versione stampabile - Dipartimento di Filosofia

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Disseminazione e ospitalità nello spazio scenico
Luca Vaccaro
Creature del mio spirito, quei sei vivevano già d’una vita che era la loro
propria non più mia, d’una vita che non era più in mio potere negar loro.
[. . . ] Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato
voce e movimento sono dunque già divenuti di per se stessi [. . . ] personaggi
drammatici, personaggi che da soli possono muoversi e parlare; vedono già
se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora difendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare
i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere
che cosa ne avverrà.
[. . . ] Ma si può rappresentare un personaggio rifiutandolo? Evidentemente,
per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi esprimerlo.1
Introduzione: la «gente del Libro»2
Questo studio non potrà che essere inestinguibile e, anzi, «auto-combustibile», in
quanto orientato a comprendere l’altro, un altro, che, compreso, perderebbe la
propria alterità divenendo mio ostaggio3 . Oppure si presterà a essere inglobato
1 L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Romanzi e teatro, Orsa Maggiore,
Trento 1993, pp. 416, 417 e 420. Corsivo mio.
2 Il Corano, “Introduzione”, tr. it. e commento di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1999, II, 105, 109
(ibid., p. 13); III, 20 (ibid., p. 37), 23 (ibid., p. 38), 64-78 (ibid., p. 41-42), 98-115 (ibid., p. 44-45);
IV, 153 (ibid., p. 70); V, 15-19 (ibid., p. 76-77), 59 (ibid., p. 81), 65-68 (ibid., p. 82); XXIX, 46 (ibid.,
p. 292); LVII, 29 (ibid., p. 412); LIX, 2 (ibid., p. 416), 11 (ibid., p. 417); XCVIII, 1, 6 (ibid., p. 482).
3 Per quanto riguarda il concetto derridiano di “struttura di ostaggio”, cfr. J. Derrida, “Passo d’ospitalità. Quinta seduta (17 gennaio 1996)”, in Sull’ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, tr. it. di I. Landolfi, “Invito” e cura di A. Dufurmantelle,
Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 122.
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facendosi ostaggio dell’altro: infatti si è già «sottoposti alla legge dell’altro»4 , già
nella lingua, residuo minimale della propria eredità.
È che non si può che assumere il proprio punto di vista: privati della propria
individualità e del proprio domicilio (architettonico, catastale, religioso, letterario,
filosofico), se c’è, non si può più concedere ospitalità alcuna. Occorre, allora,
tracciare certi confini dell’ereditato, per aprire delle soglie su di essi, attorno al
proprio, allo «chez-soi»5 . L’ospitalità è una certa questione dell’eredità6 e di certi
confini che vanno, forse7 , oltraggiati.
Parlare di me, di noi occidentali, per parlare d’altro. Seguire l’ordine ingiunto ad Abramo: «vai a te stesso»8 ! Occorre stare liberamente e responsabilmente9
dentro la propria eredità e tra le proprie contraddizioni, correndo forse il rischio di
operare scelte argomentative a prima vista vittime di un “etnocentrismo gnoseologico”10 . L’evasione, di per se stessa, non è ospitale. La mia libertà di accogliere
e ospitare esiste dal momento in cui io assumo responsabilmente l’eredità che mi
identifica e che è infinitamente eccedente il mio presente: lo sguardo dell’altro.
È necessario, pertanto, avviare il discorso da una dislocazione decostruente
già operata dall’altro o dal suo spettro sui confini del mio chez-soi. Ecco, dunque, la necessità di un certo «autoesame»11 tutt’altro che auto-celebrativo, piuttosto
aprente, dis-locante, dif-ferente, nello spazio e nel tempo12 , per indagare relazioni
possibili a partire dalla decostruzione, altrui e alterante, di questa stessa eredità e
4 «Si è sottoposti alla legge dell’altro in quanto eredi, all’interno di una storia e di una tradizione.
Essere eredi significa parlare una lingua. Si può anche protestare contro questa lingua, tentare di
deformarla e di torturarla. Ma nel far questo, non si fa altro che confermare, ossia controfirmare, il
fatto che la lingua c’è prima di noi, e che è nella lingua, e sotto la legge della lingua, che noi parliamo
contro la lingua. Siamo eredi della lingua. [. . . ] È una memoria senza ricordo, una memoria senza
presente-passato. Infinita, così come è infinito l’altro, o la cosa, che ci guarda e che ci tiene sotto
la sua legge» (J. Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia. A colloquio con Jacques Derrida”, in
J. Derrida, C. Sini, Studio Azzurro, verità figura visione, tr. it. e cura di C. Sinigaglia e A. Somaini,
Motta/triviquadrivio, Milano 1998, pp. 24-25).
5 J. Derrida, Oggi l’Europa. L’altro capo. La democrazia aggiornata, tr. it., “Postfazione” e cura
di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991, p. 14.
6 Cfr. Id., Spettri di Marx.
Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale,
tr. it. di G. Chiurazzi, R. Cortina, Milano 1994, pp. 4-5.
7 «Come mai? Non è forse una sfida al buon senso e al senso tout court? È possibile? Forse
è impossibile, appunto. Forse l’impossibile è l’unica chance possibile di una qualche novità, di
qualche nuova filosofia della novità. Forse, forse a dire il vero il forse dice ancora questa chance.
Forse l’amicizia, se ce n’è deve rendere conto a ciò che è impossibile» (Id., Politiche dell’amicizia,
tr. it. di G. Chiurazzi, R. Cortina, Milano 1995, p. 51).
8 «Lekh lekhà!» (M. Ovadia, Vai a te stesso, Einaudi, Torino 2002, p. 3. Cfr. anche ibid., pp. 3-11
e Gen 12, 1 in La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1974, p. 33).
9 «Per tornare a se stessi è necessario coniugare due condizioni in modo inscindibile, compenetrarle: quella di libertà e quella di responsabilità» (M. Ovadia, Vai a te stesso, cit.,
p. 10).
10 Cfr. V. Turner, Dal rito al teatro, tr. it. di P. Capriolo, “Introduzione all’edizione italiana” e cura
di S. De Matteis, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 123-124.
11 Ibid., p. 38.
12 Cfr. J. Derrida, “La différence”, in Margini. della filosofia, tr. it. e cura di M. Iofrida, Einaudi,
Torino 1997, pp. 34-35.
2
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all’interno di questa trovare lo spazio dell’altro. Assumo che, come ha insegnato
Derrida, «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non
avere identità, bensì di non potersi identificare, dire ‘io’ o ‘noi’, di poter prendere
la forma del soggetto solo nella non-identità, o [. . . ] nella differenza con sé». Allora va aperta l’eredità facendo cultura di sé «come cultura dell’altro, cultura del
doppio genitivo e della differenza rispetto a sé»13 , a partire dalla cultura dell’altro
in sé, del passato ereditato, come epoché del sé presente14 , nell’attesa dell’altro
a-venire.
Accade, dunque, di parlare una lingua e di essere già sottoposti alla legge dell’altro. Accade, anche, «al giorno d’oggi»15 , di vivere in Europa, «l’altro capo»16
del popolo migrante. Infine, accade di appartenere, almeno agli occhi altrui, a una
medesima «gente», la «gente del Libro»17 , abusando pretestuosamente, in senso
lato e simbolico, di una denominazione coranica.
Con tale titolo si riconosce, rinnovando e rovesciando i vincoli della «struttura
d’ostaggio», la nostra cultura che ha avuto col testo scritto un rapporto privilegiato,
un vincolo che «ha un luogo di nascita [. . . ] l’antica Grecia del VII e del VI secolo a.C. Qui si delinea un nuovo atteggiamento di alcuni uomini verso il mondo
circostante»18 . Questo nuovo atteggiamento è quello teoretico-filosofico fondato, appunto, sull’oggettività del logos-scritto. «La filosofia si scrive»19 . Il libro,
ancora.
Allora il compito che mi propongo è quello di dislocare il testo filosofico20
ospitando in queste pagine argomentazioni teatrali ovvero di tracciare, mediante
una alter-azione del e nel testo filosofico, una soglia ulteriore sui nostri confini
culturali. Il teatro è ospitale? Il teatro occidentale, quale epifenomeno di una
13
Id., Oggi l’Europa, cit., p. 14.
«È questo che in realtà insegna l’auto-esplicitazione filosofica nell’epoché. Essa mostra come
l’io, che rimane sempre unico, nella vita originale e costitutiva che scorre in lui, costituisca una prima sfera oggettuale, la sfera oggettuale ‘primordiale’, e come a partire da essa compia un’operazione
motivata e costitutiva, in virtù della quale una modificazione intenzionale di se stesso e della sua primordialità perviene alla validità d’essere sotto il titolo di ‘percezione dell’estraneità’, percezione
dell’altro, di un altro io, che, per se stesso è un io come io sono io per me. [. . . ] Occorre indagare come l’io attuale, che, fluendo, è costantemente presente, costituisca se stesso in quanto io che
dura attraverso i ‘suoi’ passati in un’auto-temporalizzazione. Ma l’io attuale, che già ha una durata
nella durata della sfera primordiale, costituisce in sé un altro in quanto altro» (E. Husserl, La crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. Biemel, tr. it. di E. Filippini,
“Avvertenza” e “Prefazione” di E. Paci, Catalogo, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 211-212).
15 J. Derrida, Oggi l’Europa, cit., p. 71 e cfr. anche ibid., p. 11-14.
16 Ibid., p. 9. “L’altro capo. Memorie, risposte e responsabilità” è il titolo della prima conferenza
in Oggi l’Europa, cit. Pertanto, cfr. anche ibid., p. 17-19 e 25.
17 «Per ‘Gente del Libro’, ahl al-Kitâb, si intendono le comunità religiose che posseggono un libro
rivelato, cioè ebrei e cristiani, verso le quali il Corano prevede disposizioni speciali» (A. Bausani,
“Commento” in Il Corano, cit., p. 508).
18 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 334.
19 J. Derrida, “‘Qual-quelle’”, in Margini della filosofia, cit., p. 376. Cfr. anche, J. Derrida, Oggi
l’Europa, cit., pp. 41-42.
20 Cfr. P.A. Rovatti, “Premessa”, in J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, tr. it. di G. Berto,
a cura di P.A. Rovatti, R. Cortina, Milano 1996, pp. XII-XV.
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cultura, può essere soglia per l’altro che viene o esercizio di ospitalità? Tuttavia
il teatro stesso è, a sua volta, “preso” da un testo. Infatti a ridosso della nascita
del nuovo atteggiamento filosofico21 e all’interno dello stesso bacino culturale si
ha il così detto teatro “occidentale”, legato, da Eschilo in avanti, alla presenza di
un testo, anch’esso scritto. Se questo certamente rimarca l’origine “libraria” di una
cultura, rinvia altresì nello stesso oggetto “libro” una presenza: quella dell’altro e
del suo spettro.
An-«economia della morte»22
L’oblio dionisiaco e le genti dei libri
L’eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questo
talento artistico, di vedersi cioè attorniata da una tale schiera di spiriti, con
la quale essa sa di essere intimamente una. Questo processo del coro della
tragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati
davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in
un altro carattere. Questo processo sta all’inizio dello sviluppo del dramma.
[. . . ] qui c’è già un annullamento dell’individuo per l’ingresso in una natura
estranea. [. . . ] nel ditirambo ci sta innanzi una comunità di attori inconsci,
che si considerano tra loro come trasformati.
L’incantesimo è il presupposto di ogni arte drammatica. In questo incantesimo chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come Satiro, e come Satiro
guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé
una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato. Con questa
nuova visione il dramma è completo.23
È testimoniata la prima vittoria di Eschilo in un concorso drammatico nel
484 a.C. e poco è noto dei suoi predecessori Pratina di Fliunte e Frinico di Atene. Ciò che pare, invece, indubbio è che la tragedia greca sia nata all’interno delle
celebrazioni liturgiche legate al rito religioso di Dioniso24 . La fonte più celebre
che lo ricorda è la Poetica di Aristotele, nella quale lo Stagirita descrive l’origine
della tragedia dal canto del ditirambo25 , in principio, appunto, un «inno corale in
onore di Dioniso»26 , dio dell’ebbrezza e nume tutelare del teatro. A sua volta, Nietzsche, individua nello stato del soggetto trasformato da un «completo oblio di sé»,
21
Alle ragioni del ritardo teoretico, rispetto alle pratiche teatrali, è stato interamente dedicato
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, “Nota introduttiva” e cura di G. Colli,
Adelphi, Milano 1977.
22 J. Derrida, “La différence”, cit., p. 30.
23 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 60.
24 Cfr. P. Bosisio, Teatro dell’occidente. Elementi di storia della drammaturgia e dello spettacolo
teatrale, con la collaborazione di A. Bentoglio, M. Cambiaghi, L. Colombo e I. Innamorati, LED,
Milano 1995, pp. 62-64.
25 Cfr. Arist., Poet., 4, 1449 A, 9-13, tr. it. di M. Valgimigli, Retorica, Poetica, a cura
di M. Valgimigli, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1986, vol. X, p. 200.
26 P. Bosisio, Teatro dell’occidente, cit., p. 62.
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generato dagli «impulsi dionisiaci»27 , l’esordio dell’arte drammatica. A prescindere dalle conclusioni assiologiche che egli formulerà riguardo l’evoluzione della
tragedia e la sua decadenza, cagionata dal prevalere progressivo del principio apollineo sul dionisiaco, il margine discrezionale, tra il fenomeno drammatico e ciò
che non lo è, sembra potersi ravvisare in un certo mistico abbandono della propria
soggettività da parte di colui che agisce sulla scena. Ora, dalla tragedia greca in
poi, nella storia del teatro occidentale, questo oblio di sé è sempre stato destinato
all’“affitto”28 temporaneo del corpo dell’attore a un’identità altra, definita di volta
in volta, di epoca in epoca, da una dif-ferente opera drammaturgica: il personaggio.
A un certo punto, quindi, dalla mistica possessione divina dell’attore delle origini, del coreuta descritto da Nietzsche, l’attore si è fatto carico dell’umano. Come
ricorderà Louis Jouvet: «la materia teatrale è fatta dell’umano. Immutabile e tuttavia mutevole come tutto ciò che è dell’uomo, sottomessa all’accidentale e al momentaneo cangiante per ciascuna epoca. L’arte dell’uomo di teatro è di rimanere
nell’umano»29 .
Con il trasporsi del rituale nello spettacolo, autonomo e legato a un testo scritto, con la comparsa insomma della drammaturgia e della figura del drammaturgo,
dalla tragedia attica in poi, si sono riversati in letteratura, opere, scritti teatrali,
copioni, canovacci, ecc., molteplicità di “esseri”, di “identità” dallo statuto ontologico incerto e spettrale, scaturite dalle menti e dalle fantasie degli autori. Direi,
con il Pirandello dei Sei personaggi in cerca d’autore citato in apertura, che essi
«vivono per loro conto» di una «vita loro propria», che essi si staccano dall’autore
e che vanno «dove son soliti i personaggi drammatici andare per aver vita: su un
palcoscenico». Ma se hanno bisogno di un palcoscenico per avere vita, mentre li
«lasciamo andare» da una scena all’altra, da un’epoca all’altra, da un teatro all’altro, ecc. non sono propriamente vivi: sono morti. «Non vivono», forse, è più esatto
dire, quando non sono rappresentati. Pare indubitabile, insomma, che godano di
una qualche vita, che si ripresentino di tanto in tanto e che restino in stand-by, in
attesa tra una rappresentazione e l’altra. Ma che resta, nel mentre, di lui (o lei)?
Forse – e torno al “forse” e all’indeterminazione di ciò che è impossibile e non
tematizzabile –, si può dire che la vita del personaggio rassomigli a quella di uno
spettro, il quale aspetta di tornare30 e di essere “accolto” da una fantasia, da quella
di un attore o di un’attrice, in primis, ovvero di “non essere rifiutato”. Si trattereb27
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 25.
Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore. Documenti clinici d’uno spirito ansioso da un
uomo per il quale l’amore del teatro è inseparabile da un sentimento di fraternità”, in Elogio del
disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, tr. it. di B. Torresin, a cura di S. De Matteis,
La Casa Usher, Firenze 1989, p. 137.
29 L. Jouvet, “Lezioni sul Tartufo”, in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento
dell’attore, cit., p. 247.
30 «Un fantasma vi attendeva, lo sapevo bene, e sulla soglia, all’alzarsi del sipario [. . . ] Come
nell’Amleto, principe di uno stato marcio, tutto comincia con l’apparizione dello spettro. Più precisamente con l’attesa di questa apparizione [. . . ]: la cosa (this thing), prima o poi verrà. Il revenant
sta per venire. Non può tardare. Benché tardi» (J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 10-11).
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be, evidentemente, di una questione spettrale e di ospitalità, dunque. Ospitalità di
uno spettro “disseminato” nelle e dalle pagine di una letteratura.
Disseminazione di spettri
Un primo contributo, riguardo le questioni sopraggiunte, perviene dal saggio Il paradosso sull’attore31 di Denis Diderot, l’autore che «per primo ha capito lo sdoppiamento»32 . Ebbene, qui il filosofo dell’Encyclopédie afferma che i personaggi
teatrali «sono i fantasmi immaginari della poesia; [. . . ] sono spettri della particolare visione di questo o di quel poeta»33 . Infatti, secondo il Diderot del Paradosso, il
compito dell’attore, in procinto di accostarsi a un nuovo personaggio proposto dalla traccia lasciata dall’autore, consisterebbe nell’immaginare un grande fantasma
e nel copiarlo genialmente. Di fatto, questo fantasma, questo “spettro”, il personaggio, appartiene a una realtà non equipollente, bensì più consistente e più ampia
della semplice umana immaginazione dell’autore che lo crea o dell’attore che vi
si accosta. Forse, è piuttosto l’umanità che fa difetto a queste «vite». Come ammonisce Jouvet il comédien: «I fantasmi di teatro sono più evidenti, più reali di
te. Voi chiamate fantasmi ciò che per noi è l’essere reale, vivente, la parola umano
per noi indica ciò che perisce e imputridisce»34 . Importante per l’attore è rendersi
conto di tale realtà del personaggio e, quindi, permettere al fantasma, che attende
il momento propizio dietro le quinte, di manifestarla pienamente.
Dietro a ogni quinta c’è un fantasma di personaggio, e tutti vivono questa
rappresentazione che non è che una mascherata, una parodia. [. . . ] Aspettano, per tutta la rappresentazione, un gesto esatto, un’inflessione che risuoni
dentro di loro, e vedono solamente degli attori, dei comédien, che sono la
loro irrisione vivente. [. . . ] Più tardi forse, quella stessa notte, nell’oscurità
della scena, nella tranquillità inquietante di quelle scenografie, i fantasmi dei
personaggi verranno loro stessi a rappresentarsi, e reciteranno lo spettacolo
per un’assemblea di spettatori che saranno dei puri spiriti.
[. . . ] È vero certo che egli è costretto ad aspettarti. La magia è proprio questa,
egli ha bisogno del tuo aiuto per essere percepibile, per essere rivelato, per
manifestarsi, eppure vive; è un mistero che non puoi capire. Non pensare che
questo sia un castigo per lui, o la sua impotenza, pensa piuttosto che è una
forma di esistenza alla quale egli è costretto affinché tu possa, insieme ai tuoi
contemporanei, comunicare con lui.35
Come si vede, in questo passo Jouvet ha già introdotto il personaggio spettrale
nel teatro, ha già concesso a questa “forma di esistenza” un diritto d’asilo tra le
quinte. Ciò nondimeno occorre chiedersi, o piuttosto occorre chiederle, da dove
31
Cfr. D. Diderot, Il paradosso sull’attore, tr. it. e cura di A. Moneta, Rizzoli, Milano 1960.
L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 149. Sul concetto di “sdoppiamento” cfr. infra
pp. 11 sgg.
33 D. Diderot, Il paradosso sull’attore, cit., p. 29, corsivi nostri.
34 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., 170.
35 Ibid., p. 169.
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essa provenga. Dal libro, si è detto: dal testo teatrale. A partire da questo – con il
libro, per il libro e nel libro –, infatti, è disseminato.
La scrittura del libretto, del copione, del canovaccio, ecc., del testo destinato
alla scena, come ogni testo scritto, sancisce «un abbandono ad una deriva essenziale: la scrittura è il documento di questo abbandono»36 . Lo scrivere da parte
dell’autore «è destinare»37 , in primo luogo lo scritto, il suo contenuto con la materialità del supporto, ma anche, nel caso del testo teatrale, l’esistenza dei personaggi
del dramma in cui prendono servizio. La peculiarità del testo, di ciò che abbiamo
metaforicamente chiamato «il libro», in generale, è che esso stesso «è il suo poter
essere sempre in circolazione». Questo è il «suo essere»38 : essere dis-seminato,
dis-perso, e disseminare destinando col segno e nel segno della scrittura39 . A partire da questo movimento di destinazione, si attua uno «strappo della scrittura che
non si lascia più ricucire»40 , dal quale il testo si separa senza fine dal suo autore,
insieme ai personaggi, nel caso del testo teatrale, che da questo testo attendono una
realizzazione scenica. Di questo «strappo», appunto, abbiamo visto testimone il
Pirandello citato.
Il testo annuncia la messinscena ovvero annuncia l’evento come stacco41 da
sé, «afferma il difuori»42 e dis-semina nel tempo le proprie potenzialità. La messinscena è, difatti, tutt’altro dal testo teatrale: questa è il doppio di ciò che essa
eccede e a cui il testo destina. Finanche il testo teatrale trascurato di proposito, crudelmente43 , in un evento scenico pare oltremodo assiologicamente esaltato
dall’essere ontologicamente affermato, metafisicamente riconosciuto. Esso è, infatti, solamente rinviato alla sua disseminazione e, piuttosto, «controfirmato» in
essa ovvero procrastinato verso una «contro-firma»44 ; è dunque rimandato al suo
essere testo disseminato e quindi non necessariamente, bensì solo possibilmente,
germogliante. Solo la sua determinazione efficace nel rappresentato, dando vita
alla scrittura, ne ucciderebbe la peculiarità, recuperando la phoné al segno, reinserendola in un altro gioco di rinvii ancora disseminanti, ma esterni allo statuto dello
36
S. Petrosino, Del segno. (Disseminario), in J. Derrida, La disseminazione, tr. it. di S. Petrosino
e M. Odorici, “Introduzione” e cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989, p. 27.
37 Ibid., p. 35.
38 Ibid., p. 36.
39 «Il seme (il segno, la parola) è sempre disperso (perché dia frutto), ma in quanto disseminato,
perché disseminato: il seme è sempre dis-perso perché sempre dis-seminato. In tal senso la disseminazione (del segno, del senso, della parola) si dispiega come originaria messa in gioco delle
differenze nell’ossessione e nella tensione di una destinazione: la disseminazione si mostra ed è
attiva nel movimento della destinazione» (ibid., p. 38).
40 J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, in La disseminazione, cit., p. 69.
41 Cfr. C. Sini, La virtù politica. Filosofia e antropologia, CUEM, Milano 2000, p. 7.
42 Ibid., p. 77.
43 Cfr. A. Artaud, “Il teatro Alfred Jarry”, in Il teatro e il suo doppio. con altri scritti teatrali,
“Prefazione” di J. Derrida, tr. it. di E. Capriolo e G. Marchi, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, Einaudi,
Torino 1968, p. 10, nonché, a tal proposito il commento di J. Derrida in “Il teatro della crudeltà e
la chiusura della rappresentazione”, in La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, “Introduzione.
Derrida e l’otrepassamento della metafisica” di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1990, p. 320.
44 J. Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia”, cit., p. 20-23.
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scritto. La rappresentazione funziona come «momento del testo rilanciato»45 , in
un doppio movimento di rilancio e, contemporaneamente, di soppressione del segno. Detto ciò, sembra evidente come il negare l’esistenza del testo, il considerarlo
uno «spostamento d’aria», è un gesto che, di per sé, non uccide il Padre, né Dio46 ,
determinando solamente altri effetti di apertura – pochi – e di chiusura – per lo
più. Lo spettacolo è comunque una finzione, per quanto pericolosa47 e crudele: la
deliberata omissione della parola o del gesto plastico non conferisce verità alcuna
a ciò che resta finzione48 nella necessità della ripetizione49 .
Il rischio reale. Quando è rappresentato, il testo «esce dal suo buco» e mette
a nudo la sua minaccia: passa, in un sol colpo dal testo «reale» al reale «fuori
testo»50 . Il rischio del testo è di morire con la sua messa in scena o con una
sua messa in scena. Ma, lo abbiamo appena considerato, questo è tipico dello
strappo in gioco dall’origine della scrittura. Ebbene, che cosa avviene del testo
e che avviene dei personaggi, dove si disseminano, dove sublimano cancellando
il seme? Sublimazione o cancellazione del seme (semen-sema)? La sublimazione
nella rappresentazione lo cancella51 , ma il testo, in quanto tale, era già uscito da sé,
già sfuggiva al segno: «gli sfugge senza ritorno, non gli rinvia più la sua immagine,
non è più un oggetto finito e posto, che riposa nello spazio della biblioteca»52 .
Dove si trovano quindi i personaggi53 , gli spettri? «Qui? Dove? La questione
del qui si ritrova esplicitamente messa in scena nella disseminazione»54 del testo,
la quale, non lo dimentichiamo, è oltremodo una questione d’eredità. L’autore
genera lo scritto come un padre, ma da questo stacco non ne governa più la disseminazione che lo ha reso illocalizzabile agli occhi del padre stesso. «La scrittura è
il figlio miserabile. Il miserabile. [. . . ] In ogni modo un figlio perduto la cui im45
Id., “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit., p. 320.
Id., “Artaud: la parole soufflée”, in La scrittura e la differenza, cit., p. 237.
47 Cfr. A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica”, in Il teatro e il suo doppio con altri scritti
teatrali, cit., p. 161.
48 Cfr. J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, cit., pp. 77-78.
49 «Non esiste oggi nel mondo un teatro che corrisponda al desiderio di Artaud. E da questo punto di vista non si dovrebbe fare eccezione neppure per i tentativo di Artaud stesso. Egli lo sapeva
meglio di chiunque altro: la “grammatica” del teatro della crudeltà di cui diceva che era “da trovare”, resterà sempre il limite irraggiungibile di una rappresentazione che non sia ripetizione, di una
ri-presentazione che sia presenza piena, che non rechi in sé il suo doppio come sua morte, di un
presente che non ripeta, cioè di un presente fuori del tempo, di un non-presente. Il presente non si
dà come tale, non si manifesta, non si presenta, non apre la scena del tempo o il tempo della scena,
se non accogliendo la propria differenza interna, se non nella piega interiore della propria ripetizione originaria, nella rappresentazione. [. . . ] Il tragico non è l’impossibilità, ma la necessità della
ripetizione» (Id., “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit., p. 320).
50 Id., “Fuori libro – Prefazioni”, cit., p. 84.
51 «In teatro l’opera dello scrittore non c’è più» (L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in
Questa sera si recita a soggetto. Ma non è una cosa seria. Bellavita, Orsa Maggiore, Foligno 1995,
p. 12).
52 J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, cit., p. 95.
53 «Da che mondo vengono questi personaggi e perché?» (L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”,
in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, cit., p. 159).
54 Ibid., p. 52.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
portanza è proprio quella di un orfano, come di un parricida perseguitato, e talvolta
ingiustamente»55 , afferma Derrida. E ancora, commentando Platone:
lo scritto è un discorso scritto (logos gegrammenos). In quanto vivo, il logos
è generato da un padre. Per Platone quindi non c’è cosa scritta. C’è un logos
più o meno vivo, più o meno vicino a sé. La scrittura non è un ordine di
significazione indipendente, è una parola indebolita, non è propriamente una
cosa morta: è un morto-vivo, un morto in rinvio, una vita differita, una parvenza di respiro; lo spettro, il fantasma, il simulacro (éidolon)56 del discorso
vivo non è inanimato, non è insignificante, significa semplicemente poco e
sempre in modo identico. Questo significante da poco, questo discorso poco
garantito è come tutti gli spettri: errante. Vaga (kylìndeitai) qua e là come
uno che non sa dove va, avendo perduto la retta via, la buona direzione, la
regola della rettitudine, la norma; ma anche come uno che ha perduto i propri
diritti, come un fuorilegge, un traviato, un cattivo ragazzo, un mascalzone o
un avventuriero. Percorrendo le strade, non sa nemmeno chi sia, quale sia la
sua identità, se ne ha una, o un nome, quello di suo padre. Ripete la stessa
cosa quando viene interrogato agli angoli delle strade, ma non sa più ripetere
la propria origine. Non sapere da dove si viene e dove si va, per un discorso senza chi ne risponda, vuol dire non saper parlare, è lo stato d’infanzia.
Lui stesso spaesato, anonimo, senza legame con il suo paese e la sua casa,
questo significante quasi insignificante è a disposizione di tutti, sia dei competenti che degli incompetenti, di coloro che ascoltano e vi si ascoltano (tòis
epàiusin) e di coloro a cui tutto ciò non riguarda minimamente, e che, non
conoscendovi nulla, possono affliggerlo con tutte le impertinenze.
Disponibile per tutti e per ognuno, offerta sui marciapiedi, la scrittura non è
forse essenzialmente democratica?57
Figlio di tali infauste origini è dunque il personaggio teatrale. Egli deriva il
suo statuto da questa semina originaria e, pertanto, subisce tutti gli effetti della
propagazione dispersiva cui il testo stesso è soggetto.
Errano, dunque, i personaggi e, nelle loro peregrinazioni, si rendono disponibili, ricercano atavicamente la loro realizzazione scenica «come fantasmi che
vogliono prender corpo, pensieri che cercano delle anime (Dante)58 , nel limbo nel
quale vivono»59 . Sono anch’essi essenzialmente «democratici», come la scrittura
che li stacca dalla penna dell’autore, in quanto vestibili da chiunque sia disposto a
recitarli e ad accoglierli, ma permangono pur sempre in balia dell’essere il precipitato scenico di una «disseminazione di cadaveri» ovvero di segni che si cancellano
55
J. Derrida, “La farmacia di Platone”, in La disseminazione, cit., pp. 173-174.
Cfr. Plat., Phaedr., 276 A.
57 J. Derrida, “La farmacia di Platone”, cit., pp. 171-172.
58 Cfr. Dante, Inferno, Canto IV, vv. 19-45, in La divina commedia, a cura di T. Di Salvo,
Zanichelli, Firenze 1985, pp. 61-63.
59 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 189.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
per dare avvio a una vita spettrale, sia essa quella del libro o quella del suo figlio
ancor più degenere60 : il personaggio teatrale, appunto.
Lo scritto, che è «malformato dalla nascita»61 , comporta la deriva essenziale
del personaggio spettrale quale perenne straniero in cerca di ospitalità. Come il
«pharmakon introduce e ripara la morte»62 così il testo drammatico, giocando con
la messinscena, assicura il destino eterno del personaggio nel migrare da un’incarnazione contingente a un’altra, morendo alla propria universalità in ogni sua
determinazione scenica, ma guadagnando con essa un credito di immortalità più
ampio, ancorché incompiuto fino alla successiva determinazione.
L’incarnazione
Ora questi Sei personaggi chiedono di vivere. Vogliono essere immessi in
un dramma. Sono più reali di lei, direttore di teatro, di voi, guitti immondi.
Sono reali e lo dimostrano. Perché in che cosa consiste la vostra realtà, di
voi vivi, personaggi in carne e ossa, e non personaggi in spirito, che avete
una madre, un padre, che avete uno stato civile?63
I personaggi teatrali possiedono, dunque, un’autonomia che permette loro di
conservarsi tra una rappresentazione e l’altra, essi devono per fatalità migrare e
chiedere con petulanza istanti di discrezione concreta in un flusso continuo di propagazione casuale della loro realtà spettrale. Questi istanti possono solo esistere
quali determinazioni sceniche contingenti, ovvero incarnazioni temporanee in esseri umani che sono più o meno disposti a ospitarli nella loro dimora più intima: il
loro «sé»64 , per usare la terminologia di Jouvet.
I personaggi dicono: «Generati dallo spirito, la nostra legge è quella di vivere senza fine, ma ancora incompiuti»65 . Essi, infatti, non hanno ancora raggiunto
la condizione di personaggi viventi sulla scena, quantunque siano già sparpagliati
in una certa determinazione letteraria, per quanto disseminante. Certamente posseggono già un’identità definita, ma non ancora compiuta in ciò che sussisterà
solo “in scena”, forse. Possiamo allora affermare con Artaud e Pirandello che essi
siano “reali” o che “vivano” con un’identità propria, la quale tuttavia non si esprime integralmente se non nell’evento scenico: il personaggio non è il personaggio
letterario, ma attende uno spazio scenico e un attore.
60 «Questo avventuriero [. . . ] simula tutto a caso e non è in realtà nulla. Abbandonato a tutte le
correnti, è della massa, non ha essenza, né verità né patronimico, né costituzione propria» (J. Derrida,
“La farmacia di Platone”, cit., p. 173).
61 Ibid., p. 176.
62 Ibid., p. 171. Cfr. anche Plat., Resp., 607 C.
63 A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, in Il teatro e
il suo doppio. Con altri scritti teatrali, cit., p. 110.
64 «Cos’è il me? È quello che sei immediatamente, quello che parla subito e ad alta voce. Cos’è il
sé? È l’altro, quello che non ascolti mai dentro di te, quello che parla sottovoce; è l’orecchio interiore
con il quale ascolti un personaggio. Il me è epidermide e il sé ramificazione profonda» (L. Jouvet,
“Divagazioni del comédien”, cit., p. 185).
65 A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, cit., p. 110.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Il personaggio attende ospitalità. Dove? In un luogo: il corpo dell’attore66 .
Eppure, anche qui, lo stesso personaggio non può che rivelarsi ovvero non può che
rilanciare la propria immortalità nella morte della determinazione, nel suo essere
ostaggio del periodo storico e dell’individuo che lo sta interpretando più o meno
correttamente – ma esiste mai correttezza? Ebbene, se possiamo parlare qui propriamente di ospitalità, non possiamo prescindere dall’antinomia67 cui le questioni
d’ospitalità rinviano. L’antinomia, l’opposizione di leggi «eterogenee e indissociabili»68 , determinerebbe la possibilità di deterioramento del guest o dello host
nello hostage e sarebbe appunto originata dal contrasto tra la legge d’ospitalità incondizionata e le leggi condizionate e condizionanti che ne costituiscono il diritto
applicato, quale snaturamento, ma, insieme, quale condizione di sussistenza. Se,
di fatto, non si può donare ospitalità senza che vi sia evento di dono, fenomenicamente determinato69 , similmente non può esistere svelamento dello spettro del
personaggio, non vi è espressione di vita reale, germogliare di semina, senza rivelazione, ri-nascondimento e morte dell’immortalità potenziale. Ecco perché una
messa in scena può essere “mortale”70 : in gioco non vi è che una certa morte alla
propria identità del personaggio e dell’attore che si presta a interpretarlo. La messa
in scena, dunque, è “mortale” nella misura in cui, nella contingenza di cui fa parte,
non rilancia l’immortalità dello spettro, rendendolo libero di disperdersi nuovamente alla ricerca di altre dimore, ovvero quando cerca di fissare in una forma71
l’origine dionisiaca del teatro.
Il fatto è che l’evento-personaggio è sempre a-venire72 : non risiede mai interamente in una delle sue determinazioni e la sua verità, se c’è, «non si racchiu66 «L’attore sente il personaggio, il fantasma ha preso corpo dentro di lui» (L. Jouvet, “Sull’attore”, in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, cit., p. 62, corsivo
nostro).
67 «Ci sarebbe antinomia, un’antinomia insolubile, un’antinomia non dialettizzabile tra La legge
dell’ospitalità da una parte, la legge incondizionata dell’ospitalità illimitata (offrire a chi giunge la
propria casa e il proprio sé, offrirgli ciò che ci appartiene senza domandargli nome o contropartita,
senza che sottostia ad alcuna condizione) e, dall’altra parte, le leggi dell’ospitalità, i diritti e i doveri sempre condizionati e condizionanti, così come li definisce la tradizione greco-latina, ovvero
giudaico-cristiana, tutto il diritto e tutta la filosofia del diritto fino a Kant e Hegel in particolare,
attraverso la famiglia, la società civile e lo Stato» (J. Derrida, “Passo d’ospitalità”, cit., p. 84).
68 J. Derrida, “Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida”, in
G. Borradori (a cura di), Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida,
tr. it. di F. Hermanin e G. Bianco, Laterza, Bari 2003, p. 139.
69 Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, cit., pp. 122-124.
70 Cfr. P. Brook, Lo spazio vuoto, tr. it. di I. Imperiali, Bulzoni, Roma 1998, p. 21-51.
71 «Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della
sua forma; sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita glie la diamo noi»
(L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, cit., p. 14).
72 «Una tale questione avviene, se avviene, interroga su ciò che verrà nell’a-venire. È rivolta verso
l’avvenire, gli va incontro, ma ne viene anche, proviene dall’avvenire. Deve perciò eccedere ogni
presenza come presenza a sé» (J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova
Internazionale, cit., p. 5).
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
de in una formula»73 , ma deborda74 da essa incarnando il dono dell’attore e del
personaggio stesso. Jouvet, nelle Lettere all’attore, fa scrivere al personaggio:
«Non cercare una dottrina, non è la reincarnazione che importa, bensì il divenire.
Movimento, slancio orientato»75 .
Non è possibile, dunque, slegare il fatto dell’incarnazione del personaggio dall’essenza effimera di ciascuna reincarnazione, così come non è possibile svincolare l’ospitalità dalla variabilità del diritto contingente che la snatura e la consente.
Pertanto, il diritto di ospitalità si deve servire di uno «slancio orientato» per mantenere dischiusa la possibilità di un’ospitalità a-venire dell’altro «fuorilegge»76 come
anche ogni determinazione formale del personaggio teatrale va orientata a una metempsicosi a-venire. Nell’incarnazione contingente, se c’è, ne va dell’immortalità,
nel duplice senso che essa determina l’indeterminabile – lo spettro –, pur essendo
condizione di esistenza dello spettro stesso.
La mia durata è più ampia della durata di tutte le variazioni che su di me
sono state fatte e più di quelle che verranno fatte; io sono l’essere permanentemente utile a coloro che possono o vogliono sentire o pensare.
Io offro e non ne ricevo niente. Non ho in animo alcuna retribuzione. Io sono
creato per essere incarnato. È la mia punizione e la mia ricompensa, in altre
parole il mio essere.77
Il personaggio vivrebbe, dunque, un processo an-economico78 necessitando,
per vivere, della dispersione in determinazioni che comporterebbero, in qualche
misura, una morte della sua essenza spettrale nella sua libertà e universalità – la
“punizione” –, ma insieme sarebbero la sua unica possibilità di concreta realizzazione – la “ricompensa”.
Mediante l’incarnazione si vede, dunque, controfirmare il medesimo parricidio
già attuato per l’essenza della dispersione dello scritto ovvero il parricidio del logos
che li ha generati. Non solo. Come lo Straniero del Sofista79 , i personaggi teatrali
73
L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 175.
«Il dono, se ce n’è, sarà sempre senza bordo. [. . . ] Il dono dovrebbe, se ce n’è, debordare il
bordo, certo, verso la dismisura e l’eccesso; ma dovrebbe anche sospendere il suo rapporto con il
bordo, e anche il suo rapporto trasgressivo con la linea o con il tratto isolabile di un bordo. Il ‘senza’
non è soltanto l’‘oltre’ o l’ ‘al di là’» (J. Derrida, Donare il tempo, cit., pp. 92-93).
75 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 174.
76 J. Derrida, “Questione dello straniero: venuto da fuori. Quarta seduta (10 gennaio 1996)”, in
Sull’ospitalità, cit., p. 58.
77 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 174. «Incarnato nella realtà palpabile dell’attore, nel suo organismo vivo» (J. Grotowski, Per un teatro povero, “Prefazione” di P. Brook,
tr. it. di M.O. Marotti, Bulzoni, Roma 1970, p. 30).
78 Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 33. «Solo una ‘vita’ può donare, ma una vita nella quale
questa economia della morte si presenti e si lasci debordare» (Id., Donare il tempo, cit., p. 103.)
79 «Lo straniero scuote il minaccioso dogmatismo del logos paterno: l’essere che è, e il non-essere
che non è. Come se lo Straniero dovesse cominciare col contestare l’autorità del capo, del padre, del
signore della famiglia, del ‘padrone di casa’, del potere d’ospitalità» (J. Derrida, “Questione dello
straniero: venuto da fuori”, cit., p. 40). Cfr. Plat., Soph., 240 C-242 A.
74
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
mettono continuamente in discussione ciò che è e ciò che non è, pretendendo una
realizzazione veritiera e concreta della loro destinazione letteraria.
Occorre, quindi, riflettere sul luogo di pertinenza delle incarnazioni stesse: gli
attori. Qui sta il teatro e la sua problematicità80 .
Sdoppiamento
Il fantasma e l’ospitalità
Allora dov’è il teatro? ESSI [, i personaggi,] vivono, affermano di essere
reali. Ce l’hanno fatto credere. Allora noi [attori], che cosa siamo? Eppure questi Sei personaggi, sono ancora degli attori ad incarnarli. Si pone in
questo modo tutto il problema del teatro. Ed è come un gioco di specchi
in cui l’immagine iniziale si assorbe e rimbalza ininterrottamente, cosicché
ogni immagine riflessa è più reale della prima e il problema non cessa di
porsi. E l’ultima immagine porta via con sé tutte le altre e sopprime tutti gli
specchi. Si vedono cosi i Sei personaggi dai volti spettrali, in fila come mummie, andarsene con l’ascensore e sparire nelle centine reali fino al prossimo
spettacolo.81
Artaud si riferisce evidentemente ai Sei personaggi in cerca d’autore, che finora ho lasciati giocare per mostrare come l’autore siciliano abbia indicato il varco
che apre la questione del teatro come epifania dell’altro che si presenta spettralmente. L’erranza tra una messa in scena e l’altra comporta, infatti, un agguato,
un’irruzione spettrale, più o meno violenta e lancinante, nell’essere di un altro
che è tenuto all’ospitalità dello spettro nella propria carne: l’attore, se questi è un
comédien.
Chi è il comédien? Si tratta di una distinzione che Jouvet introduce nel 1935,
quando scrive la voce “Art du comédien” per l’Encyclopédie Française82 : «L’acteur
entra nel personaggio, il comédien lo riceve in sé»83 . Tale diversificazione, dunque, mi sarà utile nel considerare l’attore come host, che «riceve» il personaggio,
ma anche come luogo – il suo «in sé» – di accoglienza dello stesso84 . Secondo
80 Cfr. A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, cit.,
p. 111.
81 Ibid, corsivo nostro. Inoltre, cfr. L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 158.
82 Cfr. L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., pp. 40-46.
83 Ibid., p. 40. Scelgo, da ora in poi, di fare uso del termine francese “acteur”, allorquando nell’esposizione si dovesse intendere nello specifico il significato che Jouvet attribuisce a questa parola,
preoccupandomi di sostituire il termine italiano “attore”, con il francese “acteur”, anche nelle traduzioni di Jouvet a cura di Brunella Torresin. Il termine italiano «attore» sarà utilizzato genericamente,
denotando la professione a cui pertiene la differenziazione tra acteur e comédien.
84 «L’attore, incarnandosi presta il proprio corpo al personaggio. [. . . ] Una volta ottenuta la
sensazione fisica, l’attore deve lasciare che l’anima del personaggio venga ad abitare in lui e soprattutto deve muoversi con lentezza, senza brusche operazioni; lo sciamare delle idee e dei sentimenti
dell’autore nell’attore è un’operazione delicata. Successivamente, è necessaria una sorta di sistemazione, la maniera in cui il personaggio, l’inquilino, vivrà presso questo nuovo proprietario. Dal
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Hegel, l’attore è colui che si accosta all’opera d’arte drammaturgica o, più semplicemente, al personaggio con disponibilità, «come individuo intero con la sua
figura, la sua fisionomia, la sua voce ed ha il compito di fondersi completamente
con il carattere che manifesta». Questa fusione ha da essere tale che il suo mestiere
deve rassomigliare a quello di «una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce
immutati»85 , per cui deve tendere a essere ciò che Jouvet chiama un “comédien”.
Ciò nondimeno, nell’assorbimento del personaggio e del suo dramma, egli non può
che scontrarsi con le proprie specificità umane. È qui che l’irruzione del personaggio lascia trasparire una certa violenza: «egli è costretto a eliminare tali peculiarità
di fronte all’espressione di pathos universale e di una caratteristica tipica»86 , pertanto, a onorare, rispettivamente, la comunicatività della propria espressione, che
verrà fruita da un pubblico e, insieme, la tipicità del personaggio che intende servire. Tuttavia è evidente come nessuna universalità di interpretazione sarà possibile,
dato che la rappresentazione sarà comunque determinata: di fatto il comédien dovrà gestire l’irruzione con modalità proprie che risentiranno delle sue peculiarità
storiche e umane, lasciando piuttosto l’universalità del pathos e la tipicità del personaggio come punti di riferimento cui tendere asintoticamente, pur nel continuo
snaturarli.
Se, come credo, questo è un mestiere per essenza ospitale, in quanto tale non
può allontanarsi dalle antinomie tipiche delle questioni d’ospitalità, appunto. L’unica certezza è il corpo storico proprio dell’attore che affronta il personaggio87 e
già a questo livello l’acteur, che sostituisce la propria personalità al personaggio,
tenendolo in ostaggio, si contrappone al comédien, il quale, mediante la propria
comprensione del ruolo, si lascia insinuare e penetrare88 da esso89 . La fusione di
cui parla Hegel non può quindi avvenire che in uno stato di problematicità90 tra
l’individuo attore, nella sua peculiarità storica, spirituale e corporea, e il personaggio, nella sua spettralità. La realizzazione dello spettro non può esulare dalle
circostanze date da cui dipende la «plasticità»91 del ruolo teatrale e tra queste vi
tipo di ospitalità data e ricevuta dipende la qualità dell’interpretazione, il perfezionamento dell’arte
e della natura umana del comédien, che procedono di pari passo, l’irraggiamento che penetra l’opera
e scende fino al pubblico» (L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 189, corsivi nostri, eccetto
il primo).
85 G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 1329.
86 Ibid., p. 1331. Inoltre, cfr. ibid., pp. 1329-1330.
87 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, in L. Jouvet, Elogio del disordine, cit., p. 18.
88 «Il fattore determinante di questo processo è costituito dalla tecnica di penetrazione psichica
dell’attore. Egli deve imparare a far uso della sua parte come di un bisturi che gli serva per autosezionarsi» (J. Grotowski, “Il Nuovo Testamento del teatro”, in Per un teatro Povero, cit., p. 45).
89 «Il punto di partenza è sempre l’empiricità del mestiere e, in quanto strumentista, lo strumento
a disposizione del comédien è il suo corpo e la sua anima in un continuo procedere per adattamenti
o per scontri con le condizioni date» (S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 20).
«Per l’attore, il materiale utilizzato per creare persone immaginarie che infila e sfila come un guanto,
è carne della propria carne, sangue del proprio sangue. Ogni volta dona parti di sé» (P. Brook, “Il
teatro immediato”, in Lo spazio vuoto, cit., p. 144).
90 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 21-22.
91 Cfr. L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 171.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
è, indubbiamente, anche la scelta di come gestire di volta in volta la soglia che
permette al personaggio di insinuarsi nell’attore e viceversa. Ovvero la scelta di
essere un acteur o un comédien.
Tale questione era già stata affrontata da Diderot nel suo Paradosso sull’attore mediante il concetto di sdoppiamento. Chi è l’attore mentre è il personaggio?
Non risulta egli sdoppiato92 ? «Se è se stesso quando recita come potrà cessare di
esserlo? E se vuol cessare di essere se stesso, come troverà il punto giusto in cui
dovrà collocarsi e tenersi?»93 Per Diderot solo la lucidità, ovvero la padronanza di
sé, consente un’adeguata espressione94 del personaggio, quindi questi va limitato,
confinato, dalla ratio attorale. Tuttavia, guardando ad attori e a epoche passati,
notiamo come ciò che c’è di variabile nel mestiere dell’attore pertiene, appunto, al
modo in cui l’attore di sdoppia e ai risultati che questo sdoppiamento comporta95
irrigidendo o mitigando i limiti consentiti allo spettro del personaggio dall’attore
che ne regola l’ospitalità in sé. Ciò accade indipendentemente dal fatto che questi
abbia privilegiato la via della psicotecnica di stampo stanislavskijano96 , oppure la
via di Diderot, che difende la necessità di un controllo razionale sul personaggio
e nega che quella “fusione”, di cui Hegel parla, possa realizzarsi se non nel controllo delle proprie emozioni97 , o ancora, eccedendo in tale direzione, la via dello
«straniamento»98 brechtiano in cui «l’artista si guarda»99 , consentendo all’attore di
osservare il personaggio recitare nel suo sé, provocando una rarefazione e uno svelamento anti-mimetico dell’effetto di sdoppiamento100 . Ebbene, seguendo Copeau,
Jouvet tende a fondere la via stanislavskijana con quella diderotiana: «se l’attore
si esprime attraverso segni che si originano dalle proprie operazioni psichiche e se,
d’altra parte, non può limitarsi a misurare su di sé il personaggio, l’amplificazione
artistica non può avvenire senza mettere in moto forze morali»101 .
92
Cfr. D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., pp. 22-23.
Ibid., p. 21.
94 Cfr. ibid., p. 44.
95 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 32.
96 Ovvero «sviluppando e maturando i sentimenti con una precisione e coerenza matematiche»
(K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, tr. it. di E. Povoledo, a cura di G. Guerrieri, Laterza, RomaBari 1988, p. 523. Cfr. anche ibid., pp. 519-527), allo scopo di «creare in scena la vita interiore del
personaggio» (ibid., p. 24) mediante «l’arte della ‘riviviscenza’» (ibid., p. 21). «In russo perejivànie:
indica il processo mediante il quale un attore rievoca, analizza, comprende e rivive una sua esperienza
personale analoga a quella del personaggio e se ne serve per immedesimarsi in esso» (ibid., in nota.).
97 Tuttavia, osserva Jouvet, «Diderot, che non era un comédien, non poteva aver provato il
misterioso processo dei movimenti psico-fisiologici che animano l’attore in scena» (L. Jouvet,
“Sull’attore”, cit., p. 45).
98 B. Brecht, Scritti teatrali, tr. it. di E. Castellani, R. Fertonani e R. Mertens, a cura
di E. Castellani, Einaudi, Torino 1962, p. 63.
99 Ibid., p. 73.
100 Cfr. anche la descrizione dei «quattro poli dell’attorialità» (interprete, autonomo poeta, esecutore e vittima sacrificale) secondo la descrizione fornita in R. Tessari, “Poetiche intorno all’attore” e
“Tecniche espressive dell’attore: posizioni di scena, mimica del volto. . . ”, in R. Alonge, R. Tessari,
Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, LED, Milano 1996, pp. 30-37.
101 F. Cruciani, Jacques Copeau o le aporie del teatro moderno, Bulzoni, Roma 1971, p. 193.
Cfr. L. Jouvet, “Tecniche, personaggi, testi” e “Comportamento dell’attore”, in Id., Elogio del
93
15
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Jouvet affronta la questione dello sdoppiamento come una questione etica e
invita l’attore alla responsabilità individuando la distinzione acteur/comédien.
L’interpretazione degli acteurs si limita, in generale, a una riduzione del personaggio, attraverso quel che di misero, particolare, personale l’acteur porta
dentro di sé.
[. . . ] Incarnato come l’acteur, ossia amplificato di se stesso e da se stesso
poiché egli è il proprio risuonatore, oppure disincarnato come il comédien.
L’acteur agisce tramite l’esproprio102, l’appropriazione del personaggio: «Levati di lì, che mi ci metto io». L’acteur vuole testimoniare subito e di se stesso
(innanzi tutto).
Il comédien lavora attraverso un approccio, un’amicizia, una lenta introduzione in cui tutto di lui si offre affettuosamente al personaggio, fino a sostituirsi a esso generosamente, con liberalità, per poterne poi testimoniare
pubblicamente, lealmente.
Il ruolo deve servire a disincarnarsi da se stessi. Soltanto attraverso e in
questo stato si ottiene il personaggio.
[. . . ] L’acteur, da parte sua, si limita a dare l’impressione, l’illusione del
personaggio.
Il comédien giunge al personaggio grazie a uno sforzo di sensibilità e di spiritualità, attraverso una sorta di disciplina dei momenti di preparazione e di
esecuzione.
L’acteur è un comédien negativo grazie a delle qualità fatte solo di apparenza
esteriore, grazie a un prestigio in cui la voce, il gesto, la prestanza, il pubblico
gli conferiscono immediatamente una priorità, una simpatia, una confidenza
attraverso le quali il pubblico ha più facilmente accesso all’illusione. Con
il sotterfugio dei suoi doni fisici, della sua autorità, della sua reputazione,
l’acteur acquista o conquista il pubblico, l’illusione di cui il pubblico ha
bisogno e che il pubblico subito gli si accorda.
Il comédien deve produrre ogni cosa con dei mezzi artificiali. È il vero103
attore, l’adattamento del suo fisico, ma soprattutto lo stato interiore sensibile,
che si innalza fino a una certa altezza nelle sensazioni e nei sentimenti, fino
a una zona in cui normalmente respirano i personaggi.
[. . . ] L’acteur, da parte sua, non si disincarna mai. Il suo talento è quello
di essere estremamente incarnato in sé, per prima cosa, e in se stesso; e il
pubblico esige da lui che assomigli a se stesso. Il vuoto al quale il comédien
aspira e raggiunge lo renderebbe inesistente. Egli esiste solo grazie a se
stesso.
Il comédien esiste soltanto grazie allo sforzo e alla disciplina, all’immaginazione viva, regola di vita per i suoi pensieri e per il suo corpo, infine grazie
al personaggio al quale cerca di adeguarsi, al quale cerca di presentarsi non
nello specchio della propria camera, ma in una sua viva immaginazione104.
disordine, cit., rispettivamente p. 75 e p. 89.
102 Corsivo mio.
103 Corsivo mio.
104 Ibid., pp. 183-184.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Il «vero» attore si disincarna ed è «strumento di personalità per un ruolo»,
«strumento di uguaglianza per un personaggio» e «strumento di servizio per un
eroe di teatro, la cui vita spirituale è fuori dalla sua portata»105 . Il «vero» attore,
il comédien, sembra insomma soggetto a la legge d’ospitalità incondizionata. E a
essa tende, pur nella sua contingenza fisica e spirituale. Come ostaggio del personaggio spettrale, egli deve volontariamente – quindi, di nuovo, a partire dal sé,
da un diritto del sé – espropriarsi: abban-donare la propria personalità, il me che
l’acteur impone invece al ruolo, e giungere a un’umile abnegazione di sé. In tale
ex-appropriazione il comédien è soggetto all’imperativo dell’altro che cerca ospitalità nel suo corpo e per questo la sua missione è disincarnarsi, offrire in olocausto
il proprio me, per recitare con il suo sé106 .
Cos’è il me? È quello che sei immediatamente, quello che parla subito e ad
alta voce.
Cos’è il sé? È l’altro107 , quello che non ascolti mai dentro di te, quello che
parla sottovoce; è l’orecchio interiore con il quale ascolti un personaggio.
Il me è epidermide e il sé ramificazione profonda.
L’attore disincarnato, il comédien, rivive nell’esecuzione una nuova possessione.
Esistono due specie di esecutori: quelli che rimangono ancorati a loro stessi
e quelli che si dissociano; quelli che vanno avanti grazie ad un accrescimento
di peso, di autorità, di denaro o di successo,
e quelli che vanno avanti grazie a una sorta di distillazione di sé, di insinuazione interiore, di meditazione, che è come una semenza, e conquistano
una perfezione legata alla loro vita interiore, che dà loro una vita interiore
all’opposto di quella dell’attore.108
Il testo teatrale appare dunque, da questo punto di vista, come «una scorza
essiccata»109 che attende di essere riempito di umanità da parte di un comédien
che non lo usurpi come un paguro bernardo110 fa con la conchiglia di cui decide
di essere l’inquilino, ma che lo animi, riducendolo a traccia. Ecco, dunque, che
il comédien lasciando giocare il suo sé, accettando nel sé il disordine originato
dall’altro ovvero la presenza della vita dell’altro, dello spettro, nel sé, anima il
testo essendo animato dal testo. L’attore viene così reciprocamente ospitato dal
personaggio che ospita nel suo corpo. Struttura d’ostaggio. Di questa assurdità e
impossibilità il comédien fa il suo mestiere.
105
Ibid., p. 185.
Cfr. ibid., pp. 183-184.
107 Corsivo mio.
108 Ibid., pp. 184-185.
109 Ibid., p. 190. «Noi sappiamo che il testo di per sé non fa teatro, ma che esso diventa teatro
attraverso l’uso che l’attore fa di esso» (J. Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 28).
110 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 116.
106
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Il disordine
Dunque «l’attore vive nel caleidoscopio abbacinante di questi miraggi multicolori», egli vive un’instabilità, è nel permanente pericolo oscillante tra la «disponibilità» di abbandono al ruolo e il «controllo» di se stesso. Questa instabilità, questa
impossibilità del me stesso pur restando se stesso, è la possibilità del personaggio. Il comédien ha come peculiarità la «tendenza alla dissociazione [. . . ], la sua
facoltà di sdoppiamento, di percepirsi improvvisamente diverso da se stesso»111 .
Vive quotidianamente «tra l’essere e l’apparire, tra l’abbandono e il dominio di
sé, in un controllo più o meno sapiente, più o meno segreto e in cui il penetrare
è particolarmente arduo»112 . L’attore è continuamente in bilico tra il me e il sé,
soggetto alle alterazioni e alle deformazioni più bizzarre113 . Tali alterazioni sono
dovute a un corpo-ricettacolo dello spirito, dello spirito di un altro, di un’anima
diversa dalla sua114 , che gli permette di moltiplicare le superfici di sensibilità e
di migliorare la sua ospitalità a-venire115 , «per questo egli deve essere così vuoto,
così pietosamente vacante»116 e lasciarsi penetrare dal personaggio che trascende i
suoi livelli di giudizio117 . Gli attori vivono nella «congestione del ‘me stesso’» e,
nel rispetto della vacuità della loro personalità, possono «esistere solo nell’instabile: il raggiungimento del conosciuto o di una condizione di stabilità è contrario
alla vita che è ricerca, sforzo, nell’instabilità permanente»118 .
Eppure, l’attore ha un’eredità di se stesso e a se stesso119 che riconsegna indispensabilmente e inevitabilmente il suo mestiere alla conoscenza di sé, ma una
conoscenza di sé lontana dalla ferma constatazione di ciò che si è, bensì orientata
in un dinamismo rivolto alla conoscenza di ciò che dovrà essere: «uno sforzo verso
il dover essere»120 . Necessariamente egli è rimandato, nell’ospitalità in se stesso,
a un’ospitalità di se stesso, già concessa dal personaggio che accetta con «riconoscenza»121 le sue peculiari condizioni umane. Egli è reciprocamente accettato
dallo spettro che riconosce
questo corridoio, questo tubo cavo, questo corpo da affittare.
Il comédien per intero. Le sue vanità, le sue animosità, le sue volubilità, le
sue cattiverie, la sua bontà, la sua generosità, l’impossibilità di ragionare su
di lui e la sua stessa incapacità a ragionare di se stesso, la sua instabilità
proviene da questo gusto che supera ogni altra cosa, che lo fa esistere e lo
111
Ibid., p. 199.
L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 48.
113 Cfr. ibid., p. 49.
114 Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.
115 Cfr. Id., “Tecniche, personaggi, testi”, cit., p. 71.
116 Id., “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.
117 Cfr. J. Grotowski, “Affermazioni di principi”, in J. Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 297.
118 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 118.
119 Cfr. ibid., p. 120.
120 Ibid., p. 121.
121 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 160.
112
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
distrugge al tempo stesso. La sua verità è lì, lì sono le sue scuse e le sue
bassezze, e la sua vanità gloriosa.122
Il comédien cede allora all’opera e al personaggio una sua «originalità»123 ,
che è chiusura, determinazione, mentre questi si presenta come «aperto»124 . Infatti
il personaggio sopravvivrà alle variazioni di sé che, nelle varie epoche, si sono
succedute e succederanno125 , mentre la vocazione dell’attore è nello sforzarsi ed
esercitarsi, con ostinazione e perseveranza, alla dispersione e alla fuga da se stesso:
ogni azione, ogni sentimento o pensiero è diverso da ruolo a ruolo e da opera a opera. La contraddizione è appannaggio della sua esistenza, come il
costume variopinto d’Arlecchino.
La vita del comédien lo mostra costantemente alla ricerca dell’evasione da
se stesso, alla ricerca di un altro che mai riesce a cogliere, che non potrà mai
essere: è un costante tentativo di trasformazione, una trascendenza verso dei
personaggi eroici o ridicoli.126
L’attore pare, pertanto, il vero migrante. La sua consegna è il viaggio e l’abitare
le spoglie del personaggio, il vero host, che lo scongiura: «Non determinare nulla,
non concludere. L’imprecisione è feconda»127 .
Il diritto d’ospitalità – Sincerità e menzogna: Hecuba
Is it not monstrous that this Player here,
But a fiction, in a dream of passion,
Could force his soul so to his own conceit
That from her working all his visage wan’d;
Tears in his eyes, distraction in ’s aspect,
A broken voice, and his whole function suiting
With forms, to his conceit? And all for nothing!
For Hecuba?
What’s Hecuba to him, or he to Hecuba,
That he should weep for her?128
122
Id., “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.
Id., “Divagazioni del comédien”, cit., p. 191.
124 Ibid., p. 181.
125 «La mia durata è più ampia della durata di tutte le variazioni che su di me sono state fatte
e più di quelle che verranno fatte; io sono l’essere permanentemente utile a coloro che possono o
vogliono sentire o pensare» (ibid., p. 174). «Diverso ogni volta. Per ogni generazione, sembianze
innumerevoli, migliaia di rappresentazioni, tutte diverse nel volto, nel costume, nella voce, sono
sgorgate dal mio essere. Ogniqualvolta mi leggete mi ascoltate o mi rappresentate io sono un Altro.
Non cercare di riconoscermi» (L. Jouvet, “Lezioni sul Tartufo”, cit., p. 250).
126 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 154.
127 Id., “Lezioni sul Tartufo”, cit., p. 251.
128 W. Shakespeare, Hamlet, Prince of Denmark, atto II, scena II, in The Complete Works of
William Shakespeare. Comprising His Plays and Poems, “Preface” di D. Wolfit, “Introduction” e
“Glossary” di B. Hodek, Spring Books, London-New York-Sidney-Toronto 1979, p. 959.
123
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La vita del comédien deve essere dunque aperta all’imprecisione e al disordine
nel sé, ovvero alla disponibilità al viaggio e al rischio dello smarrimento. Il comédien, quale supporto o veicolo, è ciò che di «non sacro» esiste all’inizio e che
attende una trasformazione129 . «Il teatro è precisamente il punto d’incontro fra i
grandi quesiti dell’umanità – la vita, la morte – e la dimensione artigianale, che è
molto pratica, come nella ceramica»130 . Il disordine e il turbamento a cui l’attore
diventa soggetto sono la condizione di applicabilità di tale artigianato e come tali
vanno preservati. La recitazione tenderà presto a prendere «forma», una forma,
«ma bisogna comprendere che questa forma può essere d’ostacolo assoluto alla
vita, che è informe. Non si può sfuggire a questa difficoltà, e la battaglia è permanente: la forma è necessaria, ma non è tutto»131 . Perciò è necessario trovare
gli strumenti per custodire, di volta in volta, il disordine dionisiaco e il silenzio
del sé per fare in modo che il personaggio avvenga. La «forma pura», apollinea,
appartiene platonicamente allo spettro e il dargli forma scenica è sempre un «compromesso» che bisogna accettare in una dinamica che non avrà mai fine132 . Qui
sta l’artigianato. «Definire un personaggio [. . . ] significa imprigionarlo e ridurre il
suo potere, la sua forza [. . . ], privarlo della sua astrazione e totalità»133 ovvero, per
fare ancora uso della terminologia derridiana, significherebbe tenerlo in ostaggio,
ossia quale host e quale guest. Tuttavia come l’ospitalità incondizionata non può
servirsi che di forme, per quanto transeunti, di diritto determinato e snaturante, la
recitazione non può che appellarsi ad analoghe effimere formazioni. «Quello che è
puro può essere espresso in teatro solo attraverso qualcosa che sia di natura essenzialmente impuro»134 : come l’ospitalità, la recitazione non può che essere impura
ed effimera, ovvero a-venire.
Questo appare evidente dalle prime due fasi, dette «della sincerità» e «della
menzogna»135 che caratterizzano, secondo Jouvet, l’artigianato del comédien. La
stravaganza, il desiderio di evasione da sé e l’attesa di espropriazione assoluti136
129
Cfr. P. Brook, La porta aperta, tr. it. di M. d’Amico, Anabasi, Milano 1994, p. 80.
Ibid., pp. 82-83.
131 Ibid., p. 72.
132 Cfr. ibid. e cfr. anche L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, cit., pp. 12-16.
133 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 181.
134 P. Brook, La porta aperta, cit., p. 64.
135 «La prima fase del comédien è quella della vocazione, la fase in cui egli vive in una totale
ignoranza di se stesso, la fase della sincerità. [. . . ] Per conquistarsi un’identità nuova, egli cerca
di fuggire, di evadere» (L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 53). Successivamente «inizia a rendersi
conto che quella trasposizione di se stesso in un altro, la possessione del personaggio, è illusoria.
[. . . ] Nel labirinto in cui si muove affannosamente, egli si imbatte infine in un vicolo cieco, in se
stesso. [. . . ] È così che il comédien scopre la simulazione. Scopre la menzogna nella quale egli
vive. Riconosce e confessa la sua insincerità. Comprende di essere doppio: di vivere tra l’essere e
l’apparire, in una dislocazione forzata e che quello che all’inizio chiamava arte è innanzi tutto una
pratica, un mestiere» (ibid., pp. 53-54). Vi è una terza e ultima fase concerne la relazione col pubblico
che ho già affrontato altrove (cfr. L. Vaccaro, Lo straniero in scena. Saggio sul teatro e l’ospitalità,
“ACME. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano”, vol. LVII,
settembre-dicembre 2004) e che esula dall’argomento qui trattato.
136 Cfr. ibid., pp. 55-56. Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 153. «Lei deve credere
130
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invocano il personaggio. Attesa irrazionale e fiduciosa dell’incontro con l’altro:
desiderio di ospitalità incondizionata. «“Vieni in me”, non solo verso di me, ma in
me: occupami, prendi posto in me»137 . Egli è preso nella «struttura d’ostaggio»138
già dall’attesa di un guest spettrale a-venire e si troverà presto «ingarbugliato in se
stesso»139 , co-implicato nell’altro con il suo sé, che non avrà potuto eliminare.
L’altro, lo spettro, lo straniero – poiché viene da un altro mondo – ha bisogno di ospitalità concreta, non di uno spazio vacante, ma di un posto nel mondo
dell’attore, allorché questi si scontra con l’impossibilità dell’ospitalità assoluta imbattendosi in se stesso. Si ricordino le parole di Viola, travestita da ragazzo, in La
dodicesima notte: «I swear I am not that I play»140 . Analogamente inizia il reale
sdoppiamento, in un istante, la reale ospitalità. È il momento in cui si rivela l’umiltà, il rispetto e l’amore141 dell’attore per il suo mestiere. Poco dopo, guarderà i
suoi abiti di scena sparsi per il camerino e avrà la sensazione che quei personaggi
siano morti, li avvertirà come altri da sé.
«Guardai» mi disse «i miei costumi sparsi, buttati qua e là per la stanza, ed
ebbi la sensazione che quei personaggi, che io ormai non avrei più animato,
fossero morti. Passai una notte molto agitata; ebbi delle allucinazioni e nel
sogno quei personaggi vennero a farmi visita. In pochi istanti invasero la mia
camera. Risplendevano, animati da una vita collettiva, quella di tutti i grandi
attori del passato che avevano recitato quei ruoli prima di me; e uno dei
personaggi mi disse: “Sei un insensato, non siamo noi che siamo morti, sei
tu che morirai. Tu non ci hai creato, hai solo indossato i nostri panni. E ora
faremo ricorso ad altri.” E» conclude «mi sono svegliato molto modesto».
Questa è la scoperta, molto tardiva, del personaggio da parte di un grande
attore142 .
Per Hecuba? Cos’è, dunque, Hecuba per l’attore o lui per Hecuba? Una menzogna si nasconde da qualche parte, ma resta un segreto condiviso tra attore, personaggio e complicità del pubblico. Infatti, nella penombra provocata dalla luminotecnica, un altro altro si affaccia dalle prime file oltre la ribalta e, tra la sincerità e
la menzogna, appare la verità del teatro: l’ospitalità, se c’è, o lo sdoppiamento, che
è retaggio di tutti143 , è già rilanciata all’altro a-venire. Tra sincerità e menzogna.
che qua, sotto questi panni il signor . . . (dirà il suo nome) non c’è più; perché, impegnatosi con lei
a recitare questa sera a soggetto, per avere pronte le parole che debbono nascere, n a s c e r e dal
personaggio che rappresento, e spontanea l’azione, e naturale ogni gesto; il signor . . . [c. s.] deve
v i v e r e il personaggio Rico Verri, e s s e r e Rico Verri: ed è, è già» (L. Pirandello, Questa sera
si recita a soggetto, cit., p. 20).
137 J. Derrida, “Passo d’ospitalità”, cit., p. 112.
138 Ibid., p. 122.
139 L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 56.
140 W. Shakespeare, Twelfth Night; or what you will, atto I, scena V, in The Complete Works of
William Shakespeare, cit., p. 70.
141 L. Jouvet, “Tecniche, personaggi, testi”, cit., p. 74.
142 Ibid., p. 57.
143 Cfr. ibid.
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