Le Histoires naturelles di Maurice Ravel

Conservatorio di Musica «L. Perosi» - Campobasso
Corso sperimentale: «Repertori vocali da camera»
Le Histoires naturelles di Maurice
Ravel
Elaborato nelle seguenti discipline:
Storia della musica
Storia della poesia per musica
Armonia ed analisi
Estetica musicale
Critica del testo musicale
A. A. 2003 - 2004
Sessione estiva
Elaborato di: SILVIA CATTABIANI
Docenti: Prof.ssa BARBARA LAZOTTI
Prof. PIERO NIRO
Prof. LUIGI PECCHIA
Indice
1) La melodie francese
2) Maurice Ravel. La vita
3) La poetica di Ravel
4) Le Histoires naturelles
5) Analisi di Le Cigne
6) Bibliografia generale
ESTRATTO
3 - LA POETICA DI RAVEL
Il periodo in cui si svolse la vicenda artistica di Maurice Ravel fu tra i più
animati ma anche fra i più difficili della storia della musica. Anzitutto, non
era trascorso molto tempo da quando la Sociétè Nationle de Musique aveva
dato impulso alla musica strumentale francese aprendo quel renouveau
propugnato soprattutto da César-Auguste Frank (1822-1890) e da CharlesCamille Saint-Saëns (1835-1921). In secondo luogo, era penetrato in
Francia l’influsso della musica tedesca, che portò con sé la polemica fra
tradizionalisti e progressisti che aveva diviso l’Europa musicale in due
schieramenti: da un lato Johannes Brahms (1833-1897) e i suoi sostenitori,
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dall’altro la “musica dell’avvenire” profetizzata da Liszt e incarnata da
Wagner. A questo stato di cose bisogna aggiungere l’influsso che
sull’ambiente musicale francese ebbe la musica russa rappresentata dalle
sue due anime, quella filo-occidentale di Pëtr Il’ic Cajkovskij (1840-1893)
e quella nazionalista di Nikolaj Rimskij-Korsakov (1844-1908).
Con i promotori del renouveau la musica francese non aveva ancora
assunto un orientamento preciso, né prodotto personalità decisive, ma solo
espresso una volontà di cambiamento e un desiderio di approdare a forme
nuove. Ma proprio nel momento in cui Ravel compì gli studi, cioè negli
ultimi anni del XIX° secolo, il renouveau apparve oramai invecchiato e
sclerotizzato in forme sterili. A questa situazione interna della musica
francese bisogna anche aggiungere la crisi che, alla fine dell’Ottocento,
investì il linguaggio musicale europeo.
Di fronte a questo stato di cose la tendenza dei giovani musicisti
francesi fu quella di trovare una via d’uscita nazionale. In Francia esisteva,
infatti, un movimento progressista nazionale, rappresentato da una parte da
Fauré, musicista integrato nell’ambiente accademico, e dall’altra da
Emmanuel Chabrier (1841-1894) e Erik Satie (1866-1925), che
rappresentavano l’avanguardia irregolare e polemica nei confronti delle
istituzioni. Ciò produsse diversi atteggiamenti: in Fauré prevalse l’esigenza
di comporre quasi esclusivamente per voce e pianoforte; in Chabrier e
Satie, di contro, l’irriverente rifiuto di ogni tradizione. Da queste posizioni
si mossero sia Debussy che il più giovane Ravel. Gli itinerari furono
profondamente diversi, nonostante il parallelo che viene insistentemente
fatto tra i due musicisti: schematizzando, Debussy fu risolutamente
progressista, mentre Ravel rimase in bilico fra tradizione e progresso. Ogni
composizione di quest’ultimo, infatti, appare come una specie di
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scommessa sulla possibilità di esprimere qualcosa di nuovo con un
linguaggio già sfruttato.
Durante tutta la sua vita Ravel ebbe il piacere di vedere eseguita in
tutto il mondo la sua musica, dall’Europa all’America del Nord e del Sud,
dall’Africa del Nord all’Oriente. La sua carriera si incrociò con quella di un
gran numero di eccezionali personalità dell’epoca: Béla Bartók (18811945), Pablo Casals (1876-1973), lo stesso Claude Debussy, Vaslav
Formich Nijinsky (1889-1950), Sergej Sergeevic Prokof’ev (1891-1953),
Igor Fëdorovic Stravinsky (1882-1971). Gratificato da titoli onorifici e da
riconoscimenti conferitigli da università, ministri e regnanti, Ravel ebbe
una carriera brillante e ricca di risultati, dietro la quale si celava tutta la
sottile complessità dell’uomo. Il suo aspetto fisico colpiva poiché era
piccolo di statura, di costituzione leggera, con tratti ossuti e marcati. Ma
anche i suoi atteggiamenti destavano curiosità: Alfred Cortot diceva di lui
che era «un giovanotto volentieri sarcastico, amante del raziocinio,
vagamente distante, che leggeva Mallarmé e frequentava Erik Satie»,
vagamente distante perché, salvo che nei riguardi di qualche compagno di
Conservatorio, rimaneva generalmente freddo e distaccato. Una naturale
predisposizione all’umorismo pungente, come una deliberata volontà di
sconcertare gli interlocutori, lo aiutarono a mantenere una certa distanza tra
sé e gli altri. Nonostante ciò la moglie di Nijinsky lo descrive, all’epoca di
Daphins et Chloé, come «un giovane uomo affascinante, sempre abbigliato
in modo vagamente stravagante, ma molto elegante». Il dandismo di Ravel,
infatti, lo spinse a seguire l’ultima moda in fatto di abbigliamento, a curare
il proprio modo di vestire e il proprio guardaroba. Tuttavia, dietro a questa
maschera si nascondeva una personalità complessa, attratta da tutto ciò che
è complicato e persino contraddittorio, ma anche verso ciò che riguarda il
mondo infantile come i giocattoli, le favole; insomma, come ricorda il suo
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amico d’infanzia, il pianista Ricardo Viñes, rivolto verso la «poesia, la
fantasia, tutto ciò che era prezioso e raro, paradossale e raffinato». Nelle
sue premesse poetiche e nello stile l’opera di Ravel, comunque, mantenne
stretti legami col gusto, le idee e le teorie musicali ed artistiche del tardo
Ottocento francese, come, ad esempio, la teoria delle maggiori capacità
espressive del linguaggio musicale rispetto agli altri linguaggi artistici, in
particolare nell’esprimere la simultaneità. In base a questa superiorità, il
poeta Mallarmé aveva affermato che compito della poesia era quello di
«riprendere il proprio bene» alla musica, tentando nel Un coup de dés (un
lancio di dadi) una sovrapposizione di immagini poetiche disposte come in
una partitura musicale. Senza dubbio alcuni dei tratti psicologici di Ravel e
dei caratteri delle sue musiche si possono interpretare come espressione
della sua appartenenza alle atmosfere estetizzanti, al culto della Bellezza e
dell’arte per l’arte che contrassegnarono la cultura francese del
decadentismo di fine secolo. Tuttavia, Ravel, uomo colto, cresciuto
spiritualmente sotto il segno di Baudelaire, di Poe, di Huysmans, di
Mallarmé, e attratto in modo quasi irresistibile dalle delizie dell’eleganza,
della raffinatezza, dell’artificialità preferita alla bassezza della realtà
quotidiana, dal distacco sentimentale, dal dandismo e da altre costanti
psicologiche e poetiche caratteristiche dell’aura decadente, aderì al
Simbolismo solo in maniera parziale. Per la sua natura aristocratica, egli si
tenne lontano dai fondamentali presupposti spiritualistici della poesia
simbolista, come il senso del mistero delle cose e l’anelito a superare la
barriera del fenomenico per attingere l’Assoluto, caratteri questi presenti,
per esempio, nelle opere di Debussy. Ravel sviluppò della poetica
simbolista essenzialmente l’aspetto linguistico-formale, perseguendo un
ideale di raffinamento prezioso, suggestivo, allusivo e diventando così il
più straordinario omologo di Stéphane Mallarmé. E proprio alla luce di
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questa autonomia poetica rispetto a Debussy, dunque, che si possono
spiegare le peculiarità in fatto di linguaggio musicale grazie alle quali egli
raggiunse una sua netta individualità di stile.
Debussy cercò di realizzare in campo musicale quella trasformazione
di valori che la pittura simbolista aveva operato nei confronti delle
sembianze naturali ritratte dagli Impressionisti. Tali immagini, nella
sensibilità simbolista, non esauriscono la realtà, bensì devono essere
interpretate come simboli e traduzioni di una realtà più essenziale che ne
sta alla base. Infatti, come i grandi poeti suoi contemporanei, quelli che
maggiormente hanno rivoluzionato la letteratura del Novecento, e primo fra
tutti Mallarmé, in Debussy la descrizione non si limita ed essere mera
riproduzione, ma si trasforma in interiorizzazione dell’oggetto e nella sua
trasformazione in parola, nell’oggettività del «verbo», quindi nel suono.
Per la poesia simbolista e anche per la musica di Debussy, una volta che è
stato eliminato ogni legame banale e convenzionale di cui si avvale la
semplice descrizione o l’onomatopea, la parola e il suono costituiscono un
ponte tra mondo interno e mondo esterno, ed è un ponte difficilmente
valicabile, spesso ermetico, che richiede all’ascoltatore uno sforzo, più che
di intelligenza, di sensibilità e intuizione. In tal senso può essere
interpretato il ricco naturalismo debussiano e la copiosa rassegna di
immagini, di personaggi, di simboli e stati d’animo. Debussy, quindi, come
i pittori e i poeti di questo movimento, si accostò alle mutevoli parvenze
della realtà con lo spirito che già fu di Baudelaire, ovvero per ritrarre la
natura non così come è, ma per decifrarne il misterioso linguaggio fatto di
corrispondenze tra le cose. La sua musica per questo si allontanò dalla
rappresentazione naturalistica, così come la poesia di Verlaine e Mallarmé,
per farsi arte progressivamente smaterializzata, tesa non già a rappresentare
una realtà che è impossibile cogliere dall’esterno, bensì a suggerire, ad
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evocare, a cogliere, proprio nell’atto in cui si nega ogni proposito di
descrizione minuta, realistica, quella vera essenza nascosta sotto le
parvenze che solo l’Arte, in quanto intuizione immediata extrarazionale,
può raggiungere. Proprio a Verlaine, Debussy può essere accostato: tutte
quelle caratteristiche del suo linguaggio sonoro, solitamente interpretate
come pittoricismo impressionista, quali lo sfumato, l’uso delle sonorità
indistinte, nebbiose, sono in realtà delle soluzioni tecniche e stilistiche
analoghe a quelle adottate dal poeta per rendere fluida, vaga, vaporosa la
sua poesia. La poesia di Verlaine, infatti, rinunciando alle solide
architetture del discorso, alle scontate certezze di significati, annulla la
precisione dei contorni, si abbandona a un labile trascolorare di sfumature.
Ma solo apparentemente nelle visioni paesaggistiche verlainiane sembra
mancare una organizzazione, poiché nel momento in cui il poeta trasforma
il paesaggio in visione musicale, egli fonde insieme le parvenze visibili e
quelle invisibili, riuscendo così a compiere «l’opera magica di
ricostruzione dell’unità tra l’anima e il mondo» (M. Luzi).
Anche per Debussy, come testimoniano i suoi scritti, l’arte deve
esprimere il mistero della realtà. Un’arte siffatta pertanto non può essere
un’arte strutturata secondo leggi classiche di simmetria, preordinata
secondo piani prestabiliti ed esterni di composizione; al contrario Debussy
deve attuare nei confronti del suo linguaggio musicale quell’allentamento
della sintassi e della definizione delle linee e dei contorni cui già Verlaine
aveva sottoposto la sua poetica. Qui si possono rintracciare le origini del
particolare linguaggio sonoro debussiano, visto non come
mero
decorativismo sensuale ma come adeguamento ad un mondo poetico e ad
una sensibilità colta attraverso l’influsso della poesia dell’ultimo Ottocento.
La riformulazione del linguaggio musicale attuata da Debussy, in ossequio
alla sua concezione del reale, alla sua adesione al mondo poetico delle
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corrispondenze e delle liriche sospensioni paesaggistiche della sintassi
poetica verlainiana, procede senza contraddizioni: se l’arte deve esprimere
il mistero musicale della realtà, in quel mistico corrispondersi delle
sensazioni, un’arte così concepita deve sganciarsi necessariamente dalla
compostezza
parnassiana
della
sintassi
armonica
e
fraseologica
tradizionale. Il linguaggio musicale di Debussy rinuncia alla precisione dei
contorni, alla nettezza e riconoscibilità dei timbri puri, alla logica delle
concatenazioni armoniche, alla sintassi discorsiva tradizionale, alla metrica
scandita: se il mondo è una rete di simboli e di analogie, la maniera per
penetrare questa oscurità del tutto e attingere all’Assoluto è una musica
completamente nuova, un’arte, come afferma lo stesso Debussy, «fatta di
accenni, di misteriose analogie», «che non dice tutto, ma lascia un alone di
indeterminato intorno a quanto è stato appena accennato».
Diversamente da Debussy, il giovane Ravel non recepì del
simbolismo francese le istanze metafisiche della dottrina baudelairiana
delle corrispondenze, né fece propria l’ansia di infinito della poesia
mallarmeana e simbolista, né, a maggior ragione, poté avere influenza, sul
suo disincantato e razionalista modo di vedere, quel senso di un’atmosfera
carica di significati simbolici. La sua adesione alla dottrina simbolista fu
principalmente indirizzata all’assunzione di alcuni principi poetici, propri
di Baudelaire e Mallarmé, ma sganciati dalle idee base che li avevano
originati, nonché di alcune idee poetiche di Edga Allan Poe (1809-1849),
mediate in Francia dalle traduzioni di Baudelaire.
Uno dei principi poetici che Ravel trasse dal clima decadente
francese fu,senza dubbio, quello della complementarietà dei linguaggi
artistici, sostenuto sia da Baudelaire che da Mallarmé, secondo cui i diversi
linguaggi delle arti possono aspirare a descrivere, ognuno con i mezzi
propri, un contenuto che di solito attiene ad una diversa forma artistica. Di
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questi principi Ravel accolse la teoria decadente della fondamentale
equivalenza del linguaggio della musica nei confronti di quello visivo
pittorico e di quello poetico verbale,
«Per conto mio, non esistono arti differenti, ma una soltanto: Musica, pittura e
letteratura divergono solamente nei loro mezzi d’espressione. Di conseguenza non
vi sono diverse categorie di artisti, ma solo diverse categorie di specialisti» (Ravel
in una intervista al “La Petite Gironde” del 1831).
Ne deriva che il linguaggio musicale può rispecchiare in sé le
immagini della natura o le suggestioni visive di un brano letterario, ed è in
base a questo principio che, come si vedrà, Ravel confidò a Jules Renard la
sua volontà di esprimere con la musica ciò che il poeta francese era riuscito
ad esprimere con le parole, principio che verrà applicato nelle Histoire
naturelles. La musica di Ravel è, infatti, inconfondibile proprio perché
riproduce quasi costantemente una equivalenza del proprio linguaggio
musicale con le immagini. In forza di ciò la sua musica si pone in continuo
riferimento con una realtà extra-musicale, assumendosi il compito di
evocare eventi narrativi indicati nel titolo (Oiseaux Tristes, Alborada del
Gracioso) o addirittura interi brani letterari citati integralmente e riprodotti
passo dopo passo nel brano pianistico (come i testi fiabeschi della suite Ma
Mère l’Oye da Pollicino alla Bella e la Bestia, o come i poemi in prosa di
Aloysius Bertrand trasposti per pianoforte nella raccolta Gaspard de la
Nuit del 1908). Altrove la musicalità può, come nelle mélodies vocali,
evocare le immagini suggerite dal clima poetico, dal fascino di talune
associazioni verbali (come i trionfi esibizionisti del pavone in amore ne Le
Paon della Histoire naturelles), o, a contatto con i Trois Poémes de
Stéphane Mallarmé, ed è questo l’esito assoluto della valenza decadente di
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questa poetica, può adeguarsi così strettamente all’ispirazione di un testo da
torcere il suono e frammentare il discorso musicale in una estrema
allusività ermetica.
Questa poetica del rispecchiamento della realtà extramusicale fu alla
base di una larga parte della produzione raveliana. Dichiarato o implicito,
molto spesso un motivo ispiratore d’ordine letterario-visivo condiziona e
organizza intorno a sé l’andamento musicale e, attraverso ciò, acquista una
saldezza strutturale, una discorsività che, pur obbedendo a curve di
tensione d’impianto tradizionale, riesce a realizzare, con la massima
economia di mezzi musicali, il massimo di aderenza all’immagine da
riprodurre con naturalistica fedeltà in musica. Ne consegue che la scelta del
modello,
come
si
vedrà
nelle
Histoire
naturelle,
condizioni
immancabilmente il modo stesso di impostare e organizzare la
realizzazione musicale.
Oltre a questa concezione della capacità della musica di far propri
significati extramusicali, concetto espresso da Baudelaire nel saggio sul
Tannhäuser wagneriano («sarebbe veramente sorprendente se il suono non
potesse suggerire il colore, se i colori non potessero dar l’idea di una
melodia»), un’altra componente poetica, di ascendenza decadentistica, si
ripercuote sensibilmente sul modo di comporre di Maurice Ravel, ovvero la
teoria e la poetica di Stéphane Mallarmé. La giovinezza del compositore
francese fu segnata dalla passione per questo poeta, tanto che per
comprendere a pieno il suo atteggiamento verso la musica non si può
prescinderne. Dal punto di vista dei presupposti poetici, l’influenza di
Mallarmé diede impulso alla concezione narrativa, costantemente
metaforica, della musica raveliana; ma nel concreto delle premesse
sostanziali del modus operandi di Ravel, Mallarmé determinò, con la sua
idea evocativa del linguaggio poetico, il rapporto stesso di Ravel con la
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musica, caratterizzato dalla continua ricerca dell’espressione preziosa,
essenziale, pura, di nitore intellettuale. Ravel, che possedeva una facile
vena melodica, si costrinse col tempo ad una rigida disciplina formale, per
arrivare ad un lirismo più puro, liberato dal fardello dell’immediata
espansività. Come Mallarmé ritorna incessantemente sui suoi testi poetici
per racchiudere, in un assoluto bisogno di condensazione, le immagini
verbali in una sempre più ossessiva quintessenzialità preziosa che evochi
suggestioni, altrettanto la musica di Ravel è la continua ricerca di una
analoga estrema concentrazione del linguaggio, della purificazione e
spoliazione delle forme sonore. Ecco che in opere cameristiche, di ridotte
dimensioni e di organico raffinatamente concentrato, il compositore
francese arriva ai vertici di un atteggiamento propriamente ermetico che
piega le frasi in maniere sfuggenti, cariche di una suggestività ambigua, di
minuscoli oggetti sonori immersi in una luce astratta, piena di tensione.
Sono questi i vertici supremi dell’inventiva raveliana, dai quali non si può
disgiungere il nome di Mallarmé con la sua ricerca dell’espressione
essenziale, che lo portò ad allontanarsi dal reale, dal sensibile, elaborando
una poesia estremamente allusiva, fatta di accenni misteriosi, di significati
lasciati intravedere e subito lasciati cadere. Le analogie si frammentano in
cenni e silenzi, in espressioni in cui la sintassi è allentata e infranta, e la
parola vibra nella sua purezza, nella sua estrema suggestività: la parola,
appunto, si fa ermetica.
Nel 1913 Ravel con i Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé, per voce
e strumenti, segnò il vertice della sua ispirazione ermetica ed insieme il
momento in cui il principio mallarmeano della circolazione dei linguaggi
artistici e della concentrazione espressiva venne da lui applicato alla stessa
poesia di Mallarmé, portando ad una totale adesione del suono alle
immagini e alle movenze del testo. È questa la nascita di un tipo di
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ermetismo musicale, in cui le immagini letterarie, riprodotte alla lettera in
musica, piegano il suono e frammentano il discorso musicale che si fa
appunto più velato. Secondo Claudio Casini, è proprio la volontà di rendere
in musica la frammentazione artificiosa ed ermetica dei testi di Mallarmé
che portò il linguaggio raveliano ad una tensione inaudita, che sfocia quasi
nel discioglimento della sintassi tonale, cui invece Ravel, in tutte le altre
occasione, si dimostrò legato.
Un altro principio poetico sulla teoria della creazione artistica,
presente nello spirito del tempo e nel concetto stesso di poesia di Mallarmé,
Ravel lo attinge dalle concezioni di Edgar Allan Poe. Parlando della sua
poesia The Raven [Il corvo] lo scrittore americano affermò «È mia
intenzione palesare che non v’è un unico luogo nel suo processo di
composizione che sia da attribuirsi al caso o all’intuizione – che il lavoro vi
è stato condotto a piccoli passi sino al suo completamento, con la
precisione e la logica serrata che competono a un problema matematico»
(Poe in The poetic principle, opera tradotta in Francia da Baudelaire). In
opposizione ai concetti romantici di ispirazione e di spontaneità creativa,
egli rivendicava le ragioni dell’intelletto, della progettazione cosciente, del
controllo razionale dell’espressione, della fatica quotidiana del comporre,
in contrasto ad una visione ingenua dell’arte come pura ispirazione,
invasamento mistico, furor creativo. Ravel accolse senza riserve questo
modo di intendere il processo della creazione artistica: «Il mio maestro di
composizione è stato Edgar Allan Poe, per l’analisi che ha fatto alla sua
meravigliosa poesia The Raven. Poe mi ha insegnato che la vera arte sta nel
raggiungimento del perfetto equilibrio tra intelligenza pura e sentimenti.»
(Ravel in una intervista del 1924 al ABC de Madrid). Tale concezione della
creatività artistica come puro calcolo razionale, non offuscato da
manifestazioni emotive né velato da passioni commosse, bensì molto
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lucido e acuto, si ripercuote sull’inventiva di Ravel non tanto per annullare
qualsiasi valenza emotiva e sentimentale (che in maniera sotterranea è
presente) ma per portare il musicista ad una strenua volontà formale, ad un
desiderio implacabile di razionalizzare il proprio discorso musicale preordinandone lo sviluppo attraverso il filtro di una logica ferrea. Dalla
poetica di Poe, dunque, Ravel estrae la convinzione della necessità della
progettazione cosciente, del definire i termini dello sviluppo dell’idea
musicale a priori.
«Nel mio personale lavoro di composizione, ritengo necessario un lungo periodo
di
cosciente
gestazione;
durante
quest’intervallo
giungo
a
vedere
progressivamente e con precisione crescente la forma e l’evoluzione che l’opera
assumerà in seguito nel suo insieme. Posso trovarmi così impegnato per anni
senza scrivere una sola nota dell’opera, dopo di che la stesura procede
relativamente in fretta. Ma occorre ancora parecchio tempo per eliminare tutto ciò
che potrebbe venire considerato superfluo per realizzare con tutta la completezza
possibile quella definitiva e tanto desiderata chiarezza» (Conferenza tenuta da
Ravel alla Scottish Rite Cathedral di Huston nel 1928).
Se, infatti, il lato che si può definire infantile della sua personalità esigeva,
per esempio, che ai visitatori fosse preclusa la vista di matite, gomma o
carta da musica sul suo pianoforte, resta il fatto che ogni più piccolo atto
creativo gli costava una fatica immensa, cosa che spiega assai bene sia il
ristretto numero delle sue opere sia la quantità di progetti incompiuti. Per
lunghi anni tentò di scrivere una sinfonia, ma finì per rinunciarvi, e non
scrisse mai un tema con variazioni, né una composizione per organo o di
musica sacra. Questa rigida predeterminazione della struttura segnò il
punto di maggior distacco stilistico della musica raveliana dalla libera e
fluttuante concezione debussiana della forma. Ernest Ansermet (1883-
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1969) rievoca un incontro con Debussy nel corso del quale il compositore
gli diede una partitura dei Nocturnes fitta di correzioni di ogni tipo. Quando
Ansermet gli chiese quali fossero quelle giuste, Debussy rispose «Non lo so
più con certezza. Si tratta di possibilità. Quindi, tenete questo spartito e
prendetene quel che vi parrà buono». Un atto del genere per Ravel sarebbe
stato impensabile, per lui esisteva un unico prodotto finale frutto di
un’attività creativa intellettuale. Ma la concezione dell’arte come
meditazione e calcolo comporta nella poetica del compositore francese
anche l’affermazione netta e decisa del primato della tecnica e del mestiere
nella creazione. L’arte è, quindi, un’attività intellettuale oggettiva in cui
sull’istintività
incontrollata
ed
espansiva
deve
prevalere
l’abilità
dell’artigiano, che ha ragione d’essere nel regno dell’arte, e che si deve
sottomettere a una formazione accademica approfondita e rigorosa. Durante
la sua giovinezza, infatti, oltre all’analisi di partiture e allo studio dei
tradizionali precetti dell’armonia, del contrappunto e dell’orchestrazione,
con i suoi compagni di Conservatorio si misurò nella scrittura di fughe a
quattro voci, utilizzando le chiavi del soprano, contralto, tenore e basso. Ai
suoi occhi ciò era fondamentale per sviluppare le capacità necessarie a
risolvere i problemi della composizione. È stato da più parti osservato che
gli abbozzi iniziali delle più complesse opere del maestro francese sono
costruite, allo stadio più rudimentale, da semplici melodie sovrapposte a
dei bassi numerati molto semplici e che spesso la struttura generale dello
svolgimento del brano è segnata, prima ancora che si scriva una sola nota,
da uno scheletro formale di battute in bianco, debitamente numerate e che
aspettano di essere riempite in futuro da svolgimenti, riprese, modulazioni,
con quella rigida schematizzazione predisposta cerebralmente a tavolino di
cui parlava Poe. Ravel era convinto, anche, che i compositori dovessero
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apprendere il loro “mestiere” come i pittori, ovvero imitando i buoni
modelli.
«Se non avete nulla da dire, non c’è niente di meglio, in attesa di tacere del tutto,
che ridire ciò che è stato già detto bene. Se avete qualcosa da dire, questo qualcosa
non apparirà mai più chiaramente che nella vostra involontaria infedeltà al
modello».
Questa ultima osservazione si applica perfettamente alla musica di
Ravel, in cui del modello iniziale si finisce spesso per perdere le tracce. Ma
altrettanto importante era che l’artista avesse qualcosa da dire di nuovo, di
non già detto: «Questa necessità di scoperte non si limita alla mia
giovinezza – la possiedo ancora. L’ho anche coltivata. A lei devo quel mio
perpetuo desiderio di rinnovamento. Io congedo un’opera solo quando ho la
certezza che non posso in alcun modo migliorarla ancora. E quello è un
momento davvero magico. Ma a quel punto l’abbandono definitivamente»
(Articolo su Ravel uscito su La Petite Gironde del 1931). Alla ricerca di
una espressione più originale e quindi più strettamente individuale si
sovrapponeva in lui la convinzione che l’opera fosse il prodotto della sua
eredità nazionale
«Le manifestazioni di questi due tipi di coscienza [quella nazionale e quella
individuale] in musica possono infrangere o soddisfare ogni regola accademica,
ma ciò non ha che mediocre importanza se confrontato con lo scopo reale, e cioè
la pienezza e la sincerità dell’espressione. […]non le tradizioni storiche ma quelle
che un comune patrimonio ereditario ci fa sentire conformi alla nostra natura»
(conferenza tenuta da Ravel alla Scottish Rite Cathedral, Houston, exas, 1928).
È chiaro che “la pienezza e la sincerità dell’espressione” di Ravel
sono radicate nella tradizione francese. Il critico musicale Michel-Dimitri
Calvocoressi (1877-1944) osserva che la sua preferenza per le opere brevi
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era il frutto di una scelta estetica deliberata e maturata riflettendo, e questa
concisione logica è caratteristica dell’arte francese. Tutto questo bagaglio
culturale era necessario, secondo Ravel, per il raggiungimento nell’arte
della irraggiungibile perfezione tecnica.
«Sta di fatto che io mi rifiuto, semplicemente ma recisamente, di confondere la
coscienza dell’artista, che è una cosa, con la sua sincerità, che è tutt’altro. La
seconda val meno di nulla se la prima non l’aiuta a manifestarsi. Questa coscienza
esige che sviluppiamo in noi stessi il buon artigiano. Il mio obiettivo è dunque la
perfezione tecnica. Posso aspirarvi senza limite, poiché sono certissimo di non
raggiungerla mai. L’importante è avvicinarsi ogni giorno un poco di più. Senza
dubbio l’arte può avere altri effetti, ma l’artista – mi piace pensare – non deve
avere altro scopo» (Roland-Manuel, Letters de Maurice Ravel et documents
inédits, «Revue de musicologie» 38. 1956).
Questa
aspirazione
alla
perfezione
aveva
come
scopo
il
raggiungimento della Bellezza; l’arte di Ravel non aspirava, infatti, né alla
passione né alla verità, ma piuttosto alla contemplazione del Bello, grazie
alla soddisfazione dello spirito per mezzo del piacere dell’orecchio. Per
raggiungere quindi la Bellezza non è necessario tanto la sincerità
incontrollata dei sentimenti personali, quanto piuttosto quella abilità da
«buon artigiano» nel disporre gli elementi strutturali della composizione
nel modo più raffinato e affascinante possibile. «I compositori moderni
devono seguire una rotta intermedia tra emozione e intelletto se vogliono
creare musica che abbia significato e durata. Poe ha provato che l’arte deve
operare una mediazione tra questi due estremi, il primo dei quali conduce
alla fragilità della forma, il secondo un’astratta aridità» (Intervista non
firmata sul “New York Time” 1928). Ma tale poetica raveliana non
nasconde aridità sentimentale, quanto al contrario indica la netta
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distinzione tra l’ambito della vita intima personale e quello della vita
artistica, il cui rapporto non deve funzionare nella direzione tradizionale dal
primo termine al secondo:
«Un artista non può essere sincero. La menzogna, intesa come potere
dell’illusione, è l’unica forma di superiorità che l’uomo abbia sugli animali; e
quando rivendica a sé il titolo di arte, è l’unica forma di superiorità che l’artista
abbia sugli altri uomini. Chi si concede d’impulso, non fa altro che balbettare. In
arte, ogni cosa va meditata a fondo. Massenet, pure così dotato, sperperò il suo
talento per un eccessiva sincerità. Egli davvero scrisse tutto quel che gli passava
per il capo, con il risultato di ripetere sempre la medesima cosa: quel ch’egli
pensava fossero novità erano nient’altro che reminescenze. La verità è che non si
riesce mai ad avere abbastanza controllo. Per di più, visto che non possiamo
esprimerci senza sfruttare e quindi trasformare le nostre emozioni, non è forse
meglio acquisire piena consapevolezza e ammettere che l’arte è l’impostura
suprema? Ciò che viene talvolta chiamato la mia insensibilità è semplicemente
uno scrupolo di non scrivere qualsiasi cosa.» (intervista a Ravel per La Petite
Gironde del 1931)
L’arte è, infatti, il luogo privilegiato in cui si svolse la vita di Ravel.
Il musicista tanto più si sforzò di isolare il suo mondo emotivo quotidiano
dal suo mondo dell’arte, quanto più spinse se stesso a vivere la vita come
un’opera d’arte, sublime per eleganza, per raffinatezza, per stile
riservatamente mondano. Egli cercò di vivere un’esistenza contrassegnata
da preziose esperienze culturali, da prestigiose eleganze, dall’amore per
quanto di raffinato, di eccentrico egli poté sperimentare su se stesso. Il suo
modello fu il protagonista dell’opera A rebours di Huysmans, un raffinato
intellettuale, Des Esseintes, il quale, rifiutando la ridicola mediocrità del
mondo contemporaneo, si ritira in una sorta di clausura, popolata di sogni,
di profumi esotici e di artificiose bellezze, dove condurre una vita
17
“controcorrente” rispetto a ogni normalità, a cui sarà poi costretto a
rinunciare da profondi turbamenti psichici.
«[…] A rebours: non posso fare a meno di considerarla un’opera di estrema
importanza, anche se so che, con ragione, quell’importanza ha cessato di
possederla. Eppure questo giudizio ha ancora per me un sapore di verità. Credo
che tutta la mia generazione si sia riconosciuta in A rebours, anche coloro che,
come me non hanno amato particolarmente Huysmans» (Ravel in una intervista
del 1931 riportata in La Petite Gironde).
Sono questi i caratteri del dandismo raveliano che segnano il più
evidente contatto di Maurice Ravel con il decadentismo. Ancora una volta
l’ombra di Poe presiede a giustificare culturalmente la posizione raveliana:
la sua protesta contro l’identificazione di bello, utile e morale e
l’affermazione che la verità non è elemento essenziale dell’opera d’arte si
ritrovano pienamente in queste parole di Ravel «Credo che nell’arte la
sincerità sia il difetto peggiore, perché la sincerità esclude la scelta.
L’aspetto più interessante dell’arte è superare le difficoltà.» (Intervista a
Ravel della ABC de Madrid 1924). L’arte, dunque, per Ravel si risolverà
sempre in una sorta di spazio privilegiato al riparto da turbamenti o da
valori estrinseci, luogo assoluto di elaborazione di una bellezza cui solo
l’artista, con il suo lavoro sistematico, isolato dalla massa, può giungere
vicino.
In questa definizione delle valenze decadenti di Ravel acquista
valore centrale il concetto di artificio, su cui si fondava la scelta estetica del
protagonista di A rebours. Questo concetto, che respira direttamente
dell’atmosfera estetizzante del decadentismo, costituisce una delle più
sostanziali forme di pensiero estetico e dell’opera di Maurice Ravel, cioè la
superiorità dell’arte sulla realtà in quanto ciò che è artificiale ha più valore
18
di ciò che è frutto della spontaneità. Di qui si ritrova anche l’amore per ciò
che non è naturale, il fascino del meccanico, di tutto ciò che imita la
spontaneità sotto forme fittizie. Ravel, nella sua casa di Montfortl’Amaury, si circondò di mille oggetti al confine tra la curiosità artificiale e
il kitsch, come congegni meccanici, orologi, usignoli meccanici, un corteo
di piccoli automi, quadri falsi.
«Il grande interesse per le imitazioni lo induceva all’acquisto di oggetti di un
gusto esecrabile. Tutte le sue amiche, senza eccezione, hanno avuto in dono quelle
orribili rose in porcellana dai mille petali articolati, che egli trovava stupefacenti
come lavoro di artigianato!» (da Ravel di Hélène Jourdan-Morhange).
E anche l’arte di Ravel si configura come anti-realtà, infinitamente
più perfetta di quella quotidiana e che resta, attraverso una barriera di
artifici, programmaticamente al di là della personalità del musicista e della
sua esperienza vitale.
Tutte
queste
componenti si riflettono certamente
sul
linguaggio musicale di Ravel allontanandolo dallo sfumato trascolorare dei
piani sonori della musica di Debussy, per approdare ad una scansione
asciutta e nervosa, elegantemente svolta, impreziosita di continue ricerche
timbriche, volta, però, ad accentuare i volumi, i contorni, ad evidenziare le
nervature sonore. Di fronte al disciogliersi del periodare e dell’armonia
debussiana, in cui la ripetizione continua delle tensioni tra dissonanza e
consonanza trasforma i rapporti sintattici tradizionali e risolve l’armonia in
emozione
timbrica,
funzionale
alla
sua
concezione
simbolista
dell’espressione musicale, Ravel mantenne una razionalistica coerenza
sintattica del discorso musicale, condotto secondo precise simmetrie
compositive, scanditi moduli metrici. Egli guardò con attenzione ai piani
19
strutturali classici, alla partizione retorica del discorso, pur all’interno di
una costruzione timbrica e armonica di grande raffinatezza. Ma ad
allontanarlo ancora di più dallo stile di Debussy è la concezione armonica:
se infatti Debussy scioglie, o per meglio dire allenta, l’armonia dai suoi
nodi gerarchici e immerge i suoi accodi in un fluido in cui fluttuano senza
urti e senza sottostare alle trascinanti dinamiche armoniche della tradizione;
Ravel conserva del linguaggio classico le strutture attrattive fondamentali,
che si possono rintracciare in limpidi moti armonici di base inseriti in
insolite, preziose dissonanze irrisolte. Qui si configura appunto la tensione
continua tra Ravel e la tonalità, la dialettica per cui il musicista si spinse
verso i suoi limiti, per tuttavia non oltrepassarli mai. Ma è proprio nella
dialettica tra avanguardia e tradizione, sempre presente nel linguaggio
musicale raveliano, che si rivela la dimensione da lui assunta all’interno
della musica moderna, l’essere, cioè, un musicista in bilico tra l’antico
vagheggiato e il nuovo che preme.
In questa luce interpretativa l’uomo e l’artista Ravel, i suoi
valori, come l’eleganza, la raffinatezza, la concezione suprema dell’arte, il
cerebralismo etc., appaiono fortemente imbevuti dello spirito del
decadentismo francese. La sua arte, che continuamente cercò di
nascondersi dietro l’artificio, dietro espedienti di rallentamento retorico del
discorso emotivo, dietro una preziosità di scrittura che vorrebbe allontanare
gli spettri di una confessione, si rivela come una sottile filigrana da cui si
può intravedere l’intimità dell’artista, involontariamente ma, forse, ancor
più distintamente. Questa volontà antiespressiva, antisentimentale, esiste,
come si è visto, nelle convinzioni poetiche di Ravel, ma non coinvolge una
considerazione sulla aridità spirituale, sulla povertà emotiva del musicista,
poiché anche il suo pudore dei sentimenti, il suo riserbo, possono essere
letti in una dimensione storica, ovvero come un atteggiamento tipicamente
20
decadente, relativo al rifiuto di compromettersi scendendo dall’arte alla
quotidianità e abbassandosi così al livello della massa con l’esibizione dei
proprio sentimenti. La sua opera è, quindi, profondamente legata al
decadentismo francese nel proprio orientamento, ma anche solidamente
fondata sulla pratica tradizionale. Ravel, come ogni significativo artista, ha
voluto darsi le proprie leggi creandosi per questo un proprio universo: la
raffinatezza parigina, l’umorismo sottile, l’interesse per gli animali e i
bambini, il modo intelligente di osservare la natura, tutto ciò si riflette nella
sua arte.
4 - HISTOIRES NATURELLES
Durante l’autunno del 1906, Maurice Ravel, dopo le Cinq mélodies
populaires grecques e
Les grands vents venus d’outremer, compose,
ancora una volta per voce e pianoforte, le Histoires naturelles. Il testo da
cui trasse ispirazione è una galleria di ritratti di animali, fatta di schizzi, di
appunti, di istantanee, che per dieci anni (1896-1906) lo scrittore Jules
Renard (1864-1910), aveva continuato a perfezionare e ad accrescere di
numero, in qualità di «cacciatore d’immagini». In questa veste l’autore,
come si legge all’inizio del libro, «Lascia a casa le armi e s’accontenta di
aprire gli occhi. Gli occhi gli servono da reti, dove le immagini si
imprigionano
da
sé»;
in
questa
operazione
egli
è
supportato
dall’immaginazione, o meglio, «da una rapida associazione mentale tra
qualcosa che l’occhio osserva e un’idea, un ricordo di qualche altra cosa
completamente diversa ma che rivela una inattesa somiglianza con la cosa
21
osservata», come giustamente ha osservato Italo Calvino. Si tratta, quindi,
di una sorta di “album da disegno” fatto di brevi racconti in prosa, rapide
storielle di cui qualcuna diventata persino popolare in quanto recitata
spesso in pubblico dai vari Lucine Guitry, Charles Cros e Coquelin Cadet;
era, infatti, ancora molto in voga in questa epoca la pratica del monologo,
un genere inaugurato dai vecchi Cabarets artistici e letterari. Per questi
quadretti, di cui una prima serie era già stata pubblicata nel 1896, Renard
dichiarò apertamente di aver preso spunto da George-Louis Leclerc conte
di Buffon, lo scienziato scrittore, intendente dei Giardini Reali, che, tra il
1748 e il 1779, aveva compilato un’imponente Histoires naturelles,
semplice e comprensibile, in polemica con le complesse descrizioni per
eruditi usate dal naturalista Linneo. Oltre al titolo, egli mutuò da Buffon
anche il linguaggio discorsivo e familiare, in particolare caratterizzato da
una affettuosa simpatia per le creature ritratte, tanto da fargli dichiarare:
«Io vorrei riuscire gradevole agli animali stessi. Se essi potessero leggere le
mie piccole Histoires naturelles, vorrei che esse li facessero sorridere ». Si
trattava di animali familiari, fauna domestica o selvatica della campagna
francese, dalle galline agli scoiattoli, dall’asino allo scarafaggio, niente di
esotico o di straordinario. La creatura meno contadina è, infatti, forse il
cigno, che però viene subito reintegrato tra la fauna domestica con la frase
«ingrassa come un’oca». Vi è anche un breve intermezzo dedicato al
mondo vegetale.
In quest’opera Renard ha creato con le immagini un gioco di
associazioni e di metafore da cui scaturiscono effetti lirici ed effetti comici,
mescolati con sapiente equilibrio, dove l’estrema concisione non sfugge ad
un raffinato preziosismo di termini. Una lingua sobria, precisa, evocatrice,
che è stata paragonata a quella dei poeti giapponesi. Molti ritratti, infatti, si
esauriscono in una semplice frase, densa di poesia e di umorismo, come ad
22
esempio il ragno «Una piccola mano nera e pelosa contratta sopra dei
capelli. Tutta notte, in nome della luna, pone i suoi suggelli», o la pulce
«Un grano di tabacco con la molla». Le Histoires naturelles, però, non
ebbero il successo dell’altra importante opera di Renard Poil de Carotte,
esse, tuttavia, trovarono i loro estimatori nella cerchia dei raffinati cultori
dello stile più che tra i lettori comuni, tanto che Toulouse Lautrec volle
illustrarle e Ravel, appunto, decise di metterle in musica. Egli fu attirato da
questi racconti di animali che forse più di altri avevano il potere di
commuoverlo permettendogli, allo stesso tempo, di mascherare facilmente i
suoi sentimenti: come Renard , infatti, Ravel si compiaceva di occultare i
propri stati d’animo dietro lo schermo dell’ironia. Humour, tenerezza,
scherno, potevano essere così espressi in una musica dall’aria famigliare
che si univa, senza travisarne il senso, al tipico linguaggio di ogni animale,
cogliendone, invece, l’essenza con sottile senso di caricatura.
Di questi brevi racconti, dalla satira finissima e pur profonda, Ravel
scelse per la sua opera solo cinque ritratti: Le Paon, Le Grillon, Le Cygne,
Le Martin-pêcheur, La Pintade.
Anche se i due artisti si erano già conosciuti ai tempi del gruppo
“Les Apaches”, la difficoltà maggiore fu, per il compositore francese,
quella di avere l’autorizzazione da parte dello scrittore, cosa non molto
semplice essendo Renard un personaggio difficile e scostante, che era
meglio avvicinare indirettamente. Fu Thadée Natanson che si incaricò di
vederlo e di parlargli del progetto di Ravel. L’incontro avvenne il 19
novembre di quello stesso anno; ecco come lo stesso Renard lo registrò nel
suo Journal: «Thadée Natanson mi dice “Un signore vuole mettere in
musica qualcuna delle vostre Histoires naturelles. È un musicista
d’avanguardia sul quale si conta molto e per il quale Debussy è già
diventato una vecchia barba. Che effetto vi fa questo?” “Nessuno”. “Ma vi
23
riguarda, andiamo!” “Per niente”. “Che cosa devo dirgli da parte vostra?”
“Quello che vorrete. Ditegli grazie”. “Non desiderate che vi faccia
ascoltare la sua musica?” “Ah! no, no”.» (Jules Renard, Journal 18871910, Paris, Gallimard 1971). La singolare affermazione su Debussy fu
forse utilizzata da Natanson per compiacere lo scrittore che, a proposito del
Pelléas si era espresso in termini estremamente negativi. Comunque,
l’ironico cinismo manifestato dallo scrittore di fronte alla richiesta indiretta
di Ravel veniva probabilmente dal fatto che il musicista aveva scelto
cinque dei suoi poemi in prosa, senza neppure chiedergli un parere. Certo,
Ravel non sapeva, né ancora immaginava quale maniaca attenzione Renard
avesse per se stesso e per gli altri. Sta di fatto che lo scrittore restò sorpreso
non capendo come si potesse pretendere di aggiungere, alla sua perfetta
composizione letteraria, cose che arrivano dal “vago” di una sensazione
musicale. Non c’è da stupirsi, quindi, se, invitato al concerto per la prima
assoluta, con il pretesto di una indisposizione, preferì non andarci. Così
annotò il giorno stesso dell’esecuzione, il 12 gennaio 1907 sul Journal:
«Ravel, il compositore delle Histoires naturelles “noir, riche et fin”, insiste
perché io vada questa sera ad ascoltare le sue melodie . Gli confesso la mia
ignoranza e gli chiedo che cosa ha potuto aggiungere alle Histoires
naturelles. “La mia intenzione non è quella di aggiungere” egli mi dice “ma
di interpretare”. “Ma che rapporto c’è?” “Quello di dire con la musica
quello che voi dite con le parole quando siete di fronte a un albero, per
esempio. Io penso e sento in musica e vorrei pensare e sentire le stesse cose
che pensate e sentite voi. C’è la musica istintiva, sentimentale, la mia–è
inteso che prima bisogna conoscere il mestiere–e la musica intellettuale:
d’Indy. Non ci saranno altro che dei d’Indy, questa sera. Essi non
ammettono l’emozione e questo perché non la vogliono esprimere. Io penso
il contrario, ma essi trovano interessante quello che ho fatto, visto che mi
24
accolgono. È importantissima per me questa prova. Ad ogni modo io sono
sicuro della mia interprete: è meravigliosa”». Nella frase «vorrei pensare e
sentire le stesse cose che pensate e sentite voi» Ravel riflette la sua
preoccupazione di assomigliare il più possibile con la musica alla prosa
precisa e senza trucchi dell’illustre scrittore, alla sua limpidezza e sobrietà,
secondo la teoria della corrispondenza delle arti, esposta nel precedente
capitolo.
Tuttavia, lo scrittore non tornò sulla sua decisione e alla serata
mandò sua moglie e sua figlia, e mai più scrisse di Maurice Ravel delle
cinque Histoires naturelles e, soprattutto, non fece mai cenno al
memorabile scandalo che scoppiò quella sera.
L’esecuzione avvenne nel corso di un concerto ancora una volta
organizzato dalla Société Nazionale de Musique. La sala quella sera era
colma per l’affluenza dei soci e dei nuovi uditori, al punto che fu
necessario aggiungere delle nuove sedie anche sulla pedana. L’interprete
dell’opera di Ravel era il soprano Jane Barthori, fedele amica del
compositore, sempre pronta ad affrontare nuove sfide, e che tanta parte
ebbe nella sua produzione e in quella degli autori francesi contemporanei
fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Al pianoforte, rigido e
impassibile, vi era lo stesso Ravel.
Presente in sala Vuillermoz scriverà:
«La sala era agitata e presentiva la tempesta. Si sapeva che Ravel,
ansioso di stingere da vicino l’incisa prosa di Jules Renard, aveva tentato in
questo lavoro una specie di rivoluzione prosodica. Aveva voluto conservare
a quei brevi testi il tono e il ritmo della conversazione quotidiana e, per
alleggerirne la traduzione melodica, in pratica aveva soppresso le sillabe
mute alle quali la musica, utilizzando una nota per sillaba, dà eccessivo
rilievo sonoro. E così invece di cantare accademicamente “Il appel-le sa fi-
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an-cée: el-le n’est pas ve-nu-e”, musicava: “Il ap-pel’-sa-fian-cé: ell’-n’est
pas-v’nu’. Risparmiava così sei sillabe e, di conseguenza, sei note su
sedici. […] I musicisti dei cafés-concerts hanno adottato da molto tempo
questa esemplificazione, ma è proprio questo precedente che a molti non
piacque. Il pubblico fu infastidito nel vedere un compositore “serio”
introdurre nella propria musica, elementi di dizione presi in prestito dalle
riviste di music-hall. L’accoglienza fatta a questo delizioso album fu
dunque nettamente ostile e, nella sala, si sfiorò la rissa.»
Difatti, eseguiti i cinque pezzi, tra il rumoreggiare del pubblico
indignato, a stento fu evitata la rissa. Quello che non si riuscì ad evitare fu
il grande scandalo, le discussioni, le polemiche, anche se tutto era
abbastanza prevedibile, visto che si era ad un concerto organizzato dalla
Société Nazionale de Musique, un’istituzione faziosa in un ambiente
conservatore. Non venne capita la parte pianistica, giudicata fredda e
laboriosa, mera esercitazione di preziosismi armonici. Si rise del canto, del
tutto avaro di espansioni liriche, limitato e costretto a disegni melodici
brevi, spezzati e aggressivi. Non si accettò il testo ritenuto come il meno
adatto a esser musicato e si respinse lo stile, il tono impudente, e soprattutto
la prosaicità piatta dei termini che urtò e offese i benpensanti melomani. I
più critici sostennero che mai nessun musicista prima di allora si era fatto
beffe della musica fino a quel livello. Ascoltando brevi frasi di una banalità
a volte raffinata, come, ad esempio, parlando del grillo, «Il rentre chez lui
et ferme sa porte», o come, descrivendo il cigno, «Il glisse su le bassin,
comme un traîneau blanc, de nuage en nuage», o ancora come, parlando
della gallina faraona, «Elle est allée pondre son œuf à la campagne»,
oppure ascoltando il pianoforte ingegnarsi nell’imitare il verso dei vari
animali, il pubblico faticò a trattenere le più grosse risate. Alla fine buona
parte dei presenti cominciò a lanciare grida di gioia e a battere le mani,
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grida e applausi ironici il cui significato, a quanto pare, non fu ben
compreso dai due stoici interpreti che, non solo ritornano, ma bissarono La
Pintade.
Gabriel Faurè, il vecchio maestro di Ravel, rimase profondamente
colpito nel vedere che la sala in gran parte si era svuotata dopo l’ascolto
delle melodie del suo allievo. Pur dichiarando di amare Ravel confessò al
suo amico Luis Aubert «non mi piace che si mettano in musica cose
simili». Nonostante ciò Fauré, vista la grande stima per il suo allievo, si
dimostrò disponibile a dargli comunque una nuova possibilità, come è
testimoniato da Vuillermoz: «Strada facendo egli non mi nascose la sua
contrarietà e criticò vivamente questa stupida esperienza. Al termine delle
sue argomentazioni, constatando che io non sembravo così scandalizzato
come lui, mi disse, con una certa cerimonia “A voi piace questa roba. A
voi?...”. Poi, con rispettose precauzioni, tentai una timida difesa delle
intenzioni di Ravel… Fauré mi ascoltava con attenzione e io comprendevo
bene ch’egli avrebbe desiderato lasciarsi convincere tanta era la stima e
l’affetto che nutriva per Ravel, ma il suo cattivo umore era più forte.
Tuttavia, quando io presi congedo da lui, sulla soglia di casa, mi disse
“Dopo tutto forse avete ragione. Non bisogna fidarsi della prima
impressione. Dite a Ravel di venire domani da me a risuonarmi il pezzo,
così che io non commetta un’ingiustizia” ».
Sicuramente fu uno scandalo, ma più che di scandalo si può parlare
di un successo trionfale duramente contrastato, visto che la cronaca
racconta di un vero e proprio delirio di entusiasti che invadono si la pedana
per felicitarsi con il compositore, ma facendosi largo tra fischi, insulti,
risate. E la polemica continuò anche fuori dalla sala di concerto.
L’esecuzione delle Histoire naturelles portò, infatti, alla nascita di due
opposti schieramenti che, in parte, condizionarono l’evoluzione della
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musica e della società del XX secolo. Tra i più critici si fece avanti l’idea
che Ravel avesse voluto prendersi gioco del pubblico, o addirittura che
avesse smarrito la propria vena artistica. Charles Koechlin, vecchio
compagno di Ravel nella scuola di Fauré, e suo strenuo difensore, ricordò
che parte del pubblico si indignò come se gli avessero voluto fare uno
scherzo di cattivo gusto, non gradendo soprattutto lo humor, giudicandolo
assolutamente privo di senso musicale. All’opposto, tra i giudizi positivi
quello di Lous Laloy fu un autentico inno a Ravel. Sulle pagine
del
«Mercur musical et Bullettin Française de la S.I.M.» egli scrisse: «Perché
noi abbiamo avuto qui, più che in qualsiasi altro lavoro di Maurice Ravel,
la rivelazione di un artista della specie più raffinata, maestro oggi dello stile
e in possesso di un talento unico nel suo genere, un genere squisito». I toni
entusiastici di questo articolo scatenarono la reazione della Scola cantorum
che vide nell’arte di Ravel un autentico insulto alla propria dignità. Laloy
in risposta cercò di definire meglio la sua posizione affermando, in un
successivo articolo, la sua ammirazione per Ravel che egli arriva a definire
«un musicista umorista». L’articolo, tuttavia, fece da miccia a quello che
può essere considerato un vero e proprio dissenso di Debussy nei confronti
di Ravel. In una lettera indirizzata a Laloy, Debussy, parlando di Ravel
disse «Ma, detto tra noi: credete sinceramente alla musica “umoristica”?
Prima di tutto, è una cosa che in sé non esiste; le occorrerà sempre
l’occasione: sia quello di un testo, sia quella di una particolare situazione…
Due accordi, coi piedi per aria, o in qualche altra posizione scomoda, non
saranno per forza “Umoristici” e non potranno diventarlo se non in modo
empirico. Sono d’accordo con voi nel riconoscere che Ravel è
straordinariamente dotato, ma quel che mi irrita è il suo atteggiamento di
“prestigiatore”, o meglio da fachiro incantatore, che fa nascere fiori intorno
a una sedia…Disgraziatamente un gioco di prestigio va sempre preparato, e
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può stupire soltanto una volta!»; e a proposito delle Histoires naturelles in
una lettera a Jacques Durand, che gli aveva inviato l’edizione del lavoro,
così le descrive: «Caro amico, grazie per le Histoires naturelles che mi
sembrano tuttavia eccessivamente bizzarre. Sono artificiose chimeriche, un
po’ come la casa di uno stregone. Comunque sia, Le cygne è una musica
davvero graziosa». Siamo quindi agli inizi di una gelosia denigratoria che
portò, sempre più i due artisti ad allontanarsi l’uno dall’altro.
Tuttavia, lo scontro tra i critici e sostenitori non rappresenterebbe
nulla di nuovo e originale, se anche in questo caso si fosse limitato ad
esprimere la diversità dei pareri, il semplice confronto tra opinioni opposte.
Questa volta, però, si è di fronte ad un’intolleranza reciproca tra due
schieramenti, fra un’accademia invecchiata, arroccata in difesa di
preconcetti di comodo oltre che di valori musicali storicamente sorpassati,
e una giovane generazione che spinge per la creazione di una società più
viva e più nuova, di cui Ravel fu uno dei rappresentanti di punta.
Ma passiamo a parlare, in senso più strettamente musicologico, di
questo ciclo di cinque mélodies per meglio comprendere le innovazioni in
esse apportate da Ravel. La prima cosa che risulta piuttosto atipica nelle
Histoires naturelles è la scelta di avvalersi di un supporto letterario
inconsueto come la prosa, cosa che indignò molto, come abbiamo visto, il
pubblico dell’epoca, «Già da tempo il linguaggio diretto e chiaro, la poesia
intima e profonda dei brani di Jules Renard stimolavano la mia
immaginazione. Il testo stesso, poi, m’imponeva una declamazione legata
in modo particolarmente stretto alle inflessioni della parlata francese».
La prosa sembrava sconveniente nel genere della mélodie, dove
Fauré aveva raggiunto i vertici del lirismo ispirandosi ai testi della poesia
francese più recente; essa, tuttavia, venne giustificata nell’opera di Debussy
Pelléas et Mélisande solo grazie alla sua destinazione al teatro e alle
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vistose nuances adottate da Maeterlinck. Le sole mélodies importanti che
facevano eccezione erano Elégie di Berlioz ed Elégie di Duparc, composte
rispettivamente nel 1830 e nel 1874, sullo stesso testo di prosa, tradotto, di
Thomas Moore. In questo caso però si trattava di due opere che rientravano
nella varietà di mélodies importate dalla scena drammatica secondo il
modello inaugurato ai tempi di Spontini; il tono teatrale implicito
nell’addio dell’eroe irlandese Robert Emmet, condannato a morte,
consentiva l’eccezione, che era d’altra parte relativa, in quanto sia Berlioz
che Duparc non avevano introdotto nella prosodia le radicali novità di
Histoires naturelles, limitandosi a una stroficità imposta alla prosa dagli
usuali schemi del recitativo operistico e della melodia tradizionale.
La provocazione più grave, da parte di Ravel, fu non soltanto di aver
fatto ricorso alla prosa, ma proprio nell’utilizzo del linguaggio disadorno
con il quale Renard aveva imitato l’esposizione classificatoria dell’opera di
Buffon. Ciò implicava una deliberata volontà distruttiva del canto, che
portò a un trattamento della voce senz’altro antitradizionale, che rifuggiva
da ogni concessione al lirismo e che evitava con cura di assegnare un ruolo
semplicemente melodico alla voce. Questo tipo di declamato non può
neanche essere accostato a quello debussiano del Pelléas cui pare
raffrontabile «per la stretta attinenza con il testo parlato e per la curvatura
degli intervalli» poiché «se ne differenzia per un maggior senso di
chiarezza e di precisione ritmica e melodica. Inoltre, mentre nel Pelléas
canto e orchestra si integrano e si fondono in stagnante atmosfera, nelle
Histoires naturelles la voce ha una linea inconfondibile in netto rilievo alla
parte pianistica» (L. La Pegna). «La voce» scrive Mantelli nel suo articolo
in L’Approdo musicale del 1958 «non canta ma dice le parole del testo
sulla base dell’intonazione e del ritmo». In tutta l’opera, infatti, c’è la
tendenza a definire le immagini del testo nelle parti tradizionalmente
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riservate all’accompagnamento, piuttosto che nelle ormai esili possibilità
del canto trasformato in un declamato. Il pianoforte rende trascurabile così
il rilievo strofico della melodia intonata dalla voce, e finisce per rendere
superflua la presenza della rima e della strofa ed anche del verso. Al di
fuori dell’opera di Ravel, questa tendenza si ritrova, ad esempio, nelle
mélodies di Fauré, benché vi manchi la contestuale equivalenza della
musica con la poesia (come detto nel capitolo su la mélodie francese).
Fauré riproduceva il clima della poesia, mentre Ravel ne ricercava,
concretamente, le metafore, per calarle nella musica. Le Histoires
naturelles rappresentano così il decisivo ribaltamento delle convenzioni: al
canto viene sottratta la funzione di interpretare il significato del testo e la
parte vocale viene ridotta ad enunciare immagini destinate ad essere
sviluppate dal pianoforte nella pienezza delle sue facoltà timbriche,
armoniche e anche melodiche. Il soprano Jane Bathori affermò infatti:
«Spesso si altera l’intenzione del musicista, cercando di imitare, più o
meno efficacemente, gli animali. Ravel sta osservando… e del resto, anche
Renard osserva; quindi, anche il cantante deve raccontare i poemi di
Renard da “osservatore”. La mimica non deve superare i limiti di una certa
riservatezza.». Qui il capovolgimento dei compiti fra gli elementi della
mélodie, che ne trasforma profondamente la natura, segue una sua logica.
Ravel oppone alla tradizione un realismo impeccabile, restituendo alla
parola la sua qualità comune, di mezzo di comunicazione, come si legge in
Une esquisse autobiographique de Maurice Ravel: «Le Histoires naturelles
mi hanno preparato alla composizione del Heure espagnole, una commedia
lirica di cui Franc-Nohain scrisse il libretto, anch’essa una sorta di
conversazione in musica». In questo modo affidò la raffigurazione alla
musica pura attribuendole, come punto di partenza, il descrittivismo che era
già molto diffuso nella letteratura musicale ottocentesca, e che era stata una
31
costante nella tradizione francese. Questi elementi modificano l’assetto
della mélodie e le relazioni che intercorrono tra parola e musica, ma
permettono altresì al canto di liberarsi dal suo valore ottocentesco, per
affacciarsi alle novità del Novecento. Ravel, inoltre, ridusse al minimo
l’intervento della personalità creatrice, dando l’illusione di una perfetta
oggettività e cancellando il lirismo dal luogo nel quale era stato posto dalla
tradizione. Una volta delimitati i campi della parola e della musica, alla
prima spetta il compito di inserirsi come elemento semantico e non, quindi,
della sua rappresentazione nel corso della composizione, favorendo, di
conseguenza, la relazione apparentemente immediata fra la materia
letteraria e l’invenzione musicale.
A tutto questo bisogna anche aggiungere che la prosodia musicale
segue le leggi della lingua parlata e, come nelle canzonette eseguite nei vari
caffè concerto, rispetta la e muta e le elisioni. Su questo punto Ravel era
particolarmente insistente come è testimoniato dalla violinista Hélène
Jourdan-Morange nella sua biografia sul compositore francese: «Jane
Bathori aveva immediatamente afferrato la straordinaria novità contenuta
in queste liriche. Ravel gliele fece studiare minuziosamente, insistendo
soprattutto perché non pronunciasse le vocali “mute”. Bisogna dimenticare
che si sta cantando – le diceva – la dizione deve trascinare la musica», e
sempre la Jourdan-Morange ricorda che «Ravel non si preoccupava che
della declamazione». La presenza di questo recitativo impone una certa
mobilità delle immagini musicali, per tenere dietro alla rapidità con la
quale procede la narrazione, generando così un andamento frammentario
che già si era delineato con Shéhérasade in Asie. Anche l’uso dei singoli
elementi della costruzione musicale, appare qui molto complesso e
diversificato. Nelle Histoires naturelles è ancora evidente l’uso di armonie
tonali, ma della tonalità è rimasto solo il colore grazie ad accordi di settima
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e nona di varie specie, colorati da continue appoggiature e note di
passaggio.
Nelle Histoires Ravel poté sfruttare, in questo modo, la natura
realistica, quasi onomatopeica, delle idee musicali integrandole fra loro in
repentine contaminazioni stimolate dal racconto. L’incrociarsi di rapporti
così complessi si traduce in una penetrante esplorazione timbrica, ottenuta
con fratture della sintassi musicale, provocate da una quasi automatica
realizzazione del tema letterario lasciato allo stato di comunicazione, per i
minimi livelli melodici consentiti al recitativo. Questo automatismo, in
realtà, è solo illusorio, poiché, come ci fa notare Casini, tra il significato dei
testi in Renard e la loro attuazione musicale, Ravel insinua associazioni di
idee che appartengono alla sua vita intima, in contraddizione con la volontà
di far scomparire ogni elemento appartenete alla sfera personale del
compositore. I suoi gusti musicali, infatti, servono a mediare la
rappresentazione degli animali: in questo modo si ottiene che la descrizione
del grillo e della faraona rispondano ai richiami adoperati comunemente dai
clavicembalisti, come il cucù e il chiocciare stilizzati; che il pavone,
immaginato come un vanitoso cortigiano, evochi a sua volta il ritmo
pomposo dell’entrée nei Ballets de cour secenteschi, e il cigno corrisponda
alla scorrevole e imperscrutabile asimmetria delle ornamentazioni alla
Chopin. Tutte queste citazioni si perdono, però, nell’episodio del MartinPêcheur, in cui si manifesta una vertiginosa impassibilità e dove la
personalità creatrice si perde in ciò che si può definire letteralmente
ineffabile, ovvero non esprimibile attraverso la razionalizzazione del
linguaggio.
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