ACTA EST FABULA…
“Uomo, sai essere giusto? È una donna che te lo domanda: non vorrai toglierle questo diritto”.1
Coerentemente con l’atmosfera comica, giova forse cominciare proprio con la
provocatoria Dichiarazione redatta, a due anni dalla presa della Bastiglia, da Olympe de
Gouges. La drammaturga e libellista riprende articolo per articolo, trasponendoli al
femminile, la “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino”, testo giuridico
elaborato nel 1789. Soffusa di una provocante ironia, la proposta dell’autrice francese,
partigiana e antesignana di un movimento femminista, funziona in modo non dissimile
dalla commedia aristofanea, che si apriva sullo scenario molto attuale della pòlis, come
un doppio, uno specchio della società della Francia rivoluzionaria, che postulava
l’eguaglianza degli uomini in teoria, ma escludeva, nella realtà, le donne dalle assemblee
elettorali degli Stati Generali, considerandole ancora inferiori.
È possibile, allora, per ripercorrere le tappe di un discorso avviato nel corso degli anni
Settanta, tracciare le linee di una possibile storia di influenza della donna, da sempre
subordinata all’autorità maschile, soggetta ai dettami dell’etica agonale, indotta al
silenzio dal “superegotismo” dell’uomo?
Se è rara, all’interno delle opere storiche, l’incursione di presenze femminili di rilievo, lo
stesso non si può dire per le documentazioni letterarie e le descrizioni figurate che della
donna ci sono state tramandate. Ed è proprio in alcune forme del dramma antico, di quel
teatro che, per dirla con M.me de Staël, è come il magistrato della letteratura, che
riscontriamo un primo, seppur debole, tentativo di superamento del dissidio ontologico,
ancor prima che storico, che da sempre divide i due sessi. Aristofane, servendosi della
comicità, alla stregua del Wilde drammaturgo, che induceva il pubblico inglese a ridere
inconsciamente dei propri stessi difetti, può dileggiare amaramente la condizione
dell’uomo, i suoi errori esiziali e lo stato di deliquio della sua coscienza, ergendosi al
contempo ad alfiere della pace, aborrendo e osteggiando la guerra, cancro ed eterno
punctum dolens della storia dell’uomo.
E l’attacco dell’autore ateniese all’esecrata guerra è sferrato, con icastica vivacità,
quando attinge alla massa degli achreioi, porta sulle scene le donne, sfida la tradizionale
cultura maschile, testimonia il proprio implicito livore antisociale di tenace conservatore.
È da tenere ben presente, ovviamente, che prerogativa della commedia è proprio il
rovesciamento dei ruoli, un “carnevalesco” scambio di funzioni e di compiti. Ci si può
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permettere, di conseguenza, di sfidare gli stessi dei (è il caso eclatante degli Uccelli) o di
motteggiare personaggi influenti della polis, secondo il principio dell’ “onomastì
komodéin”. Ma è vero, anche, che le forme del realismo antico, secondo Auerbach,
erano possibili solo nell’ambito del comico e del grottesco.
Qual è, dunque, la reale portata della scelta di Aristofane, che pure aveva
irriverentemente accusato Euripide di aver concesso troppo spazio alle donne, spesso
denominate col non molto lusinghiero epiteto di pornai2 ? Si tratta di una volontà di
recupero del ruolo femminile, da sempre fondamentale nella tradizione giambicocomica, o, come è stato recentemente proposto3, l’interesse dell’autore sarebbe stato
sollevato dalla mutilazione delle erme ad opera delle donne ateniesi?
In uno stravolgimento improvviso della realtà sociale le donne assumono, da oggetti e
vittime, un ruolo attivo, diventano soggetti di una azione volta a mettere in evidenza la
follia delle guerre. A prevalere è però il pessimismo dell’autore, di stampo tucidideo,
distante anni luce dalla fiducia nell’umanesimo etico che avrebbe contraddistinto il poeta
ellenistico Menandro. Ma la donna è legata da sempre, quasi per sua intrinseca natura, a
un sentimento di maggiore umanità, a una ricerca della pace in contrapposizione
all’inutile logica della guerra. D’altro canto, come si è sottolineato, al tema della pace il
commediografo Ateniese rimarrà pervicacemente ancorato in tutte le sue opere. In modo
più eclatante (è il caso di Acarnesi, Pace, Lisistrata), o con tono più disilluso, come negli
Uccelli, in cui la condizione di pace restaurata conduce inevitabilmente al ripristino dello
statu quo (una situazione affine in Animal Farm di George Orwell). Ed è proprio in
quest’ultima opera che si può leggere tra le righe il manifesto pacifista di Aristofane.
Tralasciando gli innumerevoli spunti di riflessione di una commedia che si può definire
sì di evasione, ma che ha alle spalle l’ansia della terribile spedizione contro Siracusa,
punterei i riflettori sull’ambasceria finale divina che ha il compito di discutere i termini
di un armistizio tra dei e uccelli. Al centro di tante frasi senza molto senso pronunciate
da tutti i protagonisti, emerge un’esclamazione proferita da Eracle, connotato nei tratti
stereotipi dell’ “alazòn”. Ai vv.1637-38 si legge, infatti: «Benedetto uomo:dove ti avvii,
Posidone? Noi, fare la guerra per una femmina?» (trad.B. Marzullo). La potenza evocativa
di queste parole è incredibile: contengono, di fatto, un esplicito attacco alla cultura
secolare e al patrimonio sapienziale dell’epica omerica, che aveva cantato le gesta di
Troia legate ad Elena, ed hanno in sé anche un’implicita consapevolezza della immutata
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condizione d’inferiorità riservata alle donne; ma non escludono, per un futuro prossimo,
un loro maggiore coinvolgimento, da vere protagoniste (ovviamente siamo ancora molto
lontani da figure di eroine come Giovanna D’Arco o Florence Nightingale). Del resto
non molto prima (vv.1538-1543) Prometeo, il trickster per eccellenza, aveva esortato
Pisetero a richiedere in sposa Basileia, la Regina, considerando il fatto che “è lei che
maneggia il..fulmine di Zeus, e il resto del resto: prudenza, buongoverno, saggezza,
arsenali, ingiurie, cassieri, trioboli”. La divinità femminile è quindi colei che
effettivamente detiene il potere: un’eccezione al comune sentire dell’etica greca, che
anticipa l’idea di un comunismo integrale e di un’utopia sociale proiettata al
superamento della società patriarcale che l’autore proporrà nel 391 a.C. con le “Donne in
Assemblea”. E che è tanto più affascinante per noi moderni, se consideriamo valide le
idee teorizzate da Bachofen (“Sul Matriarcato”,1861), riprese, con minor convinzione,
anche da Frazer4 e da Freud5, in cui si esprime chiaramente che la pace e il benessere
delle antiche società neolitiche provenivano dai corpi materni, con conseguente
supremazia iniziale della donna nelle relazioni sociali. Nell’antica Grecia, al contrario, le
differenze tra i due sessi erano legate alla dimensione strettamente politica, e lo stesso
Socrate (secondo la testimonianza senofontea), al contrario di Platone e Aristotele, non
vedeva nella diversa natura un motivo di inferiorità, ma solo nella mancanza di forza
fisica, saggezza, ed educazione. Il campo esclusivo di attività muliebre era lo spazio
dell’oikos, e l’Iscomaco di Senofonte ne dà una coerente rappresentazione: compito delle
donne è filare, tessere, tacere (ribadito anche in Lys. vv.507-528) con l’aggiunta che,
“sapendo che alla donna ordinò di allevare i neonati, [il dio] le assegnò anche un amore
per i piccoli maggiore che al maschio” (Sen., Economico, trad. F. Roscalla).
Occorre, infine, portare all’attenzione il Simposio di Platone, che proprio ad Aristofane
attribuisce una delle teorie più rivoluzionarie sul sessismo, il mito degli androgini, e
l’idea di una possibile origine comune di uomo e donna, che rende aleatorie e tende a far
scomparire le differenze tra i sessi. Una volta separate le metà, sostiene l’Aristofane
platonico, quanti, pur essendo una fetta di maschio, danno la caccia al maschio sono gli
unici che riescano veri uomini, adatti alla vita politica. Al matrimonio e alla
procreazione essi non si volgono per inclinazione naturale, ma costretti dalla legge. Il
matrimonio, istituzione che incarna l’atteggiamento funzionalista dell’uomo, deve
controllare le donne ed escluderle dalla politica cittadina: non è un caso che il finale
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degli Uccelli presenti un fittizio lieto fine, in cui le nozze tra Basileia e Pisetero
ristabiliscono l’ordine e offrono l’occasione per un lauto banchetto. Si tenta di osteggiare
quelle assurde forme di ginecocrazia immaginate nelle Donne in Assemblea, in cui le
donne, travestite da uomini, ottengono la maggioranza in “parlamento” e instaurano un
regime di comunismo integrale. Interessante è anche lo studio linguistico di Èmile
Benveniste. Il “matrimonio” non ha un nome indoeuropeo: “indica, della donna, che
‘entra nella condizione di sposa’, ricevendo così una funzione piuttosto che compiere un
atto6”. Il matrimonium rappresenta, quindi, per la donna, “non un atto, ma un destino”.
Valutare se la visione di Aristofane rimanga oggi soltanto una provocazione non è
questione oziosa: Lisistrata, per poter condizionare la condotta maschile, deve prendere
le mosse proprio dal mondo che le è negato, ritorcendo le abitudini della vita privata
contro questioni pubbliche e politiche, arrivando perfino ad occupare l’acropoli e il
tesoro di Delo, fondamento della guerra stessa.
Si può affermare, senza troppe obiezioni, che il grado di libertà di cui gode la donna può
fungere da indicatore del grado di sviluppo di una società. Il movimento femminista del
Novecento ha lottato per l’uguaglianza e l’emancipazione, e non solo in termini
idealisticamente hegeliani. Ma di quali differenze stiamo parlando, alla fine? Certo, la
stessa Bibbia sembra rifiutare ogni antropologia egualitaria, nell’ottica che i conflitti
siano scaturiti dal peccato originale, che avrebbe sconvolto l’armonia iniziale(così come
nella visione mitologica tutto sembrerebbe risalire alla sfida di Prometeo, o, per i più
misogini greci, all’imprudenza di Pandora) ma ciò non significa negare alla donna il
riconoscimento morale de iure che le spetta. Di conseguenza ispiriamoci alle genti
greche se vogliamo essere cittadini Europei e maestri di civiltà, ma non dimentichiamo
che nei grembi materni si è modellata la nostra predisposizione all’amore, e quindi alla
piena realizzazione di noi stessi. “La commedia è terminata”: eppure si può, forse,
negare che ancor oggi “ l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono la
causa delle disgrazie pubbliche e della corruzione dei governi”? 7
Chi vuole, applaudisca.
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NOTE
1. Preambolo della ”Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, 1791, di Olympe de Gouges
2. Rane, v. 1043
3. Keuls 1988, 416
4. James George Frazer, Il ramo d’oro, 1890
5. Sigmund S. Freud, Interpretazione dei sogni, 1900
6. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Volume primo, p.183
7. Olympe de Gouges, op.cit.
BIBLIOGRAFIA
Aristofane, Commedie, a cura di Giuseppe Mastromarco, UTET (1997)
Aristofane, Le Rane, Introd. e traduzione di Guido Paduano, note di Alessandro Grilli, BUR (2007)
Aristofane, Lisistrata, a cura di Raffaele Cantarella, Einaudi (2004)
Èmile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee: Economia, parentela, società, Einaudi 2001
Platone, Il Simposio, a cura di Donata Paini, Keybook (2007)
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