salita a oltre 2 miliardi di dollari annuali a partire dal 2000. Le importazioni
– come ricordato - sono pagate con fondi extrabilancio, assegnati dalla Commissione
Militare Centrale.
ii)
Investimenti nell’industria degli armamenti cinesi. L’industria militare cinese ha
iniziato una completa ristrutturazione a partire dal 1980, accentuatasi soprattutto dal 1998.
Oggi, le imprese che producono armamenti ed equipaggiamenti per la PLA sono tutte di
proprietà statale. Come tutte le imprese statali in Cina, anche quelle militari sono in
perdita e si avvalgono di consistenti aiuti e prestiti a condizioni favorevoli a carico
dell’erario e del sistema bancario pubblico. È praticamente impossibile conoscere quanto
venga destinato alle parti industriali militari vere e proprie. Le stime effettuate al riguardo
variano da 1 a 5 miliardi di dollari all’anno. L’industria degli armamenti cinese sta
comunque aumentando la sua efficienza e il suo livello tecnologico, pur presentando
ancora grandi carenze (non è in grado, ad esempio, di produrre il “turbofan” per il caccia
J-10. Le autorità di Pechino hanno dichiarato che, per la costruzione di sistemi d’arma e di
equipaggiamenti militari, hanno realizzato nel 2006 notevoli profitti (di 2,5 miliardi di
11
IISS, Military Balance 2006, pp. 252-53, cit.
163
dollari). La questione è però tutta da chiarire, anche perché altre fonti denunciano
consistenti perdite.
iii)
Esportazioni di armamenti. Avevano raggiunto il loro picco negli anni ’80, durante
la guerra fra l’Iraq e l’Iran. In essa, Pechino rifornì abbondantemente entrambi gli
avversari, effettuando nel 1986 esportazioni per oltre 5 miliardi di dollari, con materiali in
gran parte tratti dalle dotazioni della PLA. Secondo le valutazioni effettuate dal SIPRI, le
esportazioni di armi cinesi si sono aggirate, dal 2000 al 2004, sui 700 milioni di dollari
all’anno. Nel 2005-2006 sarebbero aumentate da un terzo alla metà, anche in relazione al
maggior dinamismo della presenza militare cinese in Africa, in America Latina e nel
Golfo. La PLA sembra che riceva il 50% degli introiti dell’export, nel caso sia che i
materiali esportati siano tratti dalle sue dotazioni, sia che vengano prodotti dall’industria
militare specificamente per l’esportazione.
iv)
Ricerca e sviluppo. Essa comprende le spese effettuate per la ricerca scientifica e
tecnologica militare da vari organismi: la Divisione Generale degli Armamenti della PLA;
la Commissione della Scienza, Tecnologia e Industria per la Difesa Nazionale
(COSTIND); il Ministero di Stato per la Scienza e la Tecnologia (che gestisce le attività
spaziali e quelle nucleari) ed altri ancora. I fondi sono suddivisi in due grandi capitoli di
spesa: uno è relativo alla ricerca precompetitiva, l’altro a quella applicata. L’entità dei
fondi che finanziano programmi destinati alla PLA non è conosciuta. Secondo taluni
esperti si dovrebbe aggirare almeno sui 300-500 milioni di dollari all’anno. Quelli per le
attività spaziali militari e per le armi nucleari vengono gestiti dalla Commissione Militare
Centrale, tramite la COSTIND e finanziati a parte per un’entità presunta di 4-5 mld. di
dollari.
v)
Forze paramilitari. Sono costituite dalla Polizia dell’Esercito del Popolo, dalla
Guardia alla Frontiera e dalla Milizia Locale. Della Polizia dell’Esercito del Popolo fa
parte anche l’Unità di commandos denominata “Lupi delle nevi”, simile ai nostri GIS
dell’Arma dei Carabinieri. Le forse della Milizia sono finanziate anche dai bilanci delle
regioni, delle province e delle grandi città. La consistenza dei loro effettivi è molto
164
rilevante (1,5 milioni della Polizia dell’Esercito del Popolo, 100 mila della Guardia alla
frontiera e 800 mila della Milizia di sicurezza interna). Il loro costo si aggira ufficialmente
sui 4-5 milioni di dollari all’anno, ma dovrebbe essere di almeno i 10-12 milioni di dollari
in termini reali, tenuto conto che i componenti delle Forze Paramilitari, impiegati per
l’ordine e la sicurezza pubblica contro un numero crescente di manifestazioni di protesta e
di rivolte sociali, godono di un trattamento economico privilegiato rispetto ai civili e
anche ai militari della PLA.
3. Le valutazioni sull’andamento della spesa militare cinese
Nonostante il cospicuo aumento dell’entità ufficiale e ancor più di quella valutata da
istituzioni o centri specializzati - come il Pentagono, l’IISS, il SIPRI e la RAND
Corporation - la spesa militare cinese – come ricordato - ha assorbito negli ultimi dieci
anni una percentuale sostanzialmente eguale del bilancio dello Stato – il 15% circa – il
quale pesa sull’economia cinese molto meno dei bilanci occidentali (il 20% rispetto al
40%). Difficile è però valutare l’entità dei fondi extra-bilancio – quelli per le attività
spaziali sono in forte aumento - che accrescono notevolmente i finanziamenti reali della
PLA.
Un aumento considerevole del bilancio militare non troverebbe ostacoli economicofinanziari, nonostante le enormi spese che dovranno essere effettuate nei prossimi due
decenni in campo sociale: dal settore pensionistico e sanitario, all’afflusso nelle città dalle
campagne di almeno 300 milioni di abitanti e alla creazione di almeno 20 milioni di posti
di lavoro all’anno. Verosimilmente, Pechino attende prima di effettuare un riarmo
massiccio – qualora beninteso decidesse di farlo – che l’industria degli armamenti cinese
migliori il proprio livello tecnologico. In caso contrario, riempirebbe le sue dotazioni di
armi che sarebbero obsolete – beninteso rispetto agli standards statunitensi – prima ancora
di entrare in servizio. La difesa del territorio nazionale contro un attacco terrestre non
costituisce un problema. Non esiste minaccia. Anche se esistesse, potrebbe sempre essere
adeguatamente neutralizzata dalle forze militari e dalla componente meno moderna della
PLA. Tuttavia, un’aliquota della componente terrestre della PLA sarà dotata di armamenti
moderni per essere in grado di intervenire in Asia centrale, nella penisola indocinese e
165
anche nella Siberia orientale, nelle Province Marittime e nella Corea del Nord. Si tratta
beninteso di un’eventualità estremamente improbabile, come lo è peraltro anche un attacco
anfibio a Taiwan. Essa sarebbe però presa in considerazione dai responsabili di Pechino.
Lo dimostrano i programmi di ammodernamento in corso per le forze terrestri e per quelle
aerotattiche a corto raggio d’azione, che non potrebbero essere impiegate per la proiezione
esterna di potenza a lungo raggio né per un’emergenza nello Stretto di Taiwan.
L’aumento delle capacità di proiezione esterna di potenza richiede il potenziamento
delle forze anfibie, di quelle aeroportate e speciali, della marina, dell’aeronautica a lungo
raggio e delle unità missilistiche della “Seconda Artiglieria”, nonché delle forze che
agiscono – con obiettivi offensivi o difensivi - nello spazio extra-atmosferico e nel
cyberspazio, settori privilegiati della “strategia asimmetrica” cinese. Inoltre, per evitare o
rendere meno probabile l’intervento degli Stati Uniti, la Cina tende a procurarsi sia una
capacità di area denial attorno a Taiwan, sia un deterrente nucleare strategico più credibile
dell’attuale, tenendo anche conto degli sviluppi in corso nel sistema americano di difesa
antimissili e dell’estensione della sua copertura al Giappone e, parzialmente, anche a
Taiwan (a cui gli USA hanno però rifiutato di vendere incrociatori antimissili di tipo
Aegis, ceduti invece al Giappone e all’Australia).
Ammesso che i dirigenti cinesi – ad esempio, a seguito di una crisi interna, che li
obblighi a cercare una legittimazione all’aggressività esterna; oppure dell’affermarsi di
forze indipendentiste a Taiwan, il cui distacco dalla Cina non sarebbe accettabile per
Pechino; oppure ancora a seguito di un intervento nippo-americano contro la Corea del
Nord; o dell’adozione di un embargo petrolifero a seguito di una crisi con Washington –
decidessero di adottare una “linea dura”, in rotta di collisione con gli USA, quale potrebbe
essere l’entità del bilancio militare cinese entro 10-15 anni? Occorre preliminarmente
precisare che tutti tali scenari sono altamente improbabili; eccetto quello di un tentativo di
Taiwan di proclamare l’indipendenza dell’isola, a cui qualsiasi governo di Pechino si
troverebbe nella necessità di reagire. Anche tale eventualità è però poco probabile, date
anche le pressioni di Washington sul governo di Taipei, perché eviti ogni provocazione
nei riguardi di Pechino, cosa che porrebbe in forse la garanzia americana all’isola.
Nello scenario più pessimistico, secondo cui la Cina si preparerebbe ad uno scontro
convenzionale prolungato con gli Stati Uniti, la Cina dedicherebbe alla PLA un’entità di
166
bilancio compatibile con una crescita economica del 7%, che rappresenta secondo gli
esperti economici il minimo per evitare rivolte e sommosse, specie nelle aree rurali. Tale
valutazione sulla crescita dell’economia cinese è abbastanza in linea con quanto avvenuto
in Giappone e in Corea del Sud, data l’evidente impossibilità della Cina di mantenere nei
prossimi 10-20 anni i tassi di crescita attuali.
Per evitare uno scontro totale con Washington – che potrebbe provocare il ricorso alle
armi nucleari - un conflitto per Taiwan potrebbe essere a bassa intensità operativa, anche
se ad alta intensità tecnologica. In particolare, gli USA eviterebbero di imporre un blocco
navale alla Cina, che avrebbe conseguenze disastrose per l’economia cinese, obbligando
Pechino ad impiegare tutta la potenza a sua disposizione. Fonti autorevoli 12 hanno
valutato che la Cina potrebbe espandere il bilancio della difesa fino al 5-6% del PIL - cioè
procedere ad un aumento di 3-4 volte dell’attuale percentuale ufficiale del PIL dedicata
alla difesa – con conseguente spesa annuale di 135-160 miliardi di dollari nel 2010 e di
230-280 nel 2015 in termini di MER, da raddoppiare per tenere conto della PPP.
Sarebbe questo lo sforzo massimo che Pechino potrebbe fare per prepararsi ad un
conflitto di tale tipo, che non implicherebbe l’intera mobilitazione delle risorse nazionali.
Beninteso, un aumento così straordinario del bilancio militare cinese significherebbe
l’abbandono della politica del peaceful rise, tensioni con i paesi del Sud-Est asiatico – che
cercherebbero la protezione degli USA – e un rafforzamento dell’alleanza fra Washington,
New Delhi e Tokyo. I meccanismi delle alleanze anti-cinesi neutralizzerebbero così
l’effetto dell’aumento di potenza militare della Cina, creando anche una situazione
economicamente pesante per Pechino. Essa potrebbe divenire disastrosa, se tale situazione
dovesse provocare sanzioni economiche o misure protezionistiche da parte dei partners
commerciali della Cina - non solo dell’Europa e degli Stati Uniti, ma anche dei paesi
dell’Asia orientale, che attualmente assorbono circa il 45% del commercio estero cinese.
Per inciso, ciò provocherebbe anche per loro una grave crisi economica, che si
espanderebbe a livello mondiale. Sia Washington che Pechino ne sono del tutto
consapevoli, come è risultato anche nella riunione del Dialogo Economico Strategico sino-
12
Dwight Perkins, China Economic Growth – Implication for the Defense Budget, cit., pp. 382 e ss.
167
americano tenutosi nella capitale americana nel maggio 2007 13 . Tra gli USA e la Cina è
molto più probabile una cooperazione – competitiva, finché si vuole – anziché un
conflitto.
4. Uno studio cinese circa la congruità della spesa militare
Interessante, ai fini degli scopi che si propone questa ricerca, è uno studio effettuato
dall’Istituto dell’Economia Militare della PLA 14 , circa le circostanze che potrebbero
provocare un aumento del bilancio della difesa cinese. Con un approccio tipico delle
analisi strategiche cinesi – i cui fondamenti possono essere trovati nei “classici militari”,
come Sun Zu – l’autore dello studio elenca gli elementi che definiscono l’entità di un
bilancio militare e i suoi rapporti con l’economia di uno Stato. Il tentativo è quello di
definire un approccio “scientifico”, che colleghi l’entità del bilancio della difesa a quella
del prodotto interno lordo. Tale approccio è seguito in vari scritti dell’Istituto
dell’Economia Militare della PLA, che sostengono la necessità di un aumento molto
consistente e rapido, anziché progressivo, del bilancio della difesa cinese 15 .
Il primo articolo ricordato (vds. nota 14) elenca sei elementi che impongono – quasi
deterministicamente – l’aumento del bilancio della difesa: i) crescita dell’economia
nazionale; ii) modifica delle strategie di ammodernamento delle Forze Armate; iii)
sviluppo tecnologico, il quale non procede in modo lineare, ma che può conoscere
improvvise discontinuità, come nell’epoca attuale, con la RMA derivata dalla sviluppo
delle ICT; iv) effetto cumulativo delle spese della difesa nel settore degli investimenti,
cioè delle spese slow; v) modifiche geopolitiche impreviste; vi) uso del bilancio militare
come strumento per la gestione macro-economica dello Stato.
i) Il primo elemento – cioè la percentuale del bilancio della PLA rispetto al PIL – è
rappresentato, significativamente, dalla crescita economica nazionale. I cinesi sono stati
13
STRATFOR, Rodger Baker, China-U.S.: the Strategic Economic Dialogue As a Tool for Managing
Relations, May 22nd, 2007.
14
Xia Jiren, Circumstances Affecting China’s Defence Budget Increase, cit.
15
Liu Yang e Wang Cong, Military Preparation and Possible Models for the Defense Budget Increase,
Military Economics Study, PLA Defense University, Beijing, November 2001.
168
particolarmente colpiti dal collasso dell’URSS, dovuto all’eccessiva penalizzazione che le
spese militari (e quelle per il mantenimento dell’impero) avevano causato all’economia
sovietica. Non per nulla, nelle sue grandi riforme del 1978, Deng Xiaoping si è ispirato
più al liberista Milton Friedman (e al Cile di Pinochet) che a Carlo Marx. Particolare
rilievo viene dato al confronto fra le differenze delle percentuali dei bilanci della difesa nei
vari paesi rispetto al loro PIL, ricercandone un punto teorico di equilibrio ottimale. Negli
scritti dell’Istituto dell’Economia Militare della PLA viene costantemente lamentato – si
tratta in realtà di una tendenza comune alle Forze Armate di tutto il mondo! – il fatto che il
bilancio della PLA sia enormemente inferiore in percentuale del PIL a quello di molti altri
paesi. La diminuzione si è verificata soprattutto negli anni ottanta e novanta, toccando il
suo “nadir” nel 1996, quando è stato pari all’1,06% del PIL, rispetto ad una media
internazionale che si afferma essere del 3%. Viene altresì lamentato che le Autorità cinesi
abbiano sempre trascurato l’effetto moltiplicatore e acceleratore del reddito, che ha la
spesa militare, e notato che, con incrementi futuri analoghi a quelli verificatisi a partire
dalla seconda metà degli anni novanta – cioè con un aumento medio del bilancio militare
del 15% all’anno e di quello del PIL dell’8-9% - saranno necessari alla PLA oltre quindici
anni per poter portare il bilancio della PLA al 3% del PIL, livello ritenuto accettabile per
un equilibrato rapporto fra la potenza economica e capacità strategica, tenendo conto della
geopolitica cinese e dell’evoluzione del contesto globale.
ii) Il secondo elemento che influisce sull’entità del bilancio della PLA riguarda
l’evoluzione della strategia di sicurezza nazionale, la quale – molto marxianamente, anche
se in contrasto con il tradizionale pensiero strategico cinese – viene collegata con la
crescita economica. E’ la strategia di sicurezza a proteggere la crescita, così come il livello
di reddito nazionale determina la strategia di sicurezza. Tale stretto collegamento è fatto
risalire alle direttive di Deng Xiaoping e alla sua convinzione che la Cina dovesse
innanzitutto concentrarsi sulla crescita economica, a cui andava subordinato
l’ammodernamento della PLA. Dal 4,29% del PIL del 1980 il bilancio militare fu
drasticamente ridotto fino al 1996 – quando raggiunse, come ricordato, l’1,06% del PIL –
per poi risalire sotto la presidenza Jiang Zemin, persuaso che il peaceful rise sarebbe
169
fallito se la Cina non avesse potuto concorrere alla stabilità regionale e globale e
provvedere adeguatamente alla propria sicurezza nazionale.
iii) Il terzo elemento, che influisce sulla definizione dell’entità del bilancio della difesa
e sulla sua destinazione ai vari settori di spesa, riguarda il passaggio della dottrina
strategica e della struttura delle forze della PLA da compiti di difesa territoriale – sul
modello della “guerra di popolo” teorizzata da Mao Zedong – alle strategie di “difesa
attiva”. Il Presidente Jiang Zemin è stato all’origine di tale mutamento, che si è tradotto in
una profonda modernizzazione della PLA e nella centralità attribuite alla tecnologia e alla
capacità di proiezione di potenza. Ciò ha comportato il fatto che la massa degli armamenti
disponibili alla PLA – di concezione sovietica degli anni ’50 – è divenuta del tutto inutile
e anche dannosa, costituendo, per il suo mantenimento in servizio, un onere finanziario
che sottrae fondi all’ammodernamento. I militari cinesi sono stati poi particolarmente
impressionati dalle performances della RMA americana e della network centric warfare,
prima nella guerra del Golfo del 1991, poi nel Kosovo e più recentemente in Afghanistan
e in Iraq. Per mettere a punto i loro nuovi concetti dottrinali e strategici hanno largamente
utilizzato la cooperazione israeliana e hanno sviluppato una dottrina di guerra
asimmetrica. Quest’ultima, in linea con il pensiero strategico classico cinese, mira a
colpire i punti deboli dell’avversario potenziale, cioè degli USA, individuati nella loro
dipendenza dal cyberspazio e dalla rete satellitare, centrali per l’attuazione della loro
strategia operativa network-centrica.
Pur continuando a sottolineare l’importanza centrale dei fattori umani, gli esperti della
PLA mettono in evidenza come il “morale” senza armi non possa esprimere le sue
potenzialità strategiche e che, anche per mantenerlo elevato, sia necessario passare dalle
strutture ad alta intensità di manodopera, a quelle ad alta intensità di capitale. Inoltre, il
mutamento della situazione geopolitica, con il collasso dell’URSS e la scomparsa di una
minaccia terrestre, obbligano la Cina a concentrare gli sforzi e i fondi disponibili nei
programmi della marina, dell’aeronautica e del nucleo di forze terrestri, speciali,
aeroportate e anfibie destinate alla proiezione di potenza. Questo mutamento tanto radicale
non può essere fronteggiato con un incremento progressivo del bilancio, ma dovrebbe
comportare un suo salto quantitativo nella sua percentuale rispetto al PIL. Sottaciuta è
170
invece la capacità dell’industria cinese degli armamenti di soddisfare un aumento tanto
rilevante, che si propone per il procurement della PLA. La semplice acquisizione di
sistemi d’arma avanzati all’estero – per la quale la Cina disporrebbe delle risorse
finanziarie necessarie – non può costituire una soluzione soddisfacente. Si verrebbe a
determinare infatti un inaccettabile livello di dipendenza dai fornitori esteri, in particolare
dalla Russia. Se il surge di bilancio sarebbe fattibile, l’ammodernamento deve procedere
solo in modo progressivo sia per consentire l’adeguamento qualitativo dell’industria degli
armamenti, sia per elevare il livello professionale dei componenti della PLA.
iv) Un quarto fattore che va considerato nella definizione del bilancio della difesa e
nell’adeguamento della PLA alla nuova geopolitica degli interessi nazionali cinesi e alla
nuova strategia di sicurezza nazionale è rappresentato dal fatto che le spese di
investimento hanno un effetto cumulativo nel tempo. Le capacità operative che producono
vanno valutate tenendo conto almeno di un arco di tempo di 20-25 anni, cioè di quello
corrispondente alla permanenza in servizio operativo dei moderni sistemi d’arma. Con la
trasformazione da Forze Armate di massa a Forze Armate di qualità, la PLA ha dovuto
praticamente partire da zero e la sua potenza - derivante dai materiali moderni disponibili è peraltro molto inferiore a quella degli altri paesi – in particolare degli Stati Uniti – che si
sono giovati di una costanza dei bilanci militari. L’effetto delle spese di investimento –
che sono poi quelle che contano – vanno quindi valutate in un arco pluriennale e vanno
considerate solo quelle che hanno consentito l’acquisizione di materiali competitivi nei
confronti di quelli in possesso dei potenziali competitori della Cina, cioè degli USA e
della Russia 16 . La PLA ha sofferto di una carenza di investimenti sin dagli anni ottanta,
allorquando – come ricordato – il bilancio della difesa era del 3-4% del PIL. La riduzione
massiccia del personale e la radiazione dal servizio degli armamenti obsoleti non avevano
consentito di aumentare gli investimenti, che toccarono in valore assoluto il loro punto più
16
Nelle ricerche pubblicate dall’Istituto dell’Economia Militare della PLA, così come negli scritti degli
esperti di strategia cinesi, la Russia è almeno implicitamente – ma talvolta anche implicitamente considerata un avversario della Cina, mentre pochi cenni vengono riservati al Giappone e all’India. Gli
strateghi cinesi considerano l’Asia centrale – con le sue riserve petrolifere e di materie prime strategiche –
un hinterland indispensabile per la Cina. Senza la libera utilizzazione delle sue risorse, la Cina dipenderebbe
eccessivamente dalle vie di comunicazione marittima dominate dalle Marine degli Stati Uniti e dei loro
alleati.
171
basso nel 1988, con meno di un miliardo di dollari. La situazione è stata resa più
drammatica dal fatto che l’inflazione militare – derivata anche dalla maggiore
sofisticazione tecnologica – è molto superiore a quella dei prezzi al consumo,
generalmente considerati nelle statistiche nazionali e internazionali.
Insomma, la situazione si era fatta drammatica. La PLA era stata sacrificata alle
esigenze dello sviluppo economico. Per questo, a metà anni novanta si decise di invertire
tale tendenza. Verosimilmente anche per l’umiliazione subita nello Stretto di Taiwan nel
1995-96, allorquando la PLA aveva dovuto cessare le intimidazioni missilistiche effettuate
nei confronti di Taiwan di fronte all’invio in zona di due gruppi portaerei americani,
deciso dal Presidente Clinton.
v) Il quinto elemento che influisce sulla definizione dell’entità del bilancio della difesa
è rappresentato dai mutamenti della situazione internazionale e del contesto della
sicurezza. Particolare incidenza hanno per la Cina la National Security Strategy e la
Quadrennial Defense Review degli USA, le modifiche subite nel tempo dal “Trattato di
Amicizia e di Sicurezza” fra gli USA e il Giappone, e soprattutto l’evoluzione della
situazione a Taiwan, le cui forze politiche indipendentiste sono state galvanizzate dalla
facilità e dall’impunità con cui gli USA costrinsero la Cina all’umiliante ritirata nel 199596.
I rischi che corre la sicurezza della Cina sarebbero poi aumentati proporzionalmente
alla crescita della sua economia. Questo costituirebbe un’ulteriore conferma della
necessità di “agganciare” il bilancio della PLA al PIL nazionale, con una percentuale
ottimale del 3-5%, mentre quella “assolutamente minima” non dovrebbe mai scendere al
di sotto del 2%. Manca, nelle valutazioni degli esperti economici della PLA, ogni
considerazione dei fondi extra-bilancio della difesa che ricevono le forze armate cinesi.
Viene invece curiosamente collegata l’estensione dell’alleanza fra il Giappone e gli USA
all’allargamento verso Est della NATO, affermando che si tratta di iniziative che
corrispondono al medesimo intendimento strategico: quello delle potenze marittime di
muovere all’assalto della massa continentale euro-asiatica.
vi) Il sesto elemento che dovrebbe incidere sull’entità del bilancio della difesa cinese è
la sua strumentalità per la politica macro-economica del paese. In realtà, la valutazione
172
degli impatti macroeconomici si dovrebbe riferire all’entità dell’intera spesa statale. In
Cina, rispetto a tutti gli altri paesi, il bilancio dello Stato è particolarmente contenuto da
quando, durante la presidenza di Deng Xiaoping, esso fu drasticamente ridotto dal 27,2%
del PIL nel 1980 ad un incredibile livello dell’11,67% nel 1995. Secondo gli esperti
economici della PLA il bilancio dello Stato di un paese economicamente avanzato
dovrebbe ammontare almeno al 25-30% del PIL. Tale percentuale consente di non gravare
sullo sviluppo economico, ma di disporre dei fondi necessari non solo per
l’ammodernamento della PLA, ma anche per la sicurezza sociale, la pubblica
amministrazione, gli investimenti per il miglioramento tecnologico delle industrie statali
(tra cui quelle degli armamenti) e l’aumento delle spese per la pubblica istruzione e
preparazione professionale, soprattutto delle centinaia di milioni di contadini che si
sposteranno nelle industrie e nelle città nei prossimi anni. Gli esperti economici della PLA
insistono particolarmente su questa conseguenza “keynesiana” (o neo-colbertista)
dell’aumento del bilancio della difesa. Mettono in evidenza come la Cina conosca un
notevole surplus della produzione rispetto alla domanda interna, mentre molti fattori
produttivi, in particolare la forza lavoro, ma anche il capitale, non vengono pienamente
utilizzati. Affermano così che un consistente aumento del bilancio della difesa non
avrebbe impatti negativi sulla crescita, ma la stimolerebbe.
In relazione a tutti questi fattori non vi sarebbe altra scelta per Pechino che un aumento
rapido e rilevante del bilancio della difesa, non solo perché nel quadro “dell’armonia della
società” esso è stato eccessivamente penalizzato, ma anche per i mutamenti intervenuti nel
contesto internazionale.
Quello che è tipico in questi studi nel bilancio cinese è che l’entità dei fondi in esso
previsto non è collegata con una dottrina strategica o una precisa definizione delle forze
necessarie. Ciò può derivare dalla tradizionale segretezza che circonda le discussioni della
PLA, ma anche dall’assenza di un organismo che concili e renda coerente il bilancio con
la dottrina e la strategia. Il primo è trattato dal Dipartimento Logistico e la seconda da
quello dello Stato Maggiore Generale, entrambi dipendenti dalla Commissione militare
centrale, che, però, si occupa verosimilmente di altre cose. Il Ministero della Difesa ha in
Cina compiti solo marginali, sostanzialmente di rapporti internazionali con i suoi
corrispondenti stranieri e di gestione delle esportazioni di armamenti.
173
5. Le prospettive d’evoluzione del bilancio cinese della difesa
La ricerca più esauriente sulle prospettive dell’evoluzione del bilancio militare cinese
è stata effettuata dalla RAND Corporation 17 nel 2005, con l’orizzonte temporale 2025.
Tale studio può essere utilmente completato con un confronto con il rapporto sulle
prospettive di evoluzione dell’economia mondiale a più lungo termine, ad esempio con
quelle effettuate dalla Goldman Sachs 18 , che si è prescelto poiché più orientato a valutare i
riflessi geopolitici – e quindi sulla politica di sicurezza – delle modifiche che si
produrranno nella distribuzione mondiale della ricchezza.
Il rapporto della RAND considera che l’economia cinese continuerà a crescere con
ritmi sostenuti, grazie anche al massiccio spostamento della manodopera della campagna
ad attività industriali e dei servizi, che hanno un maggior valore aggiunto.
Pur ammettendo che il governo cinese sarà in condizioni di procedere ad un aumento
sostenuto dal bilancio della PLA, individua due difficoltà principali perché nell’arco di
tempo considerato la Cina possa pervenire ad un livello di potenza tale da sfidare gli USA.
In primo luogo, si accresceranno le pressioni per adeguare le spese sociali: pensionistica,
sanitaria e per l’educazione nazionale, nonché per l’infrastrutturazione del paese, anche in
relazione ai previsti massicci spostamenti della popolazione dalle campagne alle città e
dalle regioni dell’interno a quelle costiere. Beninteso, in caso di drammatiche evoluzioni
della situazione internazionale, il governo di Pechino sarà in grado di procedere a tale
mutamento di priorità finanziarie a favore della PLA. Va però notato che un fattore
determinante è il tempo. In caso di un confronto strategico con gli USA – ad esempio per
Taiwan – sono importanti le capacità operative immediate, non quelle potenziali derivanti
dalla mobilitazione. Quest’ultima non ha più l’importanza che aveva nelle guerre totali del
XX secolo.
Il secondo “collo di bottiglia” è rappresentato dal livello tecnologico dell’industria
cinese degli armamenti, livello che è ancora estremamente ridotto in taluni settori chiave,
in particolare nella motoristica aerea. Tale miglioramento è penalizzato dalla protezione
17
Keith Crane, Roger Cliff, Eran Medeiros, James Mulvenon and William Overholt, Modernizing China’s
Military – Opportunity and Constraints, RAND Corporation, Santa Monica (CA), 2005.
18
Dominic Wilson and Roopa Purushothaman, Dreaming Whit BRICS: The Path To 2050, Global
Economics Paper n. 99, 1 October 2003.
174
che viene data alle industrie militari, che conoscono un regime concorrenziale molto
limitato.
In sostanza, esiste una notevole difficoltà di collegare le previsioni circa il possibile
bilancio della PLA con le sue effettive capacità operative e strategiche. Nello studio della
RAND Corporation vengono effettuate due serie di proiezioni della spesa militare cinese
fino al 2025. La prima considera che la Cina dedichi alle spese militari il 5% del PIL; la
seconda che vi dedichi solo il 2,3%. Le valutazioni della RAND, espresse in dollari al
valore costante 2001, tengono conto in quanto a capacità di acquisto di un valore
intermedio fra MER e PPP (vedasi precedente paragrafo 1). I risultati sono riportati in
Tabella 1.
Tabella 1:
PROIEZIONI DELLA RAND SULL’ENTITÀ DEL BILANCIO MILITARE CINESE (mld$ 2001)
2010
2015
2020
2025
IPOTESI
TOTALE
91,2
113,7
143,9
185,2
MINIMA 2,3%
PERSONALE
57,8
65
73,1
82,2
PIL
ESERCIZIO
15,3
23
34,6
51,9
INVESTIMENTO
18,1
25,6
36,2
51,1
IPOTESI
TOTALE
145
207,4
287,3
403,4
MASSIMA 5%
PERSONALE
84,7
111,5
141
178,9
PIL
ESERCIZIO
22,3
39,6
67,1
113
INVESTIMENTO
38
56,2
79,3
111,4
È da notare che in entrambe le proiezioni viene realizzato progressivamente un
maggior equilibrio fra le spese correnti e quelle di investimento. Va inoltre notato che
l’ipotesi minima, che è quella ritenuta più attendibile, prevede che il bilancio cinese della
difesa 2025 abbia un’entità complessiva di circa il 40% delle spese per la difesa USA del
2003 (quello dell’ipotesi massima sarebbe di poco superiore al bilancio USA sempre del
2003).
Di conseguenza, pur ipotizzando che l’efficienza della spesa militare cinese sia simile
a quella USA e trascurando l’effetto dell’asimmetria delle strategie operative adottate - ma
175
limitandosi al confronto dei soli bilanci della difesa - non è prevedibile che la Cina possa
costituire nei prossimi 20 anni una minaccia credibile per la superiorità globale americana.
Mantenendo l’attuale percentuale di spesa della difesa rispetto al PIL, è prevedibile che
nel 2025 il bilancio del Pentagono sia almeno due-tre volte superiore a quello del 2003.
Ciò, beninteso, non significa che la PLA non possa acquisire una superiorità locale, ad
esempio nell’area denial relativa a Taiwan o in settori come il cyberspazio o le armi
antisatellitari.
Il confronto sarebbe ancora maggiormente sfavorevole alla Cina, qualora venisse
considerato il capitale di sistemi d’arma moderni accumulati da Cina e Stati Uniti nel
periodo considerato. Secondo le valutazioni dello studio della RAND, a cui si fa
riferimento, è prevedibile che lo stock di capitale militare netto degli Stati Uniti ammonti a
circa 2.710 miliardi di dollari nel 2001, e quello della Cina tra 1.280 e meno di 600
miliardi di dollari – rispettivamente nelle proiezioni massima e minima di bilancio – per la
PLA.
Lo studio della RAND non considera poi l’impatto delle alleanze sulla correlazione delle
forze. Esso favorisce ulteriormente gli Stati Uniti, al pari del livello tecnologico e
dell’efficienza economica dell’industria degli armamenti.
In conclusione, pur tenendo conto di tutte le semplificazioni connesse con gli assunti
circa le proiezioni future dei bilanci e l’impossibilità di considerare in tali valutazioni la
capacità d’integrazione sistemica delle varie tecnologie (aspetto determinante negli attuali
conflitti ad alta intensità operativa e tecnologica), né l’asimmetria delle concezioni
strategiche e tattiche (fattore altrettanto importante), si può concludere che la Cina, pur
contribuendo grandemente alla crescita dell’economia mondiale e raggiungendo lo status
di superpotenza economica – con un PIL che secondo la RAND sarà nel 2025 pari a
quello attuale degli USA e diventerà eguale ad esso all’incirca nel 2040 – non potrà
costituire una minaccia globale alla superiorità strategica americana. Imprevedibile è poi
l’impatto del declino demografico, nonché le conseguenze dell’accumulazione della
ricchezza sul tasso di crescita dell’economia. Non è da escludere che la Cina conosca una
forte richiesta di miglioramenti sociali, che ne freneranno la crescita, e che quest’ultima
conosca una traiettoria simile a quella del Giappone: da una media del 10,5% di crescita
annua nel 1960-70, esso passò al 5% nel 1970-80, per scendere al 4% nel 1980-90 e a
176
meno del 2% nel decennio successivo. In tal caso, il PIL pro capite dei cinesi rimarrebbe
estremamente basso rispetto a quello dei paesi avanzati, anche se quello nazionale potrà
notevolmente aumentare, per effetto sia della crescita dell’economia, sia della
rivalutazione dello yuan.
Per inciso, la geopolitica di metà XXI secolo verrà influenzata da due fattori
principali: dal fatto che le più grandi economie mondiali non saranno più quelle attuali,
con il declassamento dei quattro “grandi europei” – Germania compresa – che non faranno
più parte delle sei economie più ricche del mondo. Esse saranno sostituite dai BRICs.
Dell’attuale G8, rimarranno nel gruppo dei “6 ricchi” solo gli USA e il Giappone. Inoltre –
fatto del tutto nuovo nella storia – molti paesi aventi un PIL nazionale più elevato, non
avranno la popolazione più ricca. Il loro PIL pro capite rimarrà inferiore a quello esistente
in altri Stati. Ciò comporterà una maggiore difficoltà non solo per le decisioni
economiche, ma anche per quelle politico-strategiche e una notevole imprevedibilità e
turbolenza geopolitica. Tutto ciò influirà sul futuro contesto internazionale.
177
CAPITOLO VII
LE FORZE ARMATE CINESI: SITUAZIONE E PROSPETTIVE
1. L’Organizzazione Centrale della Difesa e il controllo politico sulla PLA
Negli anni immediatamente successivi alla conquista del potere da parte di Mao
Zedong e fino alla scomparsa di Deng Xiaoping è sempre esistita una complementarità
assoluta, al limite dell’identità, fra il Partito Comunista Cinese (PCC), lo Stato e la PLA. I
responsabili degli organismi di vertice politico-strategico del Partito e dello Stato erano gli
stessi. Si erano forgiati nelle dure lotte contro l’occupazione giapponese prima e contro le
forze del Kuomintang (KMG) poi. La dottrina strategica prevedeva, in caso di attacco alla
Cina, da parte degli USA fino a metà anni Sessanta e dell’URSS poi, fino alla fine della
guerra fredda, di combattere una “guerra di popolo” prolungata e totale. La PLA si
identificava col popolo in armi. Esso veniva sempre considerato – nonostante l’ideologia
comunista – un insieme unico, non diviso in classi 1 . La massa non solo dei soldati, ma
anche dei quadri, era di origine contadina. L’incredibile capacità di resistenza della
“civiltà del riso” cinese e di sopravvivenza alle rappresaglie più dure erano state messe in
evidenza dalla vittoriosa resistenza contro l’occupazione giapponese e contro il
Kuomintang. L’idea di una stretta unione fra il popolo e la PLA corrispondeva, da un lato,
al concetto confuciano di “civiltà armoniosa” in tutte le sue componenti e, dall’altro lato,
alla tradizionale cultura strategica cinese di adottare dottrine, tecniche e tattiche
asimmetriche, anche per compensare in questo caso le condizioni di inferiorità
tecnologica. Nonostante ciò, l’esercito cinese, a fine 1950, attraversò il fiume Yalu con
300.000 “volontari” e andò in aiuto delle forze nord-coreane, che stavano per essere
travolte dagli USA, adottò una strategia diretta, effettuando, con gravi perdite, attacchi
frontali ad ondate successive 2 .
1
Maria Weber, Il miracolo cinese, Il Mulino, Bologna, 2001; Francesco Scisci, Chi ha paura della Cina, ed.
Ponte alle Grazie, Milano, 2007.
2
Valdo Ferretti, La questione della sicurezza nell’evoluzione della politica estera della Repubblica
Popolare Cinese, CeMiSS, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006.
Una delle critiche maggiori fatte dai militari “conservatori” – che costituiscono ormai
una sparuta minoranza nella PLA – è che la ristrutturazione delle Forze Armate cinesi in
forze professionali ad alta tecnologia, staccherà la PLA dal popolo, da cui, secondo
l’ideologia maoista, trae la sua forza. Ciò avverrà anche perché la massa dei volontari
dovrà essere reclutata nelle città, dove i giovani hanno una migliore preparazione
professionale. Si allenteranno inoltre i legami con le comunità locali, necessari per la
“guerra di popolo” 3 . Va anche ricordato che il recente ridimensionamento del ruolo dei
militari, sia nel Partito, sia nell’organo di vertice – la Commissione Militare Centrale,
organismo sia dello Stato che del Partito – sembra sia derivato dall’opposizione di molti
generali all’intervento dell’esercito nel 1989, per reprimere le dimostrazioni di Piazza
Tienanmen, adducendo a sostegno della loro tesi il fatto che l’esercito non doveva
contrapporsi al popolo, come aveva insegnato Mao.
Come si è detto, l’organizzazione del PCC era plasmata su quella della PLA e lo Stato
su quella del PCC. Nel 1954, Mao decise di costituire la Commissione Militare Nazionale
- organo consultivo del Comitato Centrale del Partito - da cui dipendeva la Commissione
Militare Centrale, organo invece dello Stato. Quest’ultima, subordinata alla prima, era il
comando supremo, da cui dipendevano le Forze Armate, cioè la PLA (People Liberation
Army). La prima commissione – quella Militare Nazionale - fu soppressa ai tempi della
Rivoluzione Culturale, ma fu ricostituita da Deng Xiaoping nel 1980 e fusa con la
seconda, cioè con quella Militare Centrale. Quest’ultima è oggi un organo sia dello Stato
che del Partito ed è presieduta dal Segretario del PCC, che è anche Presidente della
Repubblica Popolare. Questo sistema del “doppio cappello” è caratteristico di tutto
l’ordinamento istituzionale cinese. In sostanza, la struttura centrale politico-strategica è
basata sul tradizionale modello leninista
Nell’organismo continuarono a dominare i militari, fino all’inizio degli anni Novanta.
Dopo Deng Xiaoping, cioè dopo la “seconda generazione” di leaders, cessò la supremazia
alle massime cariche dello Stato di personalità che avevano una diretta esperienza della
guerra e che appartenevano alla PLA od erano particolarmente legati ad essa..
3
Howard M. Krawitz, Modernizing China’s Military: A High-Stakes Gamble?, Strategic Forum n. 204,
National Defense University – INSS, Washington D.C., December 2003.
179
L’apparato del Partito rispecchia la struttura dello Stato e svolge nei confronti di
quest’ultimo un ruolo dominante, sia di direzione che di controllo. Esso è facilitato – come
si è ricordato - dal fatto che i vertici del PCC coincidono con quelli dello Stato. L’unica
eccezione è stata rappresentata da Jiang Zemin, che fu sostituito da Hu Jintao come
Segretario Generale del PCC nel XVI Congresso del Partito nel novembre 2002, ma
rimase Presidente dello Stato e della Commissione Militare Centrale fino al marzo 2003.
Oggi, nella Commissione Militare Centrale prevalgono i vertici politici del PCC. La
perdita di peso politico della PLA e l’attenuazione dei suoi legami con le campagne (oltre
che - dal 1998 - con l’industria degli armamenti, il 70% delle produzioni della quale era
commerciale, ma controllato dai militari) stanno producendo una vera e propria
“rivoluzione” organizzativa e psicologica, nonché una separazione della PLA dal PCC, in
campo sia interno che internazionale, con tensioni e contrasti potenziali, che peraltro non
sono ancora emersi. Insomma, la PLA starebbe trasformandosi da strumento del partito in
strumento dello Stato. Le forze paramilitari - in particolare la Polizia dell’Esercito del
Popolo e la Milizia, non dipendono però dalla PLA - ma dal Consiglio di Stato (cioè dal
Governo della Repubblica Popolare Cinese) per il tramite del Ministro dell’Interno, anche
se per i compiti connessi con la difesa territoriale dipendono sia dalla Commissione
Militare Centrale sia dal Ministro della Difesa Nazionale. Quest’ultimo non ha –
contrariamente ai ministri della difesa degli altri paesi - alle sue dipendenze la PLA, che fa
capo alla Commissione Militare Centrale Nazionale. In sostanza, il Ministro della Difesa
Nazionale cinese è soprattutto un organismo di collegamento con i suoi omologhi
stranieri. È sempre stato un militare e spesso si è identificato con uno dei vice-presidenti
della Commissione Militare Centrale ed è spesso un ex Capo di Stato Maggiore. E’
responsabile delle esportazioni di armamenti. L’Allegato 1 riporta lo schema
dell’organizzazione del vertice politico-strategico in Cina.
Finora, nella politica e negli ambienti militari hanno dominato le forze terrestri, da cui
provenivano fino al 2000 tutti i componenti militari della Commissione Militare Centrale.
Solo da pochi anni ne fanno parte i vertici della Marina (PLA-N), dell’Aeronautica (PLAAF) e delle forze missilistiche strategiche (la 2ª Artiglieria, che comprende anche i missili
a corta e media gittata schierati di fronte a Taiwan ed armati con testate convenzionali).
180
La PLA ha svolto sempre un duplice ruolo: interno ed esterno. Ad essa facevano un
tempo capo le forze paramilitari, in particolare la Polizia Armata del Popolo, della
consistenza di ben 1,5 milioni di effettivi. Oggi, il suo comando è passato al Ministro
dell’Interno e alla Commissione Militare Centrale. Quest’ultima ha un potere di controllo
anche sulla Polizia di Confine (all’incirca 100 mila effettivi) e sulla Milizia di Sicurezza
Interna (all’incirca 800 mila effettivi). Da segnalare l’Unità dei Lupi della Neve, forza
speciale, altamente professionalizzata, dalla Polizia Armata del Popolo, specializzata
nell’antiterrorismo. Le forze paramilitari sono finanziate con fondi al di fuori del bilancio
della difesa. Almeno per un terzo, non figurano nel bilancio dello Stato, poiché
i
finanziamenti sono a carico delle province. Esse hanno mantenuto più stretti legami con il
Partito e con la politica interna a livello locale, sia perché sono diffuse ovunque sul
territorio, sia perché sono impiegate per il mantenimento della sicurezza e dell’ordine
pubblico, particolarmente perturbato nella turbolenta transizione economico-sociale che
conosce la Cina. Il Ministro dell’Interno ha dichiarato che nel 2005 si sono verificate,
soprattutto nelle campagne, 84 mila manifestazioni di protesta o rivolte. Lo stesso
Presidente Hu Jintao si è dimostrato molto preoccupato che tali manifestazioni antipartito si estendano alla città, dove avrebbero molta maggior forza.
Dalla Commissione Militare Centrale dipendono il Dipartimento dello Stato Maggiore
Generale e i tre dipartimenti generali di supporto: Politico, Logistico e degli Armamenti. I
compiti di raccordo fra il settore politico e quello militare sono assolti direttamente dalla
Commissione Militare Centrale, che ha anche la responsabilità del comando delle forze
terrestri della PLA.
Dallo SM Generale dipendono gli SM della Marina, dell’Aeronautica e delle forze
missilistiche (2ª artiglieria), nonché le sette regioni militari in cui è divisa la Cina,
l’Accademia e l’Università di Difesa Nazionale. La “2ª artiglieria”, che raggruppa le forze
missilistiche, dipende direttamente – come si è detto - dallo Stato Maggiore, ma sotto uno
stretto controllo della Commissione Militare Centrale (CMC). Non esiste un comando
unificato delle Forze terrestri, probabilmente per non costituire un contropotere a quello
della PCC.
La CMC impartisce, poi, tramite il Governo (Consiglio di Stato), direttive alla
COSTIND, organismo centrale per lo sviluppo e gestione delle capacità tecnologiche e
181
industriali nel campo degli armamenti. Tale organismo, prima dominato dai militari, è
stato “civilizzato” e passato sotto il controllo del governo nel 1998, rompendo un
connubio – origine di inefficienza e di corruzione – fra i committenti e i fornitori,
entrambi militari 4 .
Il Presidente della Repubblica Popolare Jiang Zemin fu il primo civile senza diretta
esperienza di guerra a presiedere - alla metà degli anni ’90 - la Commissione Militare
Centrale. Egli fu anche il primo a staccarsi nettamente dal filone del pensiero militare di
Mao della “guerra di popolo”, imponendo una svolta professionale alle Forze Armate e
passando dalla priorità attribuita alla difesa territoriale a quella assegnata alle capacità di
proiezione di potenza, almeno nelle immediate periferie cinesi, delimitate dalla 1ª e dalla
2ª fascia di isole nei tre mari cinesi: i) Meridionale, delle isole Paracelso e Spratley,
avamposto verso gli Stretti della Malacca; ii) Orientale, centrato sullo Stretto di Taiwan;
iii) Mar Giallo, che riguarda le isole Senkaku e che si spinge fino ad Okinawa. La seconda
linea di isole include il Giappone a Nord, Guam al centro e si spinge a Sud fino alle
Filippine.
Sotto la presidenza di Jiang Zemin aumentò notevolmente l’importanza della Marina,
rispetto a quella della componente terrestre. Il peso di quest’ultima rimase comunque
sempre più elevata: l’Esercito viene infatti considerato il garante “di ultimo ricorso”
dell’unità della Cina per la repressione delle rivolte e dei disordini che avvengono
soprattutto nelle zone rurali, la cui popolazione si trova in condizioni economiche
disperate. Le unità paramilitari si sono rivelate in molti casi insufficienti a tale scopo.
Inoltre, al pari delle altre tre forze armate (“2ª artiglieria” inclusa), l’esercito è oggetto di
un sistematico ammodernamento. Il successo di quest’ultimo è ostacolato dalle sue
dimensioni ancora ragguardevoli (1,6 milioni di effettivi), anche se in corso di riduzione 5 .
Il Libro Bianco della Difesa del dicembre 2006 afferma che l’esercito, dopo aver
4
Roger Cliff (RAND Corporation): Report Before the U.S.-China Economic and Security Review
Commission, Washington D.C., March 16th, 2006.
5
Quando fu costituita, la PLA aveva 5,5 milioni di soldati, poi ridotti a 4 milioni. Durante la guerra di Corea
raggiunse i 6,2 milioni, poi ridotti a 4,2. Nel periodo di Mao, la PLA oscillò fra 2,5 e 4 milioni. Molte delle
riduzioni delle forze terrestri sono consistite nel semplice transito di strutture e di effettivi nella Polizia
Armata del Popolo e nella Milizia.
182
dimezzato le sue strutture negli anni novanta, ha ridotto ancora i suoi effettivi di circa 200
mila soldati fra il 2003 e il 2005 6 .
L’importanza che riveste tuttora la Commissione Militare Centrale è dimostrata dal
fatto che Jiang Zemin, dopo aver ceduto il potere a Hu Jintao nel 2002, ne mantenne la
carica di Presidente, fino al l’inizio del 2003. Oggi la Commissione è presieduta da Hu.
Egli ha accelerato il programma di professionalizzazione della PLA e la sua
trasformazione in una forza di proiezione di potenza esterna.
Una dimostrazione della maggiore autonomia della PLA dal PCC è data dalle
resistenze del Capo di SM della Difesa cinese ad iniziare colloqui con il Pentagono sulle
strategie nucleari dei due paesi, non attuando gli accordi presi fra i presidenti Hu e Bush
nella primavera 2006. Tale ritardo è stato motivato da fonti cinesi con il timore che i
colloqui sulle armi nucleari strategiche avrebbero consentito agli USA un miglior
targeting da first strike per la distruzione preventiva di gran parte delle forze nucleari
strategiche cinesi, che oggi hanno una consistenza ridotta, ma sono in fase di rapida
modernizzazione e potenziamento.
2. Forze missilistiche - la Seconda Artiglieria – forze spaziali e controspaziali e della
guerra del cyberspazio
a) La Seconda Artiglieria
La Seconda Artiglieria include tutte le forze missilistiche, sia nucleari che
convenzionali, oltre che le unità spaziali e contro-spaziali, cioè anti-satellitari. Tali forze
sono - dalla seconda metà degli anni Novanta – oggetto di un importante sforzo di
ammodernamento, non solo quantitativo ma anche qualitativo. Dopo la guerra per il
Kuwait e per il Kosovo, la Cina si è grandemente preoccupata delle enormi capacità
convenzionali americane, conseguenti alla RMA. Le autorità di Pechino hanno iniziato un
programma di ammodernamento militare, che riguarda tutte le componenti della PLA, pur
essendo centrato sulle forze missilistiche e su quelle navali. Vanno ricordati i due obiettivi
indicati
nel
Libro
Bianco
del
dicembre
2006:
la
“meccanizzazione”
e
la
6
John J. Tkacik, China’s Quest for a Superpower Military, Backgrounder n. 2036, The Heritage Foundation,
May 17th, 2007.
183
“informatizzazione”. Quest’ultima segue in linea generale i criteri adottati dagli USA per
la network centric warfare 7 , mentre la prima è volta a dotare la PLA di una moderna e
potente capacità di proiezione di potenza terrestre, i cui obiettivi veri non sono mai stati
precisati. Comunque, essa preoccupa grandemente lo SM Generale russo.
Il potenziamento missilistico e navale ha determinato notevoli preoccupazioni negli
Stati Uniti e in tutti i paesi dell’Asia sud-orientale e orientale, anche per la scarsa
trasparenza dei bilanci militari, della dottrina strategica e degli obiettivi della Cina. Tali
preoccupazioni sono ampiamente riflesse nel rapporto annualmente trasmesso dal
Pentagono al Congresso sulla potenza militare cinese 8 . In particolare, nell’ultima edizione
di quest’ultimo, pubblicata nel marzo 2007, traspare il timore che la Cina – seguendo i
trends caratteristici del pensiero strategico cinese - si proponga di fronteggiare la
superiorità militare degli Stati Uniti con strumenti asimmetrici, che ne neutralizzino o,
almeno, ne degradino le capacità, colpendone i punti più deboli. Ad esempio, con armi di
counterspace e di cyberspace – quelle che negli USA vengono denominate disruptive
technologies – verrebbero attaccati sia i moltiplicatori di potenza che garantiscono
un’enorme superiorità alla U.S. Navy, sia i sistemi su cui si basa la network centric
warfare americana.
I missili cinesi - in servizio e in sviluppo - sono sia strategici (ICBM e SLBM), sia a
gittata intermedia, media e corta. Le forze strategiche comprendono sia gli ICBM
tradizionali in silos ed a propellente liquido, di cui una ventina del tipo CSS-4 e una
ventina di CSS-3. Includono inoltre da 14 a 18 CSS-2 (che sono IRBM), e una cinquantina
di MRBM del tipo CSS-5, che sono mobili su strada e a combustibile solido. IRBM e
MRBM sono utilizzati per la dissuasione regionale che ha incominciato ad impensierire
Putin con la sua richiesta di estendere il Trattato INF a tutti gli Stati. Gli SRBM sono
puntati su Taiwan. Va poi ricordato che la Cina possiede un sommergibile lanciamissili a
propulsione nucleare – della classe Xia – dotato di 12 missili CSS-N-30 o Julang 1, della
7
STRATFOR, Timothy L. Thomas, Chinese and American Network Warfare in Joint Force Quarterly, n.
38, Summer 2005, pp. 76-83. Vds. anche Rodger Baker, China’s Concerns In 2007: Fears of a Perfect
Storm, Geopolitical Intelligence Report, January 30th, 2007.
8
Office of Secretary of Defense, Military Power of the People’s Republic of China, Report to the Congress,
Washington D.C., March 2007.
184
gittata di circa 1800 km. Ha però in costruzione tre nuovi sommergibili lanciamissili
classe Jin, che dovrebbero essere dotati di missili Julang 2 dalla gittata di 8.000 km.
Le forze nucleari strategiche cinesi sono in corso di ammodernamento. In particolare
stanno entrando in servizio l’ICBM DF31, con gittata di oltre 7 mila km. È infine in corso
di sviluppo l’ICBM DF31-A dall’enorme gittata di 11 mila km, capace di colpire l’intero
territorio americano.
A tali forze missilistiche vanno aggiunti i già menzionati SRBM del tipo CSS-6 e
CSS-7, schierati di fronte a Taiwan e che hanno rispettivamente una gittata di 600 e di 300
km. Il numero degli SRBM sta crescendo negli ultimi anni con un ritmo di 100-200 missili
all’anno. La quasi totalità hanno testate convenzionali. Essi sono inquadrati in 6 Brigate
della 2ª Artiglieria, mentre una settima Brigata è in corso di costituzione.
Le capacità cinesi di produzione di missili sono elevate, anche se sembra che non
siano completamente utilizzate. Anche per questo - e dell’adozione della dottrina del
“deterrente limitato o sufficiente” - la Cina non si è dotata degli enormi arsenali nucleari
strategici - con oltre 10 mila testate strategiche ciascuno - che avevano gli USA e l’URSS
durante la guerra fredda.
La Cina ha sempre dichiarato – da quando nel 1964 si è dotata di armi nucleari - di
adottare una dottrina non solo di no first strike, ma anche di no first use. Tale dottrina
ufficiale non sarebbe però applicata – secondo il parere di taluni esperti cinesi - nel caso di
Taiwan, dato che l’isola è considerata parte del territorio cinese, parte integrante della
Cina continentale 9 .
La dottrina del no first use è stata recentemente considerata, negli scritti di molti alti
ufficiali della PLA, un’indebita limitazione alle capacità operative cinesi. Essi hanno
perciò proposto di abolirla. Certamente facevano riferimento a scenari quali quelli di un
conflitto per Taiwan, in cui può essere impiegata solo un’aliquota delle forze cinesi, cioè
quelle idonee alla proiezione di potenza e non ancorate al territorio. In uno scenario di tal
genere, la Cina si troverebbe tuttora in condizioni di inferiorità convenzionale rispetto agli
Stati Uniti. L’unico modo per fronteggiare uno squilibrio convenzionale sarebbe quello di
far ricorso alle armi nucleari. Il Presidente dell’Università della Difesa Nazionale di
Pechino ha affermato che la Cina colpirebbe con i suoi ICBM le città americane, qualora
9
Larry Wortzel, The Trouble with China’s Nuclear Doctrine, in Jane Defense Weekly, 22 February 2006.
185
gli USA dovessero impiegare contro le forze cinesi impegnate nello Stretto di Taiwan le
tattiche e le tecniche della network centric warfare. Ha così contraddetto palesemente la
dottrina ufficiale, senza peraltro subire conseguenze diverse da una precisazione delle
autorità cinesi, che hanno dichiarato che si trattava di un pensiero solo personale dell’alto
ufficiale, la cui espressione era quasi sicuramente autorizzata dal governo.
Come già accennato, le riunioni fra i responsabili delle forze nucleari cinesi ed
americani, concordate dai presidenti Hu e Bush nel loro incontro dell’aprile 2006, non
hanno avuto ancora luogo. Negli USA sono stati espressi dubbi circa il fatto che la Cina
adotti veramente una dottrina del no first use. Sembra che di fatto voglia mantenersi le
mani libere. Ad ogni buon conto, di fronte all’installazione progressiva di difese
antimissili americane, la Cina – ancor più della Russia, che dispone di numerose forze
nucleari – dovrà fare affidamento sui sommergibili nucleari lanciamissili (classe Jin o
OS4), che saranno in pattugliamento costante continuativo nel Pacifico per evitare di
essere distrutti da uno strike preventivo. La loro importanza è stata messa in rilievo anche
dal lancio di un missile SS-X-30 Bulava da un sommergibile tipo Borei, proprio prima
della visita del Presidente Putin agli USA l’1 e il 2 luglio 2007. Nel caso cinese, sembra
però che i sommergibili della classe Jin (o tipo OS4), attualmente in costruzione 10 ,
abbiano ancora problemi al sistema di propulsione e necessitino ancora di un anno prima
di divenire operativi. Comunque sia, oltre che essere difficili da localizzare, presentano il
vantaggio di poter lanciare i loro missili anche in prossimità delle coste degli Stati Uniti,
superando qualsiasi sistema di difesa antimissile che potrà essere costruito nei prossimi
decenni dagli USA.
10
STRATFOR, Ballistic Missile Submarines: The Only Way to Go, Global Intelligence Brief, April 24th,
2007.
186
Tabella 1: Forze missilistiche cinesi
Missile
n° lanciatori/
Gittata
n° unità
CSS-4 ICBM
20/20
12,900+km
CSS-3 ICBM
9-13/16-24
5,470+km
CSS-2 IRBM
6-10/14-18
2’790+km
CSS-5 MRBM Mod. 1/2
34-38/40-50
1,770+km
JL-1 SLBM
10-14/10-14
1,770+km
CSS-6 SRBM
70-80/300-350
600 km
CSS-7 SRBM
110-130/575-625
300 km
JL-2 SLBM
In fase di sviluppo
8,000+km
DF-31 ICBM
In fase sperimentale
7,250+km
DF-31° ICBM
In fase di sviluppo
11,270+km
b) Forze spaziali e controspaziali (counter-space)
La Cina ha un gigantesco programma spaziale, inclusa la costruzione di una stazione
spaziale entro il 2020, voli spaziali pilotati e il raggiungimento della luna con una navetta
abitata.
Le attività spaziali civili e militari vengono strettamente coordinate, sotto la direzione
della Commissione Militare Centrale. Una particolarità cinese è quella di disporre di una
grande capacità di lanci di opportunità con minisatelliti sia di comunicazione che di
osservazione.
In particolare, la Cina sta sviluppando minisatelliti dal peso inferiore ai 100 kg. Fonti
ufficiali hanno affermato che la Cina ha la capacità di lanciare tali satelliti con un’ora di
preavviso, per fronteggiare la distruzione o l’inabilitazione dei satelliti in orbita o per
espandere la copertura satellitare in caso di necessità. Le capacità spaziali e soprattutto
quelle di counter-space cinesi suscitano grandi preoccupazioni negli USA, la cui potenza
militare dipende in consistente misura dallo spazio 11 .
11
Phillip C. Saunders, China’s Future in Space: Implications for U.S. Security, in The Magazine of the
National Space Society, 20th September, 2005.
187
Nel contempo, Pechino – ben consapevole di quanto le capacità militari americane
siano influenzate dall’utilizzazione dello spazio – sta sviluppando un programma
antisatellitare multidimensionale ed ha elaborato una dottrina per il counter-space, basata
sull’impiego massiccio di tutti i mezzi tecnologicamente disponibili. Essi sono
innanzitutto missili anti-satellite a impatto cinetico diretto – del tipo di quello che nel
gennaio 2007 ha distrutto un satellite a quasi 900 chilometri di altezza cinese 12 -, ma
anche disturbatori elettronici e armi ad energia diretta (a laser o a radiofrequenze). Sembra
inoltre che la dottrina cinese consideri l’utilizzazione di armi ad impulso elettromagnetico,
prodotto con lo scoppio nello spazio di piccole bombe nucleari. La Tabella 2 riporta
l’inventario dei satelliti cinesi a fine 2006.
Da segnalare che la Cina sta sviluppando un proprio sistema GPS e che partecipa
anche al programma GPS europeo Galileo, alle cui tecnologie più sensibili non ha però
accesso. Da quanto le industrie spaziali europee hanno potuto rilevare, la Cina non
dispone ancora di un livello tecnologico – soprattutto nel campo delle nanotecnologie e
dell’elettronica – comparabile con quello dei paesi più avanzati nel campo spaziale. Gli
investimenti nel settore sono però massicci. Taluni esperti non escludono la possibilità –
che preoccupa grandemente gli strateghi americani – che la Cina acquisisca nel 2025-2050
la capacità di infliggere agli USA una “Pearl Harbour spaziale” 13 .
Per il momento, gli sforzi cinesi sembrano concentrati sull’obiettivo diminuire le
capacità della Marina USA di utilizzazione dello spazio. Il counter-space sarebbe
strettamente integrato sia al sea-lane denial, volto a dissuadere gli USA dall’inviare
gruppi portaerei ed anfibi in soccorso di Taiwan, sia a realizzare un sea control nello
stretto che separa l’isola dalla Cina continentale, per la protezione del traffico marittimo
necessario al trasporto e al sostegno di una forza d’invasione di Taiwan 14 .
L’utilizzazione dello spazio conferirebbe alla Cina la capacità di contrastare, se non di
equilibrare con strategie asimmetriche la superiorità navale americana. Strategie
simmetriche non potrebbero invece garantire alla Cina, almeno nell’avvenire prevedibile,
tale risultato.
12
Bates Gill and Martin Kleiber, China’s Space Odyssey – What the Anti-Satellite Test Reveals About
Decision-Making in Beijing, in Foreign Affairs, May-June 2007, pp. 2-6.
13
China’s Offensive Space Capabilities, STRATFOR Global Intelligence Brief, January 18th, 2007.
14
Gorge Friedman, Space and Sea Lane Control in Chinese Strategy, STRATFOR, January 23rd, 2007.
188
Tabella 2: I satelliti cinesi (2006)
Tipo di satellite
Numero
Satelliti da comunicazione
14
Satelliti da navigazione (tipo GPS)
3
Satelliti meteorologici
3
Satelliti da ricognizione/osservazione terrestre
6
Satelliti scientifici
8
Sistema spaziale abitato
1
TOTALE
35
c) Capacità del cyberspazio
I cinesi hanno dimostrato in diversi colloqui e riunioni di essere pienamente
consapevoli dei metodi e delle possibili utilizzazioni a scopi militari delle nuove
tecnologie dell’informazione. Considerano il cyberspazio una nuova dimensione della
geostrategia ed hanno elaborato una dottrina d’impiego che viene giudicata molto
sofisticata dagli analisti strategici americani. Da articoli e documenti dottrinali viene
spesso citata la necessità di realizzare un “blocco delle informazioni” con misure sia attive
(contromisure) elettroniche che passive (contro-contromisure) e, soprattutto, con attacchi
con hackers e virus alle reti informatiche e alle banche dati. L’obiettivo è quello di
ottenere il “dominio dello spazio elettromagnetico” e di neutralizzare la RMA americana,
considerata la minaccia più pericolosa alla sicurezza cinese 15 .
La PLA ha elaborato il concetto di “Rete integrata per la guerra elettronica”. Ha anche
costituito unità specializzate per utilizzare tutte le tecnologie disruptive impiegabili nel
settore, in particolare virus molto sofisticati per l’inabilitazione delle reti di computer e
delle banche dati. Nel Libro Bianco della Difesa 2006 viene attribuita al settore
un’importanza vitale. Gli USA – e non solo loro – ne sono grandemente preoccupati.
15
Rodger Baker, China’s Concerns in 2007: Fears of a Perfect Storm, op. cit.
189
3. La Marina Cinese
La Marina (PLA-N) è la forza armata che ha ricevuto maggiori attenzioni e
finanziamenti negli ultimi anni. L’intenzione di potenziarla ulteriormente è stata
recentemente espressa dallo stesso Presidente Hu Jintao 16 .
Particolarmente sviluppata è la componente sottomarina, che consiste attualmente in
58 unità, ma che fra pochi anni raggiungerà le 70. Dal 1995 ad oggi, la PLA-N ha ordinato
ben 31 nuovi sottomarini, di cui due nucleari di attacco. Ogni anno vengono costruiti da 4
a 5 sommergibili. Alla fine del decennio la flotta cinese avrà un numero di sommergibili
superiore a quello della flotta americana, la cui consistenza è in rapida diminuzione per il
numero ridotto di nuove costruzioni. La disponibilità di sommergibili USA si ridurrà dagli
attuali 58 a una cinquantina, dato l’insufficiente ritmo di sostituzione dei vascelli divenuti
obsoleti. Per fare un esempio, negli USA, all’inizio del 2007, sono in costruzione solo 3
nuovi sottomarini. La questione è considerata con crescente preoccupazione da
Washington, dato anche il miglioramento tecnologico della Flotta subacquea cinese, anche
se taluni esperti esprimono dubbi al riguardo, soprattutto per quanto riguarda quest’ultimo.
Le tecnologie sarebbero ancora quelle sovietiche degli anni ottanta, ormai obsolete e non
competitive con quelle della U.S. Navy 17 .
Anche nel settore delle navi di superficie, la Marina cinese sta effettuando un notevole
sforzo di potenziamento. Esso è insieme qualitativo e quantitativo. Riguarda sia le
piattaforme – spesso costruite dai cantieri navali cinesi, che posseggono livelli qualitativi
competitivi a livello mondiale - che i sistemi antinave e contraerei meno moderni,
importati dalla Russia o costruiti su licenza dagli arsenali militari cinesi. Particolarmente
carente risulterebbe essere la capacità di coordinamento delle operazioni navali con quelle
di supporto aereo. Si ritiene che la Cina possa finire entro il 2008 l’allestimento della
portaerei ex-sovietica (comprata dall’Ucraina) Varyag. La Cina dispone poi di una
consistente capacità di costruzione di navi anfibie. Le tecnologie a disposizione per
16
Richard D. Fisher jr., PLAN for Growth - China’s Surface Fleet Modernization Fits Beijing Appetite for
Sea Power, in Armed Forces Journal, April 2006, pp. 30 ss.
17
Brad Kaplan, China’s Navy Today-Storm Clouds on the Horizon…or Paper Tiger?, in
http://www.navyleague.org/ seapower/chinas_navy_today.htm.
190
costruirle sono eccellenti e i tempi di produzione sono straordinariamente brevi,
ineguagliabili in Occidente.
Recentemente, la Cina ha acquistato dalla Russia una trentina di Sukoi 33 (versione
navale del SU-27) e sta navalizzando i caccia J-10 di produzione nazionale. Per quanto
riguarda le navi anfibie, sono in costruzione quattro LPD - tipo 071 - ciascuna delle quali è
in condizioni di trasportare 500-800 soldati e 25-50 veicoli corazzati. Le tecnologie di
trasporto anfibio non sono ancora tali da consentire alla Cina di disporre delle capacità
necessarie per un assalto anfibio a Taiwan. Con l’entrata in servizio dei nuovi
sommergibili sarebbe invece più praticabile un blocco navale dell’isola, a meno che gli
USA e i loro alleati non decidessero di concentrare nell’area le loro capacità anti-som.
Si tratta, comunque, di un consistente programma, simile a quello promosso per la
marina sovietica dall’Amm. Gorshkov. Secondo molti esperti, la Cina intende dotarsi di
capacità navali non solo in condizioni di occupare Taiwan o di imporre un blocco navale
all’isola - tenendo lontane le navi americane destinate a soccorrerla in caso di aggressione
- ma anche di capacità a più lungo raggio, capaci di intervenire ad esempio per portare
aiuto alle comunità cinesi presenti in tutti i paesi dell’ASEAN o per attuare un sea control
sulle SLOC fra gli Stretti della Malacca e il Mar Cinese Meridionale, oppure per realizzare
un sea denial più esteso, minacciando le SLOC americane e giapponesi nel Pacifico
occidentale, fino alla “seconda catena di isole”.
Nonostante tale potenziamento – peraltro impressionante per la sua entità – la Cina
non sarà in grado di sfidare la potenza navale globale degli Stati Uniti. Secondo il
tradizionale approccio del pensiero militare cinese, Pechino tende ad utilizzare per questo
strategie asimmetriche. Comunque, non ha alternative. Non sarà ancora in grado per
decenni di sfidare la potenza aeronavale di Washington. Ha una flotta di 250.000
tonnellate di fronte a quella USA che ne dispone da sola di 2.500.000.
I timori di una “Pearl Harbour spaziale”, espressi nel rapporto Rumsfeld del 2001,
stanno aumentando. Infatti, la Cina è obbligata a concentrare le sue risorse in settori meno
costosi, ma in grado di colpire vulnerabilità importanti della U.S. Navy. Non è da
escludere che inizi fra USA e Cina una corsa allo spazio, dal cui esito saranno influenzati
191
in modo cospicuo i rapporti di forza del sistema Asia-Pacifico 18 . Essa offrirebbe alla Cina
il vantaggio di modificarli a proprio favore, senza il ricorso ad un grande programma di
riarmo navale. Data anche la sua visibilità, esso preoccuperebbe grandemente i paesi
dell’ASEAN, oltre che il Giappone e l’India, e provocherebbe una loro più stretta alleanza
con gli Stati Uniti. Una corsa allo spazio avrebbe invece minori impatti politici.
Il programma di potenziamento quantitativo e qualitativo della Marina cinese
comunque continuerà, con ritmi forse più accelerati degli attuali. Esso trova una
giustificazione nazionale nel fatto che nessuna grande potenza può affidare ad altri Stati
potenzialmente ostili – come per la Cina sono gli USA - la protezione delle proprie vitali
vie di comunicazione marittima. Occorre tener conto che fra il Mar Cinese Meridionale e
l’Oceano Indiano, attraverso gli Stretti della Malacca transitano oltre tre quarti dell’import
e dell’export cinese. Tale dipendenza è destinata ad accrescersi con l’aumento delle
importazioni energetiche cinesi dal Golfo e dall’Africa. Esse dovrebbero passare dal 40%
del fabbisogno attuale al 75-80% nel 2025. La geografia penalizza la Cina sotto il profilo
del potere marittimo. Certamente questa è una ragione del fatto che non è mai stata nella
storia una grande potenza navale.
La Marina cinese è divisa in tre flotte: del Nord, dell’Est e del Sud. La consistenza di
quelle dell’Est e del Sud va considerata unitariamente, dato che entrambe possono agire
rapidamente sia nello Stretto di Taiwan sia nel Mar Cinese Meridionale. Per completezza
si è aggiunta nello specchio la consistenza delle forze navali di Taiwan, la cui principale
debolezza – nell’ottica di una resistenza ad un blocco navale o ad un attacco anfibio –
consiste nel ridotto numero di sommergibili. Gli USA hanno esercitato forti pressioni su
Taipei perché acquisti da 12 a 18 sommergibili diesel, ma finora il governo Taiwanese si è
rifiutato di farlo. Con tale inferiorità di forze (cfr. Tabella 3) e nonostante il sostegno
navale del Giappone, sarà sempre più difficile per gli USA giungere per tempo e in
relativa sicurezza in soccorso dell’isola, pur con le sue poderose forze aeronavali dislocate
nel Pacifico occidentale e nell’Oceano Indiano.
Per ora, la Cina non dispone di portaerei. Tuttavia, ha acquisito il know-how
necessario per costruirle, comprando prima dall’Australia nel 1985 la portaerei Melbourne
e poi dalla Russia le portaerei Minsk nel 1998 e Kiev nel 2000. Nessuna di esse fu però
18
A New Arms Race in Space?, in The Economist, January 27th, 2007, pp.10-11.
192
resa operativa. Entrambe sono state trasformate in ristoranti galleggianti. È invece in corso
di completamento la portaerei Varyag - della classe Kuznetsov – acquistata dall’Ucraina
nel 1998, ma non si sa se essa entrerà nella linea operativa della PLAN, o verrà anch’essa
trasformata in ristorante. Fonti della U.S. Navy ritengono che la Cina potrà disporre di
portaerei solo tra il 2015 e il 2020, alla fine del 12° e del 13° Piano Quinquennale, a meno
che la recente costruzione di “mini-portaerei” da parte del Giappone, sulle quali verrà
dislocata la versione F35-B del JSF, non acceleri i programmi cinesi. La costruzione di
una sola portaerei non ha alcun valore strategico. Per pesare sugli equilibri strategici del
Pacifico occidentale e dell’Oceano Indiano occorrerebbe alla Cina di disporne di almeno
sei-otto. Per Taiwan le portaerei sono poco utili dato che l’isola dista solo 110-250 km
dalle coste cinesi e che possono intervenire aerei basati a terra (vds. in seguito).
Tabella 3. Forze navali della Cina e di Taiwan
Unità navali
Cacciatorpedinieri e
incrociatori
Fregate
Navi da sbarco con
capacità di trasporto
mezzi
Navi da sbarco medie
Sommergibili diesel
Sommergibili nucleari
Torpediniere
lanciamissili
Flotta
Nord
9
Flotte Sud
ed Est
16
Totale PLA-N
25
Flotta di
Taiwan
4
7
40
47
22
3
22
25
12
5
25
5
11
20
28
30
25
53
5
41
4
4
50
4. Forze terrestri
Le forze terrestri assorbono ancora la massa degli effettivi della PLA (1.400.000
uomini 19 , oltre a 1.500.000 delle forze paramilitari, rispetto ai 244 mila uomini della PLAN e ai 400 mila della PLA-AF, Seconda Artiglieria inclusa). Metà degli effettivi
dell’Esercito è costituito da professionisti a lunga ferma. Rispetto all’enorme quantità di
19
Gli effettivi dell’esercito ammontavano all’inizio del 2006 a 1.600.000 uomini, secondo il Military
Balance 2006 dell’IISS. Nel corso dell’anno sarebbero stati ridotti di 200 mila unità, che non sarebbero stati
congedati, bensì trasferiti alle Forze Paramilitari.
193
soldati e di reparti, le forze dell’esercito in grado di essere impiegate in operazioni di
proiezione esterna di forza sono però ridotte: quattro divisioni aviotrasportate, facenti
parte del 15º Corpo, due divisioni anfibie, due Brigate di marines e forze per operazioni
speciali, la cui consistenza è valutata da 25.000 a 50.000 effettivi.
I volontari a lunga ferma, che hanno in dotazione i materiali più moderni (soprattutto
sistemi C4ISR e i nuovissimi carri armati T98), sono concentrati nelle unità dislocate in
corrispondenza dello Stretto di Taiwan, certamente orientate a servire da back-up ad
un’invasione dell’isola. La Tabella 4 riporta le forze terrestri cinesi stanziate nelle regioni
prospicienti Taiwan e le forze terrestri di Taipei. Nonostante il fatto che nelle forze
terrestri disponibili alla Cina andrebbero contate anche le unità di proiezione di potenza
(aviotrasportate, anfibie, ecc.), risulta evidente la difficoltà per la PLA di occupare l’isola
tramite un attacco anfibio. La Cina non dispone infatti né delle navi (né degli aerei) da
trasporto, né delle capacità di sea control necessarie per il successo di tale operazione,
dato anche che le forze terrestri di Taiwan sono molto bene equipaggiate ed addestrate.
Tabella 4. Rapporto di forze terrestri nello stretto di Taiwan
Effettivi
Divisioni fanteria
Brigate fanteria
Divisioni (o Brigate) corazzate
Divisioni (o Brigate) di artiglieria
Brigate di marines
Carri armati
Pezzi d’artiglieria
CINA
TAIWAN
400.000
9
12
8
7
2
2.700
3.200
130.000
13
5
3
2
1.800
3.200
5. Forze Aeree
Il numero di aerei da combattimento in linea operativa della PLA-AF è molto elevato.
Secondo il più volte citato rapporto del Pentagono al Congresso USA, essi
ammonterebbero a ben 2325 velivoli operativi, a cui andrebbero aggiunti circa 470 vecchi
caccia e bombardieri utilizzati per addestramento nelle scuole di volo.
194
Nonostante l’acquisto di qualche centinaia di aerei moderni dalla Federazione Russa,
la massa degli aerei, costruita in Cina su licenza sovietica prima e russa poi, ha
performances molto limitate e appartiene a generazioni concepite negli anni 1960 e ‘70.
Gli aerei per il rifornimento in volo sono solo una decina. La massa degli aerei – eccezion
fatta per i bombardieri – non ha un raggio d’azione che le consenta di intervenire su
Taiwan. Le valutazioni del Pentagono sui rapporti di forza nello Stretto, sono riportate
nella Tabella 5.
Va sottolineato che i rapporti quantitativi non sono molto significativi. Il settore
aeronautico è quello in cui la PLA presenta maggiori carenze, anche tecnologicoindustriali. Gli aerei più moderni prodotti in Cina sono il J-10 - caccia che possiede molte
tecnologie derivate dal Levi israeliano – e il J-11, che è il SU-27 costruito su licenza in
Cina. Di quest’ultimo è stata costruita solo una parte di quella permessa dalla licenza: 50
velivoli, rispetto ai 250-300 che la Cina potrebbe costruire. La carenza maggiore riguarda
la motoristica. Anche i motori del J-10 devono essere importati dalla Russia.
La Cina dispone poi di un numero limitato di aerorifornitori, che sarebbero peraltro
necessari per consentire ai cacciabombardieri più moderni – gli SU-30 importati dalla
Russia in un centinaio di esemplari – di attaccare la grande base americana di Guam o di
intervenire sugli stretti della Malacca.
Tabella 5. Rapporto delle forze aeree
Mezzi
Aerei cinesi con raggio
d’azione su Taiwan ∗
425
Totale Cina
1550
Forze aeree di
Taiwan
330
Bombardieri
275
775
0
Aerei da trasporto
75
450
40
Caccia
∗
senza necessità di rischiaramento in basi prospicienti l’isola.
195
Allegato 1: Organigramma dell’organizzazione centrale della difesa cinese
COMMISSIONE
MILITARE
CENTRALE**
CONSIGLIO
di STATO
Ministero
Interno
Ministero
Difesa
Polizia
della PLA,
Milizia
Export
Ministero
Industria
COSTIND*
Dipartimento
Generale
Politico
PLA-AF
Dipartimento
Generale
dello Stato
Maggiore**
PLA-N
Dipartimento
Generale
Logistico
2ªArtiglieria
Dipartimento
Generale
Armamenti
7 Regioni
Militari
Forze Reazione
Rapida
* Commissione per la Scienza, La Tecnologia e per l’Industria Militare. Fino al 1998 era posta alle dipendenze dello Stato Maggiore
(cfr. Capitolo sull’industria degli armamenti).
** Sia nella Commissione Militare Centrale, sia nel Dipartimento Generale dello Stato Maggiore, esistono Gruppi Direttivi per gli
Affari di Taiwan. Nella CMC esso coordina le strategie dirette ed indirette svolte nei riguardi dell’isola, le seconde perseguono
l’obiettivo di destabilizzare il governo di Taipei, anche con misure attive, quali la guerra cibernetica, l’infiltrazione politica e la
sovversione, appoggiandosi alle c.d. “forze patriottiche” e utilizzando il milione di cittadini taiwanesi che lavorano in Cina. Nello SM
gestisce le misure hard ivi incluso il c.d. attacco alla “rete dei computer”, la guerra elettronica, il tentativo di area denial all’intervento
di forze USA in soccorso dell’isola e la preparazione delle forze per un attacco anfibio e aeroportato.
196
CAPITOLO VIII
L’INDUSTRIA CINESE DELLA DIFESA
1. Profilo storico e organizzativo dell’industria cinese per la difesa fino alla riforma
del 1998-99
L’industria cinese degli armamenti nacque negli anni cinquanta sul modello sovietico.
Fu organizzata in grandi complessi capaci di espandere rapidamente la produzione in caso
di necessità, in quanto le stesse fabbriche producevano prodotti sia militari che
commerciali. Un medesimo organismo - la Commissione Governativa per la Scienza, la
Tecnologia e l’Industria (COSTIND) - dipendente Commissione Militare Centrale, in
pratica dalla PLA, svolgeva le funzioni al tempo stesso di committente e di
fornitore/produttore industriale. La COSTIND era collegata anche con il governo, ma era
di fatto un organismo militare (Allegato 1).
Allegato 1 Organizzazione dell’industria degli armamenti (fino alla riforma del 1998)
COMMISSIONE
MILITARE
CENTRALE
GOVERNO
Ministero
Difesa
Commissione
del Piano
COSTIND
Tecnologia ed
equipaggiamento
Dipartimento
dello Stato
Maggiore
Generale
Dipartimento
Politico
Generale
della PLA
Ministero
dell’Industria
Meccanica
Ministero
dell’Industria
Elettronica
Industrie
nucleari
Industrie
aeronautiche
Industrie
aerospaziali
Cantieristica
- scienza e ricerca tecnologica
- nuove tecnologie
- centro d’informazione scientifica e
tecnologia della difesa
- associazione per l’uso commerciale
delle tecnologie militari
Fonte: Defense Intelligence Agency Reference Document PC-1921-57-95.
Con l’adozione ufficiale della dottrina della difesa territoriale, la PLA realizzò un
elevato livello di decentramento dei grandi complessi produttivi su tutto il territorio, sia
per aumentare la resilienza generale della “grande logistica” ad un attacco esterno
massiccio, sia per costituire l’intelaiatura industriale atta a fornire di armamenti la “guerra
di popolo”. Ne derivò un’enorme espansione della base industriale della difesa. Essa
198
Industrie
del Nord
giunse a comprendere circa mille società e un milione di lavoratori, fra cui 300 mila
ingegneri e tecnici di livello intermedio.
La Cina è stata sin dall’inizio uno dei pochi paesi che producono l’intera gamma dei
sistemi d’arma ed equipaggiamenti militari necessari alle proprie forze armate. Tuttavia, il
livello qualitativo delle produzioni, l’efficienza manageriale e i controlli di qualità hanno
lasciato sempre a desiderare. Secondo taluni esperti, l’industria cinese degli armamenti è
arretrata di circa vent’anni rispetto a quelle occidentali1 , pur presentando eccellenze in
taluni settori. I settori più carenti riguardano l’avionica, la propulsione, soprattutto quella
aerea, la microelettronica, i sensori, gli equipaggiamenti per la guerra elettronica, i nuovi
materiali, ecc. Molto avanzati sono invece quello spaziale e della cyberwar. Per i settori
tecnologici più carenti il CoCom sulle tecnologie critiche attenuò gli embarghi nei
confronti di Pechino, divenuta di fatto alleato dell’Occidente contro l’URSS. Fu all’uopo
tracciata una China’s green line, nella cui elaborazione l’Italia ebbe un ruolo di assoluto
rilievo. Particolari insufficienze presenta anche il settore dell’integrazione sistemica, tanto
essenziale per qualsiasi network centric operation. Peraltro, in questo settore la PLA sta
effettuando rapidissimi progressi.
Altre caratteristiche negative erano – e sono tuttora – la ridondanza, gli sprechi e le
inefficienze, derivanti in gran parte dalle troppo grandi dimensioni delle imprese, nonché
dallo scarso incentivo all’aumento del livello tecnologico e della produttività, dato che la
COSTIND svolgeva al tempo stesso le funzioni di committente e di fornitore 2 e che
l’intera industria degli armamenti era statale, sottratta ad ogni forma di concorrenza, anche
se, in Cina, era meno privilegiata di quanto lo fosse in Unione Sovietica.
La riforma economica di Deng Xiaoping interessò anche l’industria della difesa. Essa
iniziò, nel 1982, con la trasformazione della 6ª Industria di costruzioni di macchine in una
società statale, la China Shipbuilding Corporation 3 . Le industrie della difesa rimasero
però dipendenti dalla COSTIND e, in parte dal Ministero della Difesa, finché, nel 1993,
furono trasformate in corporations che mantennero la proprietà pubblica, ma che erano
1
Richard A. Bitsinger, The PRC’s Defense Industry: Reform Without Improvement, The Jamestown
Foundation, March 15th, 2005.
2
Mark A. Stokes, China’s Strategic Modernization – Implications for the U.S., Carlisle Barracks (PA),
Strategic Studies Institute, 1999.
3
Roger Cliff (RAND Corporation), Hearing Before the U.S.-China and Security Review Commission,
March 16th, 2006.
199
rette da managers civili, anziché da militari della PLA. Gli unici settori che rimasero sotto
diretto controllo centrale furono quello relativo alla produzione delle armi nucleari e
quello spaziale. Essi dipendevano dalla COSTIND (rimasta sotto controllo militare) e
dalla PLA. Faceva eccezione anche il settore elettronico, che i piani quinquennali cinesi
giudicarono strategico per lo sviluppo economico del paese. Le relative imprese, pur
militari, furono poste alle dipendenze del Ministero dell’Industria Elettronica.
Seguendo i precedenti concetti circa l’importanza della mobilitazione industriale e
della capacità di una rapida conversione delle produzioni commerciali in belliche, le
industrie della difesa cinese producevano ed esportavano una consistente quantità di
prodotti civili. Ciò portò a fenomeni di corruzione e di inefficienza diffusa e dette origine
alle “grandi riforme” del 1998-99 4 , in cui il settore fu “bonificato” con l’implacabile
energia di cui la dirigenza cinese si è sempre dimostrata capace.
2. La ristrutturazione dell’industria della difesa del 1998-99
La COSTIND fu soppressa e poi ricostituita con una netta prevalenza di tecnici e di
managers civili (taluni parlano perciò di “vecchia” e di “nuova” COSTIND). Anziché
dipendere dalla CMC e dalla PLA - come in precedenza - la COSTIND fu posta alle
dipendenze del Governo. Alle dipendenze della CMC fu posto invece il nuovo
Dipartimento Generale Armamenti, avente funzioni di committente, mentre la COSTIND
continuava a svolgere le funzioni di coordinatore della fornitura. Le industrie di
armamenti – eccetto quelle nucleare e spaziale – furono riorganizzate in cinque
raggruppamenti industriali della difesa (ciascuno costituito da due gruppi concorrenti), a
cui fu aggiunto nel 2001 un sesto, responsabile dell’elettronica. Lo scopo della
ristrutturazione fu quello di rendere il sistema più efficiente e più controllabile. Pur
mantenendo le industrie della difesa nel settore di proprietà pubblica, ci si sforzò di farle
gestire con criteri manageriali propri dell’industria privata. (L’organizzazione adottata è
riportata in Allegato 2).
4
Shun
Zhenhuan,
Reform
of
China’s
Defense
http://www.fas.org/nuke/guide/china/doctrine/ Zhenhuan.htm.
Industry,
consultabile
su
200
Allegato 2: Organizzazione industriale della difesa della Cina (dopo la riforma del 1998)
COMMISSIONE
MILITARE
CENTRALE
GOVERNO
Ministero
dell’Industria
Informatica
Industrie
Nucleari
Ministero
Difesa
Industrie
Aeronautiche
COSTIND
Industrie
del Nord
Ministero
Interno
Industrie
Cantieristiche
Industrie
Aerospaziali
Industrie
Elettroniche*
Polizia Armata
del Popolo
Dipartimento
Generale
Politico
Dipartimento dello
Stato Maggiore
Generale
Dipartimento
Generale della
Logistica
Dipartimento
Generale
Armamenti
(di nuova costituzione)
* costituite nel 2001
Fonte: Defense Intelligence Agency Reference Document PC 1921-57-95.
La COSTIND agisce alle dipendenze del Governo (Consiglio dello Stato). Per il
settore dei lanci spaziali, esso opera tramite un’agenzia, facente parte dell’Ente spaziale
nazionale cinese. La responsabilità di definire i requisiti operativi e tecnici, nonché le
condizioni di approvvigionamento e di manutenzione dei sistemi d’arma in dotazione –
prima attribuite alla COSTIND – sono oggi assegnate al Dipartimento Generale degli
201
Armamenti, dipendente – come ricordato - dalla Commissione Militare Centrale. La
committenza è stata così separata dalla fornitura, garantendo maggiore efficienza,
trasparenza e controlli.
Ciascuna delle grandi holdings che raggruppano le industrie della difesa fu divisa in
due corporations, con il dichiarato proposito di determinare, per quanto possibile,
condizioni concorrenziali, nei riguardi sia dei prezzi che delle tecnologie impiegate. Con
tale ristrutturazione si è determinata dunque una contrapposizione fra il Dipartimento
Generale degli Armamenti, portato a tutelare gli interessi della PLA, e la COSTIND,
attenta invece ad interessi industriali e tecnologici più generali. Beninteso, tale
contrapposizione è limitata dall’appartenenza di entrambi gli organismi all’ampia sfera
della burocrazia statale, dominata dal PCC. Ciò ha diminuito la corruzione – dilagante
quando i militari si occupavano anche di produzioni commerciali - e ha aumentato
l’efficienza, stimolato la concorrenza e consentito all’industria della difesa di trasformarsi
in un settore dinamico, capace di attirare gli scienziati, gli imprenditori e i tecnici migliori,
al pari delle industrie a partecipazione straniera con produzioni destinate all’esportazione.
Ciò ha comportato la chiusura delle imprese più inefficienti e il licenziamento di un
notevole numero di operai, superando forti resistenze degli organi locali del PCC e della
stessa PLA. L’ostacolo maggiore incontrato dai riformatori fu proprio questo. Infatti, le
riduzioni della manodopera non hanno infatti raggiunto nemmeno un terzo delle quote
previste. Il settore industriale della difesa è perciò ancora suscettibile di consistenti
miglioramenti.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si verificò un altro significativo
evento, che impedì una vera e propria crisi dell’industria bellica: l’aumento esponenziale
delle spese di investimento della PLA. Esse si sono accresciute ad un tasso superiore a
quello dei bilanci della difesa, a loro volta superiori alla crescita del PIL (anche tenendo
conto dell’inflazione dei prezzi al consumo e ammettendo che essa sia valida anche per la
spesa militare). Negli anni 2000-2003, i tassi di aumento di tali tre settori furono
rispettivamente del 18% per gli investimenti, del 16% per i bilanci della difesa e del 10%
per il PIL. In sostanza, dopo decenni di declino, l’industria della difesa cinese conosce
oggi una vera e propria rinascita, dovuta all’aumento e alla riqualificazione del bilancio
202
della PLA. Esso non riguarda solo il profilo quantitativo e manageriale, ma anche quello
tecnologico.
Permangono ancora molte carenze. La concorrenza è più nominale che reale. Il ritardo
rispetto alle industrie della difesa degli USA è rilevante. Tuttavia, la capacità
dell’industria di soddisfare le esigenze di modernizzazione della PLA è molto migliorata.
Essa rappresenta un fattore centrale per valutare la capacità operativa delle forze cinesi nel
sistema Asia-Pacifico e, a più breve termine, nello Stretto di Taiwan, nel Mar Cinese
Meridionale e in quello Orientale, verso il Giappone.
Come si è precedentemente affermato, il livello tecnologico costituisce un elemento
essenziale per qualsiasi realistica previsione sulle future capacità operative delle forze
armate cinesi. Le spese d’investimento sono caratteristicamente slow cost 5 , ma sono
cumulative nel tempo, per tutta la durata del mantenimento in servizio dei sistemi d’arma,
di massima, cioè, per 20-25 anni. Le spese per il personale e per l’esercizio sono invece
fast cost, ma esauriscono i loro effetti – che sono praticamente immediati - nel corso di un
esercizio finanziario o, comunque, in tempi molto più brevi.
La cumulatività fa sì che gli arsenali delle Forze Armate di tutti i paesi siano sempre
costituiti da sistemi d’arma di generazioni diverse: accanto ai sistemi più moderni
rimangono in servizio quelli delle c.d. legacy forces, talvolta ammodernati, ma che hanno
comunque prestazioni inferiori alle più recenti serie di produzione. Ne va tenuto conto per
valutare le effettive capacità militari di un paese e, nel caso della presente ricerca, per
valutare l’evoluzione dei rapporti di forza nel sistema Asia-Pacifico. Inoltre, le capacità
non possono essere valutate in assoluto. Devono tener conto che, soprattutto nelle
moderne armi, le piattaforme hanno minore importanza dei sistemi. Sono quindi possibili
retrofitting che aumentano – spesso in modo molto rilevante – le capacità operative di
“piattaforme” anche in servizio da molto tempo. Infine, per un paese come la Cina che ha
importato ed importa una consistente quantità dei sistemi di arma avanzati, le capacità
operative dipendono dalla loro sostenibilità logistica, derivante dall’entità degli stocks di
parti di ricambio e dalla disponibilità di tecnici qualificati.
La Cina dispone oggi di un’ampia gamma di capacità militari, anche nei settori
tecnologicamente più avanzati, su cui sono concentrati gli sforzi di miglioramento. Tali
5
cfr. Carlo Jean, L’Economia della Difesa, numero speciale della Rivista Militare, 1986.
203
capacità le sono in parte derivate dall’importazione di materiali e di tecnologie dall’estero
– soprattutto dalla Russia e da Israele - ma, in misura crescente, sono dovute a produzioni
locali. Ciò è avvenuto soprattutto nel settore missilistico. A parte la disponibilità di oltre
un migliaio di SRBM, MRBM e IRBM – interdetti questi ultimi per USA e Russia dal
Trattato INF 6 – l’industria missilistica cinese starebbe sviluppando anche un missile
F
balistico con testata autocercante capace di colpire una nave in navigazione a grande
distanza.
Il settore più arretrato – rispetto agli standards degli Stati più avanzati – è quello
aeronautico, soprattutto nel campo della motoristica. Anche il J-10 usa un motore russo.
La Cina ha dovuto rinunciare ad esportarlo in Pakistan, poiché i russi hanno vietato
l’utilizzo dei loro motori. Vi è da ritenere che gli acquisti dell’aviazione civile cinese nei
prossimi anni determineranno la vittoria o la sconfitta della Boeing sull’Airbus e, quindi,
della General Electric sulla Rolls-Royce, che sono rispettivamente principali fornitori di
motori alla prima o alla seconda. Si determinerà una competizione feroce, di cui
verosimilmente approfitterà la Cina per crearsi in’industria motoristica aeronautica ad alto
livello tecnologico. Inoltre, l’industria cinese non è attualmente in grado di costruire
grandi aerei da trasporto, né bombardieri, così come aerei civili large body.
Secondo la RAND Corporation 7 , solo nel 2025 la Cina dovrebbe essere in condizione
di produrre sistemi d’arma aventi prestazioni analoghe a quelle attualmente in dotazione
alla forze americane e di integrarli in sistema, fatto questo altrettanto importante. Molti
degli armamenti della PLA rimarranno però obsoleti, anche in relazione alla scarsità di
personale qualificato e, soprattutto, alla maggiore difficoltà nell’effettuare miglioramenti
tecnologici, sempre più costosi, a mano a mano che aumenta il livello delle tecnologie
disponibili e che diventa meno facile acquisire tecnologie avanzate dall’estero.
Il miglioramento tecnologico è ancora sicuramente frenato dalla proprietà statale delle
imprese e dal ridotto livello di libertà d’azione della PLA nell’imporre regole di aperta e
trasparente concorrenza, tanto indispensabili per l’avanzamento tecnologico di qualsiasi
6
Significativamente per sottolineare la realtà dei rapporti russo–cinesi, che sono molto meno buoni di
quanto spesso ritenuto, il Presidente Putin ha accennato al fatto che la Russia potrebbe uscire dal Trattato
INF del 1987, qualora tutti gli Stati, (particolarmente la Cina) non distruggessero i loro arsenali di missili
con gittata da 500 a 5500 km.
7
Evan S. Medeiros et alia, A New Direction for China’s Defense Industry, RAND Corporation, Santa
Monica (CA), 2005.
204
base industriale della difesa. Beninteso le valutazioni della RAND circa l’esistenza di un
gap ventennale tra gli USA e la Cina potrebbero non rivelarsi realistiche sotto il profilo
operativo, qualora Pechino concentrasse le risorse disponibili in pochi settori, soprattutto
in quelli necessari per un intervento contro Taiwan o per colpire le vulnerabilità satellitari
ed informatiche delle forze USA.
Si è già sottolineato il vantaggio missilistico di cui gode la Cina sull’isola. Esso
potrebbe essere allargato al campo delle forze anfibie, tenendo conto dell’ottimo livello
tecnologico e dell’incredibile velocità con cui vengono impostate e costruite le navi
commerciali, settore in cui la Cina è diventata leader mondiale. Meno facile, però, sarà per
la Cina acquisire non tanto una capacità di area denial nei riguardi della 7ª Flotta USA,
ma una di sea control nello Stretto di Taiwan, capacità questa necessaria per provvedere
all’alimentazione logistica di una forza d’invasione dell’isola.
3. Valutazione dei livelli tecnologici dell’industria cinese degli armamenti e
previsione della loro evoluzione 8
Come già accennato ponendo in evidenza i ritardi del settore aeronautico, lo sviluppo
delle capacità tecnologiche – oltre che quantitative – dell’industria cinese degli armamenti
è diverso da settore a settore, come peraltro avviene in tutti i paesi, anche negli USA.
3.1 Settore missilistico
E’stato sempre un settore privilegiato, anche per la sua utilizzazione in campo
spaziale. L’industria del settore produce una ricca gamma di missili balistici, cruise,
antinave, terra-aria ed anche anti-satellitari (ASAT). A tale settore – come si è detto - è
strettamente legato quello spaziale. La Cina ha un programma spaziale molto ambizioso,
le cui ricadute militari sono accresciute dalla larga disponibilità di minisatelliti di vari tipi
e dalla capacità di effettuare lanci di opportunità, sembra con una sola ora di preavviso.
Rispetto ai 35 satelliti che ha oggi in orbita, Pechino pensa di passare a 100 satelliti nel
8
Dati tratti dalle relazioni della RAND Corporation e dal Rapporto 2007 del Pentagono al Congresso:
Military Power of the People’s Republic of China, Washington D.C., marzo 2007.
205
2010 e a 200 nel 2020, nonché di avere in riserva decine di minisatelliti, per poter resistere
ad un attacco americano, che - per primo obiettivo - avrebbe l’abbattimento dei satelliti
nemici.
Dopo gli USA e la Russia, la Cina è la terza potenza spaziale del mondo. È orientata
ad utilizzare lo spazio come mezzo disruptive delle capacità americane di network centric
warfare, soprattutto in campo navale. A breve termine, ciò dovrebbe contrastare le
capacità americane di intervenire in soccorso di Taiwan, realizzando un’area denial. A più
lungo termine, l’uso sia offensivo che difensivo dello spazio dovrebbe divenire
determinante per i rapporti di forza nel Pacifico occidentale e forse anche nell’Oceano
Pacifico.
3.2 Cantieristica
È il settore di assoluta eccellenza dell’industria cinese. La Cina ha soppiantato la
Corea del Sud come primo produttore mondiale di navi mercantili. Ha potuto avvalersi del
transfer sia tecnologico che di capacità manageriali nel settore, dati i forti investimenti
esteri e la cooperazione industriale esistente con i grandi gruppi cantieristici internazionali.
Attualmente la Cina sta costruendo in serie moderni sommergibili diesel-elettrici. Per i
sistemi propulsivi e quelli anti-nave ed anti-aerei dipende ancora dall’estero. Vengono
però effettuati grossi sforzi per raggiungere una piena autonomia nazionale. Infine, la Cina
sta costruendo sommergibili lanciamissili a propulsione nucleare, mentre sta allestendo,
forse per dotarla di capacità belliche, una portaerei ex-sovietica, acquistata dall’Ucraina. Il
motivo della mancata costruzione di portaerei è soprattutto politico, per non preoccupare
gli Stati vicini. Inoltre, la disponibilità di portaerei non è molto importante per
un’invasione di Taiwan, data la possibilità di impiegare per l’isola aerei basati a terra.
3.3 Settore aeronautico
È fortemente carente rispetto agli standards occidentali. Fino a poco tempo fa, la Cina
era in condizioni solo di produrre su licenza vecchi modelli sovietici. Notevoli sono però i
progressi nel settore, anche se per la motoristica, l’avionica e i sistemi di combattimento
dipende ancora grandemente dall’estero. Sta comunque producendo un caccia di quarta
generazione (J-10) e risulta che ne stia progettando uno della quinta (lo J-11). Il J-10 è
206
derivato dalla tecnologia sviluppata da Israele per il progetto di caccia Lavi, poi
abbandonato.
Come si è già ricordato, il settore effettuerà grossi passi in avanti allorquando
l’aviazione civile cinese diventerà praticamente arbitra della competizione, esistente a
livello mondiale, tra Airbus e Boeing per i grandi aerei commerciali, e quindi tra le
imprese che forniscono i motori (Rolls-Royce e GE). Il miglioramento verrà poi stimolato
dagli orientamenti - espressi nell’XI Piano Quinquennale – di rafforzare la componente
scientifica, tecnologica ed industriale dell’industria degli armamenti, unita alla
raccomandazione di fare minore affidamento sull’assistenza e sulla cooperazione straniera,
per realizzare il maggior grado possibile di autonomia.
3.4 Tecnologie dell’informazione
Si tratta di un altro settore di eccellenza nelle capacità militari cinesi. Si avvale
largamente dello spin-in delle produzioni commerciali e degli approvvigionamenti on the
shelf di componenti dual use, nonché dell’esistenza di un rilevante numero di tecnici di
ottimo livello. È un settore molto dinamico, in cui la Cina sta divenendo leader mondiale,
anche se le sue attività – che si avvalgono grandemente dell’apporto straniero – riguardano
soprattutto l’assemblaggio di componenti ad alta tecnologia e valore aggiunto prodotte
all’estero e, in ogni caso, più l’hardware che il software. Data la natura “duale” di molte
ICT, la Cina ha potuto così elaborare la dottrina c.d. del “blocco informativo”, in cui
attività spaziali e cyberspaziali sarebbero coordinate e comprenderebbero misure sia
difensive che offensive. Diventerebbero così fondati i timori espressi da taluni esperti
militari americani circa la possibilità di una “Pearl Harbour spaziale ed informatica”.
Gli investimenti effettuati dalla PLA nel settore delle misure elettroniche offensive e
della difesa contro attacchi elettronici ed informatici sono molto rilevanti. Essi
preoccupano grandemente il Pentagono, le cui capacità operative sono grandemente
dipendenti dall’Information and Space Dominance, “tallone d’Achille”, secondo taluni
esperti della superiorità militare degli USA.
207
4. Collaborazioni internazionali: importazioni di armamenti e tecnologie da Russia
e Israele
La Cina è da quasi dieci anni il più grande importatore di armi del mondo (unitamente
all’India e all’Arabia Saudita). Lo importa soprattutto dalla Federazione Russa. Ha
capitalizzato al riguardo la fine della guerra fredda e la conseguente scomparsa della
minaccia da Nord e da Nord-Ovest. Il collasso dell’Armata Rossa ha poi reso disponibili
sul mercato una grande quantità di armamenti e di equipaggiamenti, a prezzi molto ridotti.
La diminuzione degli approvvigionamenti da parte della Forze Armate russe ha inoltre
lasciato privo di ordinativi e di finanziamenti l’enorme complesso industriale-militare exsovietico. La sua sopravvivenza è stata - almeno in parte – garantita proprio dalle
importazioni cinesi ed indiane. Esse sono nettamente aumentate dalla metà degli anni
novanta 9 . Nei rapporti fra i governi di Mosca e di Pechino, le esportazioni di armi russe in
Cina hanno costituito un aspetto di importanza pari a quello dell’energia. Durante gli anni
novanta, le importazioni cinesi ammontavano all’incirca a un miliardo di dollari all’anno,
aumentato ad oltre due miliardi a partire dal 2000.
È verosimile che con l’aumento del livello tecnologico dell’industria cinese e la
diminuzione di quello russo, nonché con le preoccupazioni di Mosca circa un eccessivo
aumento della capacità cinese di proiezione di potenza, e quelle di Pechino di un’eccessiva
dipendenza dalla Russia, tale accordo incontrerà varie difficoltà. Da un lato, la domanda
cinese potrebbe diminuire, obbligando Mosca a trovare mercati alternativi o – molto
probabilmente - a far assorbire la produzione eccedente alle proprie Forze Armate, come
annunciato da Putin il 16 ottobre 2007, con il “grandioso” piano di ammodernamento
militare. Dall’altro, la Russia potrebbe essere indotta, per conservare il mercato cinese, a
cedere alla Cina anche gli armamenti ed i sistemi tecnologicamente più avanzati. Si ritiene
che questa seconda ipotesi abbia un ridotto grado di probabilità.
Le ragioni russe nel dar vita a tale flusso di armamenti sono state prevalentemente
economiche. Quelle cinesi, invece, sono state di natura soprattutto tecnologica. Mosca,
inoltre, ha finora evitato di cedere alla Cina i suoi sistemi più avanzati di proiezione di
9
Richard Weitz, The Sino-Russian Arms Dilemma, The Jamestown Foundation, China Brief, vol. 6 – Issue
22, November 8th, 2006.
208
potenza, come i missili balistici e i bombardieri pesanti, sicuramente anche per il timore di
destabilizzare gli equilibri strategici in Estremo Oriente, dove le capacità d’intervento di
Mosca sono e rimarranno molto limitate.
Gli USA, dal canto loro, temono che le esportazioni russe alla Cina accelerino troppo
l’ammodernamento della PLA, in un periodo nel quale Washington – assorbita dalla
“guerra al terrore” – non può destinare un’aliquota maggiore dei suoi bilanci militari per
fronteggiare la crescente potenza cinese. Le preoccupazioni USA sono condivise
dall’India, dal Giappone e, in misura apparentemente minore, dell’Australia. Tutti tali
paesi sono preoccupati non tanto per l’esportazione di interi sistemi d’arma, ma per il
transfer alla Cina delle tecnologie che potrebbero facilitarne la costruzione in serie di
armamenti avanzati. Molti armamenti acquistati dalla Cina si prestano al c.d. reverse
engineering, cioè possono essere riprodotti dagli ingegneri cinesi, maestri nel settore,
come nel secolo XX lo furono i giapponesi.
Inoltre, europei ed americani sono preoccupati dalle crescenti esportazioni di armi
cinesi ai paesi del Terzo Mondo, anche a quelli colpiti da sanzioni ed embarghi
occidentali, a causa della loro violazione dei diritti umani e civili. Ciò contrasta con
l’obiettivo perseguito dall’Occidente di realizzare un “ordine mondiale” della
globalizzazione, basato sulla diffusione della democrazia, del libero mercato e della tutela
dei diritti. Inoltre, il sostegno cinese può aumentare i sentimenti anti-occidentali di taluni
governi. Anche la Russia ne è preoccupata, ma per differenti ragioni. Teme di perdere di
grandi spazi di mercato degli armamenti a causa della crescita dell’export cinese. Sembra
che al riguardo siano sorte aspre discussioni tra i presidenti Putin e Hu Jintao, durante la
visita di quest’ultimo a Mosca nella primavera del 2007 10 . Di conseguenza, la visita non
ha dato luogo ai risultati sperati; in particolare non sono stati firmati gli accordi, che erano
stati concordati a livello tecnico per gli armamenti e per l’energia. Il meeting non è stato
neppure seguito da un comunicato finale. Ciò è un’ulteriore dimostrazione delle tensioni
latenti che esistono fra Pechino e Mosca e che potrebbero inasprirsi per l’influenza in Asia
centrale.
10
Roberto Bendini, La visita del Presidente cinese Hu Jintao a Mosca, consultabile su:
http://www.paginedifesa.it/2007/bendini_070503.htlm (3 maggio 2007).
209
La collaborazione di Israele con la Cina nel settore degli armamenti era stata molto
fiorente negli anni ’80, specie durante la guerra tra Iraq ed Iran, in cui Israele effettuava
triangolazioni tramite la Cina, per fornire all’Iran i pezzi di ricambio necessari per far
funzionare gli armamenti occidentali che l’Iran khomeinista aveva ereditato dallo Shah.
Dopo la fine della guerra tale collaborazione era continuata e aveva riguardato soprattutto
componenti e sub-sistemi, oltre che velivoli non pilotati, armati e non, tra cui l’UAV
israeliano Hardy. Quando alla fine degli anni Novanta incominciarono a preoccuparsi
della crescita della potenza militare cinese, gli USA effettuarono forti pressioni su Israele
perché cessasse tale collaborazione, che, dopo la fine della guerra fra Iraq e Iran, aveva per
Gerusalemme, solo motivazioni economico-industriali. Il mercato interno dello Stato
ebraico è troppo ridotto per consentire gli investimenti di R&S necessari per la produzione
di armamenti avanzati. Le pressioni USA erano anche motivate dal fatto che la
continuazione della collaborazione di Israele con la Cina avrebbe reso più difficile il
mantenimento dell’embargo all’esportazione di armamenti a Pechino, deciso dall’UE
dopo il massacro del 1989 in Piazza Tienanmen. Nonostante avesse un significato più
simbolico che reale, ad esso viene attribuita grande importanza – come prova dell’amicizia
e delle fedeltà europea – specie da parte del Congresso degli Stati Uniti.
5. La cooperazione nel settore della difesa: le esportazioni cinesi di armi
Con un’economia trainata dal mercato globalizzato e sempre più integrata con il resto
del mondo, la Cina ha perseguito dal 1995 una coerente strategia globale volta a
mantenere stabile il contesto internazionale – in modo da consentire la crescita e risolvere
i drammatici problemi socio-economico-demografici che la confrontano - ad aumentare la
presenza e l’influenza cinese nel mondo ed a legittimare, con i successi in campo
economico e politico, la permanenza al potere del Partito Comunista.
La cooperazione internazionale – dagli aiuti allo sviluppo, alla cessione od
esportazione di armamenti, alla cancellazione del debito, alla valorizzazione delle risorse
naturali e agricole, anche con la costruzione di grandi infrastrutture (in Asia, in Africa e in
210
America Latina) – rappresenta un mezzo privilegiato con cui Pechino persegue il
raggiungimento di tali obiettivi 11 .
La cooperazione in campo militare costituisce un importante aspetto di tale politica. Le
esportazioni di armamenti e di tecnologie (anche missilistiche e per la costruzione di armi
di distruzione di massa) avevano costituito un importante strumento di politica estera sia
nel periodo maoista di diffusione della rivoluzione comunista - specie nei paesi postcoloniali - sia fino alla metà degli anni Novanta, fino a quando cioè Pechino decise che gli
conveniva mantenere un profilo molto basso e collaborativo sulla scena internazionale, per
potersi concentrare sulla crescita economica e tecnologica da un lato e sui problemi sociali
interni dall’altro. In tale contesto, le esportazioni di armi cinesi hanno visto diminuire la
loro importanza rispetto alla “diplomazia militare”, al sostegno addestrativo e al transfer
tecnologico. Hanno però ancora un’importanza significativa.
Le esportazioni cinesi di armi raggiunsero il loro punto più alto durante la guerra IranIraq 12 , durante la quale Pechino (con il sostegno israeliano e con il placet americano)
rifornì entrambi i contendenti (ma soprattutto l’Iran), raggiungendo nel 1987 un volume di
export di quasi 6 miliardi di dollari. Poi, l’entità delle esportazioni cadde verticalmente,
aggirandosi nel decennio 1997-2006 sul mezzo miliardo di dollari all’anno, come mette in
evidenza il SIPRI Yearbook 2007 (cfr. Allegato 1).
Le esportazioni cinesi sono costituite soprattutto da armi leggere e vengono offerte a
prezzi di favore, in segno di amicizia e di sostegno, anche a regimi sottoposti ad embarghi
internazionali. I miglioramenti in corso nell’industria cinese della difesa fanno però
ritenere che il livello tecnologico delle armi esportate potrà migliorare anche
notevolmente. Pertanto, nel medio periodo, l’export di armi potrà assumere una valenza
politica maggiore dell’attuale 13 e potrà riguardare sistemi d’arma più sofisticati, anche
aerei e navali.
Enorme aumento hanno avuto anche la c.d. “diplomazia militare” (visite di capi
militari, partecipazioni a seminari e colloqui, ecc.) e le esercitazioni e gli addestramenti
11
Phillip C. Saunders, China’s Global Activism: Strategy, Drivers and Tools, National Defense University,
Washington D.C., Occasional Paper 4, October 2006.
12
Richard F. Gimmett, Conventional Arms Transfers to the Third World, Congressional Research Service,
Washington D.C., July 1994.
13
Evan S. Medeiros, Analyzing China’s Defense Industries and the Implications for Chinese Military
Modernization, RAND Corporation, Arlington (VA), 2004.
211
congiunti, soprattutto con i paesi centro-asiatici che sono membri dello SCO e con quelli
dell’ASEAN, utilizzando le opportunità offerte dal foro “ASEAN + Cina” e “ASEAN +
tre (Cina, Giappone e Corea del Sud)”. Da ricordare anche le esercitazioni congiunte: una
con la Russia in Manciuria nel 2005; la seconda in Siberia centro-occidentale nell’estate
2007. Particolarmente significativo e importante, sotto il profilo politico-strategico, è
inoltre il trasferimento di tecnologie critiche o relative alla costruzione su licenza di
sistemi d’arma sofisticati. Nel passato, esso riguardava soprattutto il Pakistan, ma si sta
estendendo ad altri paesi asiatici (Indonesia, Filippine e Malaysia), con cui la Cina ha
concluso accordi di cooperazione nel campo della difesa.
Centrale rimane la cooperazione con la Russia che, negli ultimi anni, si è estesa a cofinanziamenti di programmi di ricerca e sviluppo militari. Negli anni passati il sostegno
cinese è stato essenziale da un lato per la sopravvivenza di centri di ricerca e di capacità
produttive russe, e, dall’altro, ha facilitato in modo decisivo il miglioramento tecnologico
dell’industria cinese. Ciò è avvenuto nonostante le preoccupazioni russe di un
rovesciamento dei rapporti di forza in Asia centrale, in Siberia orientale e nelle Province
Marittime, e per gli squilibri commerciale ed economico esistenti con la Cina.
Quest’ultima assorbe circa l’8% del commercio estero russo, mentre la Russia conta meno
dell’1% sul totale delle importazioni cinesi. Le preoccupazioni e diffidenze reciproche
conseguenti a tale squilibrio sembrano aver superato – nei colloqui di fine marzo tra Hu e
Putin – il comune interesse di eliminare la presenza statunitense in Asia centrale, di evitare
un attacco americano all’Iran e di combattere il terrorismo di matrice islamica.
6. L’embargo europeo alle esportazioni di armi in Cina
La rinuncia europea di svolgere una politica attiva in Estremo Oriente è dimostrata
dalla vicenda dell’embargo alle esportazioni di armamenti, deciso dall’UE dopo la strage
di Piazza Tienanmen del 1989 14 , oltre che dai tentennamenti europei nei riguardi delle
ripetute violazioni dei diritti umani in Cina. Beninteso, su di esse è solitamente steso un
velo ipocrita di silenzio, dati gli interessi commerciali che tutti i paesi europei hanno in
14
STRATFOR, EU: Visions of Profit, Strength in Chinese Arms Market, March 3rd, 2005.
212
Cina e la speranza riposta nell’aumento sia della dimensione del mercato interno cinese,
sia degli investimenti cinesi in Europa (temuti però da taluni Stati per salvaguardare i
settori di eccellenza tecnologica europei da una possibile offensiva di “investimenti con
moneta sovrana”, cioè finanziati dallo Stato). Con le sue enormi riserve monetarie la Cina
potrebbe sconvolgere gli assetti proprietari dell’industria mondiale ad alta tecnologia. Si
potrebbe trattare di una nuova forma di colonizzazione, con conseguenze non solo
economiche, ma anche strategiche.
Il mantenimento dell’embargo non consegue da un accordo legalmente vincolante per
gli Stati membri dell’UE, ma da un semplice impegno politico assunto nell’ambito del
Consiglio Europeo a livello ministeriale. Pertanto, non costituendo una “politica europea”,
tutti gli Stati sarebbero liberi di infrangerlo. Non lo fanno soprattutto perché temono
reazioni degli USA, ma anche perché, di fatto, tutti i paesi dell’UE esportano armi e
tecnologie “duali” alla Cina, anche ricorrendo a sotterfugi - campo in cui la diplomazia è
maestra – quali classificare le armi esportate come “non letali” ovvero destinate alle forze
di polizia e ad usi civili.
L’accordo – dichiarato quando non esisteva ancora la PESC – è stato posto in
discussione nel 2003 da Francia e Germania, sia per le loro più ricche prospettive di
esportazioni di armi in Cina, sia come componente del simbolismo anti-americano
dominante allora a Parigi e a Berlino. La proposta franco-tedesca era mascherata dall’idea
che l’Europa non potesse trattare la Cina come lo Zimbabwe e che la liberalizzazione
dell’export di armi europee avrebbe frenato la Cina dal crearsi una propria potente
industria degli armamenti.
A parte l’interesse politico cinese all’abolizione di tali misure discriminatorie ritenute
sempre più ingiustificate, l’abolizione dell’embargo sarebbe molto interessante per la
Cina, dato che i sistemi d’arma forniti dalla Russia non posseggono più un livello
tecnologico comparabile con le migliori armi occidentali e che – come accennato - Mosca
non intende vendere le sue armi più avanzate per motivi di sicurezza nazionale. L’altro
grande rifornitore d’armi della Cina – cioè Israele – è stato poi bloccato dalle pressioni
americane.
Gli “abolizionisti” europei dell’embargo ne sostengono l’irrilevanza e affermano che
sarebbe stato comunque rimasto valido il Codice di Condotta, approvato dall’UE nel 1998.
213
Esso potrebbe essere trasformato da misura volontaria e avente valore solo orientativo, in
accordo vincolante, da incorporare nelle legislazioni dei paesi membri. Il Codice interdice
la vendita di armamenti “destabilizzanti”.
L’embargo viene interpretato in modo differente dai singoli Stati europei. Solo la Gran
Bretagna e l’Italia hanno reso pubbliche le loro interpretazioni. In pratica, presenta
numerosi “buchi”. Nel 2003, sono stati esportati in Cina 475 milioni di dollari di armi
europee, in gran parte componenti e subsistemi, impiegati per accrescere le capacità
operative dei carri, dei sottomarini e degli aerei, anche di quelli forniti dalla Russia. Così
la Cina impiega motori tedeschi per i suoi carri; motori tedeschi e francesi e sonar francesi
per i suoi sommergibili; anche i suoi elicotteri fanno ampio uso di tecnologie francese e
italiana. La collaborazione con il nostro Paese è poi particolarmente attiva anche in campo
elettronico.
Le reazioni statunitensi alle proposte d’abolizione dell’embargo europeo sono state
molto vivaci. Lo sono state anche quelle del Giappone e dell’Australia, benché i due paesi,
dal canto loro, lo abbiano abolito “silenziosamente” a metà degli anni novanta. Beninteso,
le reazioni che possono impensierire l’Europa sono solo quelle americane, soprattutto oggi
che il Congresso USA è a maggioranza democratica, tendenzialmente più emotiva,
protezionista e populista (ed anche “pasticciona” per il dinamismo del suo speaker, Nancy
Pelosi) di quella precedente repubblicana. L’opposizione deriva più da ragioni simboliche
che effettive, anche perché le ditte americane esportano in Cina – anche tramite
triangolazioni – armamenti e tecnologie critiche in misura pressoché doppia di quella
dell’Europa. È già stata proposta al Congresso una legge che vieta alle agenzie federali e
alle industrie USA di intrattenere per cinque anni qualsiasi rapporto con le imprese
europee che vendono armi alla Cina. La questione è stata lasciata cadere, anche per
l’attenuarsi in Europa della retorica anti-americana, con l’elezione del Cancelliere Merkel
e del Presidente Sarkozy. Resta però un argomento potenzialmente molto sensibile, non
tanto per l’aumento della potenza militare cinese, quanto perché susciterebbe tensioni in
ambito transatlantico ed ostacolerebbe la stessa unità dell’Europa - oltre che
dell’Occidente - sempre più indispensabile per far fronte al tumultuoso emergere di nuovi
poli geopolitici mondiali, alla ripresa dell’autoritarismo in Russia e all’attenuarsi delle
capacità di leadership di Washington.
214
A differenza di qualche anno fa nessuno – tranne qualche gruppo della folcloristica
sinistra radicale italiana – vuole una cooperazione fra l’UE e la Cina e, quindi, afferma che
è interesse geopolitico dell’Europa aiutare Pechino a competere con l’egemonia USA nel
mondo. D’altronde, qualora l’embargo fosse abolito, sarebbe ben difficile che l’Europa
possa competere sotto il profilo del costo con le forniture di armi russe. La fine
dell’embargo avrebbe un effetto soprattutto politico e psicologico. Gli USA si
sentirebbero traditi e l’Occidente si spaccherebbe forse definitivamente. Quella che manca
è una politica comune europea anche in questo settore. In Europa non si è neppure
discusso su che cosa fare in caso di scontro fra gli USA e la Cina nello stretto di Taiwan e
di escalation del conflitto. Gli appelli al dialogo e alla diplomazia sarebbero risibili in tal
caso, come sono bizzarri in molte occasioni analoghe che si verificano soprattutto in
Medio Oriente.
7. Il futuro dell’industria cinese degli armamenti
Negli ultimi due decenni – in particolare dalle grandi ristrutturazioni del 1998-99 degli
organismi centrali e delle imprese operanti nel settore degli armamenti – l’industria cinese
della difesa è migliorata sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo. Possiede le
potenzialità per effettuare un nuovo miglioramento – se non addirittura un vero e proprio
salto qualitativo - nei settori in cui è più carente – quello aeronautico e quelli dei sistemi e
delle componenti ad altissima tecnologia. Potrebbe mettersi così in condizioni – nel
medio-lungo periodo di competere con le industrie degli armamenti dei paesi più avanzati.
Secondo le valutazioni effettuate sia della RAND sia nel rapporto del Pentagono sulla
potenza militare cinese, il processo richiederà almeno 10 anni - ma molto più
verosimilmente 20. Non esistono invece dubbi sulla sua fattibilità, sia per la
determinazione della dirigenza cinese di ammodernare la PLA, sia per la probabile
sostenuta crescita dell’economia, sia per la continuazione del transfer in Cina di
tecnologie e di capacità manageriali dei paesi avanzati, unitamente agli investimenti diretti
dalle grandi corporations multinazionali.
215
Essenziali per il miglioramento saranno però da un lato la capacità di superare interessi
corporativi, che si opporranno alla ristrutturazione dell’industria della difesa (che
richiederà una contrazione della forza lavoro) e, dall’altro lato, di imporre una concorrenza
fra le varie imprese che operano nel settore, anche dato l’altissimo livello di corruzione
ancora esistente.
I risultati dell’ultimo anno dimostrano che l’industria della difesa cinese sta
muovendosi nella giusta direzione 15 . Sembra anche che riesca a reclutare gli scienziati, gli
ingegneri e i tecnici che le sono necessari, per poter competere con le industrie degli
armamenti dei paesi più avanzati e con quelle cinesi specializzate nelle esportazioni di
prodotti di tecnologia media ed alta.
Comunque, nonostante le difficoltà di introdurre criteri di concorrenza e di mercato
per migliorare l’efficienza dell’industria cinese degli armamenti, consistenti progressi si
sono registrati sia per la separazione della committenza (Dipartimento Generale
Armamenti della PLA) dalla fornitura (COSTIND), sia per il considerevole aumento del
bilancio della difesa dedicato alla ricerca e sviluppo e agli approvvigionamenti16 .
Ciò ha permesso la costruzione di sistemi d’arma avanzati con i caccia J-10, i
sommergibili diesel delle classi Jong e Yuan, i cacciatorpedinieri della classe 52C e missili
aria-aria e terra-aria a lunga gittata. Va però notato che, se questi rappresentano
certamente significativi successi per l’industria cinese degli armamenti, i nuovi
sommergibili hanno prestazioni inferiori a quelle dei Kilo russi, mentre il J-10 ha richiesto
20 anni per il suo sviluppo ed è basato su tecnologie utilizzate negli anni ’70 per il
cacciabombardiere israeliano Lavi (il cui programma fu poi interrotto) 17 . Va anche notato
che i nuovi sistemi d’arma prodotti dalla Cina sono basati ancora su tecnologie importate.
Di qui l’importanza attribuita dagli USA al controllo delle tecnologie dual use e al
mantenimento dell’embargo di armi europee verso la Cina, che di fatto è un embargo
tecnologico.
15
China. Defense Industry Reaps U.S. $2,5 Billion in Profits, consultabile su
http://www.china.org.cn/english/China/195476.htm, January 9th, 2007. Va detto che tale cifra appare poco
credibile. Comporterebbe infatti un’entità di forniture alla PLA superiore di 20-30 volte.
16
Chinese Defense Industry: Chinese Puzzle, in Jane’s Defense Weekly, January 21st, 2004.
17
Robert S. Ross, Assessing the China Threat, in The National Interest, Fall 2005, pp. 81-87.
216
Si tratta di un’impresa pressoché impossibile, dati gli investimenti effettuati in Cina
dalle imprese occidentali, anche quelle a più alta tecnologia, accompagnati solitamente da
transfer di tecnologie anche dual use.
Tuttavia molto resta da fare, per un completo ammodernamento dell’industria cinese
degli armamenti, in particolare per superare le resistenze e isterisi burocratiche, che
pesano grandemente sull’efficienza del complesso militare-industriale cinese e che
allungano i tempi necessari per superare i divari che ancora separano la PLA dalle forze
armate degli USA e del Giappone, e forse anche da quelle dell’India. Fra un paio di
decenni, comunque, lo sviluppo dell’industria degli armamenti consentirà alla Cina di
divenire un attore geostrategico globale, forse in grado di competere – almeno a livello
regionale del sistema Asia-Pacifico, incluso il Mar Cinese Meridionale e le isole Spratley
– con le forze degli Stati Uniti e dei loro potenti alleati.
217
Allegato 1: Le esportazioni di armi dalla Cina (1997-2006) ∗
Stato
1997
1998
1999
Algeria
Armenia
2
Bangladesh
29
2000
2001
2002
11
13
11
2003
2004
2005
10
35
2
12
180
45
59
Gabon
59
14
5
Indonesia
92
61
61
88
125
102
112
Giordania
Kenya
62
4
4
74
840
8
8
9
9
Kuwait
19
Mali
7
Mauritania
8
Myanmar
199
221
189
5
63
Totale
2
Egitto
Iran
2006
23
18
19
79
7
15
154
99
3
43
45
23
44
7
25
619
(Birmania)
Namibia
3
9
12
Nigeria
67
Oman
Pakistan
Sierra Leone
104
85
64
295
7
282
256
10
78
79
47
18
2
14
10
66
10
20
Thailandia
111
14
100
46
28
6
6
11
Zambia
Zimbabwe
401
300
230
50
18
14
14
12
31
14
14
28
223
564
19
460
11
6
Venezuela
∗
10
46
Turchia
1509
8
Tanzania
Totale
164
8
Sri Lanka
Sudan
102
3
67
499
544
553
271
Fonte: SIPRI, Arms Transfer Database - June 11th, 2007.
218
CAPITOLO IX
L’ECONOMIA DELLA CINA
1. Generalità
La Cina è divenuta rapidamente negli ultimi anni una grande potenza economica. Nel
2005 la sua economia era la quarta del mondo e il suo commercio il terzo. Nel 2007
diverranno verosimilmente i secondi. Ha saputo valorizzare le sue pressoché inesauribili
risorse di manodopera a basso costo (la sua popolazione attiva raggiunge gli 800 milioni
di persone e quelli impiegati nell’agricoltura costituiscono un serbatoio inesauribile per
l’industria e i servizi) e approfittare della globalizzazione e della stabilità geopolitica
garantita dall’ordine unipolare, cioè dalla potenza americana. Con la sua economia
iperliberista, ha attirato una massa enorme di investimenti diretti esteri (IDE):
complessivamente oltre 500 miliardi di dollari 1 .
Il suo reddito pro capite è però molto basso. Quello medio è molto inferiore a quello
dei paesi avanzati. La Cina è diventata una grande potenza prima di diventare ricca. In
questo ha percorso una traiettoria storico-economica molto diversa da quella del
Giappone, tanto più che l’esodo rurale e l’urbanizzazione sono ancora agli inizi e potranno
produrre veri e propri sconvolgimenti sociali ed anche culturali.
La Cina si è trasformata nella “fabbrica del mondo”, soprattutto per le ottime
condizioni che offre alle imprese che cercano di delocalizzare le loro produzioni ad alta
intensità di manodopera. I suoi costi del lavoro, quelli ecologico-ambientali, quelli della
tassazione e burocratici sono inferiori a quelli di qualsiasi altro paese, mentre la sicurezza
e l’ordine pubblico sono garantiti. Date le sue dimensioni, la Cina ha accentuato
l’“iperconcorrenza” della globalizzazione, obbligando il mondo ad una profonda
riorganizzazione industriale. Inoltre, con la sua “fame” di energia e di risorse naturali,
soprattutto minerarie e – già oggi – anche agricole, pesa grandemente sull’equilibrio dei
1
Dominic Willson and Roopa Purushothaman, Dreaming With BRICs: The Path to 2050, Goldman Sachs,
Global Economics Paper n. 99, 1 October 2003.
mercati mondiali delle materie prime, con un accentuato effetto inflativo, solo
parzialmente compensato da quello deflativo dei suoi prodotti manifatturieri a basso costo.
Le sfide che l’economia cinese deve affrontare e che emergono chiaramente dall’XI
piano 2 quinquennale – esaminato in un paragrafo successivo – consistono: in un
riequilibrio degli enormi squilibri esistenti nella società e nello stesso territorio fra ricchi e
poveri; nello spostare il motore della crescita economica dalle esportazioni ai consumi
interni; nel diminuire l’intensità energetica (tep/PIL) per evitare un collasso ecologico e
sanitario; e nell’accrescere la spesa sociale, pensionistica, sanitaria, educativa e, in termini
generali, per mantenere una stabilità sociale con il miglioramento dei servizi pubblici. Per
fronteggiare tali sfide è indispensabile per la Cina continuare a crescere ancora per
qualche decennio ai ritmi attuali, mentre lo spostamento della ricchezza fra i ceti sociali e
le regioni della costa a quelle dell’interno impongono una difficile ricentralizzazione della
politica economica 3 . Con un tasso di crescita superiore a quello dell’economia mondiale,
la Cina contribuirà al suo sviluppo, divenendo una sua “locomotiva”, unitamente agli
USA, e potrà in parte assumerne il ruolo in caso di crisi americana. Nell’ultimo
quinquennio ha già contribuito a circa un quinto dell’aumento della ricchezza globale. Tra
le priorità economiche va anche ricordata la sicurezza degli approvvigionamenti energetici
e delle altre materie prime. Nell’XI Piano non si parla però di sicurezza delle vie di
comunicazione marittima, sebbene siano essenziali per l’economia e per la sicurezza
geopolitica cinese. Potrà essere un obiettivo di più lungo termine. Per ora, essa è garantita
dalla Marina americana e, nell’Oceano Indiano, anche da quella di New Delhi.
Ad ogni buon conto, la Cina, nella sua crescita, stimolerà quella dei paesi emergenti,
di cui si è posta a capo a Cancun, nella riunione dell’OMC. Ciò modificherà l’economia e,
più a lungo termine, anche la geopolitica mondiale, con uno sviluppo accelerato dei paesi
emergenti e una diminuzione del peso relativo dei paesi avanzati, tra l’altro quasi tutti
colpiti – in particolare l’Europa, il Giappone e la Russia - da una grave crisi demografica 4 .
2
Elisa Calza, L’XI Piano Quinquennale Cinese, in ISPI “La Cina allo specchio”, Quaderni di Relazioni
Internazionali n. 3, dicembre, 2006.
3
Fabio Cavalera, Cina: è il momento delle giovani tigri – Il Presidente Hu Jintao rinnova i vertici dello
Stato – Sostituiti 170.000 funzionari, Corriere della Sera, 20 aprile 2007, p. 18.
4
The Asia-Pacific Link-How the East Is Reshaping the West, Summary of the Discussion in Aspen Dialogue
on World Economy, Florence, July, 7-8, 2006.
220
Centrale nella presente ricerca è se i trends attuali indicano la compatibilità di un
consistente aumento delle spese militari, con conseguente trasformazione della Cina in
una potenza competitrice con gli Stati Uniti prima nel Mare Cinese Meridionale (Taiwan
inclusa), poi nel sistema Asia-Pacifico occidentale e, infine, nel mondo. Tale valutazione
verrà approfondita nelle conclusioni della presente ricerca, anche per tener conto
dell’impatto che un aumento dei bilanci militari potrà avere sulla crescita dell’economia
cinese. Si può già anticipare che in un’economia come quella cinese, in cui taluni fattori
produttivi (quali il capitale e il lavoro) sono tuttora sotto-utilizzati, ma sono comunque
disponibili in misura molto rilevante, un aumento anche cospicuo del bilancio militare e
anche delle importazioni di armi dall’estero sono del tutto sostenibili per trasformare la
Cina in una superpotenza anche militare. Le difficoltà sono soprattutto tecnologiche e di
convenienza politica. In caso di riarmo, le industrie della difesa dovrebbero assorbire una
consistente aliquota non solo di capitali, ma anche di tecnici più qualificati – risorsa
ancora rara in Cina - rallentando il ritmo di qualificazione tecnologica dell’industria
cinese. Ciò rischierebbe di creare un danno a Pechino, per la concorrenza che farebbero
alla Cina altri paesi emergenti, con costi della manodopera ancora inferiori e con una
produttività che sta rapidamente crescendo, dato il loro più elevato livello tecnologico.
Vanno inoltre tenute in conto le considerazioni geopolitiche, già illustrate, circa un
quasi certo “effetto boomerang” di un riarmo cinese, soprattutto nelle immediate periferie
della Cina, con un’intensificazione degli sforzi militari e un rafforzamento dell’alleanza
con gli USA in tutti gli Stati dell’Asia orientale e sud-orientale. I dirigenti cinesi sono
consapevoli di tale realtà. Come sottolineato in precedenza, a differenza degli USA, non
hanno alleati o. meglio, ne hanno solo “di tempo sereno”, pronti ad abbandonare Pechino e
a raggrupparsi attorno a Washington in caso di percezione di un aumento della potenza ed
influenza cinesi. Un rallentamento della crescita poi provocherebbe tensioni sociali
difficilmente fronteggiabili. Già oggi esse sono preoccupanti. Potrebbero divenire
drammatiche quando, nei prossimi 15-20 anni, oltre 300 milioni di abitanti si sposteranno
dalle campagne alle città e il governo di Pechino non fosse in grado di fronteggiare le
esigenze di questa ondata “biblica”, e fosse quindi costretto ad impedirla con la forza,
come avveniva fino agli ultimissimi anni.
221
2. Le grandi riforme economiche di Deng Xiaoping
Le riforme del grande Presidente Deng Xiaoping fecero passare rapidamente la Cina
dall’economia pianificata di Stato ad una di libero mercato, provocarono un forte
decentramento economico e finanziario e, soprattutto a partire dagli anni ’90 – dopo cioè
che fu assorbito lo choc della rivolta di Piazza Tienanmen – portarono la Cina a dotarsi
delle istituzioni, delle regole e degli strumenti necessari per il funzionamento di
un’economia capitalista aperta alla globalizzazione. Essa fu definita nel 1992 - nel
quattordicesimo Congresso del PCC - “economia sociale di mercato”. Nella realtà è molto
più “di mercato” che sociale 5 .
L’entrata nell’OMC - nel dicembre 2001 - ha contribuito ad un’ulteriore apertura della
Cina all’economia internazionale ed ha accresciuto l’intero ritmo delle riforme. Le
liberalizzazioni hanno messo definitivamente in crisi le imprese di Stato, che costituiscono
tuttora una pesante palla al piede per tutta l’economia cinese. La privatizzazione dei
profitti e la socializzazione delle perdite, che la loro esistenza comporta, costituiscono un
fenomeno di cui tuttora è difficile valutare le conseguenze sulla futura crescita cinese. Ciò
nonostante che, nel quindicesimo Congresso del PCC del 1997, i settori in cui le industrie
sono gestite direttamente dallo Stato siano stati drasticamente ridotti, limitandosi
soprattutto ai monopoli naturali, alle imprese ad alta tecnologia e alla base industriale
della difesa. In questi ultimi esistono ancora veri e propri Kombinat, veri e propri
complessi militari ben collegati con il potere politico. Le imprese statali sono però ancora
150.000 e la loro privatizzazione procede lentamente, anche per motivi ideologici e perché
la disoccupazione che tale processo comporta aumenta disagi e rivolte sociali, soprattutto
nelle regioni dell’interno. Le imprese di Stato hanno una produttività molto ridotta rispetto
a quelle private, soprattutto a quelle di proprietà o con forte partecipazione straniera.
Lo sviluppo industriale soprattutto nelle regioni costiere - dove si concentrano
massicciamente gli IDE - crea pesanti divari con il mondo contadino e con le regioni
dell’interno. Altre tensioni esistono fra settore privatizzato e quello statale. Solo in questi
ultimi anni si è posto mano alla riforma del sistema bancario, settore che presenta forse le
5
William A. Callahan, The Rise of China – How to Understand China: The Dangers and Opportunities to
Be a Rising Power, Review of International Studies, n. 31, 2005, pp. 701-14.
222
più gravi carenze per lo sviluppo dell’economia cinese e che è gravato da una consistente
mole di crediti inesigibili. Questo ha accresciuto il peso delle quattro Banche Centrali
dello Stato (a cui si è aggiunta una per la gestione degli investimenti fatti all’estero con
l’utilizzazione di 200-300 mld di dollari delle risorse centrali 6 ), molto efficienti e
professionali, soprattutto da quando sono state soppresse le loro trentadue succursali
provinciali, che sono state sostituite da sette filiali regionali. Negli ultimissimi anni,
l’efficienza del sistema bancario è migliorata. Lo dimostra la facilità con cui vengono
concessi cospicui mutui per investimenti industriali e immobiliari. A tale stabilizzazione
finanziaria hanno contribuito poderosamente gli investimenti stranieri. Un ulteriore
miglioramento deriverà, a partire dal 2007, dalla possibilità data alle banche straniere di
aprire succursali in Cina. L’operazione sta dando risultati molto positivi, anche per
l’attrazione esercitata sulle banche istituzionali dalle enormi riserve valutarie cinesi (1160
miliardi di dollari all’inizio del 2007) 7 e dalle prospettive della continuazione di una
rapida crescita, senza rischio di cicli particolarmente inflattivi, dovuti al surriscaldamento
dell’economia. Anche su questo influisce la globalizzazione, con i suoi effetti antiinflattivi. Tuttavia, nel 2007 si sta registrando un aumento dell’inflazione di diversi punti
percentuali.
La crescita è stata stimolata anche dal minore peso dello Stato sull’economia. Tra il
1978 e il 1994, il bilancio statale ha conosciuto la stupefacente diminuzione dal 30% al
12% del PIL. Successivamente tale percentuale si è stabilizzata, per poi risalire a circa il
27% del PIL. Nonostante la politica espansiva seguita dal Governo cinese, il deficit di
bilancio è sempre stato contenuto entro il 3% del PIL. Tale situazione positiva della
finanza pubblica è stata resa possibile anche dal fatto che l’onere di mantenere a galla le
imprese pubbliche è stato trasferito alle banche. Per questo il debito complessivo dello
Stato è pari solo del 20% del PIL. Tenendo conto dei prestiti quasi sicuramente inesigibili
– che gravano sul sistema bancario – esso però dovrebbe ammontare al 70% del PIL.
Infine, sull’equilibrio delle finanze pubbliche pesa il fatto che il bilancio prevede oneri
molto ridotti per il sistema pensionistico e per le altre spese sociali – da quelle sanitarie a
quelle educative - praticamente inesistenti nelle campagne. Ciò pone un interrogativo circa
6
STRATFOR Global Intelligence Brief, China: Using Political Tools to Fix the Economy, 5 January 2007.
Richard McGregor, The Trillion Dollar Question: China is Grappling With How To Deploy Its Foreign
Exchange Riches, Financial Times, 25th September 2006, p. 11.
7
223
la possibilità che l’equilibrio attuale possa essere mantenuto, allorquando – anche in
relazione all’aumento del benessere – la domanda sociale di crescita delle spese
pensionistiche, sanitarie ed educative dovrà essere soddisfatta, pena una grave crisi non
solo sociale, ma anche politica. Queste vulnerabilità economico-finanaziarie sono
difficilmente valutabili sia come entità, sia come prevedibili conseguenze politico-sociali.
Costituiscono comunque una remora ad un consistente aumento del bilancio della PLA in
deficit spending, a meno che un aggravamento della situazione internazionale non
consenta al governo di imporre pesanti oneri alla popolazione, facendo leva sul suo
patriottismo.
Nel periodo che va dalla fine degli anni ottanta all’inizio del XXI secolo, la Cina –
come si è detto - ha aperto la sua economia a quella mondiale. L’apertura è stata
progressiva ed effettuata all’inizio con estrema cautela, soprattutto per quanto riguarda la
percentuale di acquisto della proprietà di imprese cinesi consentita agli investitori
stranieri. Particolare attenzione fu subito dedicata al sostegno delle esportazioni. Ad
esempio, le componenti costruite in altri paesi, per essere poi assemblate in Cina e
riesportate sotto forma di prodotti finiti, sono esentate dai diritti di dogana. Essi vengono
percepiti sui soli prodotti destinati al mercato interno cinese. Anche per quest’ultimo,
comunque, le tariffe doganali sono state sempre molto basse e sono in corso di ulteriore
diminuzione.
La moneta cinese renminbi/yuan è stata, sin dagli anni novanta, parzialmente
convertibile; nel senso che è legata al dollaro con minimo margine di fluttuazione (0,3%
giornaliero, elevato nel 2007 allo 0,5%). Le pressioni internazionali – soprattutto da parte
americana – volte ad indurre Pechino a rivalutare lo yuan - anche con la minaccia di
imporre diritti di dogana molto elevati (27%) sulle merci importate negli Stati Uniti dalla
Cina - hanno indotto la Banca Centrale Cinese a consentirne una fluttuazione limitata sul
mercato dei cambi. Da quando fu adottata - nel 2005 – essa ha prodotto una rivalutazione
dello yuan di circa l’8%, molto inferiore al tasso ritenuto necessario (dal 30 al 50%) non
tanto per frenare le esportazioni cinesi, quanto per aumentare il potere d’acquisto da parte
dei consumatori cinesi, soprattutto della borghesia cinese - che è in forte espansione – e
che ricerca prodotti stranieri di largo consumo ed anche di alta qualità. La moneta cinese
rimane legata al dollaro. La sua debolezza rispetto all’euro ha fatto sì che, anziché
224
rivalutarsi rispetto alla moneta europea, lo yuan si sia svalutato con pesanti conseguenze
sugli equilibri commerciali dell’Europa.
3. Le strutture attuali dell’economia cinese: risorse naturali, industria, servizi e
agricoltura
Il sottosuolo cinese è ricco di risorse naturali, ma esse non sono più in grado di
soddisfare le enormi e crescenti necessità dell’industria cinese 8 . Inoltre, sono localizzate
lontano dai luoghi di consumo, soprattutto nel nord (Manciuria), nell’ovest (Sinkiang) e
nel centro del paese. I consumi sono invece concentrati nella fascia costiera. Si verificano
cosi carenze di rifornimenti, dovute alla rete dei trasporti, come avvenne per le centrali
termoelettriche irregolarmente rifornite di carbone nel 2004. I fabbisogni energetici sono
soddisfatti per il 60% con il carbone e per il 16% con le biomasse (legno). Molto basso è il
consumo di gas, mentre in rapida crescita è quello di petrolio. Fino alla fine degli anni
Novanta, la Cina ha goduto di una pressoché completa indipendenza energetica. Era anzi
esportatrice di petrolio. Da allora si è verificata una rapida espansione dei consumi e delle
importazioni. Attualmente, con 4 milioni di barili al giorno, la Cina si colloca – dopo gli
USA – al secondo posto mondiale dei paesi importatori di petrolio. Si prevede che entro il
2020 importerà una quantità di petrolio analoga a quella attuale statunitense (10 mbg). La
produzione petrolifera interna non è però trascurabile. Oggi copre circa metà dei consumi,
ma se il suo sviluppo non riesce a seguire la crescita della domanda. L’economia cinese
diventerà fortemente dipendente dalle importazioni di petrolio un po’ da tutto il mondo,
ma in misura crescente dall’Africa 9 , che oggi soddisfa più di un quarto dei suoi fabbisogni
importativi. Vi è da notare che – a differenza di quanto avveniva per il Giappone nel 1939
– la produzione interna di petrolio è in condizione di soddisfare le esigenze della PLA,
anche per una guerra ad alta intensità e prolungata, contenendo beninteso i consumi civili
e provocando una disastrosa crisi economica.
8
9
Vds. in proposito Aspenia n. 23, Il tempo della Cina, Aspen Institute Italia, 2004.
Amy Mayers Joffe and Steven W. Lewis, Beijing Oil Diplomacy, Survival, Spring 2002, pp. 115-34.
225
La sicurezza energetica costituisce uno degli obiettivi principali della pianificazione
dell’economia e della politica estera della Cina. Essa viene perseguita con criteri
“strategici”, e non “di mercato”, cioè con l’acquisizione diretta, da parte della Cina, dei
diritti di esplorazione, estrazione e trasporto. Tale strategia sta però dimostrando i propri
limiti, soprattutto in Africa, dove è situato il maggior fornitore di petrolio alla Cina –
l’Angola – che ha superato nel 2004 l’Arabia Saudita, giudicata da Pechino politicamente
troppo instabile.
Inoltre, oltre a sviluppare le enormi potenzialità idroelettriche, la Cina ha annunciato
uno dei programmi nucleari più importanti del mondo. Alle sue 8 centrali nucleari
dovrebbe aggiungerne in quindici anni altre 32, di cui 4 sono state appaltate alla
Westinghouse-Toshiba. È poi in fase di avanzata costruzione l’enorme diga nelle Tre Gole
dello Yang-Tze. Essa aumenterà la vulnerabilità della Cina ad un attacco.
Risulta che, come misura deterrente nei confronti di Pechino, Taiwan stia dotandosi
della capacità di attaccare le installazioni più sensibili della Cina continentale, la cui
distruzione provocherebbe danni e perdite enormi. Verrebbe in tal modo realizzata una
capacità effetto dissuasiva simile a quella di un deterrente nucleare di cui l’isola non
dispone.
L’industria ha costituito il motore dell’economia cinese. Nell’industria manifatturiera
esistono 2000 grandi imprese, 22 mila imprese medie e 200 mila piccole. Esse
garantiscono il 90% della produzione industriale totale (rispetto all’80% del 1978) e quasi
il 40% del PIL, rispetto al 10% del 1978.
Le imprese con capitale straniero contribuiscono per un terzo della produzione
industriale e dominano nei settori ad alta tecnologia, soprattutto nell’ICT. In particolare, le
grandi multinazionali hanno integrato la Cina nella loro rete mondiale. I loro investimenti
non sono orientati solo all’esportazione, ma anche al futuro mercato interno cinese. Esse
oggi dominano poi circa il 65% dell’export e oltre il 60% dell’import (componenti e
subassiemi).
Il loro apporto è stato determinante sia per la crescita economica cinese, sia per il
miglioramento tecnologico della sua base industriale. La capacità scientifica e tecnica
dell’industria cinese rimane generalmente debole, anche se talune imprese – soprattutto
nel settore delle ICT e dello spazio – hanno conosciuto rilevanti miglioramenti. I
226
principali gruppi industriali hanno creato efficienti centri di ricerca scientifica e
tecnologica. Ridotto risulta però il concorso delle università e dei centri di ricerca statali.
Già dagli anni ’90 le autorità cinesi si sono dimostrate consapevoli dei costi della
dipendenza tecnologica e hanno destinato al settore notevoli fondi e sforzi. Le spese
globali di ricerca e sviluppo sono in crescita e hanno raggiunto nel 2005 l’1,5% del PIL.
Comunque, la situazione resta critica. Lo dimostra il fatto che la Cina registra solo lo 0,4%
dei brevetti mondiali. L’IX Piano Quinquennale prevede di aumentare le risorse
disponibili per lo sviluppo scientifico e tecnologico.
Un’industria che per ora è di dimensioni limitate è quella automobilistica. Essa è però
destinata ad una rapida crescita. Anche per questo motivo, i più grandi gruppi mondiali del
settore sono già presenti in Cina. Le loro joint-ventures con imprese cinesi coprono oggi il
70% della produzione del paese. Invece, nella cantieristica commerciale la Cina è divenuta
la principale produttrice mondiale, soppiantando la Corea del Sud, che, a sua volta, aveva
superato il Giappone all’inizio degli anni ’90. Il livello tecnologico disponibile in quel
settore è molto buono. Essendo molte delle sue tecnologie dual use, i cantieri navali cinesi
potrebbero procedere ad un potenziamento rapidissimo della PLA-N, soprattutto nella sua
componente anfibia, meno dipendente dalla produzione di sistemi d’arma avanzati.
4. La demografia 10
La demografia ha costituito uno dei fattori principali della prodigiosa crescita cinese.
La popolazione è molto omogenea, dato che l’etnia han ne costituisce il 92%. Problemi
etnico-religiosi permangono però in Sinkiang e nel Tibet. Il territorio è diviso in ventidue
province e cinque regioni autonome. Nove province hanno più di 50 milioni di abitanti e
quattro superano gli 80 milioni.
Lo sviluppo economico si è concentrato sulla fascia costiera dell’Est e del Sud del
paese, anche per la teoria formulata da Deng che lo sviluppo segue il corso del sole e che
la crescita si sarebbe diffusa dall’Est alle regioni centrali prima ed a quelle occidentali poi.
Tale teoria trova però difficoltà ad attuarsi in pratica, anche perché i giovani più dotati
10
Serge Sur (ed.), La Chine, La Documentation Française, n. 6, mars-avril 2004.
227
delle regioni occidentali e centrali tendono a trasferirsi nelle città della costa oceanica,
cioè verso Est.
La crescita della popolazione attiva cinese (da 15 a 64 anni) è stata enorme ed ha
costituito una delle ragioni principali dell’esplosione economica 11 . A partire dagli anni
finali del periodo maoista, furono adottate in Cina drastiche misure per il controllo delle
nascite, attuate dalle autorità con spietata energia e pesanti sanzioni per le famiglie che
avessero più di due figli. Il risultato della “politica del figlio unico” è stato che l’indice di
natalità del 2005 è sceso al 13 per mille. Inoltre, per una politica di aborti selettivi e di
infanticidi delle bambine, il numero delle femmine nelle classi più giovani è inferiore del
15% rispetto a quello dei maschi. Ciò crea considerevoli problemi psicologici e sociali. La
Cina conoscerà un declino demografico a partire dal 2020, allorquando si stabilizzerà la
speranza di vita media e si esaurirà il rifornimento di manodopera dalle campagne del
centro del paese alle città delle zone costiere. Da 350 milioni nel 1953, la forza lavoro
cinese è passata a quasi 800 milioni all’inizio del XXI secolo. Grandi problemi vi saranno
nei prossimi 10-15 anni - soprattutto per fronteggiare il flusso di abitanti dalle campagne
alle città – ma sicuramente fino al 2020 la Cina avrà una larga disponibilità di
manodopera.
La spinta all’emigrazione interna e allo spopolamento delle campagne era forte già
negli anni ’50. Essa fu contrastata con inflessibile rigore dal regime maoista. Si è già
accennato al sistema Hukou della doppia carta d’identità - del luogo di origine e di quello
di lavoro - nonché della discrezionalità delle autorità di imporre di abitare nell’uno o
nell’altro. Non è detto che tale rigore possa continuare nei prossimi decenni.
I problemi sociali della sotto-occupazione agricola – nell’agricoltura lavora ancora
circa il 50% della forza lavoro totale – sono terribili. Le autorità cinesi temono
chiaramente una rivolta massiccia nelle campagne e nei sobborghi delle città. La
popolazione di queste ultime è passata da 95 milioni nel 1978 a 215 milioni nel 2004. Le
difficoltà da affrontare sono evidentemente enormi. L’XI Piano Quinquennale se ne fa
carico e dimostra che i dirigenti cinesi ne sono consapevoli. Ma sono fenomeni di
dimensioni tali che ben difficilmente potranno essere gestiti senza rivolte, sommosse o,
11
Maria Weber, Il miracolo cinese, cit.
228
quantomeno, senza un forte disagio sociale che potrebbe influire sia sulla crescita
economica sia sulla stabilità politica.
Va considerato che, con il 50% della manodopera, l’agricoltura concorre al 13% del
PIL, mentre con il 23% l’industria ne produce il 46% e che con il 31% i servizi ne
forniscono il 41%.
Queste cifre si commentano da sole. La situazione non potrà essere corretta tanto
rapidamente. È destinata invece ad aggravarsi, anche perché l’urbanizzazione e
l’industrializzazione diminuiscono le superfici coltivabili, che ammontano a solo un sesto
della superficie totale del paese, dato che il territorio cinese è molto montuoso e in parte
desertico.
5. La crescita cinese: luci ed ombre
La crescita economica della Cina è stata straordinaria, anche se ha seguito
percentualmente gli andamenti che hanno avuto le economie giapponese negli anni ‘50‘70 e quella sudcoreana poi. Essa si spiega con la mobilitazione che è stata fatta del
potenziale non sfruttato dei fattori produttivi – capitale e lavoro 12 . Per il capitale,
all’enorme tasso di risparmio – che raggiunge il 40% del PIL – si sono aggiunti gli IDE.
Hanno influito poi gli aumenti di produttività (valutati dall’OCSE a 4-5% all’anno negli
ultimi venti anni), dovuti anche al transfer di tecnologia che hanno accompagnato gli IDE.
Hanno giocato però anche le politiche espansive praticate dalle autorità locali, soprattutto
delle città e delle zone costiere. Gli investimenti si sono accelerati. Si sono però accentuati
gli squilibri, che hanno ormai raggiunto livelli inaccettabili e che, per essere riassorbiti,
richiederanno una forte ri-centralizzazione del potere. Ad essa si oppongono però con
fermezza le autorità locali delle regioni più ricche. Tali divari - come è già avvenuto in
altri paesi dell’Asia sud-orientale e come messo in evidenza dalle crisi finanziarie del
1997-98 - sono dovuti ad un eccesso di investimenti, a una cattiva allocazione di risorse e
alla collusione fra interessi politici ed economici. La Cina cerca di fronteggiarli, ma i
12
Diana Hochraich, Croissance et contraintes de l’économie chinoise, La Documentation Française, n. 6,
mars-avril 2004, pp. 79-93.
229
leaders della “quarta generazione” incontrano notevoli difficoltà, come sta dimostrando la
fase iniziale del XVII Congresso del PCC 13 .
La chiave di una maggiore stabilità e di uno sviluppo più equilibrato e sostenibile sta,
secondo il l’XI Piano Quinquennale, nel freno agli investimenti nelle regioni costiere,
nella ridistribuzione della ricchezza nelle zone centrali e occidentali, nel miglioramento
dei servizi sociali e, soprattutto, nell’aumento del potere d’acquisto della massa della
popolazione, per accrescere i consumi interni e limitarne l’eccessivo risparmio, derivante
anche dalla carenza delle misure sanitarie e pensionistiche. Per inciso, l’aumento dei
consumi potrebbe essere realizzato con una sensibile rivalutazione dello yuan. Maggiori
fondi dovrebbero essere poi dedicati ai servizi sociali e all’educazione, nelle quali la Cina
– contrariamente all’opinione diffusa – non è in condizioni migliori dell’India ed a livelli
nettamente inferiori a quelli dei paesi dell’ASEAN. Se tali distorsioni non verranno
corrette, è probabile che la Cina rimarrà sostanzialmente una catena di montaggio di
componenti pregiate, tecnologicamente avanzate e ad alto valore aggiunto, prodotte da
altri paesi in particolare da quelli dell’ASEAN, dalla Corea e dal Giappone, e destinata ad
esportare i suoi prodotti finiti nel resto del mondo, in particolare in USA ed in Europa,
finché questi ultimi non adotteranno misure protezionistiche, inevitabili con gli attuali
trends.
Secondo i criteri seguiti dalla Banca Mondiale, la Cina ha una percentuale di poveri
pari al 15% della popolazione. Essi sono concentrati nelle zone rurali, in cui esiste
un’agricoltura di mera sussistenza. Si sta creando però un sottoproletariato urbano, dato
anche che un gran numero di immigrati precari - pagati “in nero” e senza alcuna
protezione sociale e neppure sanitaria - è sfruttato in modo incredibile dagli imprenditori.
Le disparità esistenti sono difficilmente sanabili, anche per la resistenza ad una
redistribuzione da parte delle autorità e delle popolazioni delle grandi città costiere, che
sono nettamente favorite dall’attuale situazione e non intendono che essa venga
modificata. Basti pensare che il reddito medio degli abitanti di Shanghai è quattro volte
maggiore di quello medio cinese.
13
The Misterious Mr. Hu, in The Economist, October 20th, 2007, pp. 68-69.
230
6. L’XI Piano Quinquennale 14
Nonostante l’adozione di un’economia liberista di mercato, la Cina continua ad
utilizzare lo strumento del Piano Quinquennale, caratteristico delle economie pianificate.
Il documento, valido per il periodo 2006-2010, si distingue dai precedenti, poiché
insiste sullo sviluppo qualitativo, necessario per la costituzione di una “società
armoniosa”, mettendo in secondo piano la crescita quantitativa, che aveva caratterizzato i
precedenti piani. La crescita deve essere “sostenibile” - anche in termini ecologici - e
“giusta”. Il piano attribuisce poi importanza centrale ai concetti di intensità e di efficienza
energetica. A tal fine, individua come obiettivo del 2010 una riduzione del 20%
dell’energia consumata per quantità di PIL prodotta.
Il Piano prevede un aumento annuo del PIL del 7,5%, finalizzato anche alla creazione
di numerosi posti di lavoro, essenziali per ridurre i lavori precari e “sommersi” e per dar
sfogo all’immigrazione dalle campagne verso le città – cioè dall’agricoltura all’industria e
ai servizi – nonché alla ristrutturazione delle imprese di Stato, che ancor oggi
rappresentano il 40% del prodotto dell’industria cinese. Prevede, in secondo luogo, una
maggiore giustizia sociale e, in particolare, il miglioramento delle condizioni di vita delle
aree rurali, in termini di riduzione delle tasse e di un potenziamento delle infrastrutture e
dei servizi. Ancora oggi, un terzo degli abitanti delle aree rurali non dispone né di acqua
potabile né di elettricità. È inoltre prevista la costruzione di ospedali e la gratuità
dell’insegnamento elementare e secondario. Viene infine accennato all’obiettivo di
eliminare gradualmente le barriere oggi esistenti alla mobilità dei lavoratori sull’intero
territorio cinese.
La seconda serie di obiettivi dell’XI Piano Quinquennale è di natura ecologica. Si
cerca di correggere gli eccessi del passato, in cui è stata perseguita ad ogni costo la
crescita economica, senza tener conto dei vincoli di compatibilità e sostenibilità
ambientali. In particolare, ci si propone la riduzione dei consumi d’acqua e di energia per
unità di prodotto industriale. È poi previsto un programma di decontaminazione delle aree
inquinate e di depurazione delle acque. Lo sforzo si estenderà anche al settore dell’energia
elettrica - ora ampiamente dominato dal carbone - per accrescere la produzione
14
Elisa Calza, L’XI Piano Quinquennale, cit.
231
idroelettrica, elettronucleare e delle energie “pulite”, cioè da fonti rinnovabili. Incluso
l’idroelettrico, il “rinnovabile” dovrebbe fornire entro il 2010 il 13% dell’energia, rispetto
al 7% attuale. Nel settore nucleare è prevista la costruzione di 32 nuove centrali entro il
2020.
In terzo luogo, nel Piano si esprime l’intenzione di mutare la struttura economica,
finora basata sull’industria, che si avvale del basso costo della manodopera, dell’energia e
delle misure di protezione ambientale. Dovrebbe aumentare la quota del PIL prodotta dal
terziario. Essa dovrebbe, nel 2010, raggiungere il 43% e assorbire quattro punti
percentuali in più della forza lavoro (si tratta di creare nel settore almeno 32 milioni di
nuovi posti di lavoro). Inoltre, dovrebbe migliorare il livello tecnologico della produzione
industriale. Il piano insiste grandemente sulla capacità di innovazione sia di prodotto che
di processo e sull’esigenza di aumentare il numero dei brevetti cinesi rispetto a quelli
stranieri. Si individua come obiettivo di elevare al 2% entro il 2010 e al 2,5% entro il 2020
(dall’1,5% del 2005) la spesa per la ricerca e per lo sviluppo scientifico e tecnologico.
Il quarto settore prioritario è quello sociale: dalle pensioni alla sanità, all’educazione
primaria e secondaria. Gli sforzi, anche in questo caso, saranno concentrati sulle
campagne. I fondi per l’educazione pubblica aumenteranno progressivamente – nei cinque
anni dal piano – dal 2,8% al 4% del PIL.
Tutte queste misure comporteranno un assorbimento nell’erario statale di molti fondi
ora erogati da province e comuni ed una notevole espansione della spesa pubblica, oggi
ancora a livelli molto ridotti (circa il 25% del PIL).
È lecito esprimere qualche dubbio sulla realizzabilità degli obiettivi del Piano, la cui
attuazione penalizza le classi e le regioni più ricche – e politicamente ancora molto
influenti - a vantaggio di quelle povere. Poiché, in tutte le riforme, esiste sempre un certo
ritardo dei benefici rispetto agli oneri, non è detto che l’attuazione del piano possa
superare le già forti resistenze degli attuali privilegiati e che i suoi obiettivi di ridurre le
disuguaglianze e le rivolte sociali nelle campagne non abbiano un “effetto boomerang”
nelle città. Inoltre, obiettivi tanto ambiziosi in campo sociale comporteranno uno sforzo
economico e fiscale molto rilevante.
In un’economia di mercato ciò impedirà un riarmo accelerato, cioè un rapido ed
elevato aumento della percentuale della spesa militare rispetto al PIL e al totale della spesa
232
pubblica. Riforme così profonde possono essere attuate solo in un periodo di crescita
dell’economia. Un aumento significativo della potenza militare cinese non potrà non
preoccupare i paesi asiatici e gli USA. Potrebbe provocare ricadute negative sul
commercio e determinare un circuito “vizioso” in cui la Cina sarebbe obbligata ad
aumentare ulteriormente i fondi a disposizione della PLA, con un rallentamento molto
elevato della crescita. La situazione sociale diverrebbe esplosiva.
Anche questo conferma la conclusione a cui si è più volte pervenuti: che cioè nonostante l’allarmismo di certi ambienti ed esperti americani - la potenza militare cinese
non potrà – ancora per anni, se non per decenni - sfidare quella degli USA neppure nel
Pacifico occidentale, e che Pechino ha comunque tutto l’interesse ad essere una potenza
conservatrice ed a contribuire al mantenimento dello status quo. Ricorrerebbe alla forza
solo qualora Taiwan dovesse dichiarare la sua indipendenza, fatto peraltro che gli Stati
Uniti cercano di evitare, effettuando forti pressioni sui nazionalisti di Taipei e ribadendo
spesso la loro politica di “una Cina, due sistemi” e che la riunificazione dovrà avvenire
pacificamente. Pechino cercherà invece di realizzare ogni possibile intesa con
Washington, senza cercare di sfidarne la superiorità, ma dimostrandosi uno stakeholder
responsabile dell’ordine della globalizzazione, anziché un suo free-rider, come è spesso
avvenuto negli ultimi decenni, con la scusa della “non-ingerenza”. L’approccio di Zoellick
ha molte più probabilità di verificarsi rispetto a quello di Armitage, tanto più che l’intero
mondo ha interesse che la Cina cresca, costituendo una locomotiva – o, almeno, un volano
per la crescita mondiale – soprattutto in un periodo in cui non si può fare affidamento
sugli Stati Uniti come nel passato. La Cina dovrà però potersi avvalere di un contesto
geopolitico stabile per poter attuare riforme tanto radicali, come quelle che il Presidente
Hu Jintao ha definito indilazionabili nell’XI Piano Quinquennale, per la creazione della
“società armoniosa”.
233
7. La Cina nell’economia mondiale 15
L’entità del commercio estero che – cioè della somma dell’import e dell’export, che
raggiunge il 90% del PIL - nonché quella degli IDE, che hanno cumulativamente
raggiunto 500 miliardi di dollari, inferiori solo a quelli USA, dimostrano l’apertura
dell’economia cinese a quella globale. Essa è la più aperta del mondo. Il Giappone è molto
più chiuso: l’entità del suo commercio estero rappresenta solo il 20% del PIL. Tale
apertura aumenta il peso economico relativo della Cina nell’economia globale. Basti
ricordare che in Cina l’industria manifatturiera assorbe oltre 100 milioni di lavoratori,
entità quasi doppia di quella dei paesi del G7. L’entità complessiva degli IDE (500
miliardi di dollari) è pari al 25% del PIL del 2005. I principali investitori sono Hong Kong
(50% degli IDE), seguiti dagli Stati Uniti (9%) e dal Giappone e Taiwan (8% ciascuno).
Beninteso, il 50% degli IDE di Hong Kong ha provenienza diversa. Quasi la metà
dovrebbe essere costituita da capitali cinesi, che transitano per Hong Kong prima di
tornare in Cina, per avvalersi del trattamento privilegiato riservato agli IDE dalle leggi
cinesi.
Un aspetto spesso trascurato che spiega la rapida crescita industriale cinese (diversa
dai “miracoli economici” giapponese e sudcoreano) è il fatto che essa è stata in parte
generata
dalla
frammentazione
internazionale
della
produzione,
origine
delle
delocalizzazioni industriali, dell’importanza dell’assemblaggio di componenti prodotti in
località diverse e causa non ultima della globalizzazione. Più di metà delle esportazioni
cinesi derivano da operazioni di assemblaggio effettuate in filiali di ditte straniere, che
traggono vantaggio dalla laboriosità e dal ridotto costo della manodopera cinese. Tale
divisione internazionale dei processi produttivi è particolarmente accentuata nelle
industrie elettriche ed elettroniche, i cui prodotti costituiscono quasi il 45% delle
esportazioni cinesi. La Cina è divenuta il perno del commercio dell’Asia sud-orientale ed
orientale, i cui paesi esportano in Cina i componenti da essi prodotti, spesso ad alto valore
aggiunto, mentre la Cina esporta i prodotti finiti nei ricchi mercati americano ed europeo,
oltre che asiatico sud-orientale, orientale ed in quello globale.
15
STRATFOR, Roger Baker, The New, Old Face of Asia, 20 November, 2006.
234
La potenza economica cinese deriva perciò dal suo inserimento nei sistemi produttivi
asiatici. Stati Uniti ed Europa forniscono in quantità molto ridotta componenti e prodotti
intermedi. Importano invece massicciamente i prodotti finiti cinesi. Hanno perciò con la
Cina un forte disavanzo commerciale, che appare strutturale, ma che è in realtà analogo a
quello che avevano con il Giappone e la Corea del Sud. I paesi asiatici hanno invece una
bilancia commerciale in attivo con Pechino.
Una volta che potenzierà il proprio mercato interno, la Cina diventerà la locomotiva
autonoma dello sviluppo della regione, e probabilmente del mondo, assorbendo una
quantità crescente di importazioni anche di beni di lusso o comunque di prodotti finiti di
alta qualità. Per ora ed anche nel breve-medio periodo la crescita non è endogena; dipende
dalle esportazioni in Europa e negli Stati Uniti e dall’importazione di materie prime dai
paesi del Terzo Mondo (Africa, America Latina, Golfo) e di componenti hi-tech dall’Asia
orientale e sud-orientale.
Da questi meccanismi si comprende non solo l’importanza che il mantenimento della
globalizzazione ha per la Cina, ma anche la sua incidenza sul commercio mondiale, la cui
quota cinese è passata dall’1% nel 1980, al 4% nel 1993, al 9% nel 2004 ed è ancora in
rapida crescita. Le dinamiche dell’economia cinese ricordano quelle giapponesi degli anni
’70 e ’80, con una grande differenza però: il Giappone era più chiuso - soprattutto agli
IDE – ed era alleato strategico degli USA, cosa che non avviene per la Cina. Ciò
rappresenta un dato importante per la geopolitica non solo del sistema Asia-Pacifico, ma
del mondo.
Le esportazioni cinesi, che prima riguardavano settori tradizionali come il tessile e
l’abbigliamento (di cui continua ad occupare rispettivamente il 15 e il 20% del mercato
mondiale), si sono espanse al settore elettrico ed elettronico (15% nel mercato mondiale),
anche se esso è quasi completamente in mano a filiali di ditte straniere (2/3 della
produzione e il 90% delle esportazioni) 16 .
Il ritardo tecnologico cinese è ancora grande, sebbene la Cina cerchi di diminuirlo
anche tramite l’acquisto di imprese straniere. Esso potrebbe avere un impulso gigantesco a
seguito della decisione di Pechino di investire 200-300 miliardi di dollari delle proprie
riserve per acquisire ditte straniere, allettate anche dalla prospettiva di un boom dei
16
Alastair Newton, Asia Rising: the Geopolitical Implications, cit.
235
consumi interni cinesi. L’impatto più spettacolare di questa politica si è manifestato nei
settori dell’energia e delle materie prime. Nel 2004 la Cina ha contribuito per il 40%
all’aumento dei consumi di petrolio e ancor più di quelli di altre materie prime.
La Cina non sarà più solo una fabbrica; sta divenendo anche un mercato. Si appresta a
far effettuare al proprio sistema industriale un salto di qualità tecnologica. Ciò comporterà
non solo nuovi importanti mutamenti nell’economia mondiale e nella divisione
internazionale del lavoro, ma avrà ricadute molto rilevanti anche sulle capacità della sua
base industriale della difesa di produrre sistemi d’arma tecnologicamente avanzati. Un
freno alla tendenza di far slittare il baricentro delle produzioni nel settore hi-tech è però
costituito dalla sua assoluta necessità di creare nuovi posti di lavoro. Lo potrà fare solo
mantenendo le sue produzioni centrate sui segmenti a più alta intensità di manodopera,
continuando ad avere un’economia export-led ed avvantaggiandosi della sua grande
disponibilità di manodopera, disposta a lasciarsi sfruttare con basse remunerazioni, con
ridotta tutela sociale e con orari di lavoro molto superiori a quelli di qualsiasi altro paese.
Per mantenere un certo equilibrio ed evitare reazioni protezionistiche da parte degli
altri Stati – in particolare del Congresso USA – la Cina compra dollari e buoni del tesoro
americani, finanziando non solo i consumatori statunitensi con il basso costo dei suoi
prodotti, ma anche il twin deficit americano. Più di ¾ dei 1160 miliardi di dollari delle
riserve cinesi sono in dollari USA, meno del 20% in euro e circa il 5% in yen. Dopo il
Giappone, la Cina è la seconda creditrice del Tesoro americano. Non lo fa per amore degli
USA, ma per il proprio interesse nazionale. Può così mantenere il suo alto tasso di
crescita. Esso verrebbe grandemente diminuito da reazioni protezioniste degli Stati Uniti (i
quali da soli assorbono il 21% dell’export cinese, mentre Pechino è interessata a solo il
3% dell’export americano). Dal canto suo, l’UE riceve il 19% dell’export cinese e fornisce
alla Cina l’11% delle sue importazioni. Viste le cose dal punto di vista dell’Unione
Europea, la Cina rappresenta il 9% delle sue importazioni e il 4% del suo export
extracomunitario. Pertanto gli USA hanno un deficit strutturale con la Cina di 200 miliardi
di dollari, mentre l’UE ne ha uno di 70 miliardi all’anno.
Un riequilibrio è difficile, ma non impossibile, almeno nel medio-lungo periodo.
Richiede sia l’aumento dei consumi interni cinesi – quindi del costo del lavoro - sia quello
del livello tecnologico e quindi del valore aggiunto del made in China. Una rivalutazione
236
dello yuan rispetto al dollaro non sarebbe da sola sufficiente per ribilanciare
l’interscambio, data la differenza abissale del costo della manodopera cinese rispetto a
quelle europea ed americana. Potrebbe però concorrere ad aumentare i consumi interni
della Cina. La recente decisione del governo di Pechino – presa nella sede del “dialogo
economico-strategico” sino-americano, svoltosi a Washington nel maggio 2007 – di
aumentare i margini di oscillazione giornaliera dello yuan dallo 0,3 allo 0,5%, è
sicuramente un passo nella giusta direzione. Essa va però percorsa con estrema cautela e
con una concertazione fra Pechino e Washington (e possibilmente anche con l’Unione
Europea), in modo da evitare forti turbolenze nell’economia globale. Essa colpirebbe la
Cina prima che gli Stati Uniti. Comporterebbe comunque una forte svalutazione del
dollaro, cha sarebbe in gran parte pagata dall’Europa. Quest’ultima rischierebbe
addirittura di uscire economicamente dalla storia. A causa delle sue rigidità economicosociali non dispone infatti della flessibilità necessaria per adattarsi a mutamenti troppo
rapidi dei tassi di cambio.
La stabilità economica del sistema Asia-Pacifico è indispensabile anche per l’Unione
Europea. Essa dovrebbe impegnarsi di più per concorrere al suo mantenimento,
rafforzando in particolare i legami transatlantici. Solo in tal modo potrà influire sulla
politica americana nei confronti della Cina e sul mantenimento dell’attuale ordine
mondiale. Una sua convergenza con Pechino – in funzione multipolare, cioè
antiamericana, quale quella irresponsabilmente sognata da Jacques Chirac – è da
escludere. Non solo perché l’Unione Europea si disgregherebbe, ma anche perché, pur
mantenendo la sua unità (cosa tutt’altro che scontata), verrebbe travolta dalle reazioni
americane.
8. La Cina grande potenza del XXI secolo
Nei prossimi anni, la Cina avrà in campo non solo economico, ma anche politico, un
ruolo crescente nel mondo. Ha necessità di creare una “società armoniosa” - non solo
all’interno, ma anche in campo internazionale - attenuando gli squilibri provocati dalla sua
crescita tanto rapida. Beninteso, Pechino si concentrerà nei prossimi decenni sui suoi
237
difficili problemi interni. E’ anche probabile che - per concorrere a mantenere un contesto
geopolitico tranquillo, indispensabile per tale trasformazione - rafforzi il dialogo e la
concertazione con gli USA. Ciò è chiaramente indicato negli orientamenti generali
contenuti nell’XI Piano Quinquennale. Esso si prefigge obiettivi troppo ambiziosi per
potere essere raggiunti non solo nel 2010, ma verosimilmente anche nel 2020. Tutto il
mondo ha interesse al suo successo non solo per ragioni di sostenibilità ecologica del
pianeta, ma anche per facilitare l’assorbimento degli squilibri economici globali oggi
esistenti ed evitare il pericolo del globo-bang temuto da Kissinger 17 .
L’esodo dalle campagne aumenterà notevolmente l’entità della forza lavoro cinese e
quindi sosterrà una forte crescita. Il numero di lavoratori disponibili per l’industria e per i
servizi continuerà ad aumentare fino al 2015-2020. Poi la forza lavoro cinese diminuirà.
Una crescita molto accentuata sarà necessaria per creare i 15 milioni di posti di lavoro
all’anno nel quinquennio 2007-2011, necessari per assorbire l’esodo rurale. Da circa il
50% attuale, la percentuale dei contadini dovrebbe scendere al 25% nel 2020. Tale esodo
sarà di dimensioni “bibliche”, comportando l’accoglimento nelle città di circa 20 milioni
di nuovi abitanti all’anno. Qualora le indicazioni contenute nell’XI Piano Quinquennale
non dovessero trovare attuazione, è da attendersi un aumento della conflittualità sociale e
forse un irrigidimento del potere da parte del PCC, con riflessi difficilmente prevedibili sia
sull’economia che sulla politica estera. La necessaria ridistribuzione della ricchezza sta già
comportando una maggiore centralizzazione della gestione dell’economia.
Altre sfide che dovrà affrontare la trasformazione cinese sono la riduzione
dell’intensità energetica e l’aumento dell’efficienza dei consumi di energia e di acqua.
Anche in essi, la facile soluzione di puntare sullo sviluppo dei servizi e non dell’industria
e - in quest’ultima - sui settori hi-tech anziché sull’assemblaggio, non è fattibile, se non
altro per la necessità cinese di creare di un gran numero di posti di lavoro, per manodopera
di livello tecnologico non molto elevato.
La dipendenza dal carbone rimarrà praticamente invariata, nonostante gli enormi sforzi
per l’aumento dell’energia idroelettrica ed elettronucleare. Aumenterà invece il consumo
di petrolio e, subordinatamente, anche quello di gas naturale. In tali settori potrebbero
emergere tensioni, data la competizione esistente tra Cina, Giappone ed India per le risorse
17
Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy?, Scribe, New York, 2000.
238
energetiche del Golfo, del Caspio, dell’Asia centrale e della Siberia. Tensioni potrebbero
sorgere anche con la Russia per il controllo delle materie prime dell’Asia centrale e della
Siberia orientale. Si potrebbero poi determinare contrasti con l’India per le risorse
energetiche della regione del Golfo del Bengala, dal Bangladesh al Myanmar.
La situazione ecologica potrebbe divenire tragica, con un’accelerazione della
desertificazione, della deforestazione e dell’inquinamento dell’aria e delle acque. Su
quello dell’aria potrebbe influire grandemente lo sviluppo della motorizzazione privata,
oggi ancora all’inizio (solo il 2% dei cinesi possiede un’automobile). La Cina ha firmato il
protocollo di Kyoto. Tuttavia, in quanto paese in via di sviluppo, non è tenuto a ridurre le
sue emissioni di gas ad effetto serra. Peraltro, se non le limitasse, renderebbe impossibile
il raggiungimento degli obiettivi che Kyoto si propone. Nel 2020 le emissioni di CO2
cinesi saranno superiori a quelle degli USA. Si tratta di un problema strategico, comune a
tutti i paesi emergenti, che è stato ampiamente trattato nella riunione dell’APEC in
Australia, tenuta l’8 e il 9 settembre 2007.
9. Le prospettive dell’economia cinese
9.1 Considerazioni introduttive
La popolazione cinese sta invecchiando a partire dagli anni ´70. La forza lavoro
incomincerà a diminuire dal 2020, ma la Cina potrà avvalersi ancora per un paio di
decenni dell’enorme volano di contadini, che abbandoneranno le campagne per trasferirsi
nelle città e lavorare nell’industria e nei servizi 18 . Un grave problema consegue dal livello
di educazione e di professionalizzazione tecnica di tale massa di persone. Esso, d’altronde,
è coerente con la necessità di creare un gran numero di posti di lavoro; quindi di favorire
le attività ad alto contenuto di manodopera, rispetto a quelle tecnologicamente più
avanzate, che richiedono maestranze poco numerose, ma molto specializzate. Ciò farà sì
che il modello industriale cinese rimarrà incentrato soprattutto sulle lavorazioni
tradizionali e che la Cina continuerà a spiazzare sul mercato mondiale i prodotti di altri
18
Sheng Hong, The Gigantic Country Effect: China Booming for Years, ISPI “La Cina allo specchio”, cit.,
pp. 26-38.
239
paesi del Terzo Mondo. Non è escluso che ciò comporti il sorgere di tensioni con i loro
governi e, conseguentemente, una difficoltà per Pechino di ergersi a campione e protettore
dei paesi emergenti contro quelli avanzati. L’entrata della Cina nel G-8 potrebbe facilitare
tale processo e allo stesso tempo cooptarla, insieme all’India e al Brasile, nel gruppo più
influente che mira a mantenere e consolidare l’ordine liberal-capitalistico esistente.
La forza lavoro cinese diminuirà complessivamente di circa il 15% entro il 2050. La
sua entità sarà superata dal numero di indiani fra i 15 e i 65 anni già nel 2030. Ciò
comporterà inevitabilmente un rallentamento della crescita economica cinese, nonostante
il maggiore valore aggiunto del secondario e del terziario rispetto al primario (agricoltura,
ma anche attività estrattive). I cinesi con più di 65 anni sono in rapido aumento. Ciò
renderà indispensabile un incremento delle spese sociali e sanitarie, tanto più che
l’urbanizzazione e la diminuzione del numero di giovani rendono sempre più difficile
l’affidamento degli anziani alle proprie famiglie, come finora praticato nel solco della
tradizione confuciana. La tragicità della situazione è illustrata dall’enorme numero di
suicidi di anziani, anche nelle zone rurali, seppure in esse il modello di famiglia
“confuciana” tenga più che nelle città.
Comunque sia, la Cina consoliderà il proprio rango e ruolo di gigante economico, di
cui nessuno aveva previsto una crescita così rapida, devastante per molti altri paesi e per
l’ecologia mondiale. La crescita economica dovrebbe ridursi a breve termine per la
volontà politica di ribilanciare la Cina: lo prevede l’XI Piano Quinquennale, ma è
tutt’altro certo che la Cina riesca a frenare la propria crescita. Molti esperti l’hanno
attribuita ad un eccesso di investimenti. È però più credibile che dipenda da un eccesso di
risparmio, che raggiunge l’incredibile livello del 40% del PIL, dovuto sia al fatto che gli
anziani non possono contare su servizi sociali pubblici, sia agli eccessivi profitti delle
imprese. Un equilibrio potrà essere raggiunto solo con l’aumento dei consumi privati (che
oggi ammontano a solo il 40% del PIL) 19 . A più lungo termine, comunque, avverrà per
motivi strutturali. Il tasso di crescita rimarrà comunque molto elevato ancora per un paio
di decenni. Tutti gli esperti concordano che – a meno di veri e propri terremoti geopolitici
o finanziari – la crescita cinese supererà quella media mondiale, per assestarsi sul 5%
19
Martin Wolf, Why Beijing Should Dip Into China’s Corporate Piggy Bank, Financial Times, October 4th,
2006, p. 13.
240
verso il 2030. Le previsioni più accurate sono che essa sarà di 7,5 punti fino al 2010
(rispetto al 10-11% degli ultimi due anni), per scendere poi al 5,4-6,4% fino al 2020 e al
4-5% dal 2020 al 2050. Anche il reddito pro capite dei cinesi aumenterà costantemente,
pur senza raggiungere, neppure nel 2050, i livelli americano ed europeo.
Si formerà una classe borghese che creerà difficoltà politiche all’autoritarismo e alla
centralizzazione del PCC, oggi già sfidati dalle città e dalle classi sociali più ricche, su cui
avevano puntato i dirigenti della “terza generazione”. Lo dimostra la spietata energia con
cui il Presidente Hu Jintao sta sostituendo, con accuse di corruzione e di inefficienza, i
dirigenti locali, specie nella regione di Shanghai. Un deciso aumento del peso mondiale
della Cina potrebbe essere dato da una rivalutazione dello yuan. Però, anche senza tener
conto di essa, il peso della Cina nell’economia mondiale raddoppierà sia entro il 2020,
passando dal 6% all’11%, sia tra il 2020 e il 2050, raggiungendo il 22% e piazzandola
subito dopo gli USA o immediatamente avanti ad essi, con un’aliquota del PIL mondiale
analoga a quella che la Cina aveva nel 1820.
Altri esperti ritengono però che la crescita cinese sarà molto più rapida, soprattutto
qualora continuassero gli attuali afflussi di IDE, gli aumenti di produttività e il basso
livello dei consumi privati. Secondo essi, entro il 2040-45, o anche prima 20 , l’economia
della Cina supererebbe quella americana. In ogni caso gli equilibri del mondo
muterebbero, con un accentuato ridimensionamento dei paesi del peso internazionale oggi
più ricchi (eccezion fatta per gli USA) e un aumento dell’importanza di quelli emergenti.
Ciò potrà accadere solo in un contesto geopolitico stabile. I dirigenti cinesi ne sono
perfettamente consapevoli. Lo si desume dalla semplice lettura dell’XI Piano
Quinquennale. Le preoccupazioni circa l’aumento del bilancio militare cinese vanno
quindi relativizzate. I dirigenti cinesi conoscono bene l’effetto - distruttivo dell’economia
e alla fine anche della potenza dell’URSS - che ha avuto l’aumento indiscriminato della
spesa militare e di quella per il mantenimento dell’impero sovietico. È da ricordare ancora
che, se il bilancio militare ha avuto negli ultimi dieci anni un aumento superiore a quello
del PIL, la sua percentuale rispetto al bilancio statale è rimasta pressoché inalterata, dato
l’aumento della quota di PIL assorbita dallo Stato.
20
Luca Paolazzi, Tra quattro anni Cina prima potenza, Il Sole24Ore, 22 aprile 2006, p. 3.
241
Queste considerazioni sono contestate da chi, per vari motivi, è portato ad esprimere
preoccupazioni circa il potenziamento militare e le ambizioni geopolitiche della Cina. Si
tratta però di preoccupazioni che, almeno nei prossimi vent’anni, non sono molto
realistiche. La trasformazione economica e sociale cinese può essere attuata solo in
presenza di un contesto internazionale tranquillo. Pechino si sforza di rassicurare i suoi
vicini e il resto del mondo, sia con un efficace uso del suo soft power, sia – contrariamente
alle tendenze di fondo cinesi che rifuggono da ogni limitazione di sovranità e
condizionamento esterno – con una crescente partecipazione alle organizzazioni
multilaterali, a livello regionale e mondiale.
L’andamento dell’economia condiziona non solo la stabilità interna del “dragone
asiatico”, ma anche la sua politica estera, nonché la pianificazione della PLA e
l’andamento del suo bilancio militare. Questi ultimi possono naturalmente essere
influenzati anche profondamente da avvenimenti esterni, quali una dichiarazione
d’indipendenza di Taiwan, la costruzione di armi nucleari da parte del Giappone o dello
stesso governo di Taipei, il collasso della Corea del Nord – che porterebbe un alleato degli
USA - con rivendicazioni territoriali nei confronti della Cina - a diretto contatto con al
frontiera cinese.
Infine, il rise potrebbe divenire meno peaceful in caso di crescita, negli USA e in
Europa 21 , delle tendenze al bashing China, simili a quelle al bashing Japan degli anni
ottanta. Pericolosi al riguardo sono gli orientamenti protezionisti del Congresso, aumentati
a seguito della vittoria alle elezioni di mid-term del Partito Democratico. Quest’ultimo ha
sempre dimostrato di essere più populista e più sensibile alle pressioni delle lobbies
sindacali e locali, che si ritengono danneggiate dall’espansione delle esportazioni cinesi
negli USA. Nel contempo, però, ha sempre mantenuto aperti i contatti con Pechino, come
dimostrano anche i finanziamenti cinesi alle campagne presidenziali di Clinton e di Al
Gore.
Molto meno probabile è il collasso economico od ecologico della Cina. Esso
obbligherebbe il PCC a ricercare la propria legittimità mobilitando il forte nazionalismo
cinese e trovandosi un nemico esterno. La Cina – al pari degli USA e della Francia – è
21
Howard W. French, Letter From China – Is It a Peaceful Rise? U.S. Shouldn’t Bet On It, IHT, April 20th,
2006. p. 2.
242
persuasa di avere una speciale missione (o manifest destiny) da assolvere nel mondo. In
caso di crisi economica, Pechino sarebbe indotta ad una politica più aggressiva su base
prima regionale e poi globale. Continuerebbe così un forte aumento della spesa militare.
La Cina potrebbe cercare di anticipare i tempi nei quali trasformarsi in una superpotenza
veramente globale, cioè in quello che i neoconservatori USA denominano peer
competitor. Il mantenimento di una forte crescita economica frenerà invece l’adozione di
tale politica, pur mantenendo inalterato il raggiungimento degli obiettivi di lungo periodo,
in particolare quello di giocare nelle relazioni internazionali un ruolo commisurato sia con
il suo peso economico e demografico, sia con le sue tradizioni storiche. Una politica più
aggressiva invece lo ostacolerebbe, provocando reazioni di riequilibrio e di difesa prima a
livello regionale e poi da parte degli USA. L’Europa, dal canto suo, rimarrà a guardare e
ciò contribuirà alla sua marginalizzazione nella scena internazionale.
Beninteso, data la situazione della finanza pubblica e l’entità delle riserve valutarie
cinesi, un cospicuo aumento del bilancio militare sarebbe possibile anche in assenza di
crescita economica. Anzi, come si è in precedenza accennato, ragioni di politica interna –
la necessità cioè del mantenimento del potere da parte del PCC, ricercando una fonte di
legittimazione nel nazionalismo e non più nel peaceful rise della crescita economica –
potrebbe far assumere a Pechino una politica più aggressiva, proprio a seguito
dell’impossibilità di fronteggiare con un adeguato aumento del PIL pro capite, dei
consumi interni e della spesa sociale gli enormi problemi socio-economici, che incombono
sul paese 22 . Una massiccia sottrazione di risorse ai settori sociali della spesa pubblica
potrebbe accentuare le instabilità interne, già oggi pericolose. Pesano sulle prospettive di
una continua crescita a livelli molto sostenuti del PIL cinese la fragilità del sistema
finanziario, la necessità di fronteggiare una migrazione interna di dimensioni bibliche,
l’alto costo delle materie prime sui mercati mondiali (provocato proprio dal vertiginoso
aumento dei consumi dell’industria pesante cinese), le difficoltà che conosce la Borsa di
Shanghai - determinante per l’afflusso in Cina degli investimenti esteri - e la saturazione
dei mercati esteri anche per le barriere poste all’“assalto” dei prodotti cinesi. Ovunque –
ma, soprattutto, negli USA – questo fenomeno sta suscitando reazioni protezioniste. Esse
stanno comparendo anche in Africa e in America Latina, regioni in cui Pechino viene
22
Giulio Tremonti, Sfide fatali, Mondadori, Milano, 2005.
243
sempre più frequentemente accusata di neo-colonialismo, con il rischio che si attenui il
potere d’attrazione del Beijing Consensus su scala mondiale. Si tratterebbe di
un’evoluzione tutto sommato positiva per l’ordine internazionale. Collaborando con gli
altri Stati avanzati, in particolare con gli USA e l’UE, la Cina contribuirebbe in modo
rilevante al consolidamento dello status quo della globalizzazione.
Solo in tale quadro globale si possono valutare le prospettive di crescita del bilancio
militare cinese e la sua sostenibilità/compatibilità con gli altri settori della spesa pubblica e
dell’economia del “dragone asiatico”.
9.2 Le prospettive di crescita dell’economia cinese
I “fondamentali” che spiegano una crescita tanto sostenuta dell’economia cinese –
quale quella degli ultimi vent’anni – consistono in un alto tasso di risparmio e di
investimento, in un elevato afflusso di capitali esteri, in una grande disponibilità di
manodopera, volenterosa e già dotata - nelle industrie di Stato – di un buon livello di
specializzazione professionale e, infine, nell’efficienza dell’impiego del capitale e della
forza lavoro, nella capacità di utilizzare convenientemente le tecnologie disponibili e
nell’aumentare la produttività. Va aggiunto che la crescita è stata resa possibile dal
mantenimento dell’ordine interno, sotto il rigido controllo del PCC, che ha abbandonato
l’ideologia a favore del pragmatismo e si è trasformato in un partito nazionale. Tale
controllo – di cui i massacri di Piazza Tienanmen costituiscono un esempio – ha evitato
alla Cina di conoscere i disastri prodotti in URSS dalla glasnost e dalla fine del
capitalismo di Stato 23 . Infine, la crescita è stata conseguita grazie ad un livello molto
ridotto di tassazione, scaricando il servizio del debito interno sulle banche e riducendo le
spese sociali, nonché praticando uno sfruttamento indiscriminato delle risorse ecologiche.
Una rapida “correzione di rotta” sarà molto difficile.
I tassi di risparmio e di investimento hanno raggiunto e mantengono tuttora incredibili
livelli rispetto al PIL, dal 40 al 45%. La spiegazione sta nella teoria di Franco Modigliani
sul “modello di risparmio del ciclo vita”. Il risparmio è tanto più elevato quanto meno
elevato è il numero di giovani e quello degli anziani nella società. Inoltre, il basso rapporto
23
Adam S. Posen, Central Power Is a Force for Economic Liberalism, Financial Times, July 4th, 2006, p. 9;
The Economist, Why Economists Love Empires, November 4th, 2006, p. 28.
244
di dipendenza (numero di pensionati diviso per numero di lavoratori), fa gravare sui
lavoratori un minor onere per il sostegno degli anziani, consentendo quindi loro di
risparmiare. Hanno agito al riguardo anche la scarsa copertura pensionistica pubblica e la
pratica assenza di fondi pensione, nonché l’enorme attrazione esercitata sulla massa della
popolazione cinese dalla crescita delle azioni delle società quotate in borsa e dagli enormi
investimenti in infrastrutture e nell’edilizia residenziale. Taluni esperti temono che si
possa verificare lo “scoppio di una bolla” - soprattutto nella Borsa – con ripercussioni
negative sia sul tasso di risparmio sia sugli investimenti esteri. Speculazioni a breve
termine potrebbero portare ad una crisi finanziaria simile a quella conosciuta dal Sud-Est
asiatico nel 1997-98, con un arresto della crescita e l’esplodere di contrasti sociali. Taluni
economisti come Martin Wolf 24 , sostengono che è sbagliato interrogarsi su quanto tempo
continuerà la rapida crescita cinese. Sarebbe invece più importante capire perché
l’economia cinese sia cresciuta così poco rapidamente rispetto alle crescite del Giappone e
della Corea del Sud. Ad esempio, il reddito pro capite giapponese è aumentato dal 1950 al
1973 del 490%, mentre nel periodo 1978-2003 quello cinese è cresciuto del 337%.
Fenomeni analoghi si sono verificati in Corea del Sud e a Taiwan. Quando le riforme di
Deng Xiaoping dettero inizio alla crescita cinese, il reddito pro capite di un cittadino
cinese era 25 volte inferiore a quello di un americano, ma, dopo 25 anni di crescita, oggi è
ancora inferiore di 15 volte. Secondo l’autorevole giornalista britannico, il motivo della
crescita cinese è rappresentato dall’enorme tasso di investimento e dall’entità di
manodopera a basso costo, mentre quello della performance relativamente bassa deriva
dall’inefficienza del settore pubblico e dall’incapacità di aumentare la produttività
industriale. Particolarmente carenti sono le imprese statali che avrebbero ricevuto dalle
banche 650 miliardi di dollari di “cattivi” prestiti. Inoltre, la debolezza dei consumi interni
rende l’economia cinese particolarmente vulnerabile alle variazioni della domanda
globale. È certamente anche per questo motivo che la Cina cerca di rafforzare in ogni
modo la globalizzazione, oltre che i consumi interni.
Comunque, si prevede che nel medio periodo (da 10 a 20 anni), i tassi di investimento
e di risparmio tenderanno a diminuire, in quanto muteranno i rapporti demografici
considerati nella teoria del “ciclo-vita”. Concorrerà anche l’aumento degli studenti. Quello
24
Martin Wolf, Why Is China Growing So Slowly?, Foreign Policy, January-February 2005.
245
dell’educazione è un settore ancora particolarmente carente in Cina. Solo il 10% dei
giovani frequenta corsi di livello universitario dopo aver superato la scuola secondaria.
Suscettibile di grandi miglioramenti è anche il settore della preparazione professionale.
Sulla produttività peserà poi l’enorme debito che lo Stato ha fatto gravare sul sistema
bancario, trasferendogli coattivamente i crediti – praticamente inesigibili – delle industrie
di Stato e di molti enti locali. Motivi di ordine politico-sociale impediscono di procedere
ad una rapida e radicale ristrutturazione delle industrie di Stato, quasi tutte in forte perdita.
Essa creerebbe un’ondata di disoccupati, soprattutto nelle regioni del Nord-Est e in quelle
centrali, in cui sono appunto concentrate le industrie pubbliche. Il rapporto di sostegno
diminuirà grandemente, mentre lo Stato dovrà affrontare – con gravi oneri per l’erario – il
problema pensionistico.
Anche l’incorporazione nella forza lavoro industriale di milioni di contadini renderà
difficile sia un aumento della produttività che la specializzazione industriale nei settori ad
alto valore aggiunto – propri delle produzioni hi-tech – rispetto a quelli a forte intensità di
manodopera, sovrasfruttata e sottopagata rispetto a qualsiasi standard internazionale.
Un terzo “fondamentale” che è all’origine del “miracolo cinese” degli ultimi decenni,
è costituito dalla massiccia entità degli IDE (oltre 500 miliardi di dollari cumulativamente,
di cui 60 nel solo 2005). È verosimile che la Cina continuerà ad esercitare una forte
attrazione sugli investitori internazionali, seppure le recenti improvvise perdite della Borsa
di Shanghai abbiano indotto taluni investitori – in particolare i fondi pensione americani –
ad una maggiore prudenza.
Occorre comunque tener conto dell’esistenza di un altro fattore favorevole più che al
mantenimento di un alto tasso di crescita cinese, a fronteggiare le inevitabili difficoltà del
ciclo economico: le consistenti riserve monetarie. Oltre a costituire un volano, esse
consentono investimenti in settori strategici – specie per l’importazione di risorse
energetiche, minerarie e alimentari – pagate spesso con la costruzione di infrastrutture in
Africa e in America Latina. In sostanza, consentono di aumentare la sua sicurezza di poter
disporre dei rifornimenti delle materie prime necessarie per la sua economia.
Mentre il “fronte” delle materie prime non dovrebbe comportare particolari difficoltà,
quello dell’export è sicuramente destinato a contrarre il suo ritmo di crescita anche per
l’intervento della c.d. “legge di Simon Kuznets” – premio Nobel per l’economia – secondo
246
cui esiste una proporzione inversa fra le dimensioni dell’economia di un paese e il suo
tasso d’internazionalizzazione (espresso dalla somma tra import ed export, divisa per il
PIL). Tale tasso è oggi del 91% per la Cina, rispetto al 19% per gli USA e al 18% per il
Giappone. È evidente che la crescita di un’economia troppo export-led, come quella
cinese, non può durare a lungo, anche per i fenomeni di spiazzamento che sta producendo
sulle altre economie mondiali, per le reazioni protezionistiche che provoca e per le
improvvise consistenti variazioni che può subire la domanda.
I dirigenti cinesi ne sono consapevoli. Tentano infatti di fondare maggiormente la
crescita sull’aumento dei consumi interni. Lo afferma esplicitamente l’XI Piano
Quinquennale. Ma i dirigenti cinesi – forse per le pressioni esercitate dalle aree a maggior
tasso di internazionalizzazione – hanno finora evitato di adottare la misura più semplice
per aumentare i consumi interni: quella di una rilevante rivalutazione dello yuan rispetto al
dollaro e anche rispetto all’euro.
9.3 Possibili crisi dell’economia cinese
Non è da escludersi – anche se viene ritenuto improbabile a causa soprattutto del
possesso di enormi riserve valutarie – che l’economia cinese possa essere colpita da una
grave crisi, con conseguenti arresto della crescita e forte recessione. Tale crisi potrebbe
derivare soprattutto dalla debolezza del suo sistema bancario, gravato dai debiti delle
imprese statali. Tali debiti sono in parte inesigibili ed impongono allo Stato, che non può
permettersi di lasciar fallire le banche, continue immissioni di nuovo denaro. C’è però da
dire che il sistema sembra sostenibile. Infatti, non determina l’aumento del tasso
d’inflazione che ci si sarebbe dovuto attendere da tale aumento del circolante, anche se
recentemente si è verificata una crescita dell’inflazione al 6,5%. Vi è anche da notare che
il debito complessivo della Cina è molto ridotto e che è finanziato con prestiti a lungo
termine, non a breve come quelli che avevano gli Stati asiatici sud-orientali colpiti dalla
crisi finanziaria del 1997-98. Pochi sono i capitali speculativi stranieri. Per questo, molti
ritengono che la moneta non sia un problema né per la Cina, né per i suoi rapporti con i
247
paesi ad essa economicamente legati 25 , e che essa non potrà provocare una crisi
economica in Cina.
Un’altra vulnerabilità cinese è rappresentata dalla commistione della politica con
l’economia. Ciò comporta inefficienza ed una diffusa corruzione, nonché difficoltà per la
ristrutturazione industriale, dato che i suoi responsabili a livello del Consiglio dello Stato,
cioè del Governo, sono soggetti alle pressioni dei rappresentanti locali del PCC.
Evidentemente tale sistema grava sulle finanze pubbliche e, ancor più, sullo sviluppo delle
imprese efficienti. Oggi queste ultime sono obbligate a finanziare quelle meno efficienti,
anche per la preoccupazione di evitare l’aumento della disoccupazione.
Un altro pericolo – che le autorità cinesi hanno però dimostrato di saper gestire
efficacemente – è quello conseguente a perturbazioni sia sul prezzo che sulla disponibilità
delle materie prime a livello mondiale. Un’interruzione improvvisa dei flussi si
diffonderebbe rapidamente nelle strutture a rete dell’economia mondiale, e danneggerebbe
gravemente la Cina, paese che proprio dalla globalizzazione ha saputo trarre i maggiori
vantaggi. Per diminuire la propria vulnerabilità, la Cina sta costituendo una riserva
strategica di petrolio 26 . È significativo il fatto che gli USA abbiano espresso la loro
intenzione di fornire ogni loro possibile collaborazione al riguardo. La diminuzione della
vulnerabilità, infatti, non riguarderebbe solo la Cina, ma l’intera economia mondiale.
Inoltre, stimolerebbe un comportamento più collaborativo della Cina con gli USA per la
gestione della globalizzazione.
Un problema grave per il futuro della Cina è quello ecologico. Il degrado ecologico
delle campagne e l’inquinamento delle città richiedono drastici interventi, non più
dilazionabili. Sullo sviluppo industriale può inoltre pesare grandemente la ridotta
disponibilità di acqua. Essa sarà solo parzialmente corretta dalla gigantesca diga sullo
Yang-tze, da cui dovrebbero essere convogliati miliardi di metri cubi d’acqua al giorno
verso le regioni del Nord-Est. Il livello d’inquinamento delle città sta però divenendo
intollerabile, raggiungerà livelli veramente critici con lo sviluppo della “motorizzazione”
in Cina ed incomincia a pesare già sulla salute della popolazione.
25
Albert Keidel, China’s Currency – Not The Problem, Carnegie Endowment for International Peace, Policy
Brief 39, June 2005.
26
Amy Mayers Joffe and Steven W. Lewis, Beijing Oil Diplomacy, cit.
248
A parte i costi diretti conseguenti ad un serio programma di stabilizzazione ecologica
della Cina, diminuirà l’attrazione esercitata nei riguardi degli investimenti soprattutto nel
settore delle industrie “energivore”. Sarà infatti indispensabile adottare degli standard
ecologici molto rigidi, diminuendo l’efficienza delle imprese e gravandole di costi
aggiuntivi.
La dipendenza energetica cinese sta aumentando. Non è però prevedibile che
l’economia cinese possa convertirsi verso settori produttivi a bassa intensità energetica –
che sono particolarmente sofisticati e che richiedono l’esistenza di una manodopera molto
qualificata. Potrà invece produrre rilevanti risultati il risparmio energetico. Oggi, in Cina,
per produrre una tonnellata d’acciaio, è necessaria una quantità di energia pari a tre volte
quella necessaria in Occidente. Ma anche il risparmio energetico richiederà importanti
investimenti pubblici. Anche ciò inciderà sulla possibilità di un notevole incremento della
spesa militare 27 .
Dei problemi sociali – pensionistici, sanitari ed educativi, e soprattutto
dell’immigrazione interna – si è già parlato. Essi comportano un potenziale di instabilità
che potrebbe gravemente colpire la crescita economica della Cina. Impongono inoltre un
aumento della tassazione, oggi molto bassa rispetto agli standard dei paesi avanzati. Nel
bilancio dello Stato non si tratterà solo di conseguire un difficile equilibrio fra le spese
sociali e quelle militari, ma anche fra il prelievo fiscale e la crescita economica.
L’aumento delle tasse contribuirà comunque a frenarla.
L’aumento della dipendenza economica cinese dall’estero – sia per le materie prime e
le componenti, sia per l’esportazione di prodotti finiti – aumenta la vulnerabilità della
Cina ad embarghi, sanzioni e soprattutto a blocchi navali. A ciò contribuisce la geografia,
che vincola i traffici all’attraversamento degli Stretti della Malacca, percorsi dalle vitali
vie di comunicazione fra il Mar Cinese Meridionale e l’Oceano Indiano. La possibilità che
la Cina possa proteggere le sue SLOC trans-pacifiche – come precedentemente
evidenziato - è poi limitata dall’esistenza della linea di isole fra Okinawa e Taiwan e – più
ad est - fra il Giappone, Guam e l’Australia, sulle quali si potrebbero basare azioni di sea
denial del traffico commerciale cinese, sia verso Ovest che verso Est. Per decenni ancora –
27
Dwight Perkins, China’s Economic Growth: Implications for the Defense Budget, in Strategic Asia 200606, Carnegie Endowment for International Peace, Washington D.C., 2007, pp. 363-85.
249
ammesso ma non concesso che le contromisure USA non annullino gli effetti delle
iniziative cinesi – la Cina non sarà in condizioni di esercitare un sea control delle sue
SLOC. La loro interruzione farebbe piombare la Cina in una grande crisi economica. Essa
si estenderebbe rapidamente agli Stati dell’ASEAN, al Giappone e alla Corea, cioè agli
alleati degli USA, per i quali il commercio con la Cina è vitale. Si ripercuoterebbe, anche
se in misura minore, sull’economia degli Stati Uniti. L’esistenza di tali reti di
interdipendenza rappresenta la migliore garanzia di sicurezza soprattutto per la Cina, ma
anche per gli USA, la cui politica è infatti quella di coinvolgere quanto più possibile
Pechino nel “nuovo ordine mondiale”, nell’assunto appunto che gli convenga conservarlo
e che quindi - prima o poi - concorrerà anche al suo mantenimento.
9.4 Le previsioni sulla crescita economica della Cina nei prossimi decenni
Effettuare previsioni sulla crescita economica di qualsiasi paese è sempre un esercizio
molto difficoltoso e anche imprudente. Nel caso della Cina lo è particolarmente, sia per
l’opacità di molti dati, conseguenti al fatto che i servizi statistici non sono molto efficienti,
sia per la mancata trasparenza, collegata alle radici profonde della cultura cinese, che
esalta l’ambiguità e il mantenimento del segreto come fattori fondamentali di potenza e di
successo. La stessa crescita cinese degli ultimi anni è valutata in modo diverso. Taluni la
ritengono sopravvalutata, soprattutto perché la Banca Centrale Cinese non terrebbe
adeguatamente conto dell’inflazione. Altri pensano invece che sia sottovalutata, poiché i
dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino non considererebbero l’aumento di
valore aggiunto che avrebbero le esportazioni cinesi. Comunque sia, mantenere un tasso di
crescita del 9% o anche dell’8% per un periodo di 25 anni è un miracolo, anche se tali
livelli sono stati conosciuti dal Giappone e da altre “tigri” asiatiche. Essi però non
dovevano affrontare gli enormi problemi di Pechino, derivanti dalla trasformazione della
società cinese, da comunista a capitalista e da rurale ad urbana. La spiegazione di tale
crescita sta solo parzialmente nel basso livello di partenza e nel vantaggio insito nella
possibilità di sfruttamento delle tecnologie non più utilizzate dagli Stati avanzati (teoria
del “ciclo-prodotto”). Sta soprattutto nello sfruttamento indiscriminato delle risorse
ecologiche e di un’immensa forza lavoro, disponibile a sacrifici non sostenibili da nessun
altro popolo.
250
Però l’esperienza storica insegna che le economie dei paesi emergenti tendono a
convergere, a mano a mano si avvicinano agli standards di quelli avanzati. Quindi, i livelli
di crescita tenderanno a livellarsi. Anche la globalizzazione influirà in tal senso. Il livello
del PIL è comunque influenzato in misura rilevante dal modo con cui viene calcolato 28 .
Ad esempio, la Banca Mondiale ha valutato il PIL pro capite cinese nel 2004 a 1.270$.
Poiché il tasso di cambio dello yuan sarebbe sottovalutato almeno del 25%, il dato reale
sarebbe di 1.600$ per abitante. Se dal tasso di mercato (MER) si passasse a valutarlo in
parità di potere d’acquisto (PPP), il PIL individuale cinese passerebbe ad almeno 4.000$
annuali. Come si può facilmente notare, l’entità della differenza fra tali dati li rende assai
poco significativi ai fini di questa ricerca.
A mano a mano che l’economia diverrà più sofisticata, la spinta alla crescita non può
più essere data prevalentemente dall’imitazione di tecnologie, sia di prodotto che di
processo, impiegate da altri paesi e valorizzata dall’immensa disponibilità di una forza
lavoro volenterosa e a basso costo. La crescita può dipendere solo dalla ricerca scientifica
e dallo sviluppo tecnologico in proprio. È quanto avvenuto in Giappone e che dovrebbe
verificarsi anche in Cina. I dirigenti cinesi pensano infatti di portare al 2% nel 2020
l’aliquota del PIL destinata alle ricerche scientifiche e tecnologiche. Si avvalgono al
riguardo anche di un reverse brain drain, che vede migliaia di scienziati ed ingegneri
cinesi ritornare in patria soprattutto dagli USA. Il loro rientro viene sostenuto dal governo
cinese in ogni modo, in concorrenza con le grandi università ed i centri di ricerca
americani. Senza tale sforzo innovativo, le valutazioni dei potenziali di crescita
dovrebbero essere molto più basse. La Cina ne è consapevole e sembra che provveda al
riguardo avvantaggiandosi anche della delocalizzazione delle imprese straniere, che
garantisce un transfer tecnologico “orizzontale”, molto più agevole di quello “verticale”
degli sviluppi in proprio.
Tenendo conto dell’esperienza di altre economie asiatiche, le previsioni della crescita
dell’economia cinese variano dal 6 all’8% all’anno nel prossimo decennio. Esse scendono
poi progressivamente al 5% nei decenni successivi.
Il potenziale di crescita dell’economia cinese è quindi ancora enorme. Nel 2015, il PIL
cinese sarà pari al doppio di quello attuale e nel 2025 sarà di quattro volte superiore. Ciò
28
The World Bank: World Development Report, New York, 2007.
251
influirà sull’entità del bilancio militare, destinato quindi ad aumentare, anche se – come
messo in evidenza – sul suo ammontare influiranno fattori del tutto diversi da quelli dei
semplici fondamentali macroeconomici.
I leaders cinesi hanno interiorizzato l’esperienza dell’URSS. Una sottrazione eccessiva
di risorse per spese che non producono direttamente ricchezza ha indebolito
progressivamente l’URSS fino a svuotarla all’interno e a provocarne il collasso. La Cina
non intende correre tale rischio. Tale tendenza è sicuramente rafforzata sia dai successi
che il soft power cinese sta conseguendo nel mondo 29 , sia dalla diminuzione del peso della
PLA sulla politica di Pechino. Beninteso, ogni previsione può essere smentita dalla
complessità della realtà. In particolare, quelle effettuate non tengono conto dell’impatto di
instabilità interne ed esterne. Esse potrebbero mutare completamente sia il contesto sia le
priorità politiche della dirigenza cinese ed influire grandemente sull’economia e sull’entità
delle risorse destinate al rafforzamento militare.
29
Zheng Bijian, China’s Peaceful Rise to Great Power Status, Foreign Affairs, September-October 2005.
252
CONCLUSIONE E SOMMARIO
1. La “Grande Strategia” della Cina: situazione e prospettive
Il 1 agosto 2007, la People Liberation Army (PLA) e le sue quattro componenti - le
forze terresti (PLA), la Marina (PLAN), l’Aeronautica (PLAAF) e le forze missilistiche
(PLA – Seconda Artiglieria) – hanno celebrato gli ottant’anni dalla loro costituzione. Ne
sono stati esaltati i nuovi armamenti, le nuove capacità e il miglioramento del grado di
professionalizzazione e della qualità della vita dei loro componenti. Importanti
interrogativi pesano però sulla “grande strategia” che deve seguire Pechino e quindi
sull’ammodernamento della PLA. La risposta che verrà loro data condizioneranno l’entità
del bilancio militare cinese e la sua compatibilità con l’economia.
Al centro del dibattito strategico sono la geopolitica e gli interessi nazionali cinesi, non
gli impatti delle spese militari sull’economia e sulla finanza pubblica. Anche se non sono
trascurabili, questi ultimi hanno un’importanza inferiore a quella dei primi.
Geograficamente e storicamente la Cina è una potenza continentale, più portata ad
esercitare influenza e a difendersi dai suoi vicini soprattutto del Nord e del Nord-Ovest.
Per questo fu costruita la Grande Muraglia. Le energie dell’impero furono poi impiegate
anche per mantenere l’unità dell’immenso paese, in cui sono sempre esistite fra le regioni
forti diversità e contrapposizioni. Tali ricordi sono tuttora presenti nel DNA politico e
strategico della dirigenza cinese, sempre sensibilissima al principio dell’unità, oltre che
della sovranità, della Cina. Essa è oggi messa in pericolo dall’enorme differenza di
sviluppo delle regioni costiere - orientali e meridionali - divenute industriali ed aperte alla
globalizzazione liberale, rispetto a quelle dell’interno, rimaste povere e tradizionalmente
rurali. Tale differenziazione potrebbe tradursi in contrapposizione e aprire la via - come
già avvenuto nel passato - ad ingerenze straniere. Esse sono inaccettabili per i cinesi, per i
quali è vivo il ricordo del “secolo delle umiliazioni” in cui la Cina è stata invasa,
saccheggiata ed impoverita.
La novità che l’enorme crescita degli ultimi venticinque anni ha introdotto
nell’economia e quindi nella geopolitica cinese è la sua crescente dipendenza dalle vie di
comunicazione marittime (SLOC), dominate dagli USA, unico potenziale avversario della
Cina e, al tempo stesso, partner indispensabile per l’economia cinese. Finora, la
protezione delle SLOC cinesi è stata implicitamente affidata agli Stati Uniti. Oggi però,
mentre la Cina sta diventando sempre meno autarchica e sempre più dipendente dal
commercio mondiale, anche altri due potenziali rivali di Pechino - l’India e il Giappone stanno rafforzando le loro forze navali, rendendo più complicate le valutazioni
geopolitiche cinesi e la definizione delle loro priorità geostrategiche.
Il centro del dibattito strategico cinese riguarda le modalità con le quali la Cina
dovrebbe proteggere le sue indispensabili SLOC e anche i suoi interessi all’estero, ad
esempio in Africa, in America Latina e nel Golfo. Se cioè debba continuare a basare la
loro sicurezza sull’apporto di potenze esterne - cioè degli USA - di cui ricercare in ogni
modo la collaborazione, oppure se debba cercare di proteggere direttamente le sue SLOC,
costruendo una grande marina e dotandosi anche di una capacità globale di proiezione di
potenza, in grado di intervenire non tanto o non solo in Asia centrale e in Siberia, ma
anche nel Golfo e in Africa, per proteggere gli interessi cinesi, in particolare i flussi di
petrolio e delle altre materie prime indispensabili alla crescita economica.
Il problema marittimo cinese si presenta in termini diversi da quelli con cui si
presentava l’analogo problema all’URSS dell’Amm. Gorshkov o, prima ancora, alla
Germania guglielmina dell’Amm. Tirpitz. L’URSS era essenzialmente autarchica e
dipendeva solo marginalmente dal commercio mondiale. La “grande Marina sovietica”,
costruita dall’Amm. Gorshkov, mirava essenzialmente al sea denial delle SLOC che
attraversavano il “ponte transatlantico”, non al sea control, per la protezione dei traffici
marittimi sovietici. Non mirava cioè a vincere le Marine occidentali in superficie per poter
disporre liberamente dell’uso del mare. Oltre al sea denial, la Marina dell’URSS doveva
poi proteggere il territorio sovietico dalla proiezione a terra del potere aeromarittimo
americano, contrastandone i poderosi gruppi portaerei e anfibi sia nell’Oceano Artico e nel
Mar Nero, sia nel Pacifico nord-occidentale. Per la Cina, il problema marittimo è analogo
a quello sovietico unicamente per quanto riguarda l’area denial di Taiwan, cioè il
contrasto all’intervento delle forze aeronavali ed anfibie americane a difesa dell’isola, in
caso di attacco cinese per impedirne l’indipendenza.
254
A parte il problema di Taiwan, il “dilemma marittimo” si presenta per la Cina in modo
per molti versi simile a come si presentava per la Germania guglielmina, allorquando
l’espansione industriale la pose in concorrenza con la Gran Bretagna. Il dilemma
riguardava se attenersi ad un sistema bismarkiano, basato sulla cooperazione e l’amicizia
con la Gran Bretagna, da un lato, e la Russia, dall’altro, oppure se sfidare sul mare la
potenza della Royal Navy. Con il programma della “grande Marina” promosso dall’Amm.
Tirpitz, la Germania scelse la seconda opzione, che portò all’Entente Cordiale fra la
Francia e il Regno Unito - tradizionalmente avversari - causa prima della sconfitta tedesca
nella prima guerra mondiale.
Per ora, Pechino ha scelto una politica navale “bismarkiana”. Sta però sorgendo
l’interrogativo se essa sia possibile anche in futuro. Il dilemma per gli strateghi cinesi si
riferisce al “post-Taiwan”, cioè alla pianificazione a lungo termine soprattutto della
PLAN. Essa è collegato con i concetti sia di “confine marittimo mobile”, che sta
imponendosi nei centri studi di geopolitica e di sicurezza cinesi, sia delle “catene di isole”,
che dovrebbero scandire le tappe della sua espansione 1 .
Naturalmente, gli esperti navali ed i centri studio collegati con la PLAN sostengono la
necessità che la Cina, resa sicura nelle sue frontiere terrestri dal crollo dell’URSS - anche
se permangono problemi per il libero accesso cinese alle risorse dell’Asia centrale e della
Siberia centro-orientale - si volga agli oceani. Le celebrazioni dei viaggi fino alla costa
orientale dell’Africa del Grande Ammiraglio cinese Zeng He, nel quindicesimo secolo molto esaltati dalla PLAN - anche se gli storici cinesi dell’epoca li ricordano come
“costose distrazioni” - sono state più che indicative della propensione dei responsabili
cinesi, almeno della Marina, ma sono state sostenute anche dal Presidente Hu Jintao. Va
detto che egli potrebbe averlo fatto - in contrasto con la politica cinese di appeasement
verso gli USA e di peaceful development a livello regionale asiatico - per ottenere il
sostegno della PLA nello scontro in atto in Cina per la ridistribuzione della ricchezza fra le
1
La prima va da Okinawa e le isole Senkaku fino a Taiwan e alle isole Spratley nel Mar Cinese Meridionale.
La seconda include Giappone, Filippine e Stretti della Malacca. La terza si estende dalle isole Aleutine, alla
Nuova Zelanda, all’Australia, per spingersi fino all’Indonesia e allo Sri Lanka, porta aperta verso le coste
africane e il Mar Arabico, dove i cinesi stanno costruendo una grande base navale sulle coste del Balucistan
pakistano. Va ricordata anche la grande base che la Cina sta costruendo in Myanmar sul Golfo del Bengala
da cui partirà un grande gasdotto non solo per utilizzare le considerevoli riserve di gas di quel paese, ma
anche il gas dell’Iran e del Qatar, trasportato sotto forma di LNG da navi metaniere, che eviterebbero gli
Stretti della Malacca.
255
regioni costiere e quelle dell’interno; fra i ricchi e i poveri; fra le città e le campagne.
L’operazione richiede una ri-centralizzazione del potere, che sta però incontrando notevoli
difficoltà.
Per la Cina - a parte il problema a breve termine e tutto sommato limitato di Taiwan sono possibili tre scelte 2 : i) accettare il fatto che le SLOC vitali per la Cina vengano
controllate e protette dagli USA e cercare in ogni modo un’intesa con Washington - anche
per appoggiare eventuali interventi per la protezione degli interessi cinesi all’estero; ii)
diminuire il livello di dipendenza della Cina dalle SLOC, con l’espansione dell’area di
influenza e di controllo della Cina in Asia centrale e nella Siberia centro-orientale e con la
costruzione di infrastrutture che le consentano di accedere al Golfo del Bengala e al Mare
Arabico, aggirando gli Stretti della Malacca; iii) sviluppare proprie capacità navali e di
proiezione di potenza in grado di contrastare il dominio globale degli USA e dei loro
alleati e di proteggere direttamente sia le SLOC che gli interessi cinesi almeno in Africa e
nel Golfo.
i) La prima opzione è quella che la Cina ha adottato a partire dal 1995, allorquando il
Presidente Jiang Zemin enunciò la politica del peaceful rise e fece cessare ogni pressione
o attività aggressiva nei confronti dei paesi dell’ASEAN - specie per il controllo
dell’arcipelago delle Spratley, nel Mare Cinese Meridionale. L’importanza di tale area non
dipendeva solo dalla sua presunta ricchezza di idrocarburi, ma anche dal fatto che il suo
possesso avrebbe consentito alla Cina una base avanzata, da cui proiettare forze navali
verso gli Stretti della Malacca. Pechino, con la politica del peaceful rise, ricercò da allora
la collaborazione sia economica sia nel settore della sicurezza dei paesi dell’ASEAN, oltre
che degli USA.
Va sottolineato che l’affidare ad altri aspetti essenziali della propria sicurezza
rappresenta una soluzione opposta a quella che nella storia hanno sempre adottato le
grandi potenze. Esse hanno cercato sempre di estendere ai campi politico e strategico la
loro potenza economica e non hanno mai permesso che quest’ultima dipendesse dalla
generosità di un concorrente, quindi di un potenziale avversario. La stretta interdipendenza
esistente fra l’economia cinese e quella americana non deve indurre a pensare che renda
2
STRATFOR, China’s Maritime Dilemma, Global Intelligence Brief, August 3rd, 2007.
256
impossibile un conflitto. Tale livello di integrazione esisteva anche in Europa allo scoppio
della prima guerra mondiale. Per inciso, ciò indusse uno studioso del calibro di Norman
Angell (“La grande illusione”, 1913) ad ipotizzare che l’ordine anarchico (nel senso
hobbesiano del termine) degli Stati sovrani fosse superato e che un conflitto mondiale
fosse divenuto impossibile proprio per le interconnessioni economiche allora esistenti. La
strategia del peaceful rise - oggi divenuta peaceful development - è destinata a durare. Non
sarà sicuramente cambiata in tempi brevi. Troppi vantaggi ne sono derivati alla Cina, non
solo perché ha potuto avvalersi del contesto di sicurezza garantito e pagato dagli USA, ma
anche perché si sono attenuati i sospetti circa i suoi intendimenti “imperiali”, esistenti nei
ricordi storici di tutte le popolazioni confinanti con il “celeste Impero”. La continuazione
di questa opzione da parte di Pechino non comporta un atteggiamento passivo cinese nei
confronti di quelle che vengono considerate provocazioni. La Cina invia ogni tanto
“messaggi” agli USA, per segnalare loro che il “dragone cinese non è di carta”. Ciò è ad
esempio avvenuto con l’esperimento ASAT del 17 gennaio 2007, in cui è stato distrutto,
da un missile, avente una testata ad impatto diretto, un vecchio satellite meteorologico 3 ,
oppure con la dimostrazione delle capacità cinesi nel settore della cyberwar. L’analisi
delle capacità cinesi in campo anti-satellitare continua ad animare il dibattito strategico.
Essi pongono in pericolo gli assetti spaziali, essenziali per la potenza militare americana.
Lo stesso significato ha avuto l’infiltrazione di un sommergibile tipo Song nei pressi di un
gruppo portaerei americano, senza che fosse stato avvistato per tempo, cosa che la U.S.
Navy ha dovuto riconoscere con grande imbarazzo.
Il grande vantaggio che presenta questa prima opzione strategica - cioè continuare a
sfruttare la sicurezza dell’ordine unipolare USA - è quello di consentire piena efficacia al
soft power cinese e al Beijing Consensus 4 . Quest’ultimo ha consentito alla Cina di ottenere
enormi successi economici e politici con i paesi dell’ASEAN, con la Corea del Nord e, in
generale, con tutto il vecchio Terzo Mondo. In particolare, ha evitato di suscitare
apprensioni per la rapida crescita della potenza militare cinese e di indurre i paesi
3
Elizabeth Economy, China Missile Message, Washingtonpost.com, January 25th, 2007, p. A25.
A differenza del Washington Consensus che impone condizionalità politiche (ad esempio, tutela dei diritti
umani) alle relazioni economiche, il Beijing Consensus separa nettamente la politica dall’economia e
consente alla Cina di avere ottimi rapporti anche con le più feroci dittature, sfruttando i vantaggi competitivi
derivanti da questo suo approccio molto più “disinvolto” di quello occidentale.
4
257
confinanti con la Cina a raggrupparsi attorno agli Stati Uniti, per riceverne protezione,
costituendo alleanze anti-cinesi.
A poco a poco, però, l’atteggiamento cinese sta mutando. La Cina - come vuole la
“dottrina Zoellick” - sta aumentando la sua partecipazione agli interventi internazionali
decisi dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e, d’altro canto, si sta accorgendo
che solo l’esistenza di regole e di standard di comportamento accettabili le consentono di
sfruttare appieno e con sicurezza gli investimenti che sta facendo all’estero. Ciò è
avvenuto soprattutto in Africa, dove il supporto cinese a feroci e corrotte dittature ha
suscitato l’accusa contro Pechino di perseguire una politica neo-coloniale. Inoltre,
l’invasione di prodotti manifatturieri cinesi a basso prezzo sta sollevando accuse di
imperialismo economico, da cui la Cina si può difendere solo attenendosi rigorosamente
alle regole dell’OMC.
ii) La seconda opzione consiste nella diminuzione della vulnerabilità marittima della
Cina e nell’elaborazione di una strategia idonea alla protezione degli interessi cinesi
d’oltremare, in modo da poter contrastare i rischi che, in modo almeno potenziale,
incombono su di essi. La riduzione della vulnerabilità delle importazioni di materie prime
e delle esportazioni manifatturiere cinesi può essere realizzata, almeno parzialmente, con
la costruzione - già in corso - di grandiose infrastrutture che consentano di superare
l’isolamento territoriale della Cina sia verso la Siberia e l’Asia centrale, sia verso il Golfo
del Bengala e il Mare Arabico. La Cina è circondata da deserti, montagne e giungle. Sono
in costruzione strade, ferrovie, gasdotti e oleodotti attraverso il Myanmar, l’Afghanistan, il
Pakistan e il Kazakhstan. È in progetto la costruzione di un grande canale navigabile
attraverso la Malesia, per aggirare da Nord gli Stretti della Malacca. Sono poi in corso di
completamento porti commerciali in Myanmar, sul Golfo del Bengala, e in Baluchistan,
sul Mar Arabico. Essi sono concepiti in modo da poter servire d’appoggio anche a navi
militari. Infine, la Cina ha acquisito diritti portuali nello Sri Lanka e nel Bangladesh e sta
effettuando lavori in talune isole dell’arcipelago delle Spratley, in modo da trasformarle in
basi di appoggio per operazioni navali verso gli Stretti della Malacca.
Quando tali infrastrutture diverranno pienamente utilizzabili, la Cina avrà realizzato
una notevole riduzione del suo attuale livello di vulnerabilità strategica.
258
Occorre comunque considerare che il territorio cinese è ricco di materie prime e che è
in condizione di soddisfare le esigenze, se non dell’economia, almeno della PLA in caso
di conflitto anche prolungato. Non si trova cioè nelle condizioni del Giappone prima del
secondo conflitto mondiale, che si vedeva strangolato dall’embargo petrolifero imposto
dagli Stati Uniti ai suoi danni per l’occupazione della Manciuria.
Nonostante tutti gli sforzi che potrà fare in campo della “geografia volontaria
infrastrutturale”, la Cina rimarrà vulnerabile, anche per il minor costo dei trasporti
marittimi rispetto a quelli via terra e per la concentrazione delle sue industrie sulle sue
coste meridionali ed orientali. Quindi, l’opzione della riduzione delle vulnerabilità è
certamente importante, ma non può essere decisiva. Tra l’altro non può provvedere alla
sicurezza e alla protezione degli interessi cinesi oltremare, tema per il quale non risulta sia
stata elaborata a Pechino alcuna direttiva strategica, se non quella - già accennata - di una
maggiore
partecipazione
alle
organizzazioni
internazionali
e
di
un
maggior
coinvolgimento nelle operazioni delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. È
una scelta in linea con la “dottrina” di Robert Zoellick, sostenitore della necessità che gli
USA coinvolgano nella massima misura possibile la Cina nella costruzione e nella
gestione del nuovo ordine mondiale, di cui Pechino dovrebbe divenire uno “stakeholder
responsabile”.
La Cina intende comunque mantenere aperte tutte le opzioni. Ciò spiega il
potenziamento in corso anche delle forze terrestri e il fatto che il Libro Bianco della
Difesa cinese del dicembre del 2006 parli della meccanizzazione della PLA come di una
priorità eguale a quella della sua informatizzazione.
iii) La terza opzione disponibile alla Cina è quella di sfidare - beninteso nel lungolunghissimo termine - la potenza degli USA e di garantire in proprio la protezione delle
sue SLOC e dei propri interessi oltremare, da quelli delle proprie grandi imprese statali a
quelli delle diaspore. Ciò comporta per la Cina - prima ancora che uno sforzo di riarmo
tale da realizzare se non la superiorità, almeno un ragionevole equilibrio con gli USA nelle
regioni strategicamente critiche - la capacità di creare una rete mondiale di alleanze. È
questo il punto più delicato e difficile per Pechino. Infatti, i due aspetti della strategia
cinese - rafforzamento militare e cooperazione regionale e globale - sono in netto
contrasto fra di loro. Uno sforzo nel settore dell’hard power rischia di neutralizzare quello
259
soft, che ha consentito alla Cina tanti successi. Un riarmo massiccio - con la costruzione di
gruppi portaerei e di forze anfibie - preoccuperebbe immediatamente i vicini della Cina e,
verosimilmente, li indurrebbe ad allearsi con gli Stati Uniti. Non sarebbe neppure da
escludere un’alleanza fra USA e Russia in funzione anti-cinese, dato che Mosca sente
minacciata la propria influenza in Asia centrale e in Siberia. Lo SCO (Shanghai
Cooperation Organization) non costituisce un’alleanza strategica fra Mosca e Pechino.
Cina e Russia vi perseguono obiettivi incompatibili. Mentre la prima intende controllare
per il suo tramite le iniziative e l’influenza cinesi in Asia centrale (oltre che nelle Province
Marittime), per la Cina lo SCO è uno strumento per aumentare progressivamente la
propria influenza nell’antico Turkestan, fino al Mar Caspio, regione tradizionalmente
inclusa nell’area d’influenza di Pechino.
Va anche considerato che il bilanciamento della potenza delle Marine degli USA e dei
loro alleati non può essere limitato ad uno solo dei due oceani: quello Indiano o quello
Pacifico. Deve riguardare contemporaneamente entrambi, data la capacità di intervento
globale della Marina americana e la sua capacità di agire indipendentemente dalla
disponibilità di basi, di cui peraltro gli USA dispongono attorno alla Cina: dal Giappone, a
Guam, a Diego Garcia.
Infine, la costruzione di una flotta in grado di contrastare la U.S. Navy richiederebbe
generazioni e assorbirebbe consistenti risorse proprio in un periodo in cui la Cina deve
affrontare crescenti spese sociali ed incombenti disastri ecologici 5 . Se poi la Cina
imboccasse la via di un consistente riarmo navale e della componente aerea a più lungo
raggio, sarebbero inevitabili reazioni compensative da parte non solo degli Stati Uniti, ma
anche del Giappone, dell’India e degli Stati dell’ASEAN. Tra l’altro, gli USA potranno in
futuro avvalersi del supporto europeo in misura ben maggiore di quanto avvenisse in
passato. Le linee politiche del Presidente Sarkozy sono convergenti al riguardo con quelle
della Gran Bretagna, a sostegno se non di una “NATO globale”, almeno di un appoggio
globale agli USA. Anche Mosca - sempre psicologicamente condizionata dai ricordi del
“pericolo giallo” e dell’“orda d’oro” - finirebbe per avvertire il pericolo di un eccessivo
aumento della potenza cinese. In tal caso, manterrebbe almeno una neutralità di fatto
favorevole all’Occidente, anche perché è ben consapevole che finirebbe per essere la vera
5
Jim Yardley, As Water Vanishes, Can China Cope?, IHT, September 28th, 2007, pp. 1 and 6.
260
vittima di una vittoria cinese. Con un successo dell’Occidente dovrebbe tutt’al più aprirsi
alla liberalizzazione del mercato e accelerare le tendenze di un’europeizzazione della
Russia.
Come si è già accennato la Cina si sta mantenendo aperte tutte le opzioni. L’incertezza
dei responsabili strategici cinesi sulla strategia da adottare è riflessa dall’indecisione circa
la costruzione di una portaerei. Finora la Cina ne ha acquistate quattro: due dalla Russia,
una dall’Ucraina e una dall’Australia. L’ultima è stata demolita; le due russe sono state
trasformate in ristoranti e casinò galleggianti. L’ultima - la Varyag - è in corso di
allestimento in un cantiere del Mar Giallo. Non si sa però se verrà resa operativa o
trasformata in un luogo di intrattenimento da ancorare in qualche porto. Comunque, la
Cina ha acquistato dalla Russia una trentina di cacciabombardieri, con capacità di operare
da portaerei; dispone quindi di un certo numero di piloti navali addestrati.
Per un’emergenza Taiwan la Cina non necessita di portaerei, dato che le coste
occidentali dell’isola distano solo 110-250 km dalla terraferma. Quindi, è più conveniente
e sicuro impiegare aerei da terra, eventualmente con rifornimento in volo. La costruzione
di una portaerei sarebbe invece un chiaro segnale dell’adozione da parte della Cina di una
strategia “post-Taiwan”. La cosa non potrebbe non preoccupare. Scatenerebbe la reazione
statunitense e degli altri Stati della cintura di contenimento della Cina, organizzata dagli
USA in Asia orientale e meridionale. Beninteso, la Cina non potrebbe limitarsi ad una sola
portaerei. Ne dovrebbe costruire almeno sei-otto. Occore tener conto che l’India sta
dotandosene di quattro, mentre il Giappone sta costruendo diverse navi che chiama
“pudicamente” incrociatori porta-elicotteri, ma che in realtà sono mini-portaerei capaci di
imbarcare i futuri JSF/F35B.
In sostanza, l’adozione della terza opzione costituirebbe un atto oggi temerario da
parte della Cina, adottabile solo “alla disperata” e nella consapevolezza di trovarsi per
lungo tempo ancora in condizioni d’inferiorità militare.
Tre elementi però inducono a non scartarla. Il primo è costituito dal fatto che la Cina,
con la consapevolezza della sua brillante cultura e delle sue gloriose tradizioni, si ritiene
“eccezionale” come gli USA e vorrà prima o poi svolgere un maggiore ruolo mondiale. Il
secondo è la crescita dell’anti-americanismo e dell’intolleranza per l’egemonia americana
nel mondo. Ciò apre alla Cina interessanti prospettive strategiche per “riempire i vuoti”
261
lasciati dalla potenza americana, così come - a partire da una quindicina-ventina di anni Pechino si è largamente avvantaggiata in campo economico della crisi del Giappone. Il
terzo è il fatto che la Cina ha dimostrato di sapere prendere iniziative militari anche in
condizioni di grande inferiorità, come avvenne in Corea nell’autunno del 1950. La validità
di questo terzo elemento è peraltro contestata da chi ritiene che allora Pechino decise di
attaccare solo a seguito di incalzanti pressioni sovietiche, che non poteva respingere.
In sostanza, la linea d’azione strategica più probabile della Cina dovrebbe essere una
combinazione della prima e della seconda, forse nell’attesa che gli USA si logorino al loro
interno, diminuendo i loro impegni nel sistema Asia-Pacifico. Si tratta però di un’ipotesi
poco probabile, nonostante le delusioni prodotte nella loro opinione pubblica dal
prolungarsi della guerra in Iraq.
L’attuale riarmo cinese e il conseguente aumento del bilancio sarebbero
sostanzialmente fatti automatici, più legati alla crescita economica che ad una visione
geopolitica del futuro della Cina.
Beninteso, la cautela di Pechino - spesso al limite dell’acquiescenza - potrebbe mutare
rapidamente. Ad esempio, qualora Pechino subisse nuove umiliazioni e pressioni da parte
di Washington - come quelle avvenute nel 1995, allorquando il Presidente Clinton inviò
due gruppi portaerei nello stretto di Taiwan - oppure qualora si scatenasse fra gli USA e la
Cina una guerra commerciale, facilitata oggi dalle tendenze protezionistiche e del bashing
China prevalenti nel Partito Democratico, che ha la maggioranza al Congresso.
L’attuale riarmo cinese - anche se impressionante in termini assoluti, dato che subisce
ormai da una quindicina di anni un aumento spesso superiore al 15% anno - non lo è in
termini relativi. Rispetto al PIL, il bilancio della PLA si aggira dall’1,7 al 2,3% (pur con
tutte le cautele che tali dati devono essere presi data la difficoltà di valutarne l’effettivo
potere d’acquisto), rispetto al 4% USA, mentre il livello tecnologico dell’industria degli
armamenti cinese continua a presentare gravi carenze. Più che l’economia nel suo
complesso, è proprio quest’ultimo fattore che costituisce un limite oggettivo alla
possibilità di Pechino di competere militarmente con gli USA e i loro alleati, almeno nei
prossimi due o tre decenni, indipendentemente dalla strategia globale che i dirigenti cinesi
decidessero di adottare.
262
2. Crescita economica della Cina e aumento dei bilanci della difesa
La straordinaria crescita economica cinese ha permesso, a partire dal 1996, un
consistente aumento del bilancio della difesa. Esso era molto diminuito, sia in termini
assoluti che relativamente al PIL, a partire dal 1979, cioè dall’inizio delle grandi riforme
di Deng Xiaoping. La “quarta modernizzazione” - quella militare - era considerata meno
importante - o, quanto meno, meno urgente - anche per la persuasione di Deng che
l’URSS fosse in crisi e gli USA fossero destinati al declino e, comunque, fossero
oggettivamente alleati della Cina. A parere di quel grande Presidente cinese, il tempo
lavorava quindi a favore della Cina. Nel 1979 il bilancio delle PLA ammontava al 4,3%
del PIL cinese; nel 1996 era dell’1,1%. Dal 1996, come si è detto, l’aumento del bilancio
della PLA ha superato quello del PIL. Pertanto, ha recuperato qualche punto, realizzando
nel 2007 una percentuale dell’1,7-1,8% del PIL. Raggiunge, con i fondi extra bilancio
della PLA il 2,3%. Secondo taluni esperti raggiungerebbe il 3% del PIL. Come al solito, i
dati vengono manipolati a seconda della finalità che ci si propone e di che cosa si intenda
dimostrare o sostenere. Tali calcoli sono sempre aleatori e comunque discutibili.
Dovrebbero essere disaggregati al livello più basso. Ciò è difficile anche nella NATO. Il
Pentagono valuta la spesa militare cinese tra gli 85 e i 125 miliardi di dollari; il SIPRI la
valuta pari a 188 miliardi; nel bilancio ufficiale di Pechino, tenuto conto del cambio di
mercato yuan/dollaro, i fondi per la PLA ammontano a soli 45 miliardi di dollari nel 2007.
Come ricordato precedentemente, l’1,7-1,8% si riferisce a valutazioni espresse in
MER - non in PPP, che per la PLA è sicuramente diverso dal PPP dei consumi delle
famiglie considerato dalla Banca Mondiale. Inoltre, fa riferimento al bilancio ufficiale e,
quindi, non tiene conto delle altre innumerevoli fonti di finanziamento extra-bilancio della
PLA. Taluni esperti 6 hanno suggerito che la via più pragmatica di procedere sarebbe
quella di raddoppiare il bilancio ufficiale, in modo da tener conto sia dei finanziamenti
extra-bilancio della difesa, sia della differenza di potere d’acquisto tra yuan e dollaro. Tale
metodo, nonostante la sua semplificazione, mi sembra il più logico da seguire, anche
6
David Shambaugh, Calculating China’s Military Expenditure, Report to the Council of Foreign Relations,
New York, June 2th5, 2002.
263
perché non si conosce il tasso d’inflazione militare, certamente diverso da quello
normalmente considerato.
Sono comunque valutazioni che hanno un significato relativo per quanto riguarda la
potenza militare di Pechino, soprattutto per le capacità di proiezione di potenza all’esterno
delle frontiere cinesi. Infatti, la quota delle spese relative alla difesa del territorio - che è
basata tuttora sul concetto della guerra prolungata di popolo - e soprattutto quella relativa
alle forze paramilitari - non dovrebbero essere considerate, anche se esse sono certamente
in condizioni di garantire la difesa del territorio cinese. Le forze mobili sono invece
carenti, come illustra la sconfitta subita dalla PLA nel 1979 allorquando attaccò il
Vietnam e dovette, dopo una penetrazione iniziale, ritirarsi rovinosamente, per il collasso
del supporto logistico.
Sarebbe invece essenziale poter per valutare le effettive capacità di proiezione di
potenza, in particolare nei riguardi di Taiwan. Da tale valutazione, infatti, dipenderebbero
quelle sulla probabilità di un intervento armato cinese all’isola, sulla capacità della PLA di
contrastare l’azione degli USA a sostegno dell’isola, e così via.
Interessante è anche esaminare i motivi della diminuzione prima e dell’aumento poi
del bilancio della PLA. La diminuzione degli anni ’80 fu sicuramente dovuta alla
progressiva diminuzione e infine alla scomparsa della minaccia dell’URSS. È derivata poi
anche dallo stato ancora primitivo dell’industria cinese degli armamenti (eccetto in campo
informatico, missilistico e spaziale). Esso sconsigliava di riempire gli arsenali con armi
che sarebbero state rese rapidamente obsolete dal rapido progresso tecnologico dei
potenziali avversari della Cina. Un terzo motivo derivava dalla strategia globale allora
adottata dalla PLA, che era quella della difesa del territorio cinese secondo la strategia
concepita da Mao Zedong della “guerra di popolo”. Un avversario tecnologicamente
superiore non poteva essere arrestato con una difesa frontale, ma solo con una strategia
asimmetrica, quale appunto è quella della guerra territoriale prolungata. Essa lo avrebbe
logorato fino ad indurlo a ritirarsi. C’è da notare che la strategia non richiedeva armi
moderne, ma armamenti leggeri molto rustici, con la possibilità di produrre le munizioni
anche localmente, con piccole industrie artigianali. Era quindi del tutto compatibile con il
basso livello tecnologico dell’industria cinese degli armamenti.
264
La situazione geopolitica-geostrategica e quella tecnologica-economico-finanziaria
sono mutate profondamente negli anni Novanta e stanno migliorando ancora. La prima per
la “distrazione” degli USA nella “guerra al terrore” e per l’anti-americanismo crescente
nel mondo. Va però ricordato che Pechino è ben consapevole che gli Stati asiatici che si
sentissero minacciati dall’aumento della potenza cinese correrebbero a chiedere l’aiuto
americano. In secondo luogo, il livello tecnologico è cresciuto, mentre le disponibilità
finanziarie si sono accresciute, soprattutto dopo l’ammissione della Cina all’OMC. Sotto il
profilo geopolitico, la scomparsa della minaccia dell’URSS e l’inesistenza di altre
minacce terrestri contro la Cina, hanno fatto decadere la necessità di organizzare una
“guerra di popolo”. Hanno permesso una consistente riduzione della struttura della PLA e
del numero dei militari in servizio. La coscrizione obbligatoria è rimasta in vigore, ma
anche l’esercito è composto da una percentuale crescente di volontari (oggi sono
all’incirca il 50% degli effettivi). Le unità di élite - aviotrasportate, anfibie e delle forze
speciali - sono interamente professionalizzate. La priorità è passata ai “confini marittimi
mobili” e alla capacità di proiezione di potenza oltre i confini terrestri, soprattutto a livello
regionale, ma anche in teatri operativi geograficamente lontani dalla Cina, inclusa la
partecipazione ad operazioni di peacekeeping effettuate su mandato ONU. Sotto il profilo
strategico-operativo è divenuto perciò imperativo per la Cina migliorare il livello
tecnologico e la mobilità strategica delle proprie forze. Lo ha fatto sia con l’acquisizione
di armi e di tecnologie all’estero, sia con il progressivo consolidamento della propria
industria militare, in modo da diminuire la dipendenza dalle importazioni. Essa è
indispensabile per soddisfare la sua ambizione di tornare ad avere lo status di grande
potenza, polo di attrazione per tutta l’Asia orientale in un primo tempo, e centrale a più
lungo termine. Da potenza locale la Cina si è trasformata in una regionale, pur avente
interessi mondiali. Ma tra l’essere una potenza regionale asiatica e una globale esiste una
considerevole differenza, beninteso dal punto di vista geostrategico.
Il saldo attivo della bilancia commerciale e l’entità delle riserve valutarie - che sono le
più consistenti del mondo - consentirebbero alla Cina di acquisire dall’estero decine di
265
miliardi di dollari di armamenti all’anno 7 . Se non lo fa è perché non lo ritiene necessario,
oppure perché intende stimolare la crescita di un’industria nazionale della difesa,
diminuendo la dipendenza delle proprie forze armate dagli approvvigionamenti
dall’estero. Di fatto, l’acquisto di sistemi d’arma è stato limitato all’incirca a un miliardo
di dollari all’anno fino al 2000 e raddoppiato successivamente. La Cina è il maggior
importatore di armi del mondo, con un totale di quasi 12 miliardi di dollari dal 1998 al
2005. Le importazioni provengono quasi esclusivamente dalla Russia. Un ultimo motivo
delle ridotte importazioni cinesi di armi - ridotte beninteso rispetto alle esigenze
dell’ampia struttura della PLA - è sicuramente connesso con il fatto che quelle disponibili
per l’acquisto in Russia da parte della Cina, posseggono ormai una tecnologia alquanto
arretrata rispetto agli armamenti occidentali più moderni. D’altro canto, le grandi industrie
occidentali della difesa - incluse quelle del Giappone e dell’Australia, che pur hanno
abrogato verso la metà degli anni novanta gli embarghi di armi decisi nei confronti della
Cina nel 1989, dopo il massacro di piazza Tienanmen – non esportano in Cina gli
armamenti più sofisticati e le tecnologie più sensibili sia per motivi di sicurezza, sia anche
per il timore di incorrere in ritorsioni americane.
La valutazione sulle implicazioni politico-strategiche di un consistente aumento del
bilancio militare cinese dovrebbe essere basata sull’individuazione delle capacità
operative che tale aumento produrrebbe. Esse dipenderebbero dai settori in cui verrebbe
concentrata la spesa e dalle priorità seguite nella programmazione finanziaria. Se le spese anche per le unità destinate alla proiezione esterna di potenza - fossero concentrate sui
settori di fast cost – come gli stipendi, le pensioni, l’assistenza sanitaria e sociale, ecc. - gli
impatti di aumenti anche considerevoli del bilancio militare sulle capacità operative reali
della PLA sarebbero molto ridotti. Se invece i maggiori fondi fossero destinati agli
approvvigionamenti, alla ricerca e sviluppo e al miglioramento della base tecnologica e
industriale della difesa, le conseguenze strategiche sarebbero opposte. Se, poi, gli
armamenti fossero prodotti in Cina, la valutazione della compatibilità economica di
maggiori spese dovrebbe tener conto dell’effetto acceleratore e moltiplicatore che esse
7
Dwight Parking, China’s Economic Growth: Implications for the Defense Budget, in Ashley Tellis and
Michael Wills editors, Strategic Asia 2005-2006: Military Modernization in an Era of Uncertainty, Seattle:
NBR, 2005, pp. 362-385.
266
avrebbero sull’insieme dell’industria cinese 8 , in particolare di quella che esporta sul
mercato mondiale. Tale effetto di spin-off della spesa militare dovrebbe essere
particolarmente positivo. Infatti, uno dei principali problemi che deve affrontare la Cina è
il miglioramento tecnologico della propria industria. Oggi esso non è soddisfacente. Basti
pensare, ad esempio, che la percentuale di prodotti hi-tech nelle esportazioni cinesi in
Europa è del 14%, rispetto al 54% di hi-tech nelle esportazioni europee in Cina.
Valutazioni realistiche dovrebbero inoltre tener conto dell’efficienza della spesa. Cruciale
al riguardo sono la concorrenza fra le diverse imprese - almeno a livello di componenti e
di subassiemi - e l’effettiva libertà di scelta della PLA, non vincolata, ad esempio, da
considerazioni di natura sociale. Molti sforzi sono stati compiuti dalla Divisione Generale
Armamenti della PLA per introdurre elementi di competitività nelle commesse
all’industria militare, in modo da stimolarne la crescita tecnologica e la produttività. Il
raggiungimento di tale obiettivo incontra però notevoli difficoltà, data la scarsa efficienza
dell’industria statale e l’inesistenza di un complesso militare-industriale sovvenzionato e
privilegiato rispetto agli altri settori dell’economia, come avveniva nell’Unione Sovietica.
E’ evidente che la valutazione della compatibilità o almeno degli effetti che una
continuazione - ovvero una riduzione - della crescita dell’economia cinese avrebbe sul
bilancio della difesa è un’operazione in parte impraticabile e in parte estremamente poco
attendibile. Potrà avere influsso al riguardo l’aumento dell’inflazione, che incomincia a
farsi sentire e che ha raggiunto a metà 2007 il 6,5% annuo costringendo la Banca Centrale
Cinese a drastiche misure. Essa potrebbe impedire un considerevole aumento delle spese
militari, che per loro natura hanno un carattere inflativo. Infatti, immettono sul mercato
denaro che stimola l’offerta, ma non prodotti che in concorrenza fra di loro potrebbero
calmierare i prezzi. Per inciso, i tassi di interesse sono stati aumentati quasi di due punti,
con conseguente maggiore selezione degli investimenti e dei consumi.
Per ora la Cina sta cercando non tanto di rafforzare la sua componente militare, quanto
di accrescere il suo controllo a livello mondiale, sia nell’industria estrattiva sia nel
commercio di prodotti manifatturieri. Basti pensare alla recente decisione di impiegare
200-300 miliardi di dollari (cioè un sesto delle riserve valutarie cinesi) per acquistare
8
Fabio Pamolli, Andrea Paci e Massimo Riccoboni, Sicurezza, innovazione e crescita, AREL, Il Mulino,
Bologna, 2004.
267
assets industriali all’estero. Tale operazione potrebbe essere finalizzata a diminuire la
vulnerabilità di riserve valutarie tanto consistenti fronte ad un calo del valore del dollaro.
Ma, anche sotto il profilo globale della sicurezza, sarebbe da interrogarsi sull’impatto che
un’operazione di tali dimensioni avrebbe sulle strutture dell’economia mondiale e sulle
dipendenze che si determinerebbero in molti paesi nei confronti di Pechino. Tale impatto
sarebbe considerevole, se l’operazione fosse ispirata non tanto da considerazioni
economiche, ma da precise strategie volte ad aumentare l’influenza politico-strategica
globale cinese. È per questo che, seguendo l’esempio del Congresso USA e della
Germania, quasi tutti i paesi occidentali hanno posto vincoli all’acquisizione di proprie
imprese da parte della Cina, oltre che della Russia e degli Stati produttori di petrolio. La
Cina, che è già il baricentro dell’industria dell’Asia orientale, assemblando componenti e
subassiemi prodotti nell’intera area, potrebbe estendere questo suo ruolo all’intero pianeta.
Potrebbe anche migliorare la sua base tecnologica, con una selettiva politica di acquisto
delle imprese in possesso delle tecnologie che ritiene necessarie. Evidentemente, gli Stati
Uniti e l’Occidente in generale non possono permetterlo. Le loro misure protettive hanno
già suscitato la contro-reazione sia cinese che russa, con limitazioni poste agli investimenti
occidentali. Una “guerra economica” è molto più probabile nel breve-medio termine che
uno scontro militare. Essa si sviluppa, come si è visto, soprattutto in Africa e in America
Latina, e - fra la Cina e la Russia - in Asia centrale.
Anziché conquistarli, attraverso l’acquisto di assets economicamente strategici,
Pechino aumenterebbe la sua influenza economica e, quindi, politica mondiale,
determinando delle dipendenze, di cui gli altri paesi dovrebbero tener conto. Non per nulla
molti governi anche europei hanno definito quali siano i settori tecnologico-industriali che
debbano essere mantenuti nazionali, per proteggere la propria economia dalle massicce
acquisizioni che la Cina e la Russia sono in grado di fare, data l’entità delle riserve di cui
dispongono. Le misure adottate ricordano quelle che furono decise nei confronti del
Giappone negli anni ottanta, anche se in tal caso gli USA tennero conto del fatto che il
Giappone era un loro alleato cruciale.
Sarebbe logico che, di fronte alla possibilità di tale tsunami industriale-finanziario, gli
altri Stati - in particolare quelli europei che sono più esposti e vulnerabili - definissero
268
quali settori dell’industria e della tecnologia non possono essere messi sul mercato 9 . Tali
misure dovrebbero essere coordinate fra l’Europa e gli Stati Uniti.
Nell’ambito dell’UE in particolare è essenziale che vengano adottate politiche
identiche fra i vari Stati. L’enorme massa di investimenti cinesi, russi e arabi potrebbe
modificare profondamente la divisione internazionale del lavoro, colpendo mortalmente
gli Stati che non avessero adeguato le loro strutture e normative alla nuova sfida. Taluni
paesi - come la Germania, ma anche la Francia di Sarkozy - stanno studiando il problema
e costituendo organismi per elaborare e gestire le politiche da seguire al riguardo. Taluni
esperti intravedono in ciò l’origine di una vera e propria guerra economica, molto dura,
anche se condotta nel rispetto delle regole internazionali, in particolare di quelle
dell’OMC. Le misure adottate aumenterebbero certamente il livello di protezionismo dei
vari Stati, danneggiando complessivamente la globalizzazione e i suoi benefici effettivi,
soprattutto a partire dal 2008, quando termineranno le misure di salvaguardia dei mercati
europei concordate fra UE e Cina. Le proposte del “colbertismo hi-tech” - avanzate in
Italia - appaiono ulteriormente giustificate. Un National Economic Council dovrebbe
affiancare il National Security Council per coordinare le misure di sicurezza economica sia attive che passive - a partire da quella energetica, per pervenire a quella del controllo
della proprietà delle industrie hi-tech.
Il “nuovo gioco” per la supremazia mondiale potrà quindi essere effettuato
prevalentemente con il solo soft power e con strumenti economico-finanziari. Per questo,
nell’equazione degli equilibri internazionali di potenza, l’aumento del bilancio militare
cinese va considerato un fattore tutto sommato marginale; comunque non determinante.
Gli unici in condizione di contrastare l’offensiva economica cinese sono gli Stati Uniti.
Solo essi continueranno a poter imporre alla Cina pesanti condizionalità per limitare i
danni che si potrebbero determinare alla loro autonomia nazionale, anche se il commercio
europeo con la Cina ha complessivamente superato quello americano. Gli USA hanno con
Pechino una spiccata interdipendenza: la Cina esporta nel mercato americano masse di
prodotti a basso costo e di tecnologia non elevata (eccetto per le componenti prima
esportate in Cina dagli stessi Stati Uniti o da paesi dell’ASEAN), ma impiega parte dei
loro proventi per comprare buoni del tesoro degli USA e consentire così ai consumatori
9
Francesco Scisci, Chi ha paura della Cina?, ed. Le Grazie, Milano, 2007.
269
americani di continuare ad acquistare prodotti cinesi. Se tale ciclo virtuoso - ma che può
essere anche considerato vizioso, dato l’aumento del già enorme debito USA – dovesse
incepparsi, molto verosimilmente si produrrebbe una crisi economica mondiale, da cui
solo la Cina e gli USA (e forse la Russia per le sue materie prime) potrebbero salvarsi.
Tale eventualità potrebbe determinare la possibilità sia di tensioni molto accese fra
Washington e Pechino, sia di una loro accentuata cooperazione. La seconda ipotesi è più
probabile. Lo indicano le conclusioni del Foro di Dialogo Economico Strategico USACina, tenutosi a Washington a metà maggio 2007 10 . Anziché un mondo bipolare, si
produrrebbe quasi un “duopolio imperiale” sino-americano. La sua possibilità è ben
presente a Tokyo, a Mosca e a New Delhi. Viene invece praticamente ignorata in Europa,
anche se potrebbe incidere grandemente sul suo futuro. “Chimerica” è una eventualità
sempre più probabile. Potrebbe essere accelerata da una crisi economica mondiale.
3. La relativizzazione degli aumenti dei bilanci militari cinesi
Le spese militari si traducono in un aumento delle capacità politico-strategiche solo se
la potenza militare è impiegabile e corrisponde a precise esigenze strategiche. Ad esempio,
con una strategia incentrata sulla “guerra di popolo” (oppure che consideri la sola
partecipazione ad operazioni di peace keeping) l’acquisto di velivoli di superiorità aerea o
di navi d’altura accrescerebbe solo marginalmente le capacità militari utilizzabili
politicamente.
Del tutto diversa sarebbe la valutazione che si riferisce alla capacità di proiezione di
potenza all’estero, in interventi ad alta intensità operativa e tecnologica, al di fuori del
territorio nazionale sul mare o su terra, contro un nemico in possesso di forze ad alta
tecnologia. Quindi - come si è prima ricordato - più che sull’entità del bilancio militare in
quanto tale, occorrerebbe esaminare la sua ripartizione fra le varie componenti e tra le
spese fast, che esauriscono il loro effetto in tempi brevi, e quelle slow. Queste ultime
hanno un effetto cumulativo per tutto l’arco di tempo in cui un sistema d’arma rimane in
10
STRATFOR, China, U.S.: The Strategic Economic Dialogue as a Tool for Managing Relations, May
22nd, 2007.
270
servizio e resta valida operativamente la sua tecnologia. Tali valutazioni sono impossibili,
dato il ridotto livello di disaggregazione del bilancio militare cinese. Esse dovrebbero
migliorare per la recente promessa di Pechino all’ONU di accrescere la trasparenza del
proprio bilancio militare.
Va comunque notato che, l’entità del bilancio della difesa è un indicatore insufficiente
per valutare le capacità militari e, ancor meno, per ipotizzare le intenzioni strategiche di un
paese. Esse dipendono dalla priorità adottate nella pianificazione dei fondi disponibili,
dalla dottrina asimmetrica o simmetrica che si intende adottare e dal contesto geopolitica
in cui si opera. Nel caso particolare della Cina un fattore che condizionerà le decisioni è
rappresentato dal costo economico e politico che la Cina dovrebbe pagare in caso di
confronto militare anche limitato con gli USA, ad esempio nello Stretto di Taiwan, o di
semplice abbandono dalla “politica del sorriso” e del peaceful development. Esso
provocherebbe una reazione anti-cinese ed un rafforzamento dei legami con gli USA di
tutti i paesi dell’Asia orientale e meridionale.
Due ipotesi sono possibili al riguardo: la prima è quella della continuazione del
peaceful development cinese - secondo la strategia globale attuale - senza particolari
contrasti e confronti con il resto del mondo, in particolare con gli USA. In tale scenario,
l’entità del bilancio militare cinese potrebbe aumentare gradualmente dal 1,7-2,3% di oggi
al 3-3,5%, in modo da mantenere l’attuale equilibrio delle forze nel sistema Asia-Pacifico.
Tenendo conto che - nei prossimi 5-10 anni - la crescita annuale cinese sarà mediamente
del 7%, il PIL cinese aumenterà del 40% in 5 anni e raddoppierà in 10 anni. In relazione a
ciò, il bilancio della PLA - ci si riferisce al bilancio ufficiale che nel 2007 è di 45 miliardi
di dollari - si dovrebbe aggirare sui 100 miliardi di dollari entro il 2012 e a circa 140
miliardi di dollari entro il 2018, ammesso ma non concesso che il tasso di cambio fra yuan
e dollaro non muti sostanzialmente rispetto a quello attuale (circa 7 yuan per 1 dollaro).
Qualora si dovesse far riferimento al bilancio in PPP, rispetto a quello del Pentagono,
applicando la regola del “raddoppio”, il bilancio cinese della difesa dovrebbe essere di 200
miliardi di dollari nel 2012 e di 280 nel 2018.
Nell’ipotesi più pessimistica, quella cioè di un confronto globale anche militare con gli
USA e i loro alleati e di una corsa al riarmo nel sistema Asia-Pacifico, la Cina potrebbe,
praticamente senza impatto sulla sua crescita , aumentare al 5-6% del PIL le spese per la
271
difesa. Conseguentemente, il bilancio della PLA potrebbe ammontare a circa 150 miliardi
di dollari nel 2012 e a 250 nel 2018. La mancanza di un impatto sulla crescita di un
aumento così considerevole del bilancio militare è dovuta al fatto che l’entità dei fattori
produttivi inutilizzati o scarsamente utilizzati in Cina (forza lavoro, capitale, ecc.) è tale
che l’aumento della spesa militare potrebbe avere addirittura un effetto di stimolo alla
crescita, anziché di freno. Tra “burro” e “cannoni” non si determinerebbe alcuna
contrapposizione. Sarebbe - limitandosi all’esame di taluni aspetti macroeconomici cinesi
- una win-win strategy, in un certo senso simile a quella seguita dalla Corea del Sud negli
anni Sessanta. Tale scelta è resa però improbabile 11 dall’ancora insoddisfacente livello
tecnologico dell’industria cinese degli armamenti, nonché dal relativamente ridotto
numero di manodopera altamente specializzata – necessaria non solo per una moderna
industria degli armamenti, ma anche per Forze Armate tecnologicamente avanzate.
L’improbabilità di siffatto aumento è confermata dalle conseguenze negative che la scelta
di un confronto con gli USA avrebbe in campo economico, politico-sociale e
internazionale. L’economia cinese - pur assorbendo senza conseguenze o addirittura
traendo un vantaggio dall’aumento della spesa militare - potrebbe infatti essere colpita
duramente in modo indiretto. Ne corrisponderebbe necessariamente una politica
nazionalistica più aggressiva nei confronti dei propri vicini e degli Stati Uniti. Ciò
provocherebbe reazioni protezionistiche e anche l’intralcio o il blocco dell’uso cinese
delle SLOC, tanto indispensabili per l’approvvigionamento di materie prime e per il
commercio.
I paesi dell’Asia orientale e del Sud-Est bloccherebbero i loro investimenti in Cina e
ritirerebbero i loro depositi dalle banche cinesi. Cercherebbero di diversificare i loro
rapporti commerciali, soprattutto verso l’India, che riceverebbe invece un impulso alla sua
industrializzazione.
La cosa avrebbe un effetto disastroso sull’export cinese ed anche sui rapporti di
potenza in Asia, per i quali esiste una “naturale” competizione fra i due colossi asiatici.
Gli USA e l’Europa limiterebbero i consumi di prodotti cinesi e adotterebbero misure
protezionistiche, che sono state più volte invocate dal Congresso e anche in ambito UE.
Ne riceverebbe grossi danni anche l’Europa, su cui graverebbero in gran parte i costi del
11
Drew Thompson, China Flexes Its Limited Muscles, Financial Times, September 5th, 2007, p. 11.
272
quasi inevitabile deprezzamento del dollaro. Gli altri attori economici - in particolare
l’America Latina, la Russia e il Medio Oriente - non sarebbero in grado di dare un apporto
significativo al superamento della crisi economica mondiale, che ne conseguirebbe.
La situazione economica della Cina si aggraverebbe poi notevolmente qualora
l’inasprimento della crisi comportasse l’imposizione di un blocco navale da parte degli
Stati Uniti e dei loro alleati asiatici. Esso colpirebbe gravemente l’economia cinese
soprattutto qualora fosse diretto ad un embargo dei rifornimenti energetici 12 , per i quali la
Cina dipende in misura crescente dalle importazioni dal Golfo, dall’Africa e dall’America
Latina. La vulnerabilità energetica cinese è destinata ad aggravarsi, nonostante gli sforzi di
Pechino (e con un investimento di quasi 20 miliardi di dollari) di sviluppare vie di
comunicazione stradali e ferroviarie che diminuiscano la sua dipendenza dal mare 13 .
Sull’antica “via della seta” si svolge oggi solo l’1% del commercio cinese. L’obiettivo a
lungo termine è quello di giungere ad almeno il 15%. Verosimilmente, il successo
dell’impresa avrà un impatto sulla strategia globale di Pechino, ma non potrà modificarla
sostanzialmente anche – come ricordato – per il minor costo dei trasporti marittimi rispetto
a quelli terrestri.
4. Considerazioni conclusive
Il primo obiettivo dei leaders politici cinesi è quello di mantenere il potere del Partito
Comunista. Ciò comporta la necessità di avere una sostenuta crescita economica; quindi,
di mantenere un’economia liberista, che è oggi tra le più aperte al mondo e alla
globalizzazione.
Il loro secondo obiettivo è quello di far riprendere alla Cina il ruolo che aveva
tradizionalmente avuto in Asia, estendendolo all’intero mondo. Sotto il profilo
geopolitico, la Cina si è già trasformata da potenza locale in regionale e si sta
progressivamente adattando alle necessità di essere una potenza globale, anche sotto il
12
Robert D. Kaplan, How We Would Fight China, in The Atlantic Monthly, June 2005 e Robert S. Ross,
Assessing the China Threat, in The National Interest, Fall 2005, pp. 81-87.
13
Raphael Minder and Isabel Gorst, Rebuilding of Historical Asia Trade Route Agreed, Financial Times,
September 19th, 2007.
273
profilo politico-strategico. Sta, ad esempio, aumentando la sua partecipazione alle
operazioni dell’ONU. Tale estensione degli interessi politici cinesi segue quella
dell’influenza economica, la quale si è già globalizzata.
Il raggiungimento di entrambi gli obiettivi comporta una continua e consistente
crescita dell’economia, anche per migliorare il benessere dei cinesi e mantenere la
coesione interna. In caso contrario, il PCC vedrebbe erosa la sua legittimità. Non avrebbe
alternative al ricorso al nazionalismo e alla repressione, abbandonando il progetto di
costruire una società “armoniosa”. Nell’attuale contesto regionale e globale, entrambi tali
obiettivi sono più raggiungibili dalla Cina con il soft power 14 , che con una politica
aggressiva e con un riarmo accelerato. Esso avrebbe verosimilmente un “effetto
boomerang”. Il soft power ha consentito a Pechino consistenti successi, soprattutto da
quando l’attenzione di Washington si è concentrata sulla “guerra al terrore”, trascurando il
considerevole aumento della presenza della Cina nel Golfo, in Africa e in America Latina.
Tale aumento di influenza si è verificato anche in Asia centrale, dove Pechino ha utilizzato
lo SCO (Shanghai Cooperation Organization), non solo per contrastare il secessionismo e
il terrorismo degli Uiguri del Sinkiang, ma anche per avere accesso per via terrestre alle
importanti risorse energetiche della regione. Essa, nell’immaginario collettivo dei cinesi,
continua a far parte dell’area d’influenza di Pechino. La “via della seta”, divenuta “via del
petrolio”, si sviluppa dal Sinkiang al Caspio. La cooperazione fra Pechino e Mosca ha
pertanto limiti ben precisi, dato che anche il Cremlino tende a mantenere il controllo delle
materie prime dell’Asia centrale. La Russia teme che la Cina la estrometta di fatto da tale
regione, facendole perdere il controllo delle sue risorse ed effettuando anche pressioni
sulla Siberia orientale. Vorrebbe invece che i rifornimenti verso la Cina passassero sul suo
territorio e per le sue grandi società energetiche: Gazprom e Rosneft. Questa è stata la
principale ragione dei contrasti fra Mosca e Pechino, emersi chiaramente in occasione
della visita a Mosca del Presidente Hu e che hanno impedito la firma di accordi in tema di
rifornimenti energetici e di armamenti, già concordati a livello tecnico. È del tutto
verosimile che la pressione demografica ed economica cinese in Siberia orientale e nelle
Province Marittime, da un alto, e che la competizione per il controllo delle risorse
14
Gill Bates and Yanzhong Huang, Sources and Limits of Chinese Soft Power in Survival, Summer 2006,
pp. 17-36.
274
energetiche dell’Asia centrale, dall’altro, determinino tensioni fra Mosca e Pechino. Lo
SCO ha perciò grosse limitazioni. Non si trasformerà in un’alleanza dell’Eurasia. Non può
essere sostitutivo dell’APEC né dei SED (Strategic Economic Dialogue) fra Cina e Stati
Uniti. Anche “Cindia” è un mito. I due giganti asiatici sono strutturalmente portati a
competere, non a cooperare. Il sostegno che Pechino dà ad Islamabad e l’aumento del
terrorismo islamico e secessionista in India, nonché l’accordo strategico fra New Delhi e
Washington, rendono tesi i rapporti fra l’“elefante indiano” e il “dragone cinese”. Tra le
varie possibili configurazioni degli assetti geopolitici del futuro, quella più probabile è
“Chimerica” (China and America), derivante da intese organiche fra Pechino e
Washington per costruire prima e gestire poi il nuovo ordine mondiale, quello della
globalizzazione. Il secolo XXI non sarà un secolo “asiatico”, ma uno “del Pacifico”, in cui
gli USA continueranno a mantenere una posizione preminente.
Tutte le ipotesi - anche le più accurate - sulla crescita delle capacità militari cinesi
hanno perciò un’importanza tutto sommato limitata, almeno per i prossimi due-tre
decenni. Più pericolosa delle capacità militari cinesi saranno quelle derivanti
dall’economia. Essa aumenterà l’influenza di Pechino nel mondo.
Ciò che frena l’aumento del bilancio militare cinese non è l’impossibilità economicafinanziaria di sostenerne una crescita anche molto rilevante. Tale freno deriva certamente
dalla situazione di arretratezza dell’industria cinese degli armamenti, eccetto in
determinati settori “asimmetrici”, come le capacità ASAT, di cyberwar e subacque.
Determinante è però la volontà di Pechino di evitare contrasti con gli Stati Uniti e di non
intimorire e propri vicini, con il risultato di vanificare i risultati positivi del soft power.
Fa eccezione la questione di Taiwan, che tocca direttamente il punto più sensibile
dell’orgoglio e del prestigio o - come direbbe Tucidide - dell’“onore nazionale” cinese.
Negli altri settori di possibile contrasto con gli USA ha sempre prevalso da parte cinese il
pragmatismo, basato su di una ragionevole valutazione dei costi economici di una
contrapposizione e sulla previsione di quelle che sarebbero le reazioni degli Stati
confinanti con la Cina.
Dimostrazioni di tale flessibilità di Pechino sono stati i casi della difesa anti-missili,
del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, dell’EP-3 atterrato ad Hainan nel
2001, della guerra in Iraq, e così via. Tale moderazione non è derivata solo dalla
275
consapevolezza dell’inferiorità militare della Cina, e dalla sua vulnerabilità economica a
sanzioni da parte degli USA, né dalla concentrazione sugli enormi problemi sociali,
economici ed ecologici interni 15 . La logica di tale linea politica è invece molto sofisticata.
Fu indicata chiaramente dal Presidente Jiang Zemin nel 1995 ed è stata ribadita da Hu
Jintao. Essa è definita molto razionalmente e mira allo sviluppo di una “società
armoniosa” all’interno, nonché a rafforzare la capacità, la potenza e l’influenza cinese nel
mondo e, in primo luogo, in Asia 16 .
Diffusa è la consapevolezza che il tempo giochi a favore di Pechino, e che, soprattutto,
i vantaggi decisivi acquisibili con il soft power non potrebbero esserlo con l’impiego potenziale o effettivo – della forza. In caso di scontro militare diretto, la Cina non sarà in
grado - almeno per un paio di decenni ancora - di contrastare la superiorità militare degli
USA e dei loro alleati sia nel Pacifico occidentale che nell’Oceano Indiano. La prospettiva
di coloro che ipotizzano uno scontro militare fra Pechino e Washington non tiene conto
del fatto che il secondo dispone degli strumenti per influenzare le decisioni cinesi, ad
esempio tramite minacce di embarghi o di misure protezionistiche. Un poderoso sforzo di
riarmo cinese potrebbe indurre gli Stati Uniti non tanto ad attaccare militarmente la Cina,
quanto a colpire quelle che sono le sue maggiori vulnerabilità, cioè quelle economiche.
Con l’attuale Congresso a maggioranza democratica, reazioni emotive degli USA - quello
che generalmente viene indicato con il termine bashing China, che ricorda il bashing
Japan degli anni Ottanta - sono molto più probabili. I dirigenti cinesi ne sono consapevoli.
Cercano di evitare azioni che gli americani possono ritenere umilianti ed aggressive (come
fu l’acquisto da parte giapponese del Rockfeller Center che versò benzina sul fuoco del
bashing Japan). In altre parole, una politica di collaborazione con gli USA è conveniente
per Pechino. È forse l’unica che consenta la trasformazione della Cina in una grande
potenza globale nella seconda metà del secolo.
La Cina possiede la potenza finanziaria necessaria per un poderoso sforzo di riarmo.
Paradossalmente, l’eventualità che tale potenzialità si traduca in un effettivo aumento delle
capacità militari cinesi non deriva da una continuazione della crescita economica cinese.
Potrebbe invece discendere da una crisi economica, che metta l’attuale dirigenza politica
15
16
Kay Moeller, The Beijing Bluff in Survival, January-February 2007, pp. 137-146.
Francis Fukuyama, Re-Envisioning Asia, in Foreign Affairs, January-February 2005, pp. 75-87.
276
di Pechino con le spalle al muro, facendole temere di perdere il potere. In tal caso non le
resterebbe che stimolare il nazionalismo, utilizzando i ricordi del “secolo delle
umiliazioni” e cercando di ottenere successi esterni che ne consolidino la legittimità
interna. Ciò significa l’abbandono del peaceful development e la scelta di una politica
aggressiva da Taiwan al Mar Cinese Meridionale e, forse, alle isole Senkaku più a Nord.
In tutti i casi Pechino provocherebbe dure reazioni da parte degli Stati Uniti e del
Giappone e verosimilmente anche dell’India e dei paesi dell’ASEAN.
È questa una ragione in più per far preferire a Pechino che la Cina, continuando
l’attuale crescita pacifica si trasformi, secondo la “dottrina Zoellick”, in un attore
autorevole e responsabile del nuovo ordine internazionale.
Ciò non è solo nell’interesse cinese, ma anche in quello americano. Esistono tutti i
presupposti perché si costituiscano le basi di un nuovo ordine bipolare, basato questa volta
però sulla cooperazione, e non sulla competizione, come era stato il precedente. Un
confronto diretto sino-americano potrebbe divenire possibile solo fra venti o trenta anni.
Solamente un’improbabile precipitare della situazione a Taiwan potrebbe modificare tale
previsione. Tutto fa però pensare che le tendenze indipendentiste dell’isola possano essere
frenate. Da un lato dalle pressioni statunitensi: Washington ha ribadito la sua fedeltà al
principio dell’unità della Cina, con un ricongiungimento pacifico dell’isola al continente,
ed ha effettuato pressioni molto forti su Taipei perché non provochi Pechino. E’ in
proposito giunto a porre in dubbio un intervento americano a difesa dell’isola ed insistito
perché Taiwan accresca le sue capacità di autodifesa. Il rifiuto dei leaders di Taipei di
aumentare il bilancio della difesa - acquisendo tra l’altro una decina di sommergibili
diesel, per contrastare sia un blocco navale da parte della PLAN, sia la sua capacità di
garantire il sea control nello Stretto di Taiwan, necessario per il sostegno logistico di una
forza d’invasione anfibia - ha provocato forti proteste da parte del Pentagono e della stessa
Casa Bianca.
Dall’altro lato, gli interessi imprenditoriali e commerciali di Taiwan con la Cina,
nonché quelli “patriottici” del partito Kuomintang, che ha rapporti sempre più stretti con
Pechino, rendono molto costoso un peggioramento dei rapporti con la Cina. Con calma e
prudenza, ma con grande determinazione, Pechino sta perseguendo i suoi obiettivi di
isolare internazionalmente Taipei e, all’interno dell’isola, di sostenere le forze
277
antisecessioniste, di erodere l’autorità del Presidente Chen e di appoggiare il ritorno al
potere del Kuomintang.
Beninteso, queste valutazioni non escludono che si debba usare un atteggiamento di
cautela nei confronti dell’aumento delle capacità militari cinesi. Ciò riguarda soprattutto il
settore tecnologico per il quale vanno mantenuti gli attuali embarghi, soprattutto nei
riguardi delle tecnologie più sensibili per la proiezione di potenza. Non sarà un obiettivo
semplice da raggiungere. In primo luogo, crescono le pressioni europee nei confronti degli
USA, perché non si oppongano all’abolizione dell’embargo degli armamenti europei alla
Cina. Verosimilmente, esso sarebbe già stato abrogato se - nel 2005 - la Cina non avesse
approvato la legge “anti-secessione”. In secondo luogo, la delocalizzazione in Cina di
filiali di imprese americane ed europee ad alta tecnologia rende sempre più difficile il
controllo delle tecnologie dual use, dal cui spin-in può derivare automaticamente un
aumento della potenza militare cinese. Ciò vanificherebbe il risultato che si ripromette di
conseguire l’embargo: quello cioè di allungare la durata della superiorità strategica globale
degli Stati Uniti, che è alla base di quell’ordine unipolare contro il quale molti protestano,
ma il cui mantenimento è nell’interesse di tutti, in primo luogo della stessa Cina che
largamente ne approfitta.
17
17
278
SINTESI
Rapporto di ricerca CeMiSS
SVILUPPO ECONOMICO E STRATEGICO DELLA CINA
Compatibilità fra geopolitica, economia e bilancio militare
CSGE – novembre 2007
La ricerca riguarda la sostenibilità economico-finanziaria di un cospicuo aumento del bilancio
della PLA (People Liberation Army). Tale bilancio ammontava nel 1978 al 4,3% del PIL cinese; era
sceso nel 1991 all’1,1%, per poi salire progressivamente all’1,7% o al 2,3% del PIL, a seconda che
vengano o no considerati i fondi extra bilancio della difesa, ma che in modo più o meno diretto
influiscono sulla potenza militare cinese. In MER (Market Exchange Rate) il bilancio della PLA
ammonta nel 2007 a circa 45 mld. $, divisi in parti pressoché eguali fra le spese per il personale, per
l’esercizio e per gli investimenti. E’ assai poco trasparente e quindi è difficile valutarlo in termini di
PPP (Purchasing Power Parity). Il Pentagono – anche sulla base di studi effettuati dalla RAND
Corporation – lo valuta tra gli 85 e i 125 mld. $; il SIPRI a quasi 200 mld. $.
In linea di principio, non esistono correlazioni di tipo deterministico fra la crescita economica
e quella dei bilanci militari. La questione è tanto più vera per la Cina, per molte ragioni: il
bassissimo peso che ha ancor oggi lo Stato sull’economia – passato dall’incredibile 13% del PIL
negli anni ’80, al 25% attuale; la consistenza delle riserve monetarie; il basso debito pubblico e
l’enorme crescita economica. Essa continuerà a ritmi sostenuti anche nei prossimi anni, non
determinando particolari vincoli di sostenibilità finanziaria ad un aumento anche considerevole del
bilancio militare. Sotto tale profilo sarebbe possibile per la Cina aumentare il bilancio al 5-6% del
PIL, senza pratica ricaduta negativa sulla crescita. Anzi, lo sviluppo di un’industria moderna degli
armamenti avrebbe spin offs molto positivi sul manifatturiero. Le ipotesi massime formulate al
riguardo prevedono che il bilancio cinese della difesa possa giungere nel 2020 a circa 300 mld. $,
pari a metà di quello USA. La potenza militare di Pechino rimarrà per il 2020 molto inferiore a
quella degli USA. Essa infatti sarà fortemente influenzata dal fatto che le spese d’investimento sono
slow cost e hanno un effetto cumulativo nel tempo.
Nella ricerca viene sottolineato che realistiche previsioni sull’entità dei bilanci cinesi della
difesa – come di quelli di tutti gli Stati - non possono essere fatte sulla base solo di considerazioni
economico-finanziarie. Nessuno Stato aumenta le proprie spese militari solo perché l’economia lo
consente. Lo fa per poter disporre delle capacità strategiche necessarie per raggiungere determinati
obiettivi politici. Lo fa inoltre se la situazione interna (in particolare, le esigenze sociali e il livello
tecnologico della sua industria degli armamenti) glielo consente. Infine, influisce il contesto
internazionale. La potenza militare ha un significato relativo, non assoluto. Se un aumento della
potenza di uno Stato provocasse reazioni da parte di altri Stati, gli sforzi effettuati potrebbero essere
neutralizzati.
La ricerca è pervenuta alla conclusione - in un certo senso paradossale – che un aumento del
bilancio della PLA e un mutamento in senso aggressivo della politica estera cinese – dal 1995
fondata sul peaceful rise/development – diventerebbero probabili solo in caso di un rallentamento
della crescita economica, su cui si basa la legittimità del Partito Comunista Cinese. Solo in tal caso,
tenderebbe a basarla sul nazionalismo e su una politica di potenza, almeno nelle sue immediate
periferie. Qualora la crescita cinese continuasse – come è probabile – Pechino privilegerà la stabilità
del contesto internazionale e la cooperazione con gli USA.
1
Inoltre, nei prossimi anni, come pone in rilievo l’XI Piano Quinquennale, la Cina dovrà
costruire una “società armoniosa”, correggendo gli squilibri sociali, territoriali ed ecologici
esistenti. Ciò assorbirà grandi risorse. Dovrà passare da un’economia export led ad una basata sui
consumi, aumentare le spese sociali e provvedere al trasferimento di almeno 300 milioni di persone
dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria e ai servizi, e dalle zone dell’interno a quelle
costiere.
L’enorme crescita dell’economia della Cina – iniziata con le riforme di Deng Xiaoping del
1978 ed acceleratasi con l’entrata nell’OMC nel 2001 – è stata naturalmente accompagnata da un
aumento dei bilanci militari, che hanno però sempre mantenuto una quota del 15% della spesa
statale. Tale aumento è iniziato nella seconda metà degli anni novanta ed ha trasformato la Cina da
potenza locale in regionale, mentre economicamente è diventata una potenza globale, motore,
assieme agli USA, dell’economia globalizzata. Comunque, se l’aumento dei bilanci e delle capacità
operative della PLA è stato molto rilevante in termini assoluti, altrettanto non lo è stato in termini
relativi nei riguardo degli USA. La Cina – a differenza degli USA - non dispone di alleati, se non
“di tempo sereno”, cioè con legami economici sempre più stretti, ma preoccupati per ogni aumento
di potenza militare della Cina e pronti a coalizzarsi contro di essa, in caso di crisi. La SCO
(Shanghai Cooperation Organization), in particolare, non è un’alleanza. Infine, la Cina ha
vulnerabilità geostrategiche molto rilevanti. Le vie di comunicazione marittima (SLOC) –
indispensabili sia per l’importazione di materie prime, sia per l’esportazione dei suoi prodotti –
sono costrette verso Ovest al transito attraverso gli Stretti della Malacca. Verso Est sono dominate
da una doppia catena di isole (Okinawa-Taiwan e Giappone-Guam-Filippine), basi del Comando
del Pacifico e della 7ª Flotta, la più potente della U.S. Navy. La Cina sta facendo un enorme sforzo
per diminuire tali vulnerabilità, con la costruzione di una gigantesca rete infrastrutturale verso
l’Asia centrale, verso il Golfo del Bengala – attraverso il Myanmar – e verso il Mare Arabico –
attraverso il Pakistan. Sta poi costruendo porti su entrambi i mari; sta progettando di costruire un
canale navigabile che le consenta di aggirare da Nord gli Stretti della Malacca e, infine,
trasformando l’arcipelago delle Spratley nel Mare Cinese Meridionale, in una base navale per poter
controllare gli Stretti della Malacca. Ma tali sforzi non potranno affrancare la Cina dalla dipendenza
di SLOC dominate dagli USA.
La priorità della PLA rimane Taiwan e la capacità di dissuadere Taipei dall’indipendenza,
nonché gli USA di accorrere liberamente a suo sostegno, come nel 1995-96, allorquando il
Presidente Clinton inviò due gruppi portaerei nello Stretto di Taiwan, in risposta a provocatorie
esercitazioni missilistiche cinesi in prossimità delle acque territoriali dell’isola. Nonostante gli
sforzi effettuati da Pechino per rafforzare le proprie capacità di proiezione di potenza, la PLA non è
ancora in condizioni di invadere Taiwan, né di effettuare un blocco navale dell’isola. Sono però
migliorate le capacità cinesi, non tanto per l’aumento del numero dei missili – prevalentemente a
testata convenzionale – schierati contro l’isola, e del numero e della qualità dei sottomarini e delle
forze anfibie, avioportate e speciali di cui dispone la Cina, quanto per lo sviluppo di capacità
“asimmetriche”, sia antisatellitari che di guerra elettronica e cibernetica, sviluppate dalla PLA. Esse
sembrano in condizioni di degradare in misura notevole la superiorità delle marine ed aeronautiche
degli USA e dei loro alleati nel sistema Asia orientale-Pacifico occidentale.
Il vero problema strategico cinese si pone per il “dopo Taiwan”. Due soluzioni sono possibili:
accettare che gli USA continuino a dominare le SLOC cinesi, oppure sfidare la potenza degli USA e
dei loro alleati. La seconda appare improbabile almeno per i prossimi tre-quattro decenni. Per
attuarla, la Cina non dovrebbe acquisire una capacità limitata di sea denial, ma una globale di sea
control. La costruzione di una potente Marina provocherebbe reazioni equilibratrici da parte degli
USA, del Giappone e dell’India. Anche la sola invasione di Taiwan – seppur sempre più fattibile
militarmente – provocherebbe un blocco del commercio internazionale e un disastro per l’economia
cinese.
La geostrategia e la geoeconomia fanno quindi prevedere che, anche nei prossimi decenni, la
Cina cercherà di consolidare i successi che sta avendo soprattutto in Africa e nell’America Latina e
2
che diventi uno stakeholder responsabile del nuovo ordine mondiale. Che cioè fra le due “dottrine”
dominanti negli USA nei riguardi della Cina – quella Zoellick, che la considera un alleato
indispensabile degli USA, e quella Armitage, che la considera un potenziale avversario – prevalga
la prima. Il pericolo maggiore cinese è economico, soprattutto se Pechino perseguirà un’aggressiva
politica di acquisizione di industrie occidentali. Inoltre, il c.d. Beijing Consensus – che separa
nettamente economia e politica interna, ad esempio in tema di diritti umani – contrasta con i
tentativi occidentali di promuovere diritti umani e democrazia, anche con condizionalità
economiche, previste dal c.d. Washington Consensus.
È questo, più che il potenziamento militare cinese, a dover preoccupare. Il Libro Bianco
cinese della Difesa – la cui ultima edizione è del dicembre 2006 – non offre nessuna indicazione
sulla politica militare di lungo termine della Cina. Insiste però sulla “informatizzazione”, termine a
cui viene dato un significato simile a quello che in USA viene dato alla RMA, e sulla
“meccanizzazione”. Questa seconda priorità fa ritenere che la Cina intenda conferire alle forze
terrestri della PLA una capacità di proiezione di potenza oltre i confini cinesi, per ristabilire
l’autorità un tempo esercitata dal “Celeste Impero” sul Turkestan occidentale, fino al Mar Caspio, e
sulla penisola indocinese.
È comprensibile che la cosa abbia preoccupato Mosca. Quando Putin ha recentemente
affermato che la Russia non è l’Iraq e che difenderà dagli USA le ricchezze naturali della Siberia,
sicuramente non si rivolgeva a Washington. Era un messaggio indirizzato a Pechino. Anche per
questo motivo molti analisti ritengono che la configurazione geopolitica più probabile non sia tanto
Eurasia, ma Chimerica, basata su stretti rapporti di collaborazione, se non su di un’alleanza formale
fra Cina ed America. Su di essa verrebbe centrato l’ordine mondiale del XXI secolo. In tale contesto
vanno esaminate non solo la compatibilità economica di aumenti del bilancio della PLA, ma la
futura strategia globale della Cina.
3
EXECUTIVE SUMMARY
From the CeMiSS research report
ECONOMIC AND STRATEGIC DEVELOPMENT OF CHINA
Compatibility among Geopolitics, Economy and Military Budget
CSGE, November 2007
The research report addresses the issue of the economic-financial sustainability of a substantial
increase in the budget of the PLA (People’s Liberation Army). In 1978, the budget amounted to 4.3%
of China’s GNP. By 1991 it had dropped to 1.1%, and then rose progressively to either 1.7% or 2.3%
of the GNP, depending on whether one includes the extra defence budget funds, (which have a direct
impact on China’s military power.) In 2007, the PLA’s military budget, calculated in MER (Market
Exchange Rate), reached approximately $45 billion, and can be evenly broken down into three parts:
personnel and management costs, and investments. The lack of transparency of the budget makes it
difficult to estimate its value in PPP (Purchasing Power Parity). The Pentagon, which partly utilizes
estimates by the Rand Corporation, believes it to be in the $85 billion-$125 billion range. SIPRI
quantifies it at $200 billion.
In principle, there is no deterministic correlation between economic growth and an increase in
the military budget. This is especially true for China, for several reasons: the State’s very limited stake
in the economy (even to this date), which grew from 13% of the GNP in the 1980’s to 25% today; the
consistency of China’s monetary reserves; and the low public debt, coupled with huge economic
growth. This growth will continue at a sustained rate during the coming years, and will not condition
the financial sustainability of a large increase of the military budget. It would be possible for China to
raise its budget to 5%-6% of the GNP without any negative repercussions on growth. In fact, the
development of a modern arms industry would have beneficial spin-off effects on manufacturing. The
highest estimates foresee the Chinese defence budget reaching $300 billion by 2020, which is about
half of the U.S. defence budget. By 2020, Beijing’s military power will probably continue to be much
smaller than that of the U.S.. This will be largely influenced by the fact that its investments are
primarily earmarked for “slow cost” areas and have a cumulative effect over time.
This research report emphasizes the fact that realistic forecasts of Chinese defence budget – as
in the case of other countries – cannot be based solely on economic-financial considerations. States do
not increase their military spending only because they have the economic means to do so. Higher
defence investments are an instrument for achieving the strategic means to reach certain political
objectives in a certain international context. A state’s domestic situation (specifically the social
constraints and technological level of its armaments industry) must allow it, and the international
situation must call for it. Military power has a relative, not an absolute meaning. If a state’s surge in
military power were to provoke a reaction on the part of other states, the benefits would be neutralized.
This research report has reached the somewhat paradoxical conclusion that an increase in the
PLA’s budget and an aggressive change in China’s foreign policy, which has been based on “peaceful
rise” and “development” since 1995, would be likely only in the event of a slowing of economic
growth. The latter represents the base of legitimacy for the Chinese Communist Party. In the event of
an economic slowdown, the Party would have to revert to nationalism and a power-based policy, at
least in its most immediate peripheries. But, in the likely event that Chinese growth continues, Beijing
will privilege international stability and cooperation with the U.S.
1
Furthermore, the XI Five-Year Plan explains that in coming years China will aim at developing
a “harmonious society” and will have to resolve its huge current social, territorial and environmental
challenges. This will require large resources, and will force China to: evolve from being an exportdriven to a consumption-driven economy; increase social expenditures; and provide for the transfer of
at least 300 million people from the countryside to the urban areas, from farming to industry and
services, from the hinterland to the coast.
The huge growth of China’s economy - which began with Deng Xiaoping’s reforms in 1978
and gained momentum with China’s entry into the WTO in 2001 - has naturally been accompanied by a
growth in military budgets, which have nonetheless always been kept at 15% of state spending. It
started in the second half of the 1990’s and transformed China from a local into a regional power.
Economically, it turned China into a global power and into the engine of growth of the global economy
alongside the U.S.. The growth of the PLA’s budget and operational capabilities has been very strong
in absolute terms, but not relatively compared to the U.S.. Unlike the U.S., China does not have allies,
except “good weather” ones, with increasingly close economic ties, who are concerned about the
incremental increases in China’s military power. In particular, the SCO (Shanghai Cooperation
Organization) is not a true alliance. Finally, China is highly vulnerable from a geostrategic perspective.
Sea lines of communication, or SLOCs, which are indispensable both for the import of raw materials
and for the export of Chinese products, are constrained in two significant ways: to the west, they must
pass through the Straits of Malacca; to the east, they face a double chain of islands (Okinawa-Taiwan
and Japan-Guam-Philippines), which are used as key naval bases by the U.S. Seventh Fleet, the most
powerful in the American Navy. China is making huge efforts to decrease this vulnerability by:
developing a gigantic infrastructure network towards Central Asia, the Gulf of Bengal (through
Myanmar) and the Arabian Sea (across Pakistan); building ports in both seas; planning to dig a canal
through Malayse to avoid the Straits of Malacca; and transforming the Spratley Archipelago in the
South China Sea into a naval base in order to control the Straits of Malacca from the East.
Notwithstanding all of these efforts, China will remain dependent on its SLOC, which will continue to
be dominated by the U.S. Navy.
The PLA has one main priority. Taiwan, dissuading Taipei from pursuing independence and
convincing the U.S. not to come to Taiwan’s support, as it did in 1995-96, when President Clinton sent
two aircraft carrier groups to the Taiwan Strait, in response to aggressive Chinese military exercises
near Taipei’s territorial waters. Regardless of Beijing’s efforts to improve its power projection
capabilities, the PLA is still not in a condition both to invade Taiwan and to subject it to a naval
blockade. But, Chinese capabilities have improved, not only because of a greater number of (mostly
conventional) missiles that it has lined up against Taiwan, or on account of the number and quality of
submarines and amphibious, air-transported and Special Forces, but also because of the PLA’s antisatellite, electronic and cybernetic “asymmetric” capabilities. The latter seem to be able to significantly
challenge the air and naval superiority of the U.S. and its allies in the eastern-Asian and western Pacific
region.
China’s real strategic challenge will emerge in the “post-Taiwan” era. It faces two alternative
scenarios: it could accept that the U.S. maintains its dominant position over China’s SLOC, or it could
challenge the U.S. and its allies. The latter seems unlikely, at least in the next three to four decades. To
put the second alternative into practice, China should opt for a global “sea control” rather than a limited
“sea denial” capability, as requested for Taiwan. The development of a strong navy would trigger
counter reactions by the U.S., Japan and India. The invasion of Taiwan, although increasingly feasible
– at least in the future - from a military standpoint, would provoke a block of international sea trade and
a disaster for the Chinese economy.
Geostrategic and geoeconomic considerations lead us to expect that in the coming decades
China will try to consolidate its current successes, especially in Africa and Latin America, and that it
2
will become a responsible stakeholder in the new world order. Of the two China “doctrines” prevailing
in the U.S., it appears that the Zoellick doctrine, which sees China as an indispensable ally, will prevail
over the Armitage doctrine, which views China as a potential enemy. The biggest threat that China
poses is an economic one, especially if it will pursue an aggressive strategy of acquisitions of western
companies with its “sovereign” money. Furthermore, the so-called “Beijing Consensus”, which calls
for a separation between economy, politics and human rights, is in sharp contrast with the West’s
support of human rights and democracies, even with economic conditionalities as provided by the socalled “Washington Consensus”.
This should be a cause for a deeper worry than the strengthening of China’s military might.
China’s White Book on Defence, last published in December 2006, does not provide any indication of
Chinese long-term military policy. Instead, it emphasizes the “informatization” (similar in meaning to
“RMA” in the U.S.) and “mechanization.” The latter implies that China intends to have land forces
with a power projection capability that go beyond Chinese borders, with the aim of restoring the
authority once exercised by the “Celestial Empire” on western Turkistan as far as the Caspian Sea and
on the Indochinese Peninsula.
It is understandable that this provokes anxiety in Moscow. When Putin recently announced that
Russia is not Iraq and that he will defend Siberia’s natural resources from the U.S., he surely was not
referring to America, but to China. It is also for this reason that many analysts believe that the most
likely future scenario is not going to be either Eurasia or Cindia, but Chimerica, based on close
collaboration - if not a formal alliance – between China and America. It would become the pillar of
21st century world order. It is with this in mind that one should examine China’s future global
strategy, rather than by merely analyzing the economic sustainability of the growth of the PLA budget.
3
CONCLUSION AND SUMMARY
1. China’s “Grand Strategy:” Status and Perspectives
On 1 August, 2007, the People’s Liberation Army (PLA) and its four components –the land forces
(PLA), the Navy (PLANN), the Air Force (PLAAF) and the rocket defence force (PLA-Second
Artillery)- celebrated its eightieth anniversary. It received praise for its new armaments, new
capabilities and the improvement in the professional level and quality of life of its members. Yet,
important question marks persist regarding Beijing’s “grand strategy” and the PLA’s modernization.
The answers to these questions will affect the size of China’s military balance and its economic
viability.
The strategic debate is driven by geopolitical considerations and national interest, not by the impact of
military expenditure on the economy and on the country’s finances. Although the latter are naturally
not negligible, they play a lesser role compared to the former.
From a geographic and historical point of view, China is a continental power, naturally inclined to exert
its influence and defend itself from its neighbors, especially in the north and north-west. This is why
the Great Wall was built. The empire was also committed to maintaining the unity of this immense
country, whose regions are diverse and often in opposition to each other. This has become an integral
part of the political and strategic DNA of China’s ruling class, which continues to be highly sensitive to
the principles of unity and sovereignty. The great imbalance in regional development is, in fact,
endangering China’s unity and sovereignty: the development of the western and southern coastal
regions, which have become industrialized and are open to the liberal push of globalization on one
hand, and the internal regions, which are poor and rural on the other. These differences could result in
confrontation and pave the way to foreign intervention –something China has already experienced in
the past. The “century of humiliation,” when China was invaded, looted and impoverished, still looms
in the nation’s collective memory.
China’s huge growth in the last 25 years has introduced a new element in the country’s economy and,
therefore, also in its geopolitics: the increasing dependence on maritime communication channels
(SLOC), which are dominated by the U.S., China’s only potential adversary and also its indispensable
economic partner. To date, the SLOC’s protection has been implicitly entrusted to the U.S. But, as
China becomes less autarchic and more reliant on world trade, two other potential rivals, India and
Japan, are also strengthening their naval forces, thus complicating the Chinese geopolitical equation
and questioning China’s geostrategic priorities.
Central to China’s strategic debate is the dual challenge: how to protect its SLOC and its foreign
interests, such as those in Africa, South America and the Gulf. Should China’s security be dependent
on foreign help and seek the collaboration of foreign powers -such as America- at all costs, or should
China go it alone thanks to a great navy and its capability to exert influence globally - not just in central
Asia and Siberia, but also in the Gulf and in Africa- to protect Chinese interests abroad and especially
to safeguard the supply of oil and other raw materials needed for its economic growth.
China’s maritime challenge is different from the one faced by the Soviet navy of Admiral Gorshkov or
previously by the Wilhelmine German navy of Admiral Tirpitz. The USSR then was essentially
autarchic and hardly relied on foreign trade. Admiral Gorshkov’s “great Soviet Navy” aimed at “sea
denial” of the SLOC that crossed the “transatlantic bridge,” and not at “sea control” for the protection
of Soviet maritime trade. In other words, the Soviet Navy did not want to defeat the western navies on
the surface in order to have free access to the seas. In addition to pursuing a strategy of “sea denial,”
the Soviet navy had to protect Soviet territory from the threat of U.S. air-sea power and from
America’s mighty aircraft carrier and amphibious groups in the Arctic Ocean, the Black Sea and the
north-western Pacific. China’s maritime challenge today is similar to that of the USSR only with
respect to Taiwan’s “area denial,” which would require the capability to counter U.S. air-sea and
amphibious forces in case of a Chinese attack.
Besides the problem of Taiwan, China’s maritime challenge is similar to that of Wilhelmine Germany,
when industrial expansion drove it into conflict with Great Britain. Germany’s dilemma then was if it
should follow a Bismarckian model of development based on cooperation and friendship with Great
Britain and Russia, or whether it should challenge British maritime superiority. Germany chose the
latter and, with the support of Admiral Tirpitz, decided to develop a “great navy.” This, in turn, led to
the Entente Cordiale between France and the United Kingdom, two traditional enemies, and later
helped bring about Germany’s defeat in World War I.
To date, Beijing has chosen a “Bismarckian” naval policy. But the question is: how long is this
tenable? Chinese strategy experts need to resolve the “post-Taiwan challenge:” long- term planning,
especially with respect to the PLAN. This in turn raises the issue of “mobile maritime borders,” a
concept which is gaining ground in Chinese geopolitical and security circles, and of “island chains,”
which should mark the development of the expansion of “mobile maritime borders.” 1
Naturally, naval experts and research centers affiliated with the PLAN believe that China needs to look
primarily towards the oceans, especially now that its land frontiers have been rendered safe by the
collapse of the USSR, and notwithstanding its continued difficult access to resources in central Asia
and central-eastern Siberia. The fact that the voyages to Africa’s eastern coast by the great 15th century
admiral, Zeng He, have been celebrated and highly praised by the PLAN (although they were criticized
as “costly distractions” by historians at the time), is a strong indication of the inclination of China’s
leaders, especially in the Navy. The celebrations were also backed by President Hu Jintao. In so doing,
he contrasted China’s appeasement policy towards the U.S. and its strategy of Asian regional “peaceful
development,” perhaps as a way of gaining the PLA’s favor in the midst of the ongoing tug-of-war for
the reallocation of funds between the rich, urban coastal regions and the poor, rural land-locked ones.
This requires a re-centralization of power, which is very difficult to achieve.
Besides the short-term and relatively limited problem of Taiwan, China is confronted with three
choices: 2 1. accept the fact that its vital SLOC be controlled and protected by the U.S., and seek
agreement with Washington at all costs, with the additional benefit of receiving American backing for
Chinese foreign interests; 2. reduce China’s dependence on the SLOC, with the resulting expansion of
Chinese influence and control in central Asia and central-eastern Siberia, and pave the way for the
1
The first stretches from Okinawa to the Senkuku Islands and reaches Taiwan and the Spratley Islands in the South China
Sea. The second includes Japan, the Philippines, and the Strait of Malacca. The third comprises the Aleutin Islands, New
Zealand, Australia and reaches Indonesia and Sri Lanka, which is the gateway to the coast of Africa and the Arabian Sea,
where China is building a large navy base on the Baluchistan coast in Pakistan. Let us not forget that China is also building
a great navy base in Myanmar on the Gulf of Bengal. This will be the point of departure of a large gasduct that will
transport the considerable gas reserves of Myanmar and also of Iran and Qatar. The gas will be transformed into LNG and
be carried by gas tankers which could avoid the Strait of Malacca.
2
STRATFOR, China’s Maritime Dilemma, Global Intelligence Brief, August 3, 2007.
construction of infrastructure that would enable China to reach the Gulf of Bengal and the Arabian Sea,
thereby avoiding the Strait of Malacca; 3. develop its naval capability with the dual objective of
contrasting the global dominance of the U.S. and its allies on one hand, and protecting its SLOC and
foreign interests on the other, at least in Africa and the Gulf.
China adopted the first option starting in 1995, when President Jiang Zemin announced the policy of
“peaceful rise” and halted all pressure and aggressive activity towards ASEAN countries in the south
China Sea, especially regarding the control of the Spratley Archipelago. China’s perception of the
importance of this area did not only stem from its wealth in energy resources, but also from the fact that
it could have provided China with an advanced outpost from which to project Chinese naval forces
towards the Strait of Malacca. Since its adoption of the “peaceful rise” policy, China has pursued
economic and security collaboration with ASEAN countries and the U.S.
Great powers have historically avoided relinquishing to others the essential elements of their security.
They have traditionally seeked to extend their economic influence to the political and strategic
domains, and have not allowed themselves to be economically dependent on the generosity of a
competitor and potential adversary. We must not be led to believe that the strong interpedendence
between the Chinese and American economies will make a conflict between these two powers
impossible. A similar level of economic integration existed within Europe at the outbreak of World
War I, and led a scholar of the calibre of Normal Angell (The Great Illusion, 1913) to hypothesize that
the anarchic order (in the Hobbesian sense of the term) among sovereign states had become
anachronistic and that a world war had become impossible, precisely because of the economic
interconnectness existing at the time. The “peaceful rise” strategy, which has since become known as
“peaceful development,” is destined to last. It certainly will not change in the short-term. It has
brought China too many advantages: a security context guaranteed and funded by the U.S. and a less
threatening perception of Chinese imperial aims, which are still well remembered, and feared, by all of
China’s neighbors.
Beijing’s adoption of this policy does not mean that it reacts passively to what it considers to be
provocations. Occasionally, China sends “pointed messages” to the U.S. to undescore the fact that the
Chinese dragon is not a “paper dragon.” This occurred with the ASAT experiment on 17 January, 2007,
when an old weather satellite was destroyed by a Chinese “direct kill” missile. 3 It happened again
when China demonstrated its cyberwar capabilities. Chinese anti-satellite preparedness, which
endangers the space defence system so vital to American military power, continues to raise alarm in
strategic circles. Similarly, a Chinese Song-type submarine approached an American aircraft carrier
group and caused an embarrassed U.S. Navy to have to admit that it had not sighted it in a timely
manner.
The great advantage of the first strategic option, which relies on the exploitation of the security blanket
provided by the American unipolar system, is that it allows the Chinese to carry out their “soft power”
and the “Beijing Consensus” efficaciously. 4 The latter has allowed China to attain huge economic and
political success vis-à-vis ASEAN countries, North Korea and, in general, the entire Third World.
3
Elizabeth Economy, China Missile Message, Washingtonpost.com, January 25, 2007, p. A25.
In contrast to the “Washington Consensus,” which imposes political conditions (such as the defence of human rights) on
economic relations, the “Beijing Consensus” clearly separates economic and political matters and allows China to have
relations with the most ferocious dictatorships, exploiting the competitive advantages resulting from its more “casual”
approach compared to that of the west.
4
Specficially, it has mitigated apprehensions about the rapid growth of Chinese military power and
therefore prevented China’s neighbors from coalescing around the U.S. for protection, thereby creating
anti-Chinese alliances.
With time, China’s attitude is changing. In the tradition of the “Zoellick’s Doctrine,” it is increasing its
participation in international operations backed by the UN Security Council. In addition, China is
beginning to acknowledge that it is thanks to the existence of rules and acceptable standards of
behavior that it can benefit from its foreign investments fully and safely. This has happened especially
in Africa, where China’s support of ferocious and corrupt dictatorships has earned Beijing the
accusation of pursuing a neo-colonialist policy. Furthermore, the invasion of Chinese low-cost
manufactured goods worldwide makes China look like an economic imperialist. The only way China
can defend itself from these charges is by rigorously abiding by the rules of the WTO.
2. The second option consists in decreasing China’s maritime vulnerability and designing a strategy for
the defence of Chinese foreign interests. The vulnerability of Chinese raw materials and manufactured
exports can be decreased, at least in part, with the construction of an infrastructure network that would
end China’s territorial isolation from Siberia and central Asia on the one hand, and from the Gulf of
Bengal and the Arabian Sea on the other. China is surrounded by deserts, mountains and jungles. It is
constructing roads, railways, gasducts and oilpipelines across Myanmar, Afghanistan, Pakistan and
Kazakhstan. The feasibility of a great navigable channel through Malaysia, which avoids the Strait of
Malacca on the north, is under examination. Commercial ports in Myanmar, the Gulf of Bengal and in
Baluchistan on the Arabian Sea are being completed and will provide a base for military ships. Finally,
China has acquired port-rights in Sri Lanka and Bangladesh, and is carrying out work in a number of
the Spratley Islands in order to transform them into bases for use in naval operations taking place
towards the Strait if Malacca.
When this infrastructure will be fully operational, China will be considerably less strategically
vulnerable.
China is rich in raw materials and is capable of satisfying the needs of the PLA, if not of the economy,
in case of a prolonged conflict. In other words, it is not in the same situation as pre-World War II
Japan, which became strangled by the oil embargo imposed by the U.S. in retaliation for Japan’s
invasion of Manchuria.
Notwithstanding all of its possible commitment in the field of “voluntary geographic infrastructure,”
China will remain vulnerable, for two reasons: the lower costs of maritime transportation compared
with land transportation, and the concentration of Chinese industry on its southern and eastern coast.
Therefore, while the option of a lessened vulnerability is certainly important, it cannot be decisive.
Among other things, it will not guarantee the safety and security of Chinese foreign interests, a topic on
which Beijing has apparently not produced any strategic policy statement, except for the abovementioned Chinese propensity to increase its participation in international organizations and its
involvement in peace-keeping UN operations. This choice is aligned with the “doctrine” of Robert
Zoellick, who believes the U.S. should involve China as much as possible in building and managing the
new world order, and that Beijing should become a responsible stakeholder in it.
Nevertheless, China intends to keep all its options open. This explains the ongoing strengthening of its
land forces and the fact that the White Book on Chinese Defence dated December 2006 attributes the
same importance to the mechanization and the informatization of the PLA.
3. The third option involves China’s very long-term decision to challenge U.S. power and to
independently guarantee the protection of its SLOC and foreign interests, including Chinese companies
the Chinese diaspora. To achieve this, China must firstly demonstrate that it can create a network of
international alliances -even before rearming to the point of reaching superiority or at least a reasonable
level of parity with the U.S. This is the most delicate and difficult issue for Beijing. In fact, the two
elements of China’s two-pronged strategy -military strengthening and regional and global cooperationare inherently contradictory. An effort in the domain of “hard power” risks neutralizing a similar one
in the area of “soft power,” an area where China has achieved considerable success. A massive
rearmament, with the development of aircraft carrier and amphibious groups, would immediately alert
China’s neighbors and probably lead them into the arms of the U.S. It is not inconceivable that Russia,
which feels threatened in central Asia and Siberia, would side with the U.S. in an attempt to counter the
Chinese. The SCO (Shanghai Cooperation Agreement) does not represent a strategic alliance between
Moscow and Beijing; it is a means for the attainment of incompatible objectives: Russia sees it as a
vehicle for countering Chinese initiatives and influence in central Asia (and in the Maritime Provinces),
while China views it as a way of gradually increasing its influence in ancient Turkistan, as far as the
Caspian Sea, which has traditionally been under Beijing’s influence.
Naval parity between China and the U.S. and its allies cannot be limited to only one ocean, either the
Indian or the Pacific. It must simultaneously involve both, given the U.S. Navy’s global capabilities
and its ability to act regardless of the availability of bases (it does, however, dispose of bases near
China: in Japan, Guam and Diego Garcia.)
Finally, the construction of a fleet capable of contrasting the U.S. Navy would require generations and
would absorb considerable resources at a time when China faces growing social costs and impending
environmental disasters. 5 Its decision to embark on a major naval rearmament and long-range air strike
capability would trigger reactions on the part of the U.S., Japan, India and the ASEAN States. The
U.S., on its part, will be able to rely on European support far more than in the past: French and British
thinking converge on the issue of providing global support to the U.S., although maybe not on the
concept of a “global NATO.” Even Moscow, which is psychologically conditioned by memories of the
“yellow threat” and the “golden horde,” would be alarmed by the growth of China’s power. In this
case, Russia would, at the very least, remain neutral vis-à-vis Europe, because it realizes that it would
be the real victimof a Chinese victory. A western victory would force Russia to open itself to market
liberalization and to a general Europeanization.
As already mentioned, China is keeping all of its options open. The indecision shown by its strategic
leaders is mirrored in the indecision regarding the construction of an aircraft carrier. To date, China
has purchased four: two from Russia, one from the Ukraine and one from Australia. The latter has
been demolished, the ones from Russia have been converted into floating restaurants and casinos. The
fourth, the Varyag, is under construction in the Yellow Sea. It is still uncertain if it will be made
operational or transformed into a floating leisure center and anchored in a port. Nevertheless, China
has purchased from Russia about 30 fighter-bombers capable of operating from an aircraft carrier. It
therefore disposes of trained naval pilots.
In case of a Taiwan emergency, China does not need an aircraft carrier, because the island’s western
coast is only 110-250 kilometers away from the mainland. Therefore, it is more convenient and safe to
5
Jim Yardley, “As Water Vanishes, Can China Cope?”, IHT, September 28, 2007, pp. 1 and 6.
use land-based aircraft, with the possibility of in-flight re-fuelling. The construction of an aircraft
carrier would clearly signal China’s adoption of a “post Taiwan” strategy. This would inevitably create
apprehension. It would trigger a reaction on the part of the U.S. and the states belonging to China’s
containment belt, which is organized by the U.S. in eastern and southern Asia. Naturally, once China
adopts this policy, it will not be able to stop at one aircraft carrier; it will need at least six-eight. Let us
not forget that India will soon have four aircraft carriers and Japan is building ships that it “modestly”
calls helicopter-carrier cruisers, but that actually are mini-aircraft carriers capable of transporting the
future JSF/F35B.
In effect, China’s adoption of the third option would be reckless. It would be a measure of “last resort”
which, in addition, would not solve its long-term militarily inferiority.
But there are three reasons why China has not abandoned this option. The first is that, on account of its
extraordinary and glorious traditions, China considers itself to be “exceptional” like the U.S. and,
sooner or later, will want to play a greater world role. The second is the growth of anti-Americanism
and of intolerance towards global American hegemony. This affords China interesting opportunities
for filling the gaps left by American power, in the same way that China took advantage of Japan’s
economic crisis in the last 15-20 years. The third is China’s demonstrated ability to take military
initiatives even when it is in a position of great inferiority, as happened in Korea in 1950. Those who
disagree with this third argument believe that Beijing decided to attack Korea only as a result of strong
Soviet pressures it could not ignore.
China’s most probable line of strategic action, then, should be a combination of the first and second
options, perhaps as it waits for the U.S. to wear itself out internally and therefore decrease its presence
in the Asia-Pacific. This, however, is an unlikely event, notwithstanding the disappointment felt by
American public opinion for the prolonged war in Iraq.
China’s current rearmament and the resulting increase of its military budget would, in effect, be
automatic events spurred by economic growth rather than the result of a geopolitical vision of its
future.
Naturally, Beijing’s caution, which borders on acquiescence, could quickly change if it felt humiliated
and pressured by Washington, as happened in 1995, when President Clinton sent two aircraft carrier
groups to the Strait of Taiwan, or if a trade war were to break out between the two countries, which
could be more likely today because of the growing propensity to “bash China” among U.S. Democrats,
who represent the major party in Congress today.
China’s current rearmament is impressive in absolute terms –for the past 15 years it has grown at
approximately 15% per year- but not in relative terms. As a percentage of GNP, the PLA’s budget is
about 1.7%-2.3% (these figures must be viewed with caution, given the difficulty in assessing their
actual purchasing power), compared to the 4% of the U.S. In addition, the technological level of
China’s armaments industry continues to be poor. This, rather than the overall economic situation, is
the single greatest factor limiting Beijing’s ability compete militarily with the U.S. and its allies, at
least in the next two-three decades, regardless of the strategy the Chinese will actually adopt.
2. The Growth of China’s Economy and of the Chinese Defence Budget
The extraordinary growth of the Chinese economy has allowed for consistent increases in the defence
budget as of 1996. Economic growth had very much decreased, in absolute terms and in relation to
GNP, starting in 1979, with Deng Xiaoping’s great reforms. The “fourth modernization,” in the
military domain, was considered to be less important or, at least, less urgent, because of Deng’s threefold belief that the USSR was in the grips of a crisis, that the U.S. was destined to decline and, in any
case, that is was objectively allied to China. In Deng’s, opinion, time was on China’s side. In 1979,
the PLA’s budget amounted to 4.3% of GNP; in 1996, to 1.1%. In 1996, as we have said, the increase
in the PLA’s budget was greater than the increase in GNP. Since then, military expenditures have
regained some strength, reaching 1.7%-1.8% of GNP. With extra budget funds, they now reach 2.3%
of GNP. According to some, the military budget already represents 3% of GNP. As always, data is
manipulated according to one’s objectives and what one wants to demonstrate. Calculations are always
risky and debatable. They should be disaggregated at a lower level. This is difficult to do even with
NATO data. The Pentagon estimates that Chinese military spending is $85-$125 billion, SIPRI
believes it reaches $188 billion, and in Beijing’s official budget, considering the dollar/yen exchange,
funds earmarked for the PLA amount to a mere $45 billion in 2007.
As mentioned earlier, the 1.7%-1.8% refers to estimates in MER, not in PPP; for the PLA, this is
certainly different from the PPP of family consumption as measured by the World Bank. In addition, it
refers to the official budget and, therefore, does not take into account the PLA’s innumerable other
sources of extra budget funding. Some experts 6 have suggested that the most pragmatic way to proceed
would be to double the official budget in order to include both the defence extra-budget funds and the
difference in purchasing power between the dollar and the yen. Notwithstanding its simplification,
this method seems to be the most logical, also because we do not know what the military inflation rate
is, although we can surmise that it is different from what it is thought to be.
These considerations are only relatively important in assessing Beijing’s military power, especially in
terms of its capability to project power abroad. In fact, expenses estimated for the defence of the
homeland –which are based on the concept of a prolonged people’s war- and more specifically those
earmarked for paramilitary forces, should not be considered, although they are certainly capable of
guaratnteeing the defence of the Chinese homeland. On the contrary, mobile forces are poor, as shown
by the defeat experienced by the PLA in 1979, when China attacked Vietnam and, after an initial
penetration, had to retreat ruinously because of the collapse of logistical support.
Assessing China’s actual power projection capability, especially in relation to Taiwan, would be
crucial. This would help us understand the probability of a Chinese armed attack on Taiwan, the
PLA’s ability to contrast a U.S. armed intervention in the island, etc.
It is interesting to analyze the reasons for the PLA’s budget’s initial drop and later increase. The
decrease in the 1980’s was certainly due to the progressive weakening and eventual disappearance of
the Soviet threat. It also stemmed from the primitive state of the Chinese armaments industry (with the
exception of the Information Technology, missile and space sectors). This counselled against filling
arsenals with arms that would have quickly become obsolete from the rapid technological progress of
6
David Shambaugh, Calculating China’s Military Expenditure, Report to the Council on Foreign Relations, New York,
June 25, 2002.
China’s potential adversaries. A third reason originated with the PLA’s global strategy for the defence
of the homeland conceived by Mao Zedong. A technologically superior adversary could not be stopped
with a frontal defence, but only with an asymmetric strategy, which would have resulted in a prolonged
territorial war. The latter would have worn out the enemy to the point of makig him retreat. This
strategy did not require modern arms, but could have been carried out with rustic, light armaments, and
with the possibility of manufacturing one’s own munitions locally, in small quantities and manually. It
was therefore fully compatible with the low technological level of Chinese industry.
China’s geopolitical-geostrategic and technological-economic-financial situation has changed
dramatically in the 1990’s and is continuously improving. The first because of America’s “distraction”
caused by the “war on terror,” and growing anti-Americanism in the world. Beijing is well aware that,
if threatened by its increased military might, Asian states would turn to America. Secondly, China’s
technological level has grown alongside its financial resources, especially after China’s entry into the
WTO. From a geopolitical perspective, the disappearance of the Soviet threat and the lack of other
land threats, have eliminated the necessity of a “people’s war.” They have likewise allowed for a
considerable reduction in the PLA’s organizational apparatus and in the number of on-duty military
personnel. Conscription is still in place, but the army is also comprised of a growing number of
volunteers, which represent about 50% of the total. Elite groups –airborne, amphibious and special
forces- are entirely professional. Priority has shifted to “mobile maritime borders” and to power
projection capability beyong land borders, especially at a regional level, but also in theaters of
operation that are distant from China, including UN-backed peace-keeping operations. From a
strategic-operational perspective, it has therefore become imperative for China to improve the
technological level and strategic mobility of its forces. It has done so with the acquisition of arms and
technologies from abroad and with the consolidation of its military industry, in order to offset its
dependence on imports. This is necessary in order to fulfill its great power status ambition, and to be
recognized as the major force throughout central Asia in the short term, and in all of Asia in the longer
term. China has evolved from a local to a regional power, while maintaining global interests. But from
a geostrategic point of view, there is a big difference between being a regional Asian power and a
global one.
The positive trade balance and the size of currency reserves, the largest worldwide, would allow China
to purchase tens of billions of dollars of armaments every year. 7 If it does not, it is because it does not
consider it necessary, or because it prefers stimulating the growth of a domestic defence industry,
thereby decreasing the dependence of its own armed forces from abroad. In fact, the purchase of
armaments systems was limited to about $1 billion until 2000, and has doubled since then. China is the
largest importer of arms in the world: $12 billion from 1998 to 2005. Imports originate almost
exclusively from Russia. A final reason for China’s limited arms imports (limited in relation to the
needs of the PLA) is that the arms Russia makes available to China are technologically dated compared
to the West’s most modern armaments. On the other hand, large western defence industries, including
those of Japan and Australia, which in the mid-1990’s revoked the 1989 arms embargo against China
triggered by the Tienanmen massacre, do not export to China their most sophisticated and
technologically advanced arms for security reasons and also for fear of American reprisals.
An analysis of the political-strategic implications of a considerable increase of China’s military budget
should be based on the assessment of the actual operational capabilities that would be achieved.
7
Dwight Parking, “China’s Economic Growth: Implications for the Defense Budget”, in Ashley Tellis and Michael Wills
editors, Strategic Asia 2005-2006: Military Modernization in an Era of Uncertainty, Seattle: NBR, 2005, pp. 362-385.
Naturally, this would depend on the areas of investment and on financial priorities. If investments were
focused on “fast cost” areas, including salaries, pensions, health and social insurance, even the impact
of a considerable increase would be negligible. But if investments were made in supply, research and
development and in the improvement of the technological and industrial base, the strategic
consequences would be important. Furthermore, producing armaments in China would create an
acceleration and multiplication effect that would impact China’s overall industry. 8 The spin-off effect
from military expenditure would be especially positive. In fact, one of the major challenges China must
face is the technological improvement of its industry. Today, it is insufficient: the high-tech
component of China’s exports to Europe is only 14%, compared to 54% of European exports to China.
Realistic analyses should also include the efficiency of investments. To this end, the level of
competition existing among companies (at least in relation to systems and subsystems) and the PLA’s
actual freedom to choose its suppliers without social constraints, are crucial. The PLA’s General
Armaments Division has made considerable efforts to introduce elements of competition in the military
industry’s orders, with the aim of stimulating its technological growth and productivity. The
attainment of this objective, however, is very difficult because of the scarce efficiency of state industry
and the inexistence of a military-industrial complex that is subsidized and priviledged compared to the
rest of the economy, as was the case in the USSR. Obviously, an analysis of the effects that a sustained
-and, in effect, lessened- growth of the Chinese economy can have on the defence budget is unfeasible
and unreliable. Inflation growth, on the other hand, could make a difference. Inflation has started
rising and reached 6.5% by mid-2007, forcing the Chinese Central Bank to take drastic steps. It could
block high increases in military spending, which is inflationary by nature. Military expenditures inject
money into the market, thereby stimulating supply, but do not make available products that have a
calming effect on prices. Interest rates have increased almost by two points, resulting in more selective
investments and consumption.
Rather than focusing on its armed forces, China is currently strengthening its position in the mining
industry and in the trade of manufactured good. To this end, it recently decided to invest $200-$300
billion, which represent one sixth of China’s currency reserves, to purchase industrial assets overseas.
This operation could have the purpose of decreasing the vulnerability of its considerable currency
reserves in the face of a possible drop in the value of the dollar. But one wonders what effect an
operation of this magnitude would have on the structure of the world economy and on the dependence
that many countries would develp on China. This would certainly have an enormous impact if it were
inspired by a precise strategy aimed at increasing China’s political-strategic influence, and not if it
were driven by economic considerations. For this reason, following in the footsteps of the US and
Germany, almost all western countries have placed conditions on the acquisition by China (as well as
Russia and other oil-producing countries) of their domestic companies. China already represents the
center of gravity of eastern Asia’s industry; by assembling components and sub-systems produced in
the region, it could play the same role on a global level. It could also improve its technological base
through a selective acquisition policy of companies which have the technologies it needs. Naturally,
the U.S. and the west in general would not allow this. Protective measures on their part have already
triggered a Chinese and Russian counter-reaction, which limits western investments in these two
countries. In the short term, an “economic war,” which is much more likely than a military
confrontation, is already developing especially in Africa and South America, while it is evolving in
central Asia between China and Russia.
8
Fabio Pamolli, Andrea Paci e Massimo Riccoboni, Sicurezza, Innovazione e Crescita, AREL- Il Mulino, Bologna, 2004.
Beijing would increase its economic and, consequently, also its political influence worldwide by
creating dependencies which other countries could not afford to ignore, rather than by conquering them
through the purchase of economically strategic assets. It is no coincidence that many governments,
including European ones, have defined the technological-industrial sectors they feel need to be kept
domestic in order to protect their economies from the massive acquisitions that China and Russia are
able to conduct thanks to their extensive reserves. The measures taken are similar to those that the U.S.
adopted vis-à-vis Japan in the 1980’s (notwithstanding the fact that Japan was its crucial ally).
It is only logical that in the face of such a potential industrial-financial tsunami, other countries especially Europeans ones, which are more exposed and vulnerable- would determine which sectors of
their economies cannot be put up for sale. 9 These measures should be coordinated between the U.S.
and Europe.
Identical policies to this end must be adopted especially within the EU by member states. Huge
Chinese, Russian and Arab investments could profoundly change the international division of labor,
inflicting a mortal blow to states that have not adapted their structures and norms to the new challenge.
Some countries, including Germany and Sarkozy’s France, are examining the problem and creating
bodies to design and manage policies in these fields. Some experts see these steps as sewing the seeds
for a very real and tough economic war, although it would be carried out within the framework of
international law and especially of the WTO. Individual countries’ protectionism would inevitably
increase, thereby damaging overall globalization and its beneficial effects. This would probably occur
starting in 2008, with the expiration of the measures protecting European markets, which were agreed
to by China and the EU. Proposals of “high tech Colbertism” advanced in Italy seem to be justified. A
National Economic Council should exist alongside a National Security Council to coordinate economic
security policy (including both active and passive measures), starting with energy issues and
encompasing high tech industries.
The “new game” for world supremacy will therefore be achieved only through “soft power” and the
use of economic-financial means. For this reason, the increase of China’s military balance should be
considered of marginal importance and certainly not decisive.
Only the U.S. can counter the Chinese economic offensive. Although Europe has surpassed the U.S. in
the volume of trade with China, the U.S. alone can continue imposing on China burdensome conditions
in order to limit any damage to America’s autonomy. The U.S. and China are greatly interdependent:
China exports to the U.S. masses of low-cost products and low level technology (except for
components exported first to China by the U.S. and other ASEAN countries) but uses part of the
income to buy U.S. Treasury Bonds, thereby giving American consumers the possibility to keep
buying Chinese products. If this virtuous cycle (it can also be seen as a vicious cycle, given the size of
the U.S. deficit) came to a halt, a world economic crisis would result, and only the U.S. and China
would survive (Russia might also survive thanks to its raw materials). This in turn could either produce
great tension between Washington and Beijing or a strengthened cooperation. The latter is more likely,
as implied by the conclusions of the USA-China Economic Strategic Dialogue Forum held in mid-May
2007. 10 Rather than creating a bipolar world, this eventuality would generate a Chinese-American
“imperial duopoly.” This possibility is taken seriously in Tokyo, Moscow and New Delhi. It is instead
9
Francesco Scisci, Chi ha paura della Cina?, ed. Le Grazie, Milano, 2007.
China, US: The Strategic Economic Dialogue as a Tool for Managing Relations, STRATFOR, May 22, 2007.
10
almost completely ignored in Europe, although it could become very influential in the future of the EU.
Chimerica is an increasingly likely event. A world economic crisis could accelerate its birth.
3. The Relativization of Chinese Military Budget Increases
Increased military spending translates into greater political-strategic capabilities only if military power
is actually exploitable and answers specific strategic needs. The purchase of superior aircraft and blue
water ships in the event of a “people’s war” (or a strategy that only envisions participation in peacekeeping missions) would only marginally increase military capabilities and result in any political
relevance.
On the contrary, increased military spending would prove to be highly effective if it were aimed at the
capability to project power abroad in high-density and high-technology air and land operations, and
against an enemy with highly technological forces. Therefore, as we said earlier, rather than analyzing
the increase in the military budget, one should examine the increase of the various components,
differentiating between “fast expenses,” which are short-lived, and “slow expenses.” The latter have a
cumulative effect on the entire time that an arms system is in service and its technology remains
operationally effective. It is impossible to conduct this kind of analysis because of the low level of
disaggregation of the Chinese military budget. Beijing’s recent promise to the UN to increase the
transparency of its military budget should make this easier in the future.
The size of the military budget is an insufficient indicator of a country’s military capabilities and
especially of its strategic intentions. They depend on the priorities given during the allocation of funds,
on the symmetric or asymmetric doctrine one wants to pursue and on the geopolitical context in which
one operates. In the case of China, a decisive factor is the economic and political cost it will have to
pay in the event of a military confrontation -even a limited one- against the U.S, for example in
Taiwan or by simply abandoning its “smile policy” and “peaceful development policy.” This would
trigger an anti-Chinese reaction and lead all eastern and southern Asian countries into the American
camp.
China could choose between two options: the first is to continue pursuing its current strategy of
“peaceful development,” thereby avoiding major contrasts and confrontation with the rest of the world,
and especially with the U.S. In this scenario, the Chinese military budget would gradually increase
from today’s 1.7%-2.3% to 3%-3.5%, in order to maintain the current balance of forces in the AsiaPacific system. Considering that in the next 5-10 years the Chinese economy will grow on average at
7% per year, the GNP will increase by 40% in 5 years and will double in 10 years. The PLA budget
(reference is made here to the official budget, which was $45 billion in 2007), should reach $100
billion by 2012 and about $140 by 2018, if the current yuan-dollar exchange rate (7 yuan to one dollar)
remains substantially unchanged. The Chinese defence budget would reach $200 billion in 2012 and
$280 in 2018 if it were calculated in PPP (with reference to the Pentagon budget) and if the “doubling”
rule were applied.
The worst case scenario would consist of a global military confrontation with the U.S. and its allies as
well as an arms race by the Asia-Pacific system. In this case, China could increase military
expenditure to about 5%-6% of GNP without much impact on its economic growth. That would raise
the PLA’s budget to about $150 billion in 2012 and $250 in 2018. The fact that such a great increase in
military spending would not affect economic growth is due to the size of underutilized productive
factors such as work force and capital. In fact, this increase could actually stimulate growth rather than
restrain it. There would therefore be no contrast between “butter” and “cannons.” On the contrary, if
limited to certain Chinese macroeconomic factors, it would result in a “win-win strategy,” similar to
that pursued by south Korea in the 1960’s. But this is an unlikely course, 11 given the unsatisfactory
technological level of China’s armaments industry and the limited size of a highly specialized work
force, which is necessary not only for a a modern armaments industry but also for the development of
technologically advanced Armed Forces. The unlikeliness of this option is also driven by the negative
economic, political-social and international repercussions that a confrontation with the U.S. would
have. Although it would absorb the consequences of an increase in military expenditures and might
even benefit from it, the Chinese economy could suffer indirectly. This would result in a nationalistic
attitude towards its neighbors and the U.S., and would lead to protectionist reactions and to interference
and obstruction of China’s use of the SLOC, that are so indispensable for the supply of raw materials
and trade.
Countries belonging to eastern and southeast Asia would block their investments in China and would
withdraw their money from Chinese banks. They would try to diversify their trade relations,
redirecting them especially towards India, which would thereby benefit industrially.
This would have disastrouns effects on Chinese exports and on power relations in Asia, and would
further heighten competition between Chin and India.
The U.S. and Europe would limit their consumption of Chinese products and would adopt protectionist
measures which, incidentally, have been demanded by Congress and the EU on various occasions.
Europe would also suffer as it carried the weight of the likely depreciation of the dollar. Other
economic actors including south America, Russia and the Middle East would not be able to help solve
the global economic crisis that would surely follow.
China’s economic situation would further worsen with the imposition of a naval blockade by the U.S.
and its Asian allies. It would badly hurt the Chinese economy especially if it were aimed at energy
supplies, 12 given China’s growing dependency on energy imports from the Gulf, Africa and south
America. China’s energy vulnerability is destined to worsen, notwithstanding Beijing’s efforts
(including a $20 billion investment) to develop a road and rail communication network that would help
diminish its dependence on the sea. 13 Only 1% of Chinese trade takes place on the “silk route.”
China’s long-term objective is to increase that to 15%. The attainment of this objective would have an
impact on China’s global strategy but would not be able to change it substantially, partly because of the
lower cost of maritime transportation compared to land transportation.
4. Concluding Remarks
The fundamental objective of China’s political leaders is to maintain the Communist Party in power.
This requires sustained economic growth and, therefore, a laissez-faire economy, which today is among
the most open and globalized in the world.
11
Drew Thompson, “China Flexes its Limited Muscles”, Financial Times, September 5, 2007, p. 11.
Robert D. Kaplan, “How We Would Fight China”, The Atlantic Monthly, June 2005, and Robert S. Ross, “Assessing the
China Threat”, in The National Interest, Fall 2005, pp. 81-87.
13
Raphael Minder and Isabel Gorst, “Rebuilding of Historical Asia Trade Route Agreed”, Financial Times, September 19,
2007.
12
Their second objective is to have China regain the role it traditionally played in Asia, and extend it to
the rest of the world. Geopolitically, China has already evolved from a local to a regional power and is
also adapting to the requirements of becoming a political-strategic global power. For example, it is
increasing its participation in UN operations. China’s economic influence, which is already global, is
driving its political influence.
The fulfillment of both these objectives relies on continuous and consistent economic growth. This is
necessary also to ensure the well-being of the population and guarantee internal cohesion. Without
these premises, the PCC’s legitimacy would be eroded. It would have to resort to nationalism and
repression, thereby abandoning its strategy for a “harmonious” society. In the current regional and
global scenario, China can attain these objectives more easily with “soft power” 14 than with an
aggressive policy or a hastened rearmament, which would inevitably have a “boomerang effect.” “Soft
power” has afforded Beijing considerable successes, especially at a time when the U.S. is distracted by
the “war on terror” and pays little attention to China’s growing commitment in the Gulf, Africa and
south America. China’s influence has also increased in central Asia, where Beijing has turned to the
SCO (Shanghai Cooperation Organization) to counter the secessionist and terrorist tendencies of the
Uigure minority in the Xingiang and to access the important energy resources of the region via land
routes. The Chinese believe this area belongs to their traditional region of influence. The “silk route,”
which has now become the “oil route,” extends from the Xingiang to the Caspian Sea. This inevitably
hinders cooperation between Russia and China, since Moscow too wants to have control of raw
materials in central Asia. Russia fears being ousted from the region by China and consequently losing
control of resources. It also fears Chinese pressure on eastern Siberia. It would prefer that energy
supplies heading to China transit across Russian soil and be transported by the Russian energy
companies, Gazprom and Rosneft. This is the major bone of contention between China and Russia,
and it surfaced clearly during President Hu’s visit to Moscow: agreements on energy supplies and
armaments, which had been approved at the technical level, were not signed. It is likely that tensions
between Moscow and Beijing are a result of China’s demographic and economic pressure in eastern
Siberia and in the Maritime Provinces as well as of the competition for energy resources in central
Asia. For this reason, the SCO is severely limited. It will not become a Eurasian alliance. It can
replace the APEC or the SED (Strategic Economic Dialogue) between China and the U.S. The
possibility of “Chindia” is also a myth. The two Asian giants are structurally inclined to compete, not
cooperate. Beijing’s support to Islamabad and the increase in Islamic and secessionist terrorism in
India, coupled with the strategic accord between India and the U.S., further worsen relations between
the “Indian elephant” and the “Chinese dragon.”
The most probable geopolitical scenario is
“Chimerica” (China and America), resulting from the conclusion of fundamental agreements between
China and the U.S. aimed at developing and then managing the new world order based on
globalization. The 21st Century will not be an Asian, but a Pacific century, characterized by American
preeminence.
Even the most accurate hypotheses about the growth of Chinese military capabilities have limited
importance, at least for the next two or three decades. Chinese economic power will be more
dangerous than its military might because it will increase Chinese influence worldwide.
It is not economic considerations that are restraining the great growth in China’s military budget but the
backwardness of the Chinese armaments industry (except in certain asymmetric sectors such as ASAT,
cyberwar and underwater capabilities). Beijing’s determination to avoid contrasts with the U.S. and to
14
Gill Bates and Yanzhong Huang, “Sources and Limits of Chinese Soft Power”, Survival, Summer 2006, pp. 17-36.
frighten its neighbors, which would neutralize all benefits reached to date through the use of “soft
power” further explain its decision to hold back on military growth.
An exception to this is the issue of Taiwan, which touches the most sensitive chord of Chinese pride
and prestige or, as Tucydides said, of its “national honor.” Pragmatism has always prevailed in other
fields which could potentially trigger American resentment. This attitude is fuelled by a reasonable
analysis of the economic costs of a possible conflict and of the reactions of China’s neighbors.
Beijing demonstrated this flexibility in the case of the US-BMD bombing of the Chinese Embassy in
Belgrade, of the EP-3 landing in Hainan, of the Iraq war, etc. China’s moderation in these instances
did not only stem from the awareness of its military inferiority, of its vulnerability in the face of U.S.
economic sanctions and of its focus on huge social, economic and environmental problems. 15 It is the
result of a very rational and sophisticated line of thinking, which was clearly stated by president Jiang
Zemin in 1995 and was later confirmed by President Hu Jintao, and aims to develop a “harmonious
society” domestically, and to strengthen Chinese capability, power and influence in the world,
foremostly in Asia. 16
This strategy is based on the belief that time is on China’s side and that important advances can only be
achieved through “soft power,” and not through the potential or actual use of force. In the event of
direct military confrontation, China will not be able to counter the military superiority of the U.S. and
its allies in the western Pacific and the Indian Ocean, at least for the next couple of decades.
Hypotheses of a military confrontation between Beijing and Washington do not take into account the
latter’s ability to profoundly impact China by, for example, threatening it with embargoes or
implementing protectionist measures. Rather than triggering a military reaction, a strong Chinese
rearmament could lead the U.S. to attack China where it is most vulnerable: in the economic field.
U.S. emotional reactions vis-à-vis China (generally referred to as “bashing China”) are much more
likely now, with a predominantly Democratic Congress, and would be similar to the “bashing Japan”
policy of the 1980’s. In short, collaboration with the U.S. is convenient for China. It may be the only
way for China to become a global great power in the second half of this century.
China has the financial means necessary for a major rearmament. Paradoxically, whether this will
actually translate into the actual growth of military capabilities does not depend on sustained economic
growth. Instead, it could be driven by an economic crisis threatening the power base of China’s ruling
class. In that event, it would be forced to stimulate nationalism and would probably shrewdly tap
national pride by reminding the Chinese of the “century of humiliations.” Finally, it would likely
utilize external successes to consolidate its domestic legitimacy. This would result in the abandonment
of the “peaceful development” policy and the adoption of an aggressive stance extending from Taiwan
in the south China Sea perhaps as far as the Sekudu Islands further north. In all cases, Beijing would
inevitably provoke harsh reactions on the part of the U.S. and Japan and probably of India and the
ASEAN countries.
This is another good reason for inducing China to become an authoritative and responsible actor of the
new international order, according to the “Zoellick Doctrine.”
15
16
Kay Moeller, “The Beijing Bluff”, Survival, Jan-Feb 2007, pp. 137-146.
Francis Fukuyama, “Re-Envisioning Asia”, Foreign Affairs, Jan-Feb 2005, pp. 75-87.
This is not only in the interest of China but also of the U.S. The sine qua non for the creation of a new
bipolar order based on cooperation and not on competition, as happenend in the past, is in place. A
direct Chinese-American confrontation could become possible only in the next 20-30 years. Only the
unlikely precipitation of the situation in Taiwan could modify this outlook. But all indications point to
the fact that the island’s independence movement can be kept in check. First of all, because of
American pressure. Washington has confirmed its support of China’s principle of unity and of the need
for Taiwan to be peacefully reunited to the mainland. It has energetically advised Taipei not to
provoke Beijing, has doubted an American intervention in defence of Taiwan and encouraged it to
increase its self-defence capabilities. It is no wonder, then, that the Pentagon and the White House
voiced strong protests when Taiwan refused to increase its defence budget and declined to acquire
about ten diesel submarines which would be crucial to counter a naval blockade by the PLAN and to
guarantee sea control of the Taiwan Strait (which, in turn, would be crucial in providing logistical
support in case of an amphibious invasion).
On the other hand, Taiwan’s entrepreneurial and commercial interests with China, and the “patriotic”
interests of the Kuomintang Party, which is drawing increasingly close to China, make a potential
worsening of relations with China very costly. Beijing is pursuing its objective of isolating Taiwan
internationally calmly and cautiously, but with great determination. Internally, it is supporting antisecessionist forces, eroding the authority of President Chen and backing the retun to power of the
Kuomintang.
Naturally, one should view China’s growing military capabilities with hesitation, especially in the
technological field, where current embargoes must be kept in place. This is particularly true in relation
to technologies used in power projection. This objective will be difficult to fulfill. The EU is
pressuring the U.S. to not oppose lifting Europe’s arms embargo to China, which would have probably
already been lifted if China had not approved the “anti-secession” law in 2005. Furthermore, the
transfer to China of U.S. and European high tech company subsidiaries makes it increasingly difficult
to control “dual use” technologies, which can generate a “spin-in” that would automatically benefit the
Chinese military industry. This would defeat the purpose of the embargo, prolonging American global
strategic superiority, which is at the base of the unipolar order that is criticized by many, but whose
maintenance is in everyone’s interest. It is especially in the interest of China, which greatly benefits
from it.
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