19 schöner Mai), in un contesto armonicamente e timbricamente deformato, quasi a prendere le distanze dall’oggetto stesso della sua ricognizione. L’orchestra è ricchissima di colori: legni a tre, quattro corni, tre trombe, tre tromboni e tuba, due arpe e percussioni, contro un gruppo d’archi curiosamente limitato, almeno nelle indicazioni in partitura (sei primi violini, sei secondi, quattro viole, quattro violoncelli, due contrabbassi). Questo il “programma”, steso da Ravel stesso: “Nuvole turbinose lasciano intravedere a tratti alcune coppie che danzano il valzer. Le nuvole poco a poco si dissipano: si scorge una sala immensa, popolata da una folla volteggiante. Al fortissimo risplende la luce dei lampadari. Una corte imperiale, intorno al 1855”. Una traccia che a noi oggi (che forse abbiamo in mente più Carnet di ballo di Duvivier che non i Ballets Russes di Djagilev) sembra più cinematografica (ma allora il cinema non aveva né parole né musica) che non coreografica, e men che meno riferibile a un poema sinfonico secondo l’uso romantico. Domina comunque l’idea di un precisarsi progressivo dell’immagine, fino a un culmine sonoro e visivo dato dal fortissimo abbinato al bagliore dei lampadari: tant’è vero che l’ambientazione logistica e cronologica (“una corte imperiale, intorno al 1855” è data al lettore-ascoltatore soltanto alla fine; come se solo alla fine, appunto, si rivelasse a che cosa la musica abbia voluto alludere finora. Così procede la musica, che prende l’avvio nelle zone più gravi dell’orchestra, dipanandosi lungo un tessuto ritmico dapprima indistinto, poi sempre più decisamente identificato con lo schema metrico del valzer viennese, fino a esplodere in una autentica frenesia motoria nel vorticoso susseguirsi delle figurazioni. Ironia ed eleganza si incontrano in un gioco intellettuale che lascia emergere più i fattori ritmici e timbrici che non quelli melodici, quasi negando all’ascoltatore l’espressione esplicita di quella stessa nostalgia che un omaggio al valzer viennese scritto all’indomani della catastrofe poteva promettergli. Ravel dedicò La Valse a Misia Sert, sorella del suo grande amico Cipa Godebski e protagonista fra le più influenti della mondanità culturale e artistica parigina. Proprio in casa di Misia Sert, però, la nuova composizione aveva incontrato uno smacco non facile da dimenticare, quando nel febbraio 1920, presenti Igor Stravinskij e un giovanissimo Francis Poulenc, Ravel, insieme con la pianista Marcelle Meyer aveva fatto ascoltare a Djagilev La Valse (che ancora si chiamava Wien) nella versione per due pianoforti. “Caro Ravel, è un capolavoro, ma non è un balletto”, aveva sentenziato l’impresario. Ravel se ne andò in silenzio con la sua musica sotto-