Numero Febbraio `11 - Il Mucchio Selvaggio

Febbraio '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Febbraio '11
Numero Febbraio '11
EDITORIALE
Quello che avete sotto gli occhi è un numero particolarmente ricco di “Fuori dal Mucchio”. Al
suo interno trovano infatti posto una trentina abbondante di recensioni e otto interviste – più
una segnalazione in “Dal basso” – che, una accanto all’altra, danno vita a un affresco quanto
mai ricco e movimentato di ciò che avviene nell’underground musicale italiano. Esordienti
assoluti vanno fianco a fianco a veterani, hip hop e blues cedono il passo a indie-rock e
progressive, l’emocore va a braccetto con l’elettronica più ricercata e la canzone d’autore
con la psichedelia. Insomma, mai come questa volta ce n’è davvero per tutti i gusti.
Rompiamo quindi gli indugi e, senza perdere altro tempo, vi lasciamo a una lettura che,
naturalmente, ci auguriamo possa essere interessante e stimolante, nonché foriera di buoni
ascolti.
Aurelio Pasini
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Black Friday
Superduo formato da Adriano Viterbini alla chitarra (Bud Spencer Blues Explosion) e Luca
Sapio alla voce (Accelerators, Quintorigo), i Black Friday stanno riscuotendo consensi
sperticati lì dove credevamo che il blues non avrebbe più messo piede, soprattutto se così
scarno e vicino alla tradizione: in parole povere stanno “inoculando il germe” alle platee più
improbabili e disparate senza che queste se ne rendano conto, febbrilmente ipnotizzate
davanti a sciabolate di bottleneck vecchie di quasi un secolo. Ne abbiamo parlato a bicchiere
pieno – di acqua, altro che Moonshine – prima di un concerto bolognese che, manco a dirlo,
ha fatto faville.
Chi ha ancora voglia di ascoltare il Sacro Verbo di Blind Willie Johnson, oggi?
Molta più gente di quanto non ci si aspetti. Ai nostri concerti ci capita di vedere persone di
tutte le età: da chi ascoltava blues negli anni 60 a ragazzi che non hanno ancora finito le
superiori. Incredibile vederli così giovani che ti vengono a parlare di Skip James o Charley
Patton: per noi sicuramente un grande motivo di orgoglio!
Parliamo della scaletta di Hard Times: c’è un Son House – che era già selvaggio di
suo – riproposto con la stessa veemenza, ma anche un Robert Johnson decisamente
rivisto, nonché un magnifico James Carr in salsa Delta...
Abbiamo semplicemente cercato di assecondare il nostro amore per la black; il che non vuol
dire necessariamente blues. Ad esempio, se parliamo di soul, dal vivo mettiamo spesso in
scaletta una nostra versione di “A Change Is Gonna Come” di Sam Cooke. Sotto questo
punto di vista è stato particolarmente proficuo poter lavorare con Alberto Castelli (già
manager dei Bud Spencer Blues Explosion, nonché storico ex-collaboratore del Mucchio,
Ndr) e la Ali Buma Ye! Records: gente che condivide con noi l’amore per questa musica e
l’idea di portarla ancora in giro. “The Dark End Of The Street” di James Carr, oltretutto, è
fondamentalmente un pezzo molto blues se si guarda al testo: due amanti e un amore
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peccaminoso. Poi, per dire, abbiamo inserito anche “School” dei Nirvana, che non ha niente
a che vedere col resto, se non fosse che per noi Kurt Cobain è forse davvero l’ultimo grande
uomo di blues.
Vi è balenata l’idea di inserire anche altri pezzi che non c’entrassero nulla con la
tradizione blues e soul riarrangiandoli completamente? Avete incluso “In The Pines”,
per esempio, che pur essendo un traditional è sovente accreditato a Leadbelly ma
assai più noto nella versione acustica dei Nirvana col titolo “Where Did You Sleep
Last Night” (ed è in questo mood che Luca la canta, infatti).
Sì, qualcos’altro sulla stessa linea c’era – avevamo pensato anche ai Sex Pistols – ma poi,
per una cosa o per un’altra, non è finita sul disco. E’ in questo senso che ci piacerebbe
lavorare molto in futuro: già adesso, durante i concerti, rifacciamo “Jealous Guy” di John
Lennon rivista secondo i nostri canoni, e l’esperimento, stando alla risposta del pubblico,
parrebbe dare ottimi risultati. Nessun limite insomma.
Se per Adriano è stato relativamente più semplice trovare un modo di variare le parti
di chitarra senza andare “fuori dai binari” (e svolgendo, allo stesso tempo, un ottimo
lavoro), Luca vocalmente non poteva osare poi molto con mostri sacri del calibro di
“Hard Time Killing Floor”, eppure quello che ne esce è molto più di una semplice
cover. Come vi siete mossi in questo senso?
In realtà abbiamo cercato di porci meno problemi possibili. Abbiamo capito che rimanere
filologicamente troppo ancorati agli originali – per quanto è di capolavori che stiamo parlando
– avrebbe avuto poco senso. Io (è Luca a parlare, Ndr), per esempio, non ho rispettato tutte
le pause né cercato di replicare le inflessioni delle voci (come il falsetto di Skip James),
assecondando piuttosto il mio personalissimo modo di sentire il pezzo. Per quanto riguarda il
lavoro alla chitarra (prende la parola Adriano, Ndr) tutto è stato molto naturale:
fondamentalmente mi sono fatto le ossa sul blues, quindi muovermi partendo dai lick di Son
House o Charley Patton mettendoci del mio non ha rappresentato affatto una grossa
forzatura.
Che strumentazione avete usato in studio; e cosa vi portate dietro dal vivo?
I fondamentali: una chitarra acustica, un dobro e, solo nei live, una reso-lectric. Per cantare
basta il microfono...e qualche dettaglio che sarebbe un peccato svelare.
Incidere un album come “Hard Times”, in questo periodo in cui per la musica sono
davvero tempi duri – soprattutto per come la intendete voi (e noi) – è una magnifica
presa di posizione o, visto un lento ma felice sdoganamento del blues ad opera di
loschi figuri come i Bud Spencer Blues Explosion, pensate che possa aprirsi qualche
spiraglio di luce?
Con il successo di gruppi quali i White Stripes o i Black Keys, il blues pare aver ritrovato un
suo spazio che, a differenza di tempo addietro, non è necessariamente legato alle dodici
battute in stile Chicago. Se fino ad una decina di anni fa, quando si parlava di blues
venivano fuori sempre quei nomi – Eric Clapton, B.B. King e Stevie Ray Vaughan – ora le
cose sembrano essere un po’ diverse; tanto che anche il circuito cosiddetto “alternativo” ha
iniziato a mormorare di Delta e crocicchi vari. Visto che è la musica che amiamo, la nostra
speranza è che le cose seguano questo corso, contribuendo quanto più possibile a non
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relegarla in un limbo di pochi appassionati. Per il resto, chi vivrà vedrà.
I Black Friday rimarranno una parentesi isolata – dati i vostri molteplici impegni su
più fronti – oppure avete intenzione di dargli un seguito, se tutto va bene?
Abbiamo pensato ai Black Friday come un gruppo vero e proprio, non un side project o roba
simile. Vista la bella accoglienza che abbiamo ricevuto dalla stampa di settore e sui palchi
che ci hanno ospitato, dare un seguito a “Hard Times” è molto probabile e, ovviamente, ci
farebbe un immenso piacere.
Contatti: www.myspace.com/theblackfridayband
Carlo Babando
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Buzz Aldrin
Un suono ossessivo, a tratti catacombale, in grado di evocare spettri - benevoli – di new
wave e post punk ma senza restare imprigionati in un passato rivisitato: questo il contenuto
dell'esordio omonimo (Ghost-Unhip/Venus) dei Buzz Aldrin, formazione bolognese che
abbiamo intervistato.
La vostra ragione sociale viene spesso identificata con una sorta di "sindrome
dell'eterno secondo": mi sembra implicita la consapevolezza, anche un po' ironica, di
proporre una musica che certamente non punta alle classifiche, lontana dalle mode e
da "quello che tira".
L'idea del nome Buzz Aldrin ci è venuta dopo aver letto il romanzo di Johan Harstad. ci
piaceva per due motivi, sia per un gusto puramente estetico-sonoro, sia per il concetto
dell'eterno secondo, in più l'idea di iniziare tutto il nostro percorso creativo partendo dallo
spazio ci offriva molti spunti creativi e tematici. Siamo persone adulte e con alla base le
nostre esperienze passate, quindi siamo consapevoli che quello che stiamo facendo non
potrà mai farci arrivare alla ribalta, non ci interessa la "fama" ma ci interessa fare buona
musica, di spessore, senza pensare a generi, noi suoniamo quello che ci diverte suonare,
non vorremmo sembrare integralisti ma amiamo la musica e ci crediamo e quindi cerchiamo
di essere il più coerenti possibile con le nostre idee e i nostri valori. Per quanto riguarda le
mode, le conosciamo, abbiamo modo di confrontarci con esse tutti i giorni e senza risultare
spocchiosi ce ne te teniamo alla larga, non fanno per noi, le troviamo spersonalizzanti e
omologano qualcosa che non dovrebbe essere omologato.
Nonostante siate lusingati dall'accostamento a certi nomi della prima new wave e del
primo post punk, mi pare che ci teniate a prendere un po' le distanze – legittimamente
– da quei riferimenti. Al di là dei riferimenti stilistici, però, mi pare che ad accomunarvi
a certi gruppi e certe situazioni sia la modalità con cui forgiate canzoni e atmosfere
sonore: la costruzione in divenire, l'idea di forgiare qualcosa attraverso la pratica
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costante, gli errori (che possono non essere più tali ad un certo punto), l'affinamento
di una materia grezza. Vi riconoscete in questa lettura?
Sicuramente i generi da te citati rientrano tra i nostri ascolti, e il paragone ci può stare, ma
non ci piace essere considerati il clone o lo scimmiottamento di qualcuno, ci piace sapere
che abbiamo una nostra personalità, la quale viene fuori anche nelle nostre canzoni. Ci
riconosciamo sicuramente, gli errori voluti sono realmente voluti, e come dici non sono errori
dal momento che li facciamo intenzionalmente, materia grezza sì...la nostra musica è
sanguigna ed è sudore...ma pur sempre con uno studio e un lavoro dietro che ci portano a
raggiungere il risultato che abbiamo in mente.
Non siete più dei ragazzini e avete alle spalle esperienze in vari gruppi. Qual è stata la
molla che vi ha spinti a creare un gruppo che, lo si percepisce ascoltandolo, sembra
volersi giocare tutto, mettersi pesantemente in gioco come magari non si era mai
riusciti a fare prima? Qual è il terreno comune su cui vi siete incontrati?
È vero ci stiamo giocando tutto...anche se abbiamo ancora molto da dire, forse appunto
perché non siamo più ragazzini, e non essendolo più alle spalle abbiamo un passato di
esperienze che ci hanno fatto crescere, maturare e fatto diventare quelli che siamo ora. In
più c'è chimica, armonia e feeling, che abbinata appunto con il nostro passato ha fatto sì che
i Buzz Aldrin suonano quello che sono ora.
A quanto mi pare di capire, il luogo in cui avete inciso, lo studio Outside Inside, ha
avuto un ruolo decisivo nel dare corpo e personalità al disco, è quasi un elemento,
uno strumento in più. È una impressione corretta la mia?
Correttissima, premettendo che la nostra dimensione ideale è il live e che per noi il suono è
un elemento fondamentale nella nostra musica, lo studio e il fonico (Nene, bassista dei
Movie Star Junkies) sono stati scelti accuratamente per ottenere quello che avevamo in
mente, un disco che pur rimanendo tale suonasse il più possibile come un live. Abbiamo
registrato interamente a bobina senza ausilio di computer; per quanto riguarda Nene,
l'abbiamo scelto perché essendo prima di tutto un amico avevamo stima reciproca a livello
lavorativo, e sapevamo che con lui saremmo riusciti a tirar fuori il suono e il mood che
volevamo, senza bisogno di troppe parole.
Nove brani, poco più di mezz'ora, mi sembra che ci sia una precisa scelta anche a
livello di immediatezza, di brani molto brevi e diretti, di voler dire la vostra senza
orpelli e con la massima sintesi possibile...
La durata del disco è stata una scelta presa a priori, nel senso che volevamo un disco
diretto, immediato, breve e intenso, del resto è ciò che ci caratterizza anche nei live.
Contatti: www.myspace.com/buzzaldringroup
Alessandro Besselva Averame
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Giulia Villari
All’esordio con il riuscito mini “River”, prodotto da Rob Ellis, la songwriter romana dimostra di
saper destreggiare sonorità rock e parole in inglese con sorprendente fermezza,
coinvolgente energia. In fiduciosa attesa di ulteriori sviluppi, ecco il nostro interessante
scambio di mail.
Come hai conosciuto Rob Ellis e come è stato lavorare con lui? Il suo sound ruvido e
scarno è ben noto, ma non va mai a discapito della palese cura riservata a tutte le
canzoni.
L’ho conosciuto grazie ai Marlene Kuntz. Era in studio con loro per curare alcuni
arrangiamenti di “Bianco sporco”, l’album del 2005 a cui ho partecipato come seconda voce
in “Bellezza”. Siamo rimasti in contatto e ho cominciato a spedirgli tutto quello che facevo.
Dopo anni di mail e incontri, all’improvviso ho ricevuto un suo SMS nel quale mi diceva che
era pronto a lavorare sui miei pezzi. È stato un sogno diventato realtà: Rob è il produttore di
alcuni dei dischi che ho amato e ascoltato di più! In “River” penso che il suo lavoro sia stato
soprattutto quello di tirare fuori il meglio dalle performance e dalle canzoni: piuttosto che
aggiungere, infatti, ha preferito sistemare e concentrare. Credo che - al di là dei suoi gusti
personali, sicuramente orientati verso il rock‘n’roll anni 60 e 70 - questo sia in generale il suo
modo d’intendere la musica e il filo conduttore delle tante, diverse produzioni che ha fatto.
Per una giovane rocker è facile essere paragonata immediatamente a un’apripista
come PJ Harvey, specialmente la PJ Harvey di “Dry”, prodotto dallo stesso Ellis, e
“Rid Of Me”. Che ne pensi e quali sono i tuoi reali punti di riferimento?
PJ Harvey è un punto di riferimento per molte cantautrici. Ha saputo rinnovare, seguendolo,
quel rock al femminile che ha avuto altre grandi protagoniste, come Patti Smith per esempio.
Ma io ho amato soprattutto “Stories From The City, Stories From The Sea” più che gli altri
album che hai citato. Mi piace quel disco perché è profondo, poetico, serio ma non triste. La
vera folgorazione l’ho però avuta a quindici anni per Ani DiFranco: una grande musicista che
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si è fatta da sé, un esempio da seguire. Devo ammettere che per molto tempo mi sono
dedicata quasi esclusivamente all’ascolto di cantautrici donne e che solo ora sto
cominciando a scoprire l’altra metà dell’universo. A parte i nomi sopra citati, comunque, a
me piacciono i grandi classici: Beatles, Led Zeppelin, Bob Dylan, Jefferson Airplane e anche
Wilco. Questi sono i nomi che ascolto tutti i giorni.
Si può dire che, a parte Carmen Consoli e Cristina Donà negli anni 90, il panorama
italiano non abbia mai proposto molte songwriter rock. Oggi mi viene in mente
Simona Gretchen e poche altre. Pensi supereremo mai una simile differenza rispetto
all’estero?
Posso dire che in generale per una donna non è facile scegliere di fare la cantautrice e
riuscirci. Per tanti motivi. In Italia siamo sicuramente molto indietro, ma non so se all’estero
la situazione sia tanto più rosea: in Inghilterra ad esempio, dove si è fatto tanto per la parità
dei sessi, si è arrivati da poco ad avere un vero movimento di cantautrici. Ne parlavamo
proprio con Rob l’ultima volta che sono stata a Londra. Nel mio piccolo, posso dire che tento
sempre di salvare la mia femminilità anche nel modo in cui lavoro e nei rapporti con le
persone con cui collaboro. Noi donne abbiamo tante qualità di cui dovremmo sentirci
orgogliose: tra le altre, anche il senso pratico.
Ti sei mai posta il problema della scelta, anche alla luce delle considerazioni della
precedente domanda, fra cantato in inglese e in italiano?
Alla scelta ci sto pensando adesso. Fino a oggi ho fatto semplicemente quello che mi
sentivo di fare, senza pensare a un obiettivo da raggiungere. L’italiano è una lingua che amo
molto, che studio (mi sto laureando in Filologia), che uso per scrivere poesie. Ma l’inglese,
oltre a essere la lingua di parte della mia famiglia, è per me la lingua della musica. Scrivere
in inglese e soprattutto saper cantare pronunciandolo correttamente, può aprire le porte per
l’estero. Dove sappiamo però, che è anche difficile imporsi da “straniero”. Consiglio
comunque a tutti di provare l’esperienza di andare a suonare fuori dai nostri confini: il
pubblico è molto diverso e spesso davvero gratificante.
Che rapporto hai con la chitarra, che tieni in spalla persino nella copertina del disco?
Come sei passata dal background jazz alla forma-canzone in ambito pop-rock? Hai
iniziato a scrivere canzoni dal 2004: come hai lavorato nell’arco di questi anni allo
sviluppo del tuo repertorio?
Tre domande in una! Andiamo per gradi. La chitarra è come un’amica per me: qualche volta
litighiamo, ma in fondo ci vogliamo sempre bene. Il jazz è tuttora una mia grande passione. Il
filo conduttore che lo collega al rock (non è una mia scoperta) è lo swing, quell’accento sul
tempo che fa ballare e che ha origini africane. Anche il rock proviene dalla musica nera. Il
repertorio l’ho costruito nei modi più diversi: alcune canzoni le ho composte in pochissimo
tempo, altre invece hanno richiesto più lavoro. Cerco di scrivere con regolarità, anche se non
sempre vengono buone idee. Non basta, infatti, una progressione di accordi per avere una
canzone: ci vuole soprattutto qualcosa da dire.
Una canzone che mi ha colpito particolarmente è “November”, forse posta non a
caso in apertura. Che puoi dirmi in proposito?
Una chicca: la voce maschile che si sente nel ritornello è di Rob. È una canzone a cui sono
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legata: parla della voglia di cambiare un rapporto d’amore. “We were so involved, (but) we
were very married” canto, appunto, nel ritornello.
Tornando ai Marlene Kuntz, com’è andata la collaborazione per “Bellezza” e cosa
pensi della loro svolta maggiormente melodica? Si dice che più o meno tutti nel
proseguimento di carriera finiscano per mettere da parte certe asperità per
approfondire altri aspetti con maggior raffinatezza. Sei d’accordo?
L’amicizia con i Marlene Kuntz è nata grazie a una mail che inviai tramite il loro sito, nella
quale chiedevo della loro collaborazione con Rob. Mi presentai come una ragazza di Roma
che scriveva canzoni. Dopo un po’ di tempo registrai per loro il mio primissimo demo.
Evidentemente piacque, tanto che quando entrarono in studio per finire l’album mi
richiamarono. L’idea della seconda voce è partita un po’ per gioco da Cristiano, credo. E poi
fu approvata da tutti. Raffinatezza è sicuramente la parola giusta per descrivere i Marlene,
secondo me. Non so se definirei come una “svolta” quello che hanno fatto negli ultimi anni.
Penso, infatti, che i Marlene sono uno di quei pochi gruppi italiani che sono riusciti a fare un
percorso coerente nel tempo, portando avanti sempre con grande passione quello in cui
hanno creduto.
Perché hai optato proprio per “This Is The Day” per l’imminente tributo ai The The e
come hai approcciato la canzone?
La canzone non l’ho scelta io, fa parte del disco ufficiale di tributo ai The The voluto da Matt
Johnson. Proprio Matt aveva chiesto a Rob di partecipare e lui a sua volta mi ha coinvolto.
Ho riascoltato l’originale ma poi mi sono lasciata andare alla reinterpretazione di Rob. Penso
che ne abbiamo fatto una versione... divertente!
Nel 2009 sei stata premiata nell’ambito del MEI per la tua bravura dal vivo. Come
procederanno gli impegni live?
I prossimi impegni confermati sono a Roma a febbraio, in versione acustica al Beba do
Samba, e a marzo con la band a Napoli ed Eboli. Le date cambiano giorno per giorno:
consiglio a tutti di dare un’occhiata al mio sito, che è sempre aggiornato!
Nel comunicato si legge che “River”, essendo un mini di sei brani, può essere
considerato una sorta di assaggio. Hai già progetti per il tuo primo album sulla lunga
distanza, cosa dobbiamo aspettarci?
Alcune canzoni penso di averle già pronte. Sto comunque andando avanti con la scrittura
per mettere da parte più idee. Rob potrebbe essere ancora con me. Vedremo cosa accadrà.
Spero di riuscire entro poco a concretizzare questo progetto.
Contatti: www.giuliavillari.com
Elena Raugei
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GuruBanana
I due GuruBanana, ovvero Andrea Fusari e Giovanni Ferrario, ci raccontano il loro secondo
album “Karmasoda”, appena uscito per Shyrec. che segue il debutto omonimo nel 2008,
uscito per Macaco. Un disco rock, molto cupo e allo stesso tempo dai toni accesi e
coinvolgenti. Piacere, incanto e spensieratezza ricordando tanti nomi emozionanti che vanno
da Velvet Underground ai Clash. Non è poco. Ne parliamo con entrambi.
Come nascono i GuruBanana e cosa ha fatto scattare il vostro LA?
Andrea Fusari: La pazzia, come sempre, è quella che fa scattare un po’ di
consapevolezza e fa sì che succedano queste cose, molto tranquillamente e
spontaneamente.
Giovanni Ferrario: Il mio “la” è stato conoscere Andrea da anni e vedere che era sprecato
a fare cover di blues sapendo che il suo talento artistico poteva manifestarsi in altri modi. Poi
lui mi ha chiesto per un po’ di tempo di fargli dei pezzi. Io li ho ascoltati e ho trovato il
bandolo della matassa. Una parte importante del suo cervello e adesso ne paga le
conseguenze non potendone fare più a meno. Adesso deve suonare e fare dischi. Prima era
un appassionato. Adesso c’è dentro.
Tu e Giovanni in particolare per cosa vi apprezzate come co-autori e musicisti e cosa
vi unisce?
AF: Anzitutto l’amicizia molto forte e quindi una forma di rispetto strano uno con l’altro e una
chiarezza a livello operativo. Una cosa va bene o no e si saltano molti passaggi, poi lui
garantisce la parte produttiva all’interno dei GuruBanana, per cui è tutto molto veloce. Ci si è
trovati proiettati in pezzi che sì erano un po’ degli abbozzi poi invece avevano un suo essere
per il primo disco. Per il secondo il tutto è stato molto un concentrarsi sul
GuruBanana-progetto già avviato, da portare live e dei pezzi sono rinati con le stesse
metodiche, ma con il suono elaborato in modo diverso: molto più pensato e studiato.
GF: Ci unisce l’istinto o meglio la propensione per l’istintualità in musica. Il voler valorizzare
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la prima idea che scaturisce per una canzone, per un pezzo musicale. Siamo in sintonia
assolutamente su questa cosa, quindi sì, registriamo su un computer, ma è come se
lavorassimo su nastro. Cerchiamo di tener buona la prima, magari di valorizzare questa take
qui però di non fare troppo sovraincisione, di non perderci nei meandri dell’emulazione
computerizzata dei suoni, di fare le cose abbastanza in velocità per cogliere il momento.
Come scrivete e componete le canzoni senza sbattere l’uno contro l’altro essendo
coautori?
AF: Questo può essere interessante e forse anomalo. La parte iniziale esce in solitudine
compositiva, ma io sono poco strumentista e mi appoggio su degli accordi: le idee nascono
su questi frammenti, poi vengono selezionate e tra quelle che possono risultare interessanti
alle orecchie di Giovanni si fa il lavoro di scelta per cui uno aiuta l’altro continuamente. Nel
momento della creazione, della melodizzazione e dell’arrangiamento può uscire di tutto, se
sei ispirato. Da lì in poi il passo è semplicemente lavorarci sopra quindi tutto nasce da
momenti ispirativi e dal caso.
Entrando all’interno del disco c’è la title track, “Karmasoda” e “Talking On Numbers”
che per sensazioni diverse hanno la stessa immagine di solitudine e desolazione
come di qualcosa che finisce.
AF: Sì, a livello musicale c’è la stessa tinta malinconica sotto, se poi vai sul significato dei
pezzi che sono contigui, parlano più o meno entrambi di distacco da qualcosa, di perdita, per
cui mentre una è una richiesta di pulizia per non sopportazione, l’altra è un ripercorre un
ricordo, quindi il senso di perdita è più mentale.
GF: È un suo momento questo di esorcizzazione di un passato che adesso si è lasciato alle
spalle con questo disco, anche se poi è dal vivo che viene fuori. È difficile avere a che fare
con il mostro che ha dentro.
Quali paesaggi o angoli hanno fatto da teatro alle vostre composizioni?
AF: Sono veramente dei paesaggi vissuti e rivissuti in quel momento. Non erano
esattamente lì però sono stati creati. Sono luoghi geografici che ci sono realmente e sono
molto disseminati, lontani tra di loro. Alcuni sono proprio geografici, altri sono un essere
altrove rispetto al contestuale. Poi comunque la necessità di avere una altrove migliore ed
essere nella necessità di crearlo, è (io credo) il motivo di voler fare musica.
Com’è nata la collaborazione con Shyrec? E come mai non avete continuato con
Macaco con cui avevate debuttato nel 2008?
GF: Ne abbiamo parlato sia con Macaco che con Shyrec, perché questo è un disco elettrico
e speriamo di poterlo proporre su palchi, dove c’è un impianto che possa reggere. Non è un
repertorio che può essere proposto su un palco dove di solito si fanno concerti semi acustici,
come quelli di Macaco e poi così, tanto per cambiare e restare in tema, nel senso che tutte e
due sono piccole etichette, fatte da gente molto appassionata. Serviva qualcuno che potesse
lavorare al nostro disco con passione e capisse quello che volevamo ora.
Dove e come avete registrato il disco?
GF: Abbiamo registrato parecchio nel mio studio e in pre-produzione. Poi abbiamo
registrato al T.U.P. di Brescia e abbiamo mixato al Blue Femme che è lo studio di Marco
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Franzoni. Quindi tre luoghi diversi e in tutti e tre gli studi abbiamo registrato oltre a mixare.
Diversi ospiti hanno collaborato al disco. Pensavate a loro già mentre componevate
le canzoni?
GF: Ma è tutta gente che gira intorno al nucleo dei GuruBanana che siamo Andrea ed io.
Anche se Beppe Mondini suona nei nel gruppo dai primi concerti e quindi lui più che un
ospite è una presenza fondamentale per noi. Poi c’è Davide che suona solo in un pezzo del
disco, ma anche lui fa parte del gruppo per la parte live da sempre. Poi c’è Andrea Cogno
che ha suonato e sostituito me per un certo periodo ed è anche lui una persona importante
soprattutto a livello umano per noi.
AF: C’era soltanto la data e noi che dovevamo suonare, secondo una scaletta abbastanza
stretta. La maggior parte della musica del disco è nata in base a degli step casuali. Poteva
uscire un'altra cosa. Non ne hai il controllo totale. Per cui gli ospiti erano una polaroid una
fotografia del momento.
Invece, i concerti come li strutturerete e con quali strumenti?
GF: Noi siamo in quattro ed è un concerto elettrico. Nel senso che c’è una batteria molto
importante che si avvale anche di un campionatore. Io suono il basso ed una tastiera, poi c’è
Andrea che suona un po’ tutto, chitarra elettrica, acustica, tastiera, la melodica, l’armonica e
soprattutto canta, poi Davide Mahony alla chitarra elettrica. Cantiamo in tre e cerchiamo di
divertirci.
AF: Quindi sono tanti strumenti che si scambiano con un set stretto, inseriamo così quasi
tutti i pezzi del disco ottenendo un nuovo suono, diverso rispetto al disco.
Contatti: www.myspace.com/gurubanana1
Francesca Ognibene
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Piero Sidoti
Uno dei botti dello scorcio di fine anno, Piero Sidoti ha sbancato al Tenco Opera Prima (con
polemica) grazie a un’elegante opera prima, “Gente in attesa” (Odd Times/Egea), lui che
tutto può definirsi, fuorché un esordiente. Il professore friulano 42enne, alle spalle già diversi
riconoscimenti, si è offerto per una lunga chiacchierata con “Fuori dal Mucchio”.
Cominciamo dal Tenco? Ci racconti com’è andata? Ti aspettavi tutto il bailamme che
si è scatenato?
È andata benissimo! Vincere la targa Tenco è motivo di estremo orgoglio in quanto è uno
dei massimi riconoscimenti per chi fa canzone d’autore. Io non immaginavo di vincere la
targa ed ero già felicissimo di essere nella sestina dei finalisti.
Com’è stato invece essere lì, suonare a Sanremo da vincitore? Hai l’impressione che
qualcosa sia cambiato, stia cambiando? Sei diventato grande?
Suonare al teatro Ariston è un’emozione fortissima! Penso che l’ansia che uno prova sul
palco dell’Ariston sia direttamente proporzionale alla quantità di critiche che uno ha fatto dal
divano di casa sua agli artisti che ogni anno si alternano al Festival di Sanremo... un po’
come una legge del contrappasso. Insomma, vincere il Tenco è stata una soddisfazione
enorme ed un onore assoluto. Però quello che ha cambiato la mia vita artistica è stato
l’incontro con Paola Farinetti di Produzioni Fuorivia ed l’uscita del disco con la sua casa
discografica.
Torniamo un poco indietro. Tu arrivasti in finale a Castrocaro un bel po’ di tempo fa
(1993) per poi fare incetta di altri riconoscimenti: Recanati, Premio “Artista che non
c’era” e “Fabrizio De André”. Cosa hanno rappresentato queste tappe? Non hai mai
pensato di lasciare la scuola per cantare?
No, per due motivi: il primo è che l’insegnamento è un lavoro che mi piace molto. Sia il
cantautore che l’insegnante sono mestieri bellissimi. Trovo che salire sul palco ed avere un
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contatto empatico con il pubblico sia un evento straordinario ed irripetibile come avere una
conversazione quotidiana con dei ragazzi. Io insegno matematica e scienze ma, qualsiasi
cosa uno insegni, in sostanza si va a scuola per riflettere e parlare della vita. Vincere premi
senza una struttura che lavora per fare conoscere le tue canzoni serve a darti un po’ di
buonumore ma, finito il premio, tutto si esaurisce.
Il produttore artistico del tuo album è Antonio Marangolo. Com’è stato lavorare con
lui?
Fra me e Antonio c’è stima e fiducia totale, per cui c’è il massimo della libertà. Antonio è un
grandissimo artista ed io mi fido totalmente del suo gusto. È uno di quegli arrangiatori che
anziché soffocare i brani con inutili sovrastrutture sonore ed armoniche esalta, amplifica e
moltiplica l’idea di fondo.
“Pecore bianche” riprende i versi di “Canzone di notte n. 2”. È un brano, fin dal titolo,
ch’è un omaggio a Francesco Guccini. Sei d’accordo sul fatto che Guccini sia rimasto
fondamentalmente un unicum, un caposcuola senza scuola, l’inventore di un canone
che non è stato sviluppato da altri? Perché?
Sì, ho voluto fare un omaggio a Guccini anche se lui, in “Canzone di notte n. 2”, dà una
connotazione positiva alle pecore nere. Invece, nel mio caso la pecora nera rappresenta uno
dei tanti affabulatori presenzialisti e privo di qualsiasi sostanza. Comunque sono
assolutamente d’accordo su quanto hai detto. I testi di Guccini sono inimitabili in quanto lui
riesce a dipingere una storia, a raccontarla e sviscerarla in tutte le sue pieghe. Penso che
Guccini sia un’icona perché è una persona e un artista autentico nel vero senso della parola.
Non ha mai assunto una posa o un atteggiamento. Nelle sue canzoni, e durante i suoi
concerti, Guccini parla con il cuore e comunica quello che pensa. Riuscire a fare arrivare la
propria visione del mondo a qualcun altro è la cosa più originale che uno possa fare e forse
è talmente originale da risultare inimitabile. Fare quello che fa Guccini significa fare la cosa
più semplice che come sempre è la più difficile. Chissà, forse per questo è un caposcuola
senza scuola?
Diverso il caso di Fabrizio De André, invece imitatissimo. Uno degli episodi più felici
del tuo album è a mio avviso “La venere nera”, sulle rotte atlantiche di “Princesa”:
ancheggiare brasilero, cori sambeggianti...
Sì, anche Fabrizio De André fa parte dei miei maestri. Penso di conoscere tutte le sue
canzoni a memoria. L’ho ascoltato tantissimo da ragazzino. Ogni volta che presento “La
venere nera” specifico che si tratta di una prostituta e non di una escort in quanto ritengo,
nonostante i tempi, che la prostituzione sia un dramma e non un evento mondano o un
affare di palazzo. Penso che anche De André sarebbe stato d’accordo su questo.
Trovo però che il genio della tua lampada sia essenzialmente Paolo Conte: la sua
giocosità, la ricercatezza leggera e divertita, e anche altro. Sei d’accordo? A chi ti fa
piacere essere accostato, e a chi meno?
Paolo Conte, Fabrizio De André, Francesco Guccini sono tutti maestri e tutti artisti a cui mi
fa piace essere accostato. Tuttavia spero di raccontare qualcosa di mio e quindi anche
qualcosa di nuovo. Ma per continuare l’elenco, gli artisti che ho più ascoltato sono anche (in
ordine sparso): Lucio Dalla (che fra l’altro ha scritto le note introduttive al disco, Ndr),
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Francesco De Gregori, Tom Waits e tantissimi altri.
In una canzone, “La mia generazione”, è come se tu riprendessi un dialogo sotto
forma di canzone con Giorgio Gaber, cantando “la mia generazione non ha mai vinto”.
Cos’è peggio: aver perso, come diceva il Signor G, o non aver mai vinto?
La generazione di Gaber ha perso perché ha potuto giocare, mentre la mia generazione
non ha mai vinto in quanto non ha potuto scommettere, né giocare. Io appartengo a quella
generazione che è un po’ una “degenerazione”, perché abbiamo vissuto la nostra
adolescenza e ci siamo formati negli anni 80. Anni caratterizzati da un boom economico che
non c’era e da un’opulenza solo virtuale. Insomma, ci siamo preparati per grandi futuri e poi
siamo stati costretti a fronteggiare una crisi alla quale non eravamo preparati. Un po’ come
prepararsi per pilotare lo space shuttle e poi trovarsi a guidare un triciclo con le ruote
scassate.
Quali sono stati, e quali sono, i tuoi ascolti più formativi e preferiti?
Diventa un elenco lunghissimo in quanto sono un grande fruitore di musica, dalla musica
classica al pop, all’heavy metal, al rap. 
I riferimenti più vicini sono De André, Dalla,
De Gregori, Gaber,Vecchioni, Fossati, Bennato, Testa, Conte, Guccini, Battiato, Vasco
Rossi, ma anche Silvestri, Bersani Tenco, Paoli, Gaetano e Consoli. Fra i cantautori stranieri
mi vengono in mente Jacques Brel, Carlos Jobin, Toquinho, Vinicius de Moraes, Leonard
Cohen, Sting, Nick Drake, Tom Waits, Peter Gabriel, Ben Harper. Comunque uno dei dischi
che conosco meglio e che più mi ha cambiato la vita, è un disco che non contiene parole,
“Köln Concert” di Keith Jarrett. Dimenticavo i Gruppi: Pink Floyd, Beatles, Rolling Stones. Ma
anche tutte le sinfonie di Beethoven, Stravinsky, Bach e tanti altri mostri sacri che
sicuramente mi sono dimenticato. Insomma la musica è bella, io la ascolto tantissimo e
sempre in silenzio. Odio la fruizione della musica come sottofondo o come
accompagnamento.
Che farai adesso? Ti iscriverai nel nutrito parterre dei professori-cantautori, o farai
una scelta esclusiva?
Diciamo che la crisi del mercato discografico mi dà una grande mano nel mantenere la testa
sulle spalle e non fare scelte esclusive. Penso che continuerò a fare entrambe le attività e mi
iscriverò nel nutrito parterre dei professori cantautori. Sono in ottima compagnia: Guccini,
Vecchioni, Lolli.
Contatti: www.pierosidoti.it
Gianluca Veltri
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Redroomdreamers
“Roosters On The Rubbish” (Happy/Mopy Records-Audioglobe) è l’esordio per questo
quartetto rock elettro acustico di Napoli, anche se metà della band si conosceva da tempo e
questi, nella fattispecie Dario e Alessio, hanno ricaricato le batterie riimmergendosi, con
l’aiuto di altri musicisti, in uno cascata melodica, disarmante e comprensibile. Le tenerezze
alla Belle And Sebastian, le stanze piene di ricordi ancora non esplosi per fare uscire le
scorie e far tornare l’azzurro cielo del sereno musicale. Ne parliamo con Dario.
Quando vi siete incontrati per mettere insieme il gruppo cosa vi siete detti? Qual era
l’idea musicale iniziale?
Alessio, che è il batterista, e io abbiamo suonato per più di dieci anni con un’altra
formazione facendo indie rock inglese, poi due anni e mezzo fa, quando abbiamo deciso di
riprovare a suonare assieme, si è aggiunto Simone al basso. Quindi con tutta la calma di
questo mondo, abbiamo iniziato a provare per un anno e mezzo, tempo di scegliere il
materiale prima di entrare in studio e registrare il primo album. Come quartetto ci siamo da
poco, invece come trio abbiamo suonato a lungo e i brani sono stati scritti a tre anche se
nascono su una chitarra acustica a casa e poi vengono portati in sala prove e arrangiati e
perfezionati. Da un mesetto si è aggiunto Michele De Finis alla chitarra e ci accompagnerà
per le date del live e per il proseguo. Quindi in linea di massima nasce la melodia con un
testo molto abbozzato in inglese, ma è più linea melodia che parole e quando il pezzo ci
convince incomincia anche la scrittura del testo.
Cosa raccontano le vostre canzoni?
I testi sono il frutto di questi anni in cui io ho fatto altro e il batterista ha suonato in progetti
diversi, quindi sono il succo di tutti questi anni: esperienze fatte, vissute e così via. In
particolare l’ultimo pezzo del disco è dedicato al bassista del vecchio gruppo, i Growing
Ocean, che si chiamava Inigo e che purtroppo non c’è più, e ha condiviso un pezzo di strada
con Alessio e me.
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Inigo Grasso oltre a suonare il basso con voi, era anche un cantautore. Vuoi
raccontarci del movimento che si è creato intorno alla sua scomparsa?
Dalla sua scomparsa, quindi circa tre anni fa, si è creato un movimento di tutte le persone
che con lui avevano condiviso esperienze musicali e c’è stato anche circa due anni fa un
concerto a Napoli in cui tutte le band del circuito indie hanno riproposto live alcune sue
canzoni e abbiamo adesso un progetto con la Happy/Mopy Records di raccogliere tutto il
materiale che lui ha lasciato e che sicuramente faremo uscire entro la fine del 2011.
Dove e come è stato registrato il vostro disco?
È stato registrato in uno studio a Napoli che è di Bruno Fiengo, il nostro produttore, ed è
stato un incontro davvero importante per noi musicalmente, perché lui aveva esperienza
anche se non propriamente rock: ha remixato infatti i 99 Posse e gli Almamegretta, però è
stato fondamentale perché abbiamo lavorato con moltissima calma nel suo studio, senza
fretta e siamo stati quasi quattro mesi non continuativamente ma comunque è stata una
gestazione ragionata.
Quanto i luoghi e l’atmosfera sono stati importanti nell’influenzarvi per creare il
suono del disco?
Sono stati molto importanti. Si è creata un’atmosfera molto casalinga anche perché lo studio
è all’interno di una casa e questo ha aiutato molto il lavoro. Spesso la registrazione può
essere parecchio stressante in alcuni passaggi.
Raccontando le canzoni, in particolare, c’è una leggera atmosfera caraibica in “Under
Control”, vi stava portando da un’altra parte rispetto alle altre canzoni?
No, anche se hai colto benissimo quest’atmosfera e anche se live verrà riproposta in
versione acustica quasi in versione bossa nova, perché adesso ci divertiamo a farla così.
Quindi sicuramente c’è questa atmosfera e poi è il brano in cui ci sono stati anche interventi
importanti da parte della produzione cioè Bruno che viene da un mondo diverso e alla fine è
venuto fuori.
E poi “Candy Girl” che è attaccata ad “Under Control”, sembra la seconda parte di
questa canzone ma più robotica e schizofrenica. Sono nate lo stesso momento?
No. Devo dire di no. L’ordine è stato scelto successivamente però sicuramente ci può
essere un filo conduttore, come fossero due facce della stessa medaglia con un lato più
legato ai sentimenti buoni e un altro legato ai sentimenti cattivi.
Poi diversi ospiti hanno partecipato al disco: vuoi ricordarli?
Sì. Stefano Esposito che ha suonato le chitarre per la fase di registrazione, quindi ha messo
le chitarre in più che ci sono nel disco. Bruno Fiengo che ha suonato la tromba in “The Dog”
e poi Chiara Mallozzi ed Eleonora Mallato, entrambe suonano al conservatorio, la prima il
violino e la seconda il violoncello e che ci hanno aiutato a fare le parti di archi in “Bye Bye”.
E infine Paolo Messere della Seahorse Records che ci ha regalato l’arpeggio in
“Psychotherapy”.
A proposito di Paolo Messere il vostro disco glielo avevate proposto come uscita
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Seahorse prima di farlo uscire per la neonata Happy/Mopy?
Sì è una vita che conosciamo Paolo e avevamo ragionato sul fare uscire con lui il disco che
era la cosa più naturale. Poi però io, Simone il bassista e Alessio il batterista abbiamo scelto
di creare questa piccola factory, la Happy/Mopy Records, per avere in pianta stabile a Napoli
un canale per continuare a fare uscire dischi che ci piacciono. In marzo uscirà il disco dei
Stella Diana che è una band storica della scena indipendente di Napoli e poi c’è il progetto
per Ivo di cui abbiamo detto.
Cosa deve avere un gruppo per voi “etichetta” per piacervi?
Non so bene. Sicuramente abbiamo un background di riferimento ben definito che poi è
quello che si ritrova anche nel disco. Io ascolto veramente di tutto dalle cose elettroniche al
rock, quindi si deve sentire il cuore in quello che si ascolta questa è la cosa fondamentale.
In una scaletta radiofonica chi vorreste prima e chi dopo un vostro pezzo?
Io ascolto pochissima musica italiana, ma ci sono due band che sono veramente
meravigliose. Sono i Perturbazione e i Virginiana Miller, quindi sarebbe bello avere il nostro
pezzo tra questi due gruppi che stimiamo tantissimo da molti anni.
Quali sono secondo voi le difficoltà che mettono i bastoni tra le ruote, ad una band
come la vostra?
Cantare in italiano. Problema che sentiamo solo qui, perché nel resto d’Europa si canta in
inglese e nessuno si sognerebbe di chiedere ad un gruppo norvegese o tedesco perché non
canta in norvegese o in tedesco. E poi i problemi di tutte le band indipendenti, ovvero
cercare di inserirsi in circuiti dove esibirsi con una certa frequenza cosa che è fondamentale.
È nostro desiderio suonare anche fuori dall’Italia, così stiamo lavorando per delle date a
Barcellona per la fine di aprile e speriamo di riuscirci.
Contatti: www.happymopyrecords.com
Francesca Ognibene
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Ruben
Costante, preparato, passionale ed allo stesso tempo metodico, così si potrebbe descrivere
Ruben, al secolo Pierfrancesco Coppolella, uno splendido quasi cinquantenne innamorato
della definizione “cantautore”, ma che in passato si è misurato anche come chitarrista di una
rock band, anche se il suo amore, le sue influenze sono tutti quei narratori di storie, da Bob
Dylan a Leonard Cohen, senza però. Il suo nuovo lavoro (“Il rogo della Vespa”), il quarto, ci
offre il volto più musicale di Ruben, con canzoni che suonano e vivono, addobbate da
numerosi ospiti: Michele Gazich, Veronica Marchi, Francesca Dragoni, John Mario, Laura
Facci, capaci di incastonarsi nelle poetica asciutta e romantica di Ruben, mantenendo la
propria personalità. Ci racconta tutto lo stesso Ruben.
Questo è il tuo quarto album in dieci anni di attività, ma la tua esperienza di musicista
inizia ben prima. Puoi presentarti ai nostri lettori.
Sono stato attratto dal mondo dei suoni sin da bambino. Da adolescente ho iniziato a
suonare la chitarra quasi per caso, prendendo qualche lezione da un maestro di musica che
dava lezioni di piano a mia sorella. Di lì a poco mi è capitato di ascoltare “Like A Rolling
Stone” di Bob Dylan, sui titoli di coda di un film, e ne sono rimasto folgorato. Da allora ho
suonato prima in alcuni gruppi liceali (in uno suonavo funky!), poi in versione one man band,
voce chitarra e armonica (mi capita di rispolverarla, ogni tanto), quindi con un trio acustico,
poi con una cover band e perfino in un gruppo punk. Insomma, non mi sono fatto mancare
nulla. Nel frattempo scrivevo sempre canzoni; con testi in inglese perché quella è la mia
cultura musicale. La prima cosa seria con la musica l’ho fatta nella metà degli anni 90 col
bluesman Rudy Rotta, scrivendo per lui i testi di due dischi, “Loner And Goner” (in inglese) e
“So di Blues” (in italiano). Quindi professionalmente nasco come autore per altri. In “So di
blues” ho scritto per la prima volta in italiano e l’esperienza mi ha intrigato a tal punto che da
allora non ho più abbandonato il nostro idioma. Nel 2000 ho iniziato il mio discorso artistico
come cantautore. Quattro dischi miei, più due da me prodotti registrati dal vivo con altri
artisti.
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Ascoltando “Il rogo delle Vespa”, ho notato una crescita notevole ed un’idea diversa
– più matura, ma comunque e ricercata - dietro alle canzoni, agli arrangiamenti e al
suono. In cosa credi si differisca questo nuovo disco rispetto agli altri e perché hai
fatto questa scelta?
Tutti i miei dischi finora sono stati un esperimento con la musica e con me stesso. Col primo
cd, “Biondo accelerato”, ho cercato di capire in quale genere mi trovavo più a mio agio, o
sapevo fare meglio. Per questo motivo quel lavoro è molto variegato, mancando un po’ di un
indirizzo artistico definito. Quattro anni dopo ho realizzato”La musa elettrica”, una sfuriata
rock registrata live in studio. Lì ho iniziato a focalizzare le idee, abbandonando certi elementi
pop presenti nel primo CD, dovuti anche all’influenza del mio co-produttore di allora, Loris
Ceroni, in quel genere un vero maestro. Nel 2008 mi sono rinchiuso in un piccolo studio e ho
registrato “Da qui non si vedono le stelle”. Mi sono autoprodotto per la prima volta, col
risultato di delineare e personalizzare finalmente il mio discorso artistico. Naturalmente come
primo disco in studio da me prodotto soffriva di qualche immaturità, troppe sovraincisioni di
chitarre nei brani ad esempio. Per “Il rogo della Vespa” sono entrato in studio con le idee
chiarissime, avendo anche fatto una piccola pre-produzione, che mi è senz’altro servita.
Volevo un suono scarno ed essenziale (ad eccezione del singolo “Schiuma”, discorso a sé),
pochi strumenti in ogni traccia, ma molto curati nel suono e nelle parti che dovevano
eseguire. Non c’è nel disco una nota o una pausa che non abbia voluto. Credo che sia
questo che ti dà quella sensazione di maggior compiutezza rispetto agli altri lavori.
Nonostante tu non sia giovanissimo (sorry!), hai compreso perfettamente
l’importanza delle nuove forme di comunicazione, per diffondere la tua musica. Sei
infatti un frequentatore costante di Facebook e mantieni un costante contatto con i
tuoi fan, parlando di musica e non solo. Quali credi che siano i vantaggi e gli
svantaggi di questo nuovo mondo musicale globalizzato?
Il mio Facebook (mi si trova come Ruben Book) è un po’ il mio club privato, dove attraverso
vari linguaggi parlo molto di me. Come anche MySpace, questi nuovi strumenti aiutano
senz’altro a diffondere musica che altrimenti non avremmo la possibilità di ascoltare.
Attraverso MySpace ho scoperto molti altri cantautori con cui sono nate felici collaborazioni,
come ad esempio “Vestito per amare”, un cd tributo a Leonard Cohen. Questi i vantaggi. Lo
svantaggio è che si sta un po’ meno con lo strumento musicale in mano. La mia chitarra è
molto gelosa perché su Facebook passo anche troppo tempo!
Nel citare le tue influenze, sei uno dei pochi musicisti, da cui ho sentito citare non
solo i soliti nomi classici (Dylan, Cohen, Cash), ma anche realtà più vicine a noi.
Secondo te quindi è ancora possibile stupire, trovare qualcosa di nuovo, anche in una
semplice canzone di tre minuti? E secondo te una canzone può ancora creare i
presupposti per un rivoluzione, magari anche solo personale?
Sono stato influenzato da tutta la musica, non ultimo il rock internazionale e italiano degli
anni 90. In questo credo di distinguermi da chi ha per lo più ascoltato i cantautori “storici”
italiani (che comunque ho assimilato anch’io: quando ero ragazzo era impossibile
passeggiare sulla spiaggia senza incontrare qualcuno che suonasse “Bocca di rosa” oppure
“Dio è morto”). Una canzone di tre minuti è sempre una miniera inesauribile di emozioni, ci
sarà sempre quella particolare canzone che folgorerà qualcuno. Quella che ascoltai io, di cui
ho detto sopra, ne durava addirittura sei, per questo da allora non mi sono più ripreso tanto
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bene... Scherzi a parte, credo che una canzone possa sempre “rivoluzionare” una persona,
cambiarle la vita. Che cambi la società è un po’ più difficile, però noi ancor oggi viviamo su
un’onda emotiva partita negli anni 60 con i Beatles, i Rolling Stones, Dylan, Hendrix, i
Doors... Hanno segnato un’epoca, cambiato il costume. Forse le strutture economiche
rimangono più o meno immutate, ma la cultura cambia il modo di vedere la realtà, e la
musica incide molto di più di altre forme artistiche (questa mia ultima valutazione è,
chiaramente, di parte...).
In percentuale nella scrittura, quanto ti influenzano le vicissitudini quotidiane, quindi
emotive, e quelle legate a ciò che ci circonda? Insomma scrivi di cuore o di mente?
Cosa ti stupisce a tal punto da costringerti a scrivere una canzone?
Le mie vicende strettamente personali non entrano molto nella mia scrittura. Invece,
prepotentemente, ci entra la realtà quotidiana, quello che vedo per strada, o sul lavoro, ogni
giorno. Penso sempre che la strada sia la mia vera musa ispiratrice. Faccio un giro per il
centro, guardo in viso tutte le persone che incrocio e vedo di capire attraverso quelle facce
dove sta andando il mondo. Cuore e mente lavorano insieme, però senza un’emozione forte
non scrivo proprio. Non ho mai scritto nulla mettendomi “a tavolino”. Melodie che mi vengono
in testa di notte, testi appuntati su qualunque cosa sottomano. Sono una persona emotiva e
ho imparato a sfruttare la mia emotività a fini “artistici”.
Perché qualcuno dovrebbe ascoltare “Il rogo della Vespa” e a chi lo consiglieresti?
Domanda spinosa, perfetta per un disco che lo è altrettanto. Credo che questo cd abbia una
sua freschezza, data anche dal sound dei brani, e questo ritengo sia già un buon motivo per
ascoltarlo. E’ un concept sull’idea della “fine”, declinata sotto vari aspetti in ogni canzone. Lo
consiglierei quindi ai curiosi, sia di orecchi che di mente. A chi comunque, anche come
ascoltatore, è fuori dagli schemi.
Ti sei fatto un’idea del perché, nonostante in Italia, negli ultimi venti anni, ci siano
tanti gruppi, tante piccole realtà, tanto amore per la musica, ma non si sia mai formata
una vera “scena italiana”, capace di superare le barriere del gregariato e del
part-time?
Molto amore per la musica da parte di chi la fa, costretto anche ai salti mortali per farla. Il
pubblico, invece, si lascia più difficilmente coinvolgere. È già un po’ distratto di suo (non
dimentichiamoci che lo Stivale è la terra della buona tavola, più che della musica) poi, anche
se è “acculturato” (ovvero segue i concerti, le riviste specializzate), è talmente bombardato
da nuovi artisti che nascono come funghi che fa fatica ad affezionarsi. Sono rari gli esempi di
artisti emergenti che hanno un seguito numericamente consistente. Per inciso, gregariato e
part-time, da te giustamente individuati, sono ormai endemici in tutti i campi del lavoro, a
maggior ragione nel campo della musica e dell’arte in generale.
Restando sempre in Italia, sinceramente sono stufo della rivalutazione postuma di
artisti che andavano sostenuti all’epoca e non ora che sono ultraquarantenni magari
disillusi. È triste vedere i teatri pieni con gruppi come Karma e Massimo Volume,
gruppi straordinari che venti anni fa avevano aperte nuove strade per il rock IN
italiano, ma che venivano in parte snobbati dal pubblico, o almeno non apprezzati per
quel che meritavano. Perché - te lo chiedo, perché ti conosco come persona e artista
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sensibile ed attento - non si riesce mai ad apprezzare le cose mentre succedono?
Non tutti gli ascoltatori hanno le antenne sensibili, inutile negarlo. C’è poi un’apatia
strisciante, che sta aumentando progressivamente in questo periodo. Le difficoltà quotidiane
sembrano sommergere la voglia di conoscere, sperimentare, rischiare, che pure in altri anni
in Italia c’è stata. Mi sembra ci sia molta disillusione da parte del pubblico, che una sua fetta
di responsabilità comunque ce l’ha. Ce l’hanno anche i media – chiaro – però non buttiamo
la croce sempre addosso alla tv che non fa informazione e cultura, così come alle radio e i
circuiti dei grandi live che propongono solo i soliti noti. Cerchiamo piuttosto di migliorare le
cose dal basso, ché le luci della grande ribalta forse non sono neppure il nostro mondo, cioè
il mondo di chi fa musica pensando innanzi tutto alla stessa e non ad altre cose correlate
apparentemente più accattivanti. Ognuno ha strumenti a disposizione per migliorare la
musica attorno a sé. Per quanto mi riguarda, da cinque anni collaboro con molti musicisti
anche perché si abbia una migliore visibilità per tutti noi. Prima o poi questo sforzo a
qualcosa porterà.
Contatti: www.myspace.com/rubenmyspace
Gianni Della Cioppa
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The Jacqueries
L’ascesa dei Jacqueries è una parabola accolta con clamore e sorpresa, forse troppa, o
meglio avvenuta troppo in fretta. Giovanissimi esponenti di un indie-rock che mescola le
carte in tavola gettate oltreconfine, i Jacqueries esordiscono per l’etichetta indipendente fino
al midollo 42 Records. Parliamo di questo entusiasmo generale, e di altro, con Andrea
Catenaro, leader degli indie-rockers tricolori con le idee ben chiare in testa.
La vostra ascesa è stata indubbiamente molto veloce, quasi vertiginosa. Come vivete
questo entusiasmo generale dal punto di vista di giovane band?
Siamo molto sereni a riguardo: abbiamo tantissima "fame", voglia di diffondere il più
possibile la nostra musica e perciò cerchiamo ogni giorno di crescere e migliorarci.
L'entusiasmo generale ovviamente fa piacere, e di sicuro alimenta le nostre ambizioni
sempre più, anche se facciamo di tutto per restare fuori da certe cose in modo da continuare
a lavorare tranquilli e senza pressioni, come abbiamo fatto finora.
La vostra miscela affonda a piene mani nella tradizione pop inglese dei baronetti
Davies e dei loro figliol prodighi Blur, condita da una certa attitudine “slacker”, tipico
vezzo d’oltreoceano. In verità però, il tratto caratteristico che vi discosta dai
derivazionismi è la commistione con elementi più orchestrali, come handclapping e
fiati. Un disco si d’impatto melodico, ma premeditato. Come si è svolto il processo
compositivo di “Excitement”?
Ascoltiamo tante cose, siamo dei veri "nerd musicali" e ci piace mischiare anche cose che
tra loro c'entrano poco o nulla: “Excitement” è solo l'inizio di un percorso che ci porterà
chissà dove, ne vedrete delle belle: alcuni di noi poi sono fan di certo vecchio pop come
Scott Walker, Lee Hazelwood ecc, e ci è sembrato bello aggiungere elementi orchestrali ai
nostri pezzi. “Excitement”, come ogni primo album, è un po’ il best of di tutto ciò fatto dai
Jacqueries dalla nascita fino ad oggi; molti dei pezzi partono da mie idee che poi vengono
sviluppate insieme, ma nel disco ci sono anche pezzi di Alex (Germano, basso e cori, Ndr) e
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Marcello (Newman, chitarra e cori, Ndr), e in ogni caso tutti partecipano al processo di
scrittura, anche per quanto riguarda i testi (all’appello manca solamente Giorgio Ruzziconi,
batteria, Ndr).
Cosa vi ha spinto ad accasarvi con la 42 Records, l’unica (non) etichetta italiana ad
aver capito che internet non è solamente un giochino ed un covo di scrocconi
musicali?
La 42 Records ci ha subito fatto capire di credere nel progetto Jacqueries: Emiliano
Colasanti è entrato in studio con noi per le sessions di “Excitement” senza quasi pensare al
fatto che il disco sarebbe potuto uscire con la sua etichetta, ma lo avrebbe fatto comunque.
Anche noi poi crediamo nella potenza del web e siamo quindi perfettamente in linea con
questa tendenza dell'etichetta a pubblicizzare i propri gruppi attraverso la rete.
Nel vostro caso vien da pensare ai bergamaschi The Record’s, per attitudine e
respiro internazionale, piuttosto che per affinità di stile e genere. Quanto il vostro
occhio è rivolto all’estero?
L'estero è una possibilità: la maggior parte della musica che ascoltiamo non è italiana e
siamo consapevoli del fatto che fuori ci sarebbero più possibilità per un gruppo come noi, ma
per ora ci proviamo qui, sarebbe bello riuscire a capovolgere la tendenza che qui in Italia
solo chi canta in italiano ha la giusta visibilità: l'estero poi significherebbe cambiare vita, e
forse siamo ancora troppo giovani per pensarci: tuttavia non escludiamo nulla, neanche
l'idea di cantare in italiano in un futuro.
Con i già citati, per l’appunto, condividete anche la scelta della lingua anglosassone
per i vostri testi. Secondo voi è una via più semplice alla melodia, oppure una
scappatoia dal fardello che tormenta buona parte delle band italiane, ovvero
l’affrontare la difficoltà di musicare testi in madrelingua?
Per noi l'inglese è una scelta decisamente più facile rispetto magari ad altre band nostrane,
visto che due di noi sono madrelingua, ma sono vere entrambe le cose che hai detto:
l'inglese è una lingua più melodica e che sicuramente più si adatta a quello che suoniamo,
ma è altrettanto verissimo che riuscire a risultare credibili cantando in italiano è una cosa
che riesce a pochi, e noi ancora non abbiamo sentito l'impulso di metterci in gioco con
questa lingua.
Qual è il vostro background musicale, ovvero i gruppi che vi hanno tenuto fasce fino
allo svezzamento di “Excitement”?
Diciamo che certo indie rock made in USA, Pixies e Pavement in primis,ma anche Dinosaur
Jr, Guided By Voices, Sonic Youth è ciò che accomuna un po’ tutti i Jacqueries: però come ti
dicevo siamo abbastanza "onnivori": Alex e Marcello vanno matti per il rap, io e Giorgio
siamo più cresciuti con certo britpop ( Oasis e Blur principalmente): metti poi un po’ di
elettronica, il pop degli anni 60, strane cose come la dance anni 90 e il pop da classifica, e il
gioco è fatto! E' da dire però che i Nirvana, come per molti della nostra generazione, sono
stati tra i motivi principali che ci hanno spinto a cominciare a suonare e a mettere su il
gruppo.
Finalmente un gruppo che non ha vergogna di nascondere la propria ispirazione
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Numero Febbraio '11
riguardo ai Nirvana, senza relegarli ad una semplice sbandata giovanile.
I Nirvana ci hanno ispirato e continuano ad ispirarci. Il connubio tra rabbia e melodia,
prerogativa dei Nirvana, è ciò che tuttora i Jacqueries cercano quando scrivono una
canzone. Proprio qualche giorno fa pensavo a quanto il songwriting di Kurt influenzi ancora
oggi in modo assurdo la mia scrittura: “In Utero” ci ha cambiato la vita e soprattutto ha fatto
da ponte tra quello che ascoltavamo prima e gruppi che, tra i nostri ascolti, sono venuti
dopo, come i Pixies e i Sonic Youth: Kurt in un certo senso ha fatto conoscere alla
generazione di MTV quella che è la vera musica e noi non smetteremo mai di "ringraziarlo"
Contatti: www.myspace.com/thejacqueries
Luca Minutolo
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Atomika Kakato
Old Wave Prophets
Lo Scafandro
Profeti della “old wave” con una passione per quella new wave che da tempo ci auguriamo
possa diventare finalmente ciò che dovrebbe essere: un codice peculiare e ricco di possibili
agganci all'attualità, ma comunque un momento della storia passata, svincolato da corse ai
trend ormai sfilacciate e prive di (pochi, comunque) guizzi. Gli Atomika Kakato sembrano per
l'appunto muoversi in una direzione opposta ai desideri di cui sopra ma, vuoi lo spirito non
del tutto serio e pure un po' goliardico che sottende l'operazione, vuoi il fatto che tra gli
scopritori del quartetto ci sia Fabrizio “Taver” Tavernelli, uno che si è sempre divertito a
instillare un po' di sano dadaismo nel panorama musicale del nostro paese, vuoi il fatto che i
Nostri si siano immedesimati nelle suggestioni che abitano il disco con un misto di
venerazione per gli originali e di sana iconoclastia nei confronti di classici ancora più classici
(si veda la divertente cover di “Hello I Love You” dei Doors, con una assurda citazione di
“Quattro amici al bar” di Gino Paoli), non riusciamo a liquidare il progetto con una alzata di
spalle. Le canzoni degli Atomika (chiedo venia se faccio fatica a scrivere il nome per intero)
sembrano uscite da un disco dei Duran Duran del 1983 con Simon Le Bon e soci presi da
una inaspettata fregola art rock, e sono indubbiamente piacevoli. Difficile considerarlo più di
un divertissement ma, all'interno di questa specifica categoria, “Old Wave Prophets” merita
senz'altro un occhio di riguardo.
Contatti: www.loscafandro.it/category/atomika-kakato
Alessandro Besselva Averame
Pagina 27
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Numero Febbraio '11
Albedo
Il male

autoprodotto


Rock melodico italiano. Classico. Ma mai come in questo caso la particella “indie” sarebbe
più che legittimata a precedere le coordinate musicali di genere. Anzi, verrebbe da
aggiungere, che forse solo in questi casi ha veramente senso citare l'“indipendenza”. Perché
gli Albedo alle spalle non hanno né casa discografica né distribuzione: si sono rinchiusi al
Transeuropa di Torino a proprie spese e ne sono usciti con questo concept-album sul male
che mai farebbe pensare a un'autoproduzione dato l'ottimo risultato raggiunto a livello
sonoro e per il prezioso e curatissimo packaging che confeziona queste dieci canzoni.
Anche dal punto di vista musicale è subito evidente quanto gli Albedo abbiano le idee chiare
in merito, facendo intuire una buona esperienza alle spalle. La loro formula muove su
semplici ma riuscite trame rock, alternando momenti più vigorosi ad altri più quieti, che
grazie a linee melodiche incisive e crescenti danno vita a brani ben costruiti e di facile presa.
Solo in pochissimi casi si sfiora un po' troppo la faciloneria occhieggiando a derive
mainstream (ci vengono in mente i Misto Nocivo); rischio questo che però viene subito
esorcizzato da una profondità artistica molto più costante e dalle ricercate e suggestive
liriche mai banali che caratterizzano ogni traccia. Canzoni come “Cemento e gelosia” ed
“Esistono ancora i pescatori?” non farebbero sfigurare affatto gli Albedo a fianco di band
apprezzate come Virginiana Miller, Valentina Dorme e Perturbazione, anzi. Avanti così.
Contatti: www.myspace.com/effettoalbedo


Andrea Provinciali
Pagina 28
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Numero Febbraio '11
Babaman
Raggasonico
Oblio/Universal
Un talento decisamente da seguire: lo avevamo pensato già all'epoca della conversione
ragga di Babaman (nasce infatti come MC più tradizionalmente hip hop), lo ribadiamo con
forza ora che con “Raggasonico” sancisce definitivamente i confini della sua personalità
lirica. L'uso della voce è prettamente ragga, con tanto di routine ben note (sugli accenti, sulla
respirazione, sulla graffiatura della voce...), ma ciò che rende il nostro davvero interessante
va da ricercare, appunto, nelle sue radici: la scrittura dei testi infatti è decisamente sopra la
media del cantante ragga standard, più complessa, più immaginifica, più avvolgente, più
intelligente; merito, saremmo pronti a scommetterlo, degli anni passati nelle paludi del rap, lì
dove la costruzione di frasi ed immagini la fa da padrone, molto più che nelle musiche più
prettamente giamaicane e comunque basandosi su luoghi comuni semantici differenti.
Babaman fonde perfettamente i pregi dei due mondi, diventando così uno dei personaggi più
interessanti da sentire al microfono nel variegato (numericamente, più che stilisticamente)
mondo della musica giamaicana in Italia. Non male neanche la parte musicale; non
all'altezza forse in quanto ad originalità della voce guida, ma pure lei non troppo banale e
prevedibile, con qualche colpo ben assestato. Bomboclat, stavolta per davvero.
Contatti: www.myspace.com/uraganobabaman
Damir Ivic
Pagina 29
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Numero Febbraio '11
Carneìgra
Fumatori della sera
autoprodotto/Wondermark
Un percorso di ibridazione folk-rock è la cifra del gruppo dei Carneìgra, giunto al terzo
lavoro discografico e assestandosi, dopo svariate incarnazioni, nella formazione in trio
acustico: Emiliano Nigi, Antonio Ghezzani e l’ex Snaporaz Matteo Pastorelli. Quando si è in
compagnia di un affollata pletora di musicisti che smerciano “musica mediterranea”, bisogna
distinguersi per qualche maniera. I Carneìgra lo fanno per la ricercatezza timbrica – corde,
corde e ancora corde, mandole, mandolini, ukulele, chitarre acustiche, classiche ed
elettriche (poche) – e per una schietta semplicità artigianale, per la teatralità sorridente del
cantante Emiliano Nigi. Forse non a caso i Carneìgra appartengono alla scoppiettante scena
livornese (ascendenti nobili: Piero Ciampi e Nada), che condividono con Luca Faggella,
Virginiana Miller, Bobo Rondelli e Ottavo Padiglione... Coprendo un’escursione che va dal
recupero popolare al crisma cantautorale, la scaletta mostra qualche debito ora a Capossela
(“TVB”, “Batticuor”: “senti come batte il batticuor”), ora al lirismo circense di De Gregori che
declina verso scorribande polverose degne di Conte (“L’acrobata”), ora ancora al teatro
canzone, alla canzone ironica, ad arie levantine e suggestioni elleniche. Filastrocche
minimaliste, ballate folk, strofe cantate sommessamente ai lati della strada, di notte, quando
le idee di complicano un po’: i “fumatori della sera” dei Carneìgra sono sogni, come “mollica
di vita” tra le zampe delle cavallette.
Contatti: www.carneigra.it
Gianluca Veltri
Pagina 30
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Numero Febbraio '11
Dimartino
Cara maestra abbiamo perso
Pippola/Audioglobe
Che la scena degli anni Zero sia vivace, non lo scopriamo noi oggi. Il tempo saprà dare il
giusto valore a questa covata cantautorale. Intanto registriamo un debutto, il levarsi di una
nuova voce, quella del palermitano Antonio Di Martino. Immediatezza melodica e elettricità
wave, nel solco di una fortissima continuità con la canzone italiana, Di Martino, foggiato in
copertina come un infante Bonaparte, è un urlatore. L’attacco fa impressione, perché
“Cercasi anima”, la prima traccia, ci porta proprio assai vicino a Rino Gaetano – sempre più
evocato dai giovani songwriter – ma poi il ritornello vira, semmai, verso Ivan Graziani. E
insomma, la tavolozza coi colori e le tonalità è già bella e aperta. “Ho sparato a Vinicio
Capossela” dà conto di un’attitudine surreale presente nella vena del giovane cantautore.
L’elettrica “Cara maestra” è tra punk e new wave, e così pure la rilettura di Luigi Tenco,
omaggiato in “La ballata della moda” con l’aiuto del mentore Cesare Basile, padrino del
debutto in veste di produttore artistico. Nell’ottima “Parto”, canzone ai tempi dei licenziamenti
dei metalmeccanici, Di Martino è in compagnia di Vasco Brondi, del quale condivide certo
immaginario – gli occhiali neri di Pasolini, le fabbriche, i palazzi. Come una spuma sparsa
sulle canzoni, una ricerca di soluzioni, anche sonore, di stampo vintage, certo invogliata o
facilitata anche dagli studi in cui l’album ha visto la luce, le Officine meccaniche. Per questo
forse “999” ha un ritornello che sa di Loredana Berté. Il tono fondamentale dell’album è
quello, un po’ naif, di un’innocenza che non c’è più, non soltanto personale, ma soprattutto
complessiva, inter-generazionale. Di un difetto di personalità (“siamo carte senza identità”),
di occasioni perdute. Aspettiamo Di Martino alle prossime prove, quando anche la sua
identità avrà acquisito un’impronta più spiccata.
Contatti: www.myspace.com/dimartinoband
Gianluca Veltri
Pagina 31
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Numero Febbraio '11
Ettore Giuradei
La Repubblica del Sole
Mizar-Novunque/Self
“Sarà la limpida Repubblica del Sole, Stupido, non ridere, perdonami...”. Aprendo con i versi
della title track del suo nuovo album, ritorna in sella al filo sottile, fantasmagorico, delle sue
liriche, per cavalcarlo fino in fondo nella prova che conferma le sue validità, e varietà,
autoriali, interpretative, e musicali, l'ormai trentenne Ettore Giuradei. Mai età poteva essere
più sintomatica di raggiungimento di maturità e personalità difficilmente dimenticabili e
confondibili nel panorama musicale italiano. Con la sua “La Repubblica del Sole” arriva a
conclusione del percorso che anche su queste pagine è stato avvistato, segnalato, e atteso
con entusiasmo a partire dai precedenti “Panciastorie” ed “Era che così”; verso questo
chansonnier dei nostri tempi, che di quella corrente storica e passionale ha prima di tutto le
caratteristiche di origine interpretative: il teatro, virato e macchiato nel comico. Ma ben si sa
come quell'ironia, quella necessità di comunicazione comica, nasconda lo sguardo di chi sa
osservare, elencare ciò che appartiene all'oggi e al giorno. E questo fa il bresciano d'origine,
arrivato a essere vagabondo “sovvertitore impegnato del pop”, come si legge dalla sua
pagina Web: annotare e consegnare il suo sguardo verso il mondo. Mantenendo compatta la
ciurma che fin qui l'ha condotto, il vento in poppa, si avvale ancora una volta del piano del
fratello Marco, con Danilo Di Prizio alla chitarra, Alessandro Pedretti alla batteria e
Domenico Vigliotti ai suoni. “Se mi andrà bene ti amerò per sempre, se mi andrà meglio
morirò per te”, echeggia da “Eva” il cuore nobile di Giuradei, in una sequenza di brani, dieci,
che mantengono la fortunata non scelta a una sola timbrica tipologica, spaziando come
dimostrano i versi di dissacro impegnato di “La Repubblica del Sole”, e quelli vibranti
d'impegno di “Paese”: “L'odore di vergogna, che sembra lavorare, è l'unico rimasto, e non
s'è mai staccato, ti tira su la schiena, non è per lavorare, sognare la sirena e smetter di
scappare”. Come non si evita, senza falsi pudori, di parlare d'amore, e sue rotte inesplicabili,
così da rivolgersi alla vita, come insegnano la già citata “Eva”, e “4 Matrimoni”. Ti entra
dentro “Sensazioni”, scavandole e tirandole fuori dai labirinti di ognuno, con la potenza della
melodia che esplode generosa e tormentata. Chiudendo con la polka-mazurka-valzer di
“Macchinina cocaina”: “La platea è pronta, il cinese guarda e gioca, gioca a Jackpot”,
dimostra di ricondurci all'oggi, con il sapore di presente che deve avere, carica di salsedine
del mare solcato, un'avventura capace di riscoprire le verità del cuore e dell'animo dell'uomo,
che, invitato a scoprire le chitarre solitarie, ingraziate dal piano, e dal pieno degli strumenti,
che si aggiungono, per rimanere, forti, troverà un nuovo menestrello d'Italia e non solo,
pronto a salpare presto verso un nuovo viaggio.
Contatti: www.ettoregiuradei.it
Giacomo d'Alelio
Pagina 32
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Numero Febbraio '11
Father Murphy
No Room For The Weak
Boring Machines

Partiti come cultori di un mix di pop alla Syd Barrett, slow-core americano e folk, i Father
Murphy si sono poi evoluti personalizzando il proprio percorso fino ad arrivare alla
rivoluzione copernicana di “...And He Told Us To Turn To The Sun”. Quest'ultimo, eretica
illuminazione sulla via di Michael Gira e dei suoi Swans – per lo meno nelle intuizioni
generali – sospesa tra apocalittico ed essenziale e col timone ben orientato verso il mercato
americano. La naturale conseguenza è stata un'attività live prevalentemente extra italiana,
tanto succosa da portare il gruppo a condividere il palco con artisti del calibro di Deerhoof e
Xiu Xiu, farlo finire nel roster della Aagoo Records per il mercato estero e permettergli di
costruirsi una credibilità solida nell'ambiente indipendente.
Il qui presente EP “No Room For The Weak” non fa che confermare l'universo ossessivo del
disco precedente, con quattro brani missati da Marco Fasolo dei Jennifer Gentle in bilico tra
tribalismi, droni, psichedelia e distorsioni fangose. Se possibile, in una versione ancora più
estrema e senza compromessi rispetto al recente passato, vicina al fluire deregolamentato di
una Carla Bozulich ma anche rispettosa dei caratteri fondanti del suono del gruppo. Alla fine
tutto funziona come dovrebbe, compresa l'irriconoscibile e claustrofobica “There Is A War” di
Leonard Cohen posta in chiusura a mo' di pietra tombale.
Contatti: www.myspace.com/reverendmurphy
Fabrizio Zampighi
Pagina 33
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Numero Febbraio '11
Fauve! Gegen A Rhino
Namegivers’ Avenue
Tannen
A distanza di pochi mesi (ne avevamo parlato nel numero estivo) torna il trio di giovanissimi
pistoiesi Fauve! Gegen A Rhino con un mini-album di otto brani e tanta voglia di sembrare gli
Stereolab. Il bello è che ci riescono. Il dubbio è che magari speravano in qualcosa di più,
qualcosa di diverso che al momento non hanno ancora saputo afferrare. La scaletta, per
quanto breve, scorre meravigliosamente e si presta a ripetuti ascolti, conoscendo numerosi
momenti brillanti che si fanno pure notevoli in un paio di occasioni (“A Bridge For The Sky” e
soprattutto “A Factory”). Purtroppo, per loro implicita ammissione, che si tratti di riverberi
sonori o di fini e sarcastiche cogitazioni, si ha la netta impressione di avere già sentito
altrove gli stessi suoni minimali, le stesse crescite senza valvola di sfogo. I F!GAR (anche il
loro acronimo ne ricorda altri) sono ottimi studenti, di quelli che si capisce fin da subito che al
posto di farsi le pippe sul web, hanno impiegato del tempo ad ascoltare dischi per trarne
giovamento ed ispirazione (salvo poi rinunciare ad ore di sonno per farsi le pippe sul Web).
Andrea, Matteo e Riccardo, hanno appreso i testi ed hanno sicuramente grandi teste (non si
spiegherebbe altrimenti la deliziosa “Have U Ever Asked Yourself...”), ma se in futuro ci
mettessero anche il sangue e le palle, non sarebbe male. Se non altro, per evitare che
anche le future recensioni si debbano ridurre a spiegare il significato del monicker e
sciorinare paragoni impegnativi, dalla scena kraut fino al post-rock.
Contatti: www.myspace.com/fauveisaband
Giovanni Linke
Pagina 34
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Numero Febbraio '11
Gionata
In nove mosse
Hansia/Nenieritmiche
Più di dieci anni di carriera, ormai, per il ticinese (nel senso di svizzero italiano) Gionata,
una carriera all'insegna di un cantautorato a tratti stralunato, a tratti intimista, a tratti
sfacciatamente (e ludicamente) pop, iniziata ufficialmente nel 2001 con la pubblicazione di
“Mi sono acceso”, prodotto da Gianni Maroccolo. “In nove mosse” conferma il talento di un
personaggio che probabilmente non ha raccolto consensi adeguati pur producendo musica
di buon livello, ovvero canzoni lievi e ironiche bilanciate al meglio tra tecnologia e
classicismo, un equilibrio che funziona nel migliore dei modi anche qui. Per comprendere al
meglio l'eclettismo del cantautore basta ascoltare “Di più”, con quegli inserti
techno-psichedelici che vanno a braccetto con una leggerezza degna di Max Gazzè, mentre
“Credo in Dio” è una stranissima e affascinante creatura che parte da Claudio Rocchi, passa
per Daniele Silvestri e approda ai Baustelle. Ma tutti questi nomi rischiano di sminuire
l'originalità di canzoni che hanno, al di là dell'eclettismo, della varietà delle vesti e
dell'acume, una caratteristica fondamentale e decisiva: sono appiccicose, entrano in circolo
subito e hanno la capacità di venire assimilate immediatamente. Non possiamo far altro che
ribadire il talento del Nostro, e augurarci che sempre più persone entrino in contatto con le
sue canzoni. Difficile pensare che non si lasceranno catturare.
Contatti: www.gionata.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 35
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Numero Febbraio '11
Gr3ta
Gr3ta
Bagana/Audioglobe
Tutte le canzoni del secondo disco a nome Gr3ta hanno il 3 al posto della lettera "e".
Verr3bb3 da scriv3r3 una r3c3nsion3 acc3ttando le r3gol3 del loro gioco, ma mi s3mbra una
punizion3 3cc3ssiva p3r i coraggiosi l3ttori, forse ancora più che ascoltare questo
elettro-rock che da un lato strizza l'occhio a qualcosa di "up" (Aphex Twin, Massive Attack,
Peter Gabriel, Nine Inch Nails, Depeche Mode), dall'altro scade in un becero qualunquismo
da "industriale" di massa al cui confronto Marylin Manson diventa purissimo "high-brow".
Avendo già delineato con chiarezza le coordinate musicali restano due possibilità.
1: Chi ama le sonorità oscure dark e post-punk (insomma, quel grande novero di nostalgici
che non è ancora uscito dagli anni Ottanta) può apprezzarne l'eclettismo, il tentativo di
tenere il piede in più scarpe per non apparire troppo monolitici e ancorati ad un solo
immaginario e la forza tellurica di questi arrangiamenti molto "docks".
2: Chi è ideologicamente contro questo tipo di musica non dovrebbe nemmeno avvicinarsi.
Non ne ha il motivo. Si tratta del "nemico". Stimabile. Bravissimo (perché sì, i Gr3ta sono
bravi, e pur "votando" per la mozione 2, trovo che una canzone come "Hot Spot" meriti a
prescindere: forza, costruzione, epica). Futuribile. Degno di esistere. Ma sempre nemico. Si
tratta di una scelta politica: chi sceglie, starà dalla (sua) giusta parte.
Contatti: www.gr3ta.com
Hamilton Santià
Pagina 36
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Numero Febbraio '11
GuruBanana
Karmasoda
Shyrec
L’immaginario di Andrea Fusari impreziosito, tradotto, arrangiato dall’estro creativo di
Giovanni Ferrario. Due autori di canzoni che si erano trovati già bene insieme nel 2008
quando ha visto la luce l’esordio omonimo accolto e prodotto da Macaco. “Karmasoda”
uscito alla fine di gennaio per Shyrec ci pone di fronte a un buona seconda prova. Sarebbe
difficile riportare qui tutti i nomi che vengono in mente ascoltando queste canzoni; potrebbe
invece essere più interessante concentrarsi sulle emozioni. Una ballata come “Talking On
Numbers” potrebbe cambiare i giorni tristi e definirli, esorcizzarli e renderli il passato.
“Monochrome Elvis” è una commistione reggae rock che la cantante ospite Isabella Mondini
rende new wave, abbracciando una tranquillizzante melodia rock. Le direzioni sembrano
tante ma solo apparentemente. È un disco più elettrico rispetto al precedente, ma è
aumentata l’intesa musicale tra Fusari e Ferrario e quindi c’è più compattezza; e se la mano
di Giovanni, arrangiatore esperto, si sente, notiamo il talento di Andrea che proprio Giovanni
aveva spinto a scrivere canzoni sue invece di dedicarsi agli Impossible Blues, cover band di
blues. I testi dei GuruBanana, quasi tutti scritti da Andrea, sono molto amari e malinconici a
volte claustrofobici, senza speranza e con tante delusioni da dimenticare. Testi adattabili a
ciascuna delle nostre vite, qualche volta, ma la melodia che accompagna le parole cerca di
fuggire verso nuovi lidi magari più caldi e avvolgenti. Chissà che i GuruBanana del futuro
non facciano dell’ironia il loro manifesto, ma ci piacciono anche così.
Contatti: www.myspace.com/gurubanana1
Francesca Ognibene
Pagina 37
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Numero Febbraio '11
Il Club dei Vedovi Neri
Dodici storie nere
C.P.S.R. Produzioni/Venus
La musica come racconto, attraverso le note ma anche (soprattutto?) attraverso le parole:
questo l'intento del Club dei Vedovi Neri, formazione nata dall'incontro tra un
polistrumentista, Claudio Brizi, e un cantautore, il milanese Francesco Casarini: un duo
attorniato da un team più o meno variabile di musicisti, tra i quali Davide Barbatosta dei
Nobraino alla tromba in alcune canzoni. Una ragione sociale che mette subito in evidenza il
taglio noir dato al repertorio, costituito da murder ballads che non intendono riprendere
pedissequamente i codici della tradizione folk anglo-americana, ma cercano di applicarli alla
tradizione cantautorale della penisola. I risultati non sono rivoluzionari né vorrebbero (o
dovrebbero) esserlo, e la scrittura vuole essere il più possibile semplice e lineare senza per
questo motivo perdere in sottigliezza poetica, e il risultato finale è assolutamente degno di
attenzione. Vengono in mente nomi e volti della nostra tradizione, e non mancano le
assonanze con il nostro cantautorato più “letterario”, veicolate da una vena vocale e
compositiva autenticamente comunicativa e oseremmo dire schiettamente “rurale”,
abbastanza eclettica da colorarsi di spezie (le percussioni di “Lungo il fiume”, il blues in
minore de “Il giorno di una rosa”). Dodici episodi di buon artigianato popolare, in buona
sostanza, ispirati e privi di fronzoli come ogni murder ballad che si rispetti.
Contatti: www.vedovineri.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Febbraio '11
Kipple
The Magical Tree And The Land Of Plenty
I Dischi del Minollo
L’obiettivo principale della label indie I Dischi del Minollo è quello di pescare dal sottobosco
indipendente italiano, le realtà più piccole, oscure ed ancora incontaminate dal grande
minestrone sotterraneo italico. Dal suo cappello, a questo giro, escono fuori i Kipple, trio di
stanza a Bologna, invischiato nelle nebbie shoegaze e pulsante di beat elettronici, dalla cui
commistione vengono generati paesaggi post-rock a tratti inediti e colmi di cli-max
emozionali.
Di “The Magical Tree and The Land Of Plenty” stupisce soprattutto la formula, priva di
batterie fisiche, sostituite da beat lievi difficili da scorgere sotto la fitta coltre di chitarre in
riverbero e voci effettate. Tutto questo infonde alla totalità del disco un alone sognante e
narcotico, come i migliori Cocteau Twins ci hanno viziato, adagiandosi lieve sulle tessiture
pop, come nella soavità di “Brandon” o nell’incedere circolare ed ipnotico del singolo
apripista “Baby Kisser, Baby Killer”. Un sogno ovattato che si snoda in otto tappe, in cui
piccole imprecisioni ed alcuni frangenti di ostentata “etereità”, dimostrano comunque un
ottima originalità di fondo, di cui “The Magical Tree And The Land Of Plenty” è un abbozzo di
spunti ed atmosfere che fungono da solide basi per la costruzione di qualcosa di ben più
grande e fantasioso. Caratteristica e peculiarità che speriamo possa svilupparsi, più sicura e
carismatica, in un futuro non molto prossimo. Aspettiamoli.
Contatti: www.myspace.com/kippleband
Luca Minutolo
Pagina 39
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Numero Febbraio '11
La Claque di Dafne
LA CLAQUE DI DAFNE
Drei
Audiolabstudio
A metà degli anni 90 il rock italiano “era come l’universo: in espansione”; si raccoglievano i
primi frutti di tutto quanto coltivato nel decennio precedente: professionalità, maturità artistica
e un pizzico di consenso commerciale. Anche l’underground romano, storicamente poco
vivace, viveva allora una primavera particolarmente rigogliosa. Tra i gruppi di quel periodo il
quartetto de La Claque di Dafne lasciò un unico segno, breve ma indelebile: “Fonetica libera
trance” (FTS, 1996), un mini-CD degno di essere annoverato tra i migliori prodotti della new
wave italiana di sempre. Quel disco avrebbe dovuto essere il preludio a qualcosa di
speciale; non dico a una carriera di gloria e di culto – che in Italia è fatto straordinario – ma
quantomeno ad un lavoro sulla lunga distanza degno del prelibato antipasto. Non fu così,
perché la band si sciolse come neve al sole.
È passata una dozzina d’anni: i ragazzi di un tempo sono uomini navigati e ripensano con
entusiasmo a quando insieme calcavano i palchi dei locali sotterranei. Ed eccoli di nuovo
insieme, a rimetter le mani ai vecchi spartiti e a risanare l’ispirazione di un tempo. Ed ecco
finalmente l’album agognato, “Drei”, emozionante e intenso così come i fan se lo sarebbero
aspettato allora.
E non è per partito preso o per nostalgia dei tempi passati se il cd continua a girare nel
lettore, fin quando tutte le note e tutte e le parole non rimangono impresse nella testa.
Piuttosto perché brani come “Ego in Arcadia” e “Activist” è difficile staccarseli da dosso: la
voce così intensa ed espressiva di Emiliano e i suoi testi così raffinati e visionari, le eleganti
chitarre di Gabriele, le dinamiche di gruppo incalzanti e nette come fendenti; incredibile che
ancora oggi sia possibile scrivere canzoni così semplici, immediate, cariche di emotività, di
forza espressiva, di decadente lirismo.
Contatti: www.myspace.com/laclaquedidafne
Fabio Massimo Arati
Pagina 40
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Numero Febbraio '11
Laradura
Senza fine
Red Birds/Audioglobe
Laradura è una band al cento percento mediterranea, fondata nel 2005 dai siciliani Luca Li
Voti (chitarra e voce) e Gaetano di Giacinto (batteria), dal calabrese Andrea D’Urzo (basso)
e dal sardo Valentino Pirino (chitarra), che si definiscono “quattro anime provenienti da terre
calde, calde come il suono che ripropongono; suoni dilatati, parole che lasciano spazio
all’immaginazione, musica a cuore aperto”. Il primo passo era giunto con l’autoprodotto
“...Dal tramonto all’alba” del 2007, un concept che richiamava appunto le varie fasi di una
giornata attraverso sei canzoni. Realizzato al Loto Studio, “Senza fine” mette senz’altro in
luce buoni propositi: dalle registrazioni effettuate con efficacia in presa diretta ai testi, scritti
in italiano e lontano da banalità a presa rapida (“Notte verde” è ripresa da una poesia di
Federico Garcia Lorca). In realtà, la cura degli intrecci sonori, sia elettrici sia acustici, va di
pari passo con aperture maggiormente rock: i nove brani in scaletta, del resto, sono spesso
articolati e assecondano apprezzabili variazioni di andamento (dall’iniziale “Andate in pace”
a “In ombra” e “Chiaroscuro”, che oltrepassano i sei minuti di durata). Oltre alle vere e
proprie canzoni, che convincono meno nelle parentesi filo-recitate, segnaliamo tre
strumentali niente male (“Tony Cascella”, “Arpeggino” e “Ritorno al vento”). Si può
ovviamente lavorare per affinare la formula e accentuare il coefficiente di personalità. Ma
l’avventura è appena all’inizio.
Contatti: www.myspace.com/laradura
Elena Raugei
Pagina 41
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Numero Febbraio '11
Le Fragole
La piccola enciclopedia del bosco vol. 2
autoprodotto
Le Fragole di Marco Tascone & friends proseguono il loro viaggio di formazione nel bosco. Il
romanzo della crescita per il gruppo di Borgo Panigale passa da altre ben 22 stazioni,
quante sono le tracce del volume secondo. E stiamo sul limitare: tra la freschezza, la grazia
e un disarmante abuso di naiveté. Tutto il percorso è condotto su questa striscia che separa
la benefica brezza di una gioventù ingenua, felice d’ogni sorpresa (da una parte) e l’eccesso
di candore e didascalismo, la scorciatoia della basicità (dall’altra). Quando l’equilibrio si
compie, i dolori del giovane Tasco sono un piacere per le orecchie, un concentrato positivo,
musica del sorriso, poetica della giocosità. Anche quando si cantano le sofferenze
dell’amore (“Chi ama soffre”, “L’amore non corrisposto”) e l’ambivalenza della vita (“b/n”,
“Niente è tutto”). “E il sole splende anche per me”, con le ironiche chitarre hendrixiane, ha un
tiro alla Alberto Fortis; l’incantevole “Romanzo” è una canzone delicata e adulta nelle corde
di un Battiato. In “Domenica” vengono scandite le sette note (“DOmenica REspingerò chi MI
scriverà ecc.”), nascoste dentro le parole di due versi: davvero grazioso. Come si diceva, i
risultati, sebbene in generale stimolanti e simpatici, sono alterni. Immediatezza beat in “Così
bella”, archi baustelliani per “L’amore non corrisposto” e atmosfere cocktail da film anni 70 in
“Sono indeciso” (testo imbarazzante). Anche però una tendenza alla logorrea e qualche idea
non proprio originale o lapalissiana: il ritornello di “Ragazzi di sobborgo” è indeciso tra
Pasolini e Pezzali. Rischi della “leggerezza” senza pregiudizi. Insomma la soglia rossa è
quella che fa sconfinare la semplicità nella facilità. Il CD è nettamente diviso in due parti,
come i vecchi vinili: la prima è luce, la seconda è (più) ombra, le “fragole nere”, per quanto
possono essere ombrose le Fragole.
Contatti: www.lefragole.net
Gianluca Veltri
Pagina 42
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Numero Febbraio '11
Luciano Maggiore - Francesco Brasini
Chàsm Achanès (Huge Abyss)
Boring Machines
Un'unica traccia per quasi trentasei minuti di musica. Un'immersione interminabile in
un’ambient dilatata, sospesa, monumentale e lentissima. A dar vita a questo “gigantesco
abisso” Luciano Maggiore e Francesco Brasini, rappresentanti di quell'area
elettronico-concreta bolognese in cui, tra i tanti, rientrano anche Stefano Pilia e Dominique
Vaccaro. Quest'ultima attratta dal lavoro sui nastri magnetici, dalle textures, dal confronto tra
musica e spazio acustico, in una mescolanza di performance artistica e indagine
contemplativa.
In “Chàsm Achanès (Huge Abyss)” (registrato in presa diretta presso l'Officina 49 di
Cesena) si va avanti per accumulazione, partendo da un suono ripetuto a oltranza che
assomiglia alla sirena di una nave e passando per un ribollire di pseudo-feedback che
inizialmente fa da cornice per poi prendere il sopravvento. Nella totale assenza di particolari
ritmici canonici, senza un climax che dia alla musica una destinazione precisa e rapiti da un
senso di spaesamento che fa dell'attesa il solo canone interpretativo possibile.
Un'architettura in bilico tra macchine e chitarre definita dalla continuità dei suoni, dalla
coerenza dei timbri e dallo sviluppo di un fluire difficilmente etichettabile.
Contatti: www.boringmachines.it
Fabrizio Zampighi
Pagina 43
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Numero Febbraio '11
Majakovich
Man Is A Political Animal By Nature
Anti.Dot/Goodfellas
Rock robusto e contaminato? Per quanto un po' vaga, una definizione di questo tipo
crediamo possa agevolmente fare al caso di chi voglia farsi un'idea sommaria del territorio in
cui si muove questo terzetto. Una band dal sound compatto, i Majakovich, una compattezza
e una potenza di tiro messa a punto e assecondata nel migliore dei modi da Giulio “Ragno”
Favero al Blocco A: una garanzia, insomma, per chiunque ami i suoni pesanti e ragionati. I
riferimenti all'interno delle singole canzoni vanno da uno stoner che si muove in direzione
rock'n'roll (sarebbe ipocrita non riconoscere parentele con i Queens Of The Stone Age in “I
Could Take A Light”, posta in apertura) ad un post-hardcore affilato e denso nelle tessiture
(“Leonard's Smile (Part One)”, che punta in direzione At The Drive-In), passando per un la
title track che pare omaggiare, rileggendolo alla luce della modernità, certo hard rock
d'antan, e approdando, ai margini estremi, ad uno spazio concesso senza compromessi alla
pura sperimentazione sonora (i field recordings spiazzanti de “L'era della massoneria”).
Queste le direttrici di un disco che fila liscio come l'olio sui binari che si era prefissato di
percorrere fin dall'inizio, un lavoro ispirato e solido, ancora un po' ancorato ai riferimenti ma
di grana pregevole.
Contatti: www.myspace.com/majakovichterzet
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Febbraio '11
Maria Lapi
Ignote melodie
Effettonote/Edel
Arriva da Milano, ma scorrendole nelle vene sangue pugliese, messo in evidenza dai suoi
colori mediterranei sia di lineamenti che di timbriche e sonorità musicali, la giovane
cantautrice Maria Lapi, accompagnata da un tenue e intelligente utilizzo del mezzo web, con
sito, Facebook, MySpace, a suo tempo anche diario Splinder, quello dell'uscita nel 2008 del
suo primo singolo, “Luna nascente”, per l'Effettonote di Mattia Panzarini. Ha continuato a
credere in lei, Panzarini, a questo giovane avvocato, che, tentata anche la strada della
magistratura, ha deciso invece di deviare rivolgendola alla musica, quella che aveva iniziato
a frequentare fin da giovanissima, tramite i tasti di un pianoforte, per fare il salto di qualità
creativo proprio quando iniziò a brandire la sua chitarra e a comporre testi e melodie. Le ha
dato fiducia, e ora la Lapi si ritrova tra le mani il suo primo album, “Ignote melodie”, 10 brani
a cui si deve aggiungere la bonus track, il singolo recuperato e ridonato agli ascoltatori. Tutti
scritti e musicati da lei, eccezion fatta proprio per il brano omonimo all'album, scritto a
quattro mani con Cristiano Bacherotti, anche alle batterie. Con alla produzione artistica
proprio Mattia Panzarini assieme a Andrea Rizzardo, si aggiungono, agli strumenti e
arrangiamenti della Francesco Mantero&Band, Lele Palimento al basso, Matteo Giudici alle
chitarre, Simone Bollini al pianoforte e tastiere, in una virata melodica, che definita
acustico/folk/pop su pagina Facebook, spazia tra jazz, musica d'autore, easy listening e
funk. Altra carta per lei vincente la voce, leggera e piena di colori, quelli che ha potuto
coltivare grazie all'incontro col canto lirico e Daniela Panetta, sua insegnante, come in altre
realtà di Milano, ma anche e soprattutto collaboratrice di Paolo Conte (“Ratzmataz” e
“Reveries”). Tutte fortunate coincidenze a cui ha dato una bella mano Maria Lapi, che già
dalla copertina dell'album dimostra la sua carta vincente, una freschezza e generosità
complice, lei in copertina. Avendo come influenze musicali ideali, dichiarate in precedenti
interviste, tanto per gradire, per la chitarra Ani Di Franco, per la voce sia Ella Fitzgerald che
Jeff Buckley, alle melodie Mario Venuti, ai testi Samuele Bersani, arrivando anche al rock
duro e alla musica classica, ecco servito “Ignote Melodie”, che risulta godibile all'ascolto,
piacevole sottofondo, con guizzi che rimangono incisi con più decisione quali i brani “Mani”,
“Il Tempo”, proprio il primo singolo “Luna nascente”, che aveva giustamente convinto
nell'arrischio Panzarini. Come tutti gli altri brani che con loro, in un buon prodotto,
sicuramente ben confezionato, voce luminosa, all'ascolto rinnovato dell'album saranno
capaci di far intuire però oltre al sorriso anche quell'ombra che si nasconde, si deve
nascondere inevitabilmente, dietro di esso. Così da far librare più netta al di sopra del
magma del “bello” Maria Lapi, dando spazio fino in fondo alla personalità che dimostra di
avere. Ma si è solo agli inizi. E c'è da ben sperare per il futuro, che in quanto tale è alle
porte.
Contatti: www.marialapi.com
Giacomo d'Alelio
Pagina 45
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Numero Febbraio '11
Mario Mariani
Utopiano
Vivirecords/Self
Forse per il grande pubblico è più conosciuto con l'immagine di lui elmetto da speleologo in
testa, luce accesa, seduto a un pianoforte all'interno della Grotta dei Prosciutti,
nell'Appennino umbro-marchigiano, a oltre mille metri nel Monte Nerone, provincia di
Pesaro-Urbino, dove si è rintanato per quattro settimane l'estate scorsa a creare, ripreso tra
l'altro dagli schermi di Repubblica Tv. Si sta parlando di Mario Mariani, compositore e
pianista, classe 1970, originario proprio di Pesaro. Proveniente da un'esperienza che prende
i primi passi dal Conservatorio di Musica “G.Rossini” della sua città, ha spaziato nella
sperimentazione, trovando conforto artistico nell'incontro con il teatro, la performance live, il
cinema. Proprio con il cinema negli ultimi anni ha lavorato con costanza, componendo la
colonna sonora portante non solo per i film di Vittorio Moroni, con lui a breve anche a teatro,
ma anche per il Festival di Venezia (1999/2001 e 2005/2007), intrufolandosi pure nel piccolo
schermo, componendo musiche per spot. Alternando a questo anche un'attività concertistica
(tanto per godersene una è da cercare in rete il suo divertissement su “The Goldrake
Variations”, facendo chiaramente il verso, rispettoso, a ben più alte e nobili variazioni...), e
live, non ultima la recente “Mandala”, performance a Pesaro con sabbia, pianoforte e
schermo, compiuta con Piero Ottoni (precursore italiano della “sand art”), ha raccolto le
energie creative fin qui spese e le ha incanalate nell'uscita del suo primo album per solo
pianoforte, “Utopiano”. Sette brani dove il pianoforte a corda è utilizzato come se fosse una
moltitudine di strumenti, interagendo, attraverso gli oggetti più disparati, con le corde stesse
del piano, direttamente là dove il suono prende vita. Così creando, come lui stesso ama
dichiarare, un' “utopia del suono”, sfruttando al meglio le caratteristiche intime, di cui è
capace il piano, delineando mondi ricchi di sfumature ed emozioni. Richiamando idealmente
gli esperimenti del Maestro John Cage, Mariani cerca di comporre in tempo reale, catturando
quelle idee che, accese dalla scintilla creativa nata in quelle quattro settimane in grotta,
hanno portato a pezzi come “Cagliostro” e “Bitume sonata”, pezzi agli antipodi, ma che per
respiro, e peculiarità, sono il cuore pulsante dell'album. Tanto infatti “Cagliostro” procede
classico, con improvvise variazioni, quanto “Bitume sonata” è tagliato da continue incursioni
nella ricerca e spinta sonora delle possibilità che lo strumento pianoforte, in quanto tale e
struttura, può creare se ben solleticato ed esplorato nella sua interezza meccanica.
Producendo un'ottima spinta a cercare di percorrere assieme a lui le strade inaugurate di
questo “non suono” o “suono ideale”, e farlo più volte.
Contatti: www.mariomariani.com
Giacomo d'Alelio
Pagina 46
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Numero Febbraio '11
Maxpicchiatoda3
Maxpicchiatoda3
Green Fog/Venus
A metà strada tra un certo intimismo ad alto volume che ci riporta alla mente i C.O.D., il
powerpop carico di parole incastonate tra fraseggi di chitarra dei Numero6, una
spensieratezza dalle lontane origini britpop e una immediatezza “da stadio” che cerca di
parlare la stessa lingua dei Subsonica più ecumenici, gli astigiani (con elementi genovesi)
Maxpicchiatoda3 cambiano nome (erano Polish Child fino a qualche tempo fa) e lingua,
passando dall'inglese all'italiano, e incidono l'omonimo debutto con un entusiasmo che
fuoriesce nettamente dalle casse, pur senza essere sospinto in tutti i brani da eguale
tensione creativa. Ci pare tuttavia che il tentativo di trovare una propria via tra i possibili
appigli e riferimenti esterni di cui si diceva in apertura abbia già dato risultati più che buoni, in
particolare in una “Poveri diavoli” che è vintage e contemporaneamente immersa nel 2011,
con quei suoi ritmi dispari intrecciati ad una vena squisitamente melodica e a coretti
stereolabiani. È solo un esempio, non l'unico, di quello che ci sembra, in sostanza, un buon
disco, collocato all'interno di un percorso di crescita in divenire già piuttosto avviato, con un
background piuttosto corposo e l'umiltà di voler intraprendere nuove strade senza muoversi
su terreni troppo stabili.
Contatti: www.maxpicchiatoda3.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 47
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Numero Febbraio '11
Micha Soul
MICHA SOUL
Seven Soul Sins
Semai
È sempre cosa rara imbattersi nell'underground italiano in produzioni soul. Sarà che la
musica black è sempre stata una nicchia della nicchia qui dalle nostre parti, sarà che cantare
certe cose e certi vocalizzi è un po' più difficile che fare il verso a PJ Harvey o a Laura
Pausini (più tutto quello che ci sta in mezzo) – ci vuole allenamento, ci vuole tecnica, ci vuole
voglia di calarsi in un universo estetico altro rispetto a quello che si sente per i sotterranei e
le realtà indipendenti in Italia. Al contrario, soul e hip hop sono una grammatica forte nel
mainstream. E questa è la zavorra principale di un lavoro di per sé più che discreto come
“Seven Soul Sins”: Micha Soul si ispira nei modi e nei suoni al soul contemporaneo, musica
da tempo tarata per cavalcare contesti più simili a MTV che al “Miami”. Ci si abitua a sentirla
curata, anzi, laccata, uscita da processi produttivi costosi. “Seven Soul Sins” suona bene,
ma giocoforza non suonerà mai bene come un disco di Mary J. Blige o di qualunque stellina
dell'r'n'b contemporaneo... non c'è lo stesso budget alle spalle. E quindi, hai sempre
l'impressione che manchi qualcosa, più che concentrarti sul fatto che questo per essere un
disco praticamente autoprodotto italiano ha una pasta di notevole qualità. Anche perché
succede poi che pure i brani, che sono ben costruiti, vanno ben dritti nel solco di quello che
c'è già: non ci sono cioè attimi spiazzanti o sorprendenti. Micha canta bene, il suo inglese è
inappuntabile (lei d'altro canto nasce poliglotta), i brani sono buoni, c'è pure la voglia di
trasformare la tracklist in una specie di concept sui peccati capitali, ottimo; eppure riesce
difficile innamorarsi davvero dell'album. È educato ed appropriato, è meglio di quanto mai
fatto assieme alla sua crew abituale Fuoco Negli Occhi, ma ci sarebbe piaciuto di più un suo
cugino più sporco, maledetto e sghembo.
Contatti: www.myspace.com/michasoul
Damir Ivic
Pagina 48
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Numero Febbraio '11
Patto MC
Vado bene così
La Grande Onda/Self
Piotta ormai esplora territori musicali sempre più vasti, stilisticamente parlando, ma con la
sua label personale – La Grande Onda – non manca mai e non mancherà mai di dare spazio
all'hip hop puro. Senso di appartenenza ad una scena. Anzi: giusto senso di appartenenza
ad una scena. Ad avvalersi della piattaforma produttiva della label è stavolta il campano
Patto MC, uno che è in giro già da tempo nelle faccende di rap (con tra l'altro una buona
fama da fresstyler, da improvvisatore) ma che solo ora arriva al traguardo del primo album.
Ci arriva maturo: il rap è tecnicamente buono, le metriche si succedono in modo liscio ed
interessante, pure i testi non sono malaccio pur senza raggiungere eccellenze particolari.
Ecco, visto che si tratta di un rapper con buoni mezzi già di partenza sarebbe stato ancora
meglio avere un album musicalmente più incisivo di questo “Vado bene” così che in realtà
solo in parte va bene così; nel senso che alcuni contributi di Musta (beatmaker italiano che
ha inciso pure per l'americana Babygrande) sono un po' asettici, pure fra gli altri producer
non sentiamo odor di scintille. Patto avrebbe avuto bisogno, secondo noi, di maggior varietà
sonora a fargli da background, anzi, su cui appoggiarsi con convinzione. Quando lo fa,
quando il flow si compenetra bene con la parte ritmico-musicale come nella ottima “Per
gentleman & ladies” (in cui fanno belle apparizioni Clementino e Paura), si intravedono le
reali sue potenzialità. Che non sono mica male.
Contatti: www.myspace.com/pattomc
Damir Ivic
Pagina 49
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Numero Febbraio '11
Resurrextion
Elettro Sud
Relief Records Europe/Audioglobe
Esistono dischi che sembrano volere mettere i puntini sulle ‘i’, altri che se ne fregano e
preferiscono fare il punto e andare a capo. Poi ci sono dischi che fanno entrambe le cose,
come “Elettro Sud” dei campani Resurrextion. Se da un lato il gruppo formato dagli MC
Jen-One e Marsu, il breaker Keezy e DJ Spider è riuscito a sfruttare anni di esperienza e
intensa attività live per raccogliere suoni e umori tra i più attuali, dall’altro ha deciso di risalire
alle radici dell’Hip-Hop, quando alla forma si abbinava pure un contenuto. Miscela perfetta
che non sa tenere a bada la lingua e tantomeno il piede, “Elettro Sud” è un lavoro generoso.
DJ Spider ha lavorato di cesello su beat e sintetizzatori per garantire ai propri compagni una
validissima ed evocativa tavolozza sonora. L’impianto è volutamente cupo, a tratti
claustrofobico; l’ideale compagnia per il profluvio rabbioso di parole in cui l’ascoltare si
imbatte lungo tutto il disco. I testi, in dialetto ma perfettamente e dolorosamente
comprensibili, sono lo schiaffo in faccia che ci meritiamo per avere pensato – magari anche
solo per qualche minuto – che le rime egoriferite con cui veniamo imboccati quotidianamente
fossero minimamente rivoluzionarie. Dall’apertura spaccamusi di “Napoli primo round”
all’asso pigliatutto di “Sonano ‘e vàsule” (gia nell’omonimo EP del 2009), fino alla conclusiva
“E Mo Basta!” si coglie tutta l’urgenza e la necessità espressiva con cui la crew racconta
disagi ed aspirazioni, i loro e i nostri. Non è poco.
Contatti: www.myspace.com/resurrex
Giovanni Linke
Pagina 50
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Numero Febbraio '11
Rhyme
Fi(r)st
BaganaAudioglobe
Si può ancora rimanere stupiti dopo molte migliaia di ascolti? Direi proprio di si, anche
perché personalmente m'è successo ascoltando il primo (vero) album dei Rhyme.
Innanzitutto rimango impressionato di come un gruppo al proprio esordio, con un cantante Gabriele Gozzi, dal curriculum davvero notevole, tra l'altro - in formazione da nemmeno un
anno sappia esprimere con tale chiarezza il proprio mondo sonoro, ovvero un robusto hard
rock che guarda ai miti del passato cercando di riproporli in una chiave moderna. Una
personalità ben definita non si può costruire in uno studio di registrazione, e non bastano
nemmeno i nomi importanti coinvolti nel missaggio e nel mastering, ci vogliono idee chiare e
tanta esperienza, e se per caso vi siete imbattuti nel singolo "Step Aside" potreste già
pensarla come il sottoscritto. Del resto con una voce del genere le cose sono già più
semplici, basta prendere un pezzo come "Hiding From The Dark" che è un po' il bignami dei
Rhyme: la ricerca del riff perfetto si alterna a momenti quasi acustici, il cantato viaggia su
note altissime senza cedimenti e c'è pure l'assolo di chitarra epico. Piacevole nel suo essere
insieme già sentito e nuovo. E mentre nel mondo delle rockstar nascono e muoiono
supergruppi senza alcun stimolo creativo quaggiù sulla terra nascono ancora gruppi capaci
di farci credere che questa musica avrà ancora una lunga, ed eccitante, vita.
Contatti: www.myspace.com/rhymeband
Giorgio Sala
Pagina 51
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Numero Febbraio '11
San La Muerte
San La Muerte
Gas Vintage/Self
Dietro il progetto San La Muerte si nasconde, senza troppi veli, il cantautore capitolino Leo
Pari, noto ai più per le sue costanti collaborazioni col riccioluto Beppe Grillo, come
compositore ed esecutore del suo cavallo di battaglia “Ho un grillo per la testa”, assieme a
svariate partecipazioni ad altrettanti V-Day.
Nella sua carriera solista, il prode Leo si distingue per la miscela originale che mescola hip
hop e cantautorato impegnato, peculiarità scarnificata o meglio, accantonata, nel progetto
blues on the road San La Muerte, nato da un viaggio negli Stati Uniti assieme al chitarrista
Renzo Fiaschetti, e che mette in scena quanto di più semplice si possa fare con chitarra,
basso e batteria: rock’n’roll stradaiolo e senza troppe pretese. Dove la sfilata di luoghi
comuni al rovescio della traccia d’apertura “Viva San La Muerte”, e le scorribande rock
latineggianti assumono contorni fin troppo prevedibili, è nei frangenti più blues che Leo Pari
riesce a bilanciare al meglio la sua anima più carnale (il falsetto di “Domani Smetto” mette in
luce il suo timbro graffiante che sfiora Gianni Donzelli, e non c’è da vergognarsene) e il blues
torrido, come in “Ghost And Machine” o “Mr. Even”, aggrappate a scale blues-rock classiche
dall’innocuo mordente, in cui sporcarsi le mani dovrebbe essere un dovere morale verso il
sacro fuoco del Rock. È proprio in questa latenza di aggressività la pecca maggiore di un
progetto onesto, un rock dalle tinte blues latine e dai testi di denuncia sociale che sono un
compendio del pensiero-sostenibile, ma che non sforano dai confini del semplice
divertissement e agitatore di (in)coscienze, nulla di più.
Contatti: www.myspace.com/wsanlamuerte
Luca Minutolo
Pagina 52
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Numero Febbraio '11
Smart Cops
Per proteggere e servire
La Tempesta/Venus
Non cambierò mai. Già per il fatto che in questo "Per proteggere e servire" il brano più lungo
non arrivi a tre minuti mi rende subito simpatici gli Smart Cops. E anche se loro ci tengono a
far sapere che il gruppo si sarebbe formato a seguito di un concorso in polizia andato male
io non ci credo; non mi sembra plausibile che gente come il fondatore della Hell, Yes!
Records (Mojomatics, Movie Star Junkies) ed i suoi sodali tra un disco dei Dead Boys e degli
Stooges abbiano pensato all'arruolamento. Tant'è, meglio così, perché altrimenti ci saremmo
persi questa miscela assurda di rock'n’punk cantata in italiano che a tratti ricorda gli Hives
registrati peggio con i testi di un gruppo degli anni 60 che prende in giro divise e malcostumi
assortiti. Una cosa così non s'era mai sentita, anche perché a tentarla nove volte su dieci ti
verrebbe male, e per fortuna che qui i poliziotti sono intelligenti e ci possiamo sollazzare e
ballare! - con "La legge del più debole" o "Vesciche in guerra", ridendo delle umane
debolezze e sbeffeggiando il potere con la p minuscola. Ora, se proprio vogliam spaccare il
capello in quattro direi che con una produzione un po' più variegata il risultato era più
godibile, ma questo è proprio il tratto distintivo di un certo revival per cui o si ama o si odia,
inutile discutere. Io, al posto loro, eviterei altre figuracce ai concorsi pubblici e mi focalizzerei
sugli strumenti: non avremo mai la controprova, ma personalmente è meglio così.
Contatti: www.myspace.com/smartcops
Giorgio Sala
Pagina 53
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Numero Febbraio '11
Syndone
Melapesante
Electromantic Music/Ma.ra.cash
Negli anni Novanta i Syndone, erano stati una delle band che avevano illuminato i cieli del
progressive italiano, dipanando la speranza che per questo genere potesse esserci una
seconda stagione di gloria, dopo i fasti dei Settanta. E per un momento, grazie anche al
supporto di numerosi appassionati e ad una rete di radio, etichette e siti web specializzati,
l’illusione si era quasi trasformata in realtà; poi però tutto è andato scemando, e di quel
fulgido periodo è rimasto poco, se non il ricordo e lo zoccolo duro, alimentato da eroici
sostenitori del genere. Porta quindi una ventata di ottimismo il ritorno dei piemontesi
Syndone, che di quel periodo di riflusso furono tra i protagonisti. La formazione è rinnovata,
ma alla guida vediamo sempre Nik Comoglio, tastierista, ma soprattutto compositore di
colonne sonore, musical, balletti e spettacoli teatrali, noto negli ambienti della musica colta
da cui proviene, nonostante la sua cultura classica, sia poi stata contaminata dalla passione
per il jazz. Ma questo terzo album dei Syndone (che segue gli storici “Spleen” e “Inca”) dove
si colloca? Lo stile arioso del passato, pur mantenendo le medesime caratteristiche, è più
legato alla forma canzone, con la voce di Riccardo Ruggeri, sempre sicura e padrona, con la
sua impostazione ferma e melodica. L’album, impreziosito dalla presenza di numerosi ospiti,
è un concept che gravita intorno alla mela, vista sotto vari aspetti ed è ricco di sfumature e
dettagli, che confermano la padronanza assoluta in fase di scrittura di Comoglio e farà
sicuramente la felicità di tutti gli appassionati di progressive, anche quelli più smaliziati ed
esigenti.
Contatti: www.syndone.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 54
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Numero Febbraio '11
Synusonde
Yug
Minus Habens/Family Affair
In un mondo ossessionato spesso più dal nome delle etichette che da quello dei gruppi o
dei singoli artisti come quello dell'elettronica, capita che si prendano topiche non da poco.
Una di queste, dimenticarsi come la Minus Habens sia stata assolutamente fondamentale
per il diffondersi di una sensibilità all'ascolto di una musica elettronica o comunque non
canonica. Ad un certo punto è la Minus Habens stessa che ha deciso di sfilarsi dal gioco
dell'attualità, nascondendosi nell'ombra e/o ritagliandosi attività più redditizie (leggi colonne
sonore). Ora però con questo “Yug” torna alla ragione sociale originaria: musica un po'
scura, con qualche rimando al lato più colto ed altezzoso della new wave anni 80 e molta
voglia di parlare il linguaggio del digitale. Ben fatto. Anche e soprattutto perché questo
progetto a firma Synusonde (che poi è l'unione del sound designer Paolo F. Bragaglia col
pianista Matteo Ramon Arevalos) mette in campo solida qualità, di quella in grado pure di
raggiungere vette notevoli (quale ad esempio la traccia “Mahler”, da ascoltarsi e godersi in
primis nei particolari minimi). Forse ogni tanto l'architettura generale è un po' troppo
geometrica e drammatica al tempo stesso, siamo convinti che un po' di leggerezza in più
(meno Nyman e più IDM liquida e giocosa) avrebbe giovato al risultato finale, ma sono
critiche non sostanziali. La sostanza, dice bene. La sostanza parla di un progetto solido,
epico e cinematico, non datato nei suoni, con una direzione chiara e ben percorsa. Ben fatto.
Contatti: www.myspace.com/synusonde
Damir Ivic
Pagina 55
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Numero Febbraio '11
Telesplash
Bar Milano
For Ears/Family Affair
Vedi la copertina gustosamente vintage, con quella inconfondibile scritta “Stereo”; vedi le
foto promozionali, con il gruppo seduto ai tavolini di un bar; leggi Arezzo, che forse non sarà
la provincia più profonda ma di certo non è la metropoli, e la prima cosa che viene in mente
è :“Baustelle”. Nel secondo album dei Telesplash troviamo indubbiamente delle assonanze
con una certa sensibilità che media tra passato musicale nostalgico (magari mai vissuto, e
per questo motivo più affascinante) e presente fatto di piccole storie provinciali rivissute con
una certa ironia di fondo; “Gli stimoli”, d'altra parte, davvero un bel pezzo, potrebbe quasi
stare su “La malavita” di Bianconi & co. Ma ci sono anche parecchie differenze, e non
sempre vanno in una direzione nettamente positiva: a tratti l'idea di pop chitarristico della
band, piuttosto efficace in sé, non è sorretta dalle canzoni irresistibili che dovrebbe (o
potrebbe) supportare, e questa idea di l'idea di pop, un po' sofisticata e un po' popolare,
sfugge un po' di mano, facendosi un po' troppo rarefatto. La pur divertente title track, ad
esempio, va in direzione Lunapop più che dalle parti degli Amor Fou. Per riassumere: un
poco troppo leggeri, a tratti frizzanti, nel compenso piacevoli ma ancora in attesa di
solidificare la propria personalità musicale.
Contatti: www.myspace.com/telesplash
Alessandro Besselva Averame
Pagina 56
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Numero Febbraio '11
Tenedle
Grancassa
UdU
Squilli di trombe e rullo di... “Grancassa”: tre anni dopo “Alter” e a sette dal debutto
(“Psicfreakblusbus”), torna Tenedle, al secolo Dimitri Niccolai, con un album che nel
riconfermare la statura compositiva dell’artista mette in evidenza il desiderio di una costante
ricerca verso nuove strade, influenze e sperimentazioni. Chi tra di voi ha amato le precedenti
prove del compositore fiorentino troverà in “Grancassa” lo stesso mood liquido e notturno,
qui ingentilito da una malinconia sospesa, un’ironia arrendevole. La fusione tra elettronica e
canzone d’autore risulta particolarmente compiuta, anche grazie a melodie oblique, mai
smaccate, ma al contempo incredibilmente azzeccate. Non c’è brano che non si aggiri
indisturbato negli archivi della memoria già dopo un primo ascolto (“Hikikomori”, “Ideale”, “Le
cose infinite”, per citarne una manciata). Pure numerose le sorprese inaspettate, a partire
dall’uso di voci altre (Marydim, Silvia Vavolo, Vanessa Tagliabue Yorke), che in un incastro
di linee vocali aggiungono nuovi significati a testi già di per sé densi di stimoli. Allo stesso
modo risulta notevole l’apporto di Rocco Brunori alla tromba, ideale pennello con cui
disegnare ombre e mostrare vie di fuga inaspettate. La sorpresa più gratificante è però la più
rara: scoprire di avere tra le mani un album con una solida idea di partenza, non tradita nel
suo sviluppo; ogni canzone fa storia a sé e allo stesso tempo racconta un comune sentire in
cui prendono vita micromondi di solitudine a cui è difficile dirsi estranei. È nella loro poesia
che risiede la forza di farli collidere e deflagrare. Con un colpo di... grancassa.
Contatti: www.tenedle.com
Giovanni Linke
Pagina 57
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Febbraio '11
Versus
Retròattivo
Mescal/Universal
“Retròattivo” potrebbe far parlare soprattutto perché sulla carta è improbabile che una band
all’esordio riesca a coinvolgere Franco Battiato. Succede in “Cosa ti aspetti da questa notte”,
scritta a quattro mani con LeLe Battista, autore persino di “Profondamente dentro",
contenuta in origine nel suo “Nuove esperienze sul vuoto”. C’è da dire che i Versus hanno
sempre avuto le idee chiare, tanto da non farsi problemi nell’elencare i propri punti di
riferimento: Pink Floyd e a seguire King Crimson, Kraftwerk, David Bowie, Air, Morricone e lo
stesso Battiato. L’esperto Daniele “Megahertz” Dupuis (voce, basso, farfisa, theremin e
sintetizzatore), Sandro Martino (sintetizzatori, hammond, piano elettrico), Francesco
Costantino (chitarre) e Andrea Dupuis (batteria) non si sono fatti problemi nemmeno nel
puntare subito in alto, realizzando un concept: il desiderio di sperimentare non va comunque
mai a discapito della forma-canzone e ne è una prova il fatto che tutto si concentri in circa
trentasei minuti di durata, preservando non poche eccentricità ma aggirando divagazioni
eccessivamente progressive. Si inizia con il semi-strumentale “Titoli di coda” - dove fiati
bandistici accompagnano la presentazione delle tematiche del disco, dalla tecnologia al
consumismo - e si prosegue con l’orecchiabile singolo “Torre di controllo”, la programmatica
“Meloy Pops”, la straniante “Stare alzati”, l’intimista “Frasi a metà”. Si pensa a formazioni
dall’estetica molto caratterizzata come Bluvertigo - segnaliamo, tra l’altro, le partecipazioni di
Andy e Sergio Carnevale - o La Sintesi, ma nel complesso il lavoro si contraddistingue per
ingegno e notevole cura sonora. Una delle migliori uscite Mescal degli ultimi tempi.
Contatti: www.myspace.com/versusband
Elena Raugei
Pagina 58
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Numero Febbraio '11
Videomind
Afterparty
Relief
Così nuovo da essere old school. Questo il divertente paradosso che riassume al meglio
“Afterparty”, lo sforzo congiunto di Tayone, Clementino e Paura, tre nomi che già da tempo
nell'underground hip hop hanno il loro peso (più di tutti Tayone, che come turntablist è uno
dei più grandi talenti mai espressi dalla nostra scena). E invece di rifugiarsi nella loro casetta
stilistica d'appartenenza, i tre hanno puntato decisi verso una costruzione che incorpori
electro, reggae, pop intelligente, sintetizzatori e quant'altro. Una specie di fiera del
modernariato vintage, dove una qualità sonora davvero anni duemila (l'album suona
benissimo, complimenti a chi l'ha fatto, a chi l'ha mixato e a chi ne ha fatto il mastering) va a
ripescare una varietà stilistica molto anni 80, sia nelle intenzioni che nei suoni. Il rap di Paura
e Clementino nell'andare decisamente oltre i canoni dell'hip hop tradizionale, perché è
palese l'intenzione progressista, finisce coll'assomigliare spesso a certi esperimenti di
parlato/cantato a ruota libera possibile ancora quando il rap era solo una cosa misteriosa
cosa da ghetto newyorkese di cui si orecchiava e basta e che si poteva rifare, come dire?, a
naso, ottenendo dei risultati per altro accattivanti. Complessivamente ogni tanto si sente la
mancanza di un po' di spessore nel contenuto delle liriche, mentre la parte musicale
trovandosi a metà fra appunto pop intelligente, funk digitale e nu electro non stringe in mano
bene né l'uno, né l'altro, né l'altro ancora; però il giudizio finale è positivo, questo album
merita decisamente un ascolto. Ha personalità, ha idee definite, ha idee non uguali alla
musica-che-gira-attorno pur essendone intelligentemente ispirato.
Contatti: www.myspace.com/videomind
Damir Ivic
Pagina 59
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Numero Febbraio '11
Vishu Flama
Vishu Flama
autoprodotto
Con un vezzo da rockstar i veronesi Vishu Flama, dieci mesi dopo l’esordio, pubblicano un
secondo album, mantenendo il medesimo titolo, ovvero nessun titolo. Ci sono invece nuovi
percorsi per quanto riguarda la musica. Se nel primo lavoro l’approccio era istintivo e legato
ad un suono tra garage e rock’roll, tra i solchi di queste undici canzoni emerge l’amore, in
passato dichiarato solo a voce, anche per il funk e il r’n’b, con una maggior cura per gli
arrangiamenti, in cui le due chitarre giocano a rincorrersi tra ritmiche e soliste melodiche,
con parti vocali ad ampio respiro, che addobbano con istinto ed eleganza “La torta”,
“Bellissima”, “Derive” e la curiosa “Plin plon”, che chiude il CD. Ciò che trovo interessante nei
Vishu Flama e la loro assoluta estraneità a tutto ciò che ci circonda. La loro musica sembra
provenire solo dall’ascolto di vecchi vinili, messi su senza una logica precisa,alla rinfusa,
che esclude tutto ciò che è stato prodotto negli ultime due, forse tre, decenni. In un’opera di
selezione assolutamente alla rinfusa, ma che di fatto è efficace e che trasferisce nelle
canzoni dei Vishu Flama una gioiosa ingenuità che conquista. Scarna ed essenziale come
sempre la copertina. La band ora deve carburarsi sul palcoscenico, luogo perfetto dove
dovrebbero farsi apprezzare questi quattro (ex) ragazzi!
Contatti: www.myspace.com/vishuflama
Gianni Della Cioppa
Pagina 60
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Numero Febbraio '11
Verme
Non è che ci sia molto da dire, tante battute da sprecare, per annunciare al mondo
l'ennesima uscita dei Verme. Ormai siamo tutti lì – e con tutti intendo (almeno) tutti i cervelli
assuefatti all'emocore italiano, come dire, da combattimento e DIY fino al midollo – siamo
tutti lì, dicevo, ad attendere la nuova uscita dei Verme, a cercare di indovinare quale
copertina verrà parodiata (meglio: omaggiata) dalla costola dei Fine Before You Came, a
chiudere gli occhi e alzare le corna al cielo o stringere i pugni con ansia per quello sciabordio
fortunatamente consueto di chitarre, batterie picchiate per bene e ugole al massimo. Ed
eccoci di nuovo, quindi, con “Bad Verme”, registrato il 21/12, a un anno esatto da “Un verme
resta un verme”, e due tracce soltanto: “Tutto va malone” e “Tutto va marchette”. Non è che
ci sia molto da dire, dunque, tante battute da sprecare. Basta mettersi lì ad ascoltare. Basta
mettersi lì e aspettare la prossima uscita dei Verme, il prossimo, consueto sciabordio, la
prossima copertina, le prossime corna levate alle stelle.
Contatti: verme666.wordpress.com
Marco Manicardi
Pagina 61
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