CINA Maurizio Salvi I n un’epoca in cui le relazioni internazionali paiono sempre più caotiche nel loro ritorno ad una dinamica multipolare, la Cina sotto la guida del presidente Xi Jinping sta cercando di ritagliarsi uno spazio il più rilevante possibile, consono con il suo stato di seconda potenza economica del mondo. È da tempo che Pechino tesse pazientemente la tela della espansione della sua influenza in tutti i continenti. Ma è certamente prima di tutto in Asia, come vedremo, dove questo lavoro è più concreto e promettente grazie ad un ambizioso progetto denominato ‘One Belt, One Road’ (Una zona, una via) o ‘La nuova Via della Seta’. A dare maggiore significato agli sforzi cinesi in questo ambito, ha contribuito negli ultimi tempi la svolta impressa alla politica americana dal presidente Donald Trump, che ha abbandonato la fede nella globalizzazione in campo economico ed è ritornato all’uso del pugno di ferro militare nei confronti di quei Paesi (si legga Siria o Corea del Nord) che si ostinano a non accettare i «consigli» di Washington. Di quest’ultimo aspetto il presidente Xi si è reso conto di persona quando, giunto alla corte di Trump nella sua residenza di Mara-Lago in Florida, si è visto scodellare il 6 aprile scorso, insieme a sogliole, salmone all’ananas e vino della California, anche un attacco notturno alla base aerea siriana di Shayrat, la stessa da cui secondo fonti dell’intelligence americana sarebbero partiti i jet che hanno scaricato agenti chimici sulla provincia di Idlib, fatali per oltre 70 persone tra cui almeno 30 bambini. ma il presidente sorride La questione deve avere scosso profondamente il capo dello Stato cinese, che tuttavia ha continuato a sorridere ai fotografi, per almeno due ragioni: la prima è che Trump non lo aveva messo al corrente della sua importante decisione; la seconda invece è che la scelta di «punire» i siriani mentre era in corso la cena poteva essere letta come un poco garbato monito alla Cina affinché faccia di più nei confronti della Corea del Nord per non dover mettere gli Usa nella condizione di risolvere da soli la crisi determinata dalla minaccia nucleare di Pyongyang. Ecco perché il primo vertice Trump-Xi, che era considerato un evento di primissimo piano da cui ci si attendeva un mega-accordo economico, si è risolto in un nulla di fatto. Un flop non coperto ma addirittura esaltato da dichiarazioni di protocollo riguardanti gli «scambi di opinione costruttivi» e dall’impegno del capo della Casa Bianca a recarsi in Cina nella seconda parte dell’anno. Questo ovviamente rinvia solo di qualche tempo l’esame del contenzioso che le due principali potenze mondiali hanno sul piano commerciale, legato al fatto che il saldo dell’import-export bilaterale è fortemente favorevole ai cinesi. Una distorsione che l’uomo d’affari americano prestato alla politica vuole correggere in tempi brevi. Anche per rispettare le promesse fatte in campagna elettorale di recuperare almeno parte del lavoro perduto, a suo avviso, per la politica di globalizzazione propugnata dai suoi predecessori. Trump ha detto che essa ha permesso l’ingresso dall’Asia negli Stati Uniti di una grande quantità di prodotti a basso prezzo che hanno progressivamente distrutto posti di lavoro negli Stati industriali, quelli dove l’elettorato lo ha sorprendentemente catapultato al potere. Ma ciò, sostengono molti analisti, non preoccupa più di tanto la Cina, che può mettere sul tavolo al momento opportuno, nell’ambito di un negoziato commerciale, miliardi di dollari da investire negli Usa, acquistando o avviando imprese per creare la desiderata occupazione. alla conquista del soft power Invece, il progetto che sta veramente a cuore a Xi, soprattutto nello scenario internazionale favorito da Trump, è di fare 13 ROCCA 1 MAGGIO 2017 si riapre la Via della Seta? ROCCA 1 MAGGIO 2017 CINA della Cina il paladino mondiale del libero mercato e della globalizzazione. E, contemporaneamente, diffondere una immagine di potenza planetaria, non solo economica ma anche culturale. Una impresa riuscita fino ad oggi unicamente agli Stati Uniti. Insomma mentre studiano il modo di consolidare il loro impero commerciale ed industriale, i cinesi investono somme consistenti per appropriarsi di quella dottrina, conosciuta come ‘soft power’ (potere morbido o potere dolce), adottata nella seconda fase del suo mandato da Barack Obama che ha scelto di ridurre la minaccia militare, ma ora messa in un cassetto dal suo successore. Il termine ‘soft power’ è stato coniato al principio degli anni ’90 da Joseph S. Nye, Jr., della Harvard Kennedy School of Government, ed è usualmente associato alla nascita della globalizzazione e della teoria neoliberista delle relazioni internazionali. Nye ha sostenuto che ci sono tre modi attraverso cui una Nazione può accumulare ‘soft power’: i valori politici, la cultura e la politica estera. Sul primo punto i cinesi hanno poca possibilità di persuasione, visto che offrono con il loro Partito comunista un modello di potere politico assai rigido, anche se assortito ad una economia relativamente aperta. Così i loro sforzi si concentrano sulla divulgazione di un nuovo modello culturale e sul tentativo di convincere il mondo che la loro politica estera non ha fini di egemonia ed è sostanzialmente benigna. A fine marzo il settimanale The Economist ha dedicato alla questione un lungo articolo di analisi dal titolo ‘Soft Power-Comprando amore’, in cui rivela che la Cina spende annualmente la considerevole cifra di 10 miliardi di dollari per conquistare il cuore dell’opinione pubblica mondiale, finanziando progetti culturali di ogni genere, ed in particolare stimolando un proprio sistema multimediale di presenza capillare nel pianeta, attraverso anche una fitta rete di corrispondenti cinesi di tv, giornali e agenzie di stampa. E a questo fine è stata rivalutata anche la figura di Confucio. Bollato da Mao Zedong come un predicatore del pensiero feudale, nel nuovo corso il filosofo cinese è oggi proposto all’estero come «saggio propagatore dell’armonia». un Piano Marshall alternativo Ma tutto questo non avrebbe alcun senso se il governo di Pechino non riuscisse a far passare prima in Asia e poi in Europa 14 il progetto, divenuto operativo nel 2013, della ‘One Belt, One Road’, che punta a ridare corpo alla mitica Via della Seta, sia terrestre che marittima. L’ambizione è di offrire della Cina una immagine di ‘potenza tranquilla’ che investe il denaro prodotto dalla sua intensa attività industriale e commerciale in infrastrutture (ferrovie, autostrade, ponti, tunnel, porti) che contribuiscano anche a migliorare le relazioni e la fratellanza fra i popoli. È previsto che la Via della Seta Terrestre attraversi tutta l’Asia centrale ed arrivi dalla Cina fino alla Spagna. Con le infrastrutture esistenti sono già stati simbolicamente inaugurati i collegamenti merci diretti fino a Berlino e Madrid, ma è allo studio anche la possibilità di una linea passeggeri ad alta velocità. La Via Marittima dovrà costeggiare tutta l’Asia orientale e meridionale, toccando l’Africa ed arrivando fino al Mar Mediterraneo attraverso il canale di Suez. Per sostenere finanziariamente questo ambizioso progetto la Cina ha creato fra l’altro l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), con un capitale di 100 miliardi di dollari ed azionisti di 57 Paesi membri, fra cui i maggiori alleati degli Stati Uniti in Europa, la Corea del Sud e tutti i Paesi dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico. Uno sforzo che alcuni hanno ribattezzato «Il secondo Piano Marshall», facendo però notare che, in termini di valore costante, l’iniziativa cinese è 12 volte più ampia del Piano Marshall originale. Inaugurando per la prima volta nel gennaio scorso una partecipazione di altissimo livello della Cina nel Forum di Davos in Svizzera, il presidente Xi ha sorpreso l’udienza sostenendo che la Cina dovrebbe «guidare la globalizzazione economica», ora che con il nuovo corso di Trump gli Usa se ne sono quasi chiamati fuori. E addirittura un mese più tardi il capo dello Stato cinese si è spinto ancora più in là dichiarando a Pechino durante una Conferenza sulla sicurezza che la Cina dovrebbe «guidare la società internazionale» verso un «nuovo ordine mondiale più giusto e razionale». Autentici buoni propositi o dichiarazioni di un lupo camuffato da agnello? La Conferenza di alto livello che si svolgerà in maggio nella capitale cinese sul progetto ‘One Belt, One Road’ potrà essere una prima risposta ed i leader invitati delle principali potenze occidentali lasceranno intendere la loro valutazione partecipando o disertando quell’evento. Maurizio Salvi