luoghi&professioni Raffaele Monteleone, Carlotta Mozzana Politiche fragili per disabili deboli Criticità nei percorsi di inserimento lavorativo La centralità della persona disabile nei percorsi d’inserimento lavorativo sembra un dato acquisito a livello legislativo, sancito anche concettualmente dal passaggio terminologico da percorsi di «collocamento obbligatorio» a percorsi di «collocamento mirato», ossia attenti a promuovere le capacità della persona. Eppure, a fronte di tale chiarezza legislativa, le pratiche che traducono questi indirizzi collassano spesso nella logica spersonalizzante del «collocamento lavorativo». Aprire una riflessione critica sulle pratiche d’inserimento lavorativo è oggi necessario se si vuole in futuro rafforzare politiche e servizi capacitanti. I n Italia, il primo passo verso la personalizzazione dei percorsi di inserimento lavorativo per i disabili si è avuto nel 1999 con il passaggio dallo strumento del collocamento obbligatorio a quello del collocamento mirato. L’entrata in vigore della legge n. 68/99, sul diritto al lavoro dei disabili, ha infatti posto le basi per una trasformazione culturale, oltre che procedurale, dell’inserimento al lavoro delle persone disabili. Come accennato, la principale innovazione introdotta è stata il passaggio al cosiddetto «collocamento mirato», ovvero da una collocazione basata solamente su criteri numerici e coercitivi, a «quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione» (art. 2). Il percorso di inserimento, definito dalla legge, può essere considerato uno strumento di personalizzazione perché prevede che, da un lato, si delinei un profilo personale e professionale della persona disabile e, dall’altro, Animazione Sociale si analizzino le possibili posizioni lavorative adatte alle sue esigenze e capacità. Gli enti (pubblici e privati) che fungono da supporto per l’inserimento lavorativo sono in questa sede tenuti a realizzare azioni di monitoraggio, supporto e accompagnamento del percorso nella sua interezza, e nei casi più complessi (connessi a disabilità particolarmente invalidanti) hanno a disposizione strumenti specifici come tirocini, stages, incentivi economici, con lo scopo di favorire la costruzione di specifiche condizioni di supporto per rendere possibile l’esperienza lavorativa del disabile. Tuttavia, le modalità di implementazione e le pratiche che accompagnano la messa in opera di questa legge e delle sue estensioni, sono argomento di riflessione sotto molti punti di vista: quanto e in che modo si avvicinano e si distanziano dagli obiettivi propugnati? Qual è il ruolo dei servizi in questo processo? Come rendere personalizzato e capacitante un percorso di inserimento lavorativo? E che spazi di manovra vengono lasciati da definizioni, criteri e linee guida individuati a livello legislativo? Nelle prossime pagine discuteremo alcuni problemi connessi a queste tematiche, avendo come riferimento una ricerca empirica (1) condotta nella Provincia di Milano. 9 Novembre 79 luoghi&professioni In un primo momento analizzeremo il disegno di policy di uno strumento di programmazione delle politiche di inserimento lavorativo, mentre nelle pagine successive prenderemo in considerazione le fasi di implementazione dei percorsi personalizzati di inserimento (accesso alle misure; progettazione degli interventi; ricerca, inserimento e mantenimento del posto di lavoro) cercando di evidenziarne per ciascuna limiti e opportunità. In particolare, è nostra intenzione mettere a fuoco alcune criticità riguardanti la definizione e realizzazione di progetti rivolti ai cosiddetti disabili deboli, convinti che queste difficoltà rivelino, più in generale, alcuni elementi di fragilità dell’insieme delle politiche rivolte alla disabilità. Allo stesso tempo confidiamo nella possibilità che aprire un contesto riflessivo sulle pratiche di inserimento possa in futuro rafforzare politiche e servizi capacitanti (Mozzana, 2008). L’orientamento alla capacitazione Nel dare applicazione alla legislazione nazionale in materia, la Regione Lombardia ha approvato nel 2003 la Legge regionale n. 13 «Promozione all’accesso al lavoro delle persone disabili svantaggiate», che ha istituito il Fondo regionale per l’occupazione dei disabili la cui competenza spetta alle Province. Con tale fondo vengono finanziate iniziative a supporto dell’inserimento lavorativo delle persone disabili e dei relativi servizi di sostegno e collocamento mirato, sostenendo il raccordo della rete tra i servizi per il lavoro, i servizi socioassistenziali, i servizi educativi e formativi presenti sul territorio (art. 9, comma 1). Su questa base, la Provincia di Milano ha predisposto nel 2004 il «Piano per l’attuazione di interventi a valere sul fondo regionale per l’occupazione dei disabili» (Piano Emergo 2004-2006) che cerca di rendere organici interventi prima di allora estremamente frammentati ed eterogenei a livello territoriale. La centralità della persona disabile. Il Piano provinciale riconosce che la centralità della 80 Novembre 9 persona disabile deve essere tutelata curando il rapporto tra le potenzialità di quest’ultima e le disponibilità e le caratteristiche dei posti di lavoro; a tal fine, promuove un’ottica progettuale rivolta alla personalizzazione degli interventi e predispone misure di accompagnamento nel passaggio alla condizione lavorativa. Sono previsti, quindi, interventi articolati e diversificati per offrire strumenti operativi adattabili alle differenti condizioni, possibilità ed esigenze delle persone da inserire al lavoro, al fine di valorizzarne il potenziale e promuoverne un ruolo attivo nel percorso che conduce all’occupazione. In questo modo viene richiamato quel nesso tra «attivazione» e «personalizzazione» considerato criterio chiave per mettere a punto misure di lotta alla disoccupazione efficaci e non discriminatorie (Heikkilä, 1999). L’orientamento complessivo è, infatti, quello di non limitare gli interventi al solo parametro dell’occupabilità (2) ma di perseguire effettive condizioni di capacitazione (Sen, 2000): in questo senso viene promossa la capability for work (Bonvin, Farvaque, 2006) delle persone, secondo una prospettiva che richiede un impegno volto a promuovere una più complessiva integrazione sociale della persona che è condizione essenziale anche per la sua integrazione lavorativa. Le attenzioni dell’orientamento alla capacitazione. In particolare, questo orientamento alla capacitazione è riconoscibile nell’attenzione che viene posta a: le condizioni di accompagnamento, l’ambiente lavorativo e la necessità di curare la conciliazione tra le caratteristiche di quest’ultimo e le esigenze delle aziende; (1) La ricerca è stata condotta dai due autori assieme a Margherita Galliani e Cecilia Guidetti sotto la supervisione di Ota de Leonardis. Ringraziamo il team di ricerca e il Laboratorio per il lavoro comune, gli scambi e le discussioni su questi temi. (2) Per occupabilità si intende la capacità delle persone di essere occupate, di cercare attivamente un impiego, trovarlo e mantenerlo. Si trattava di uno dei quattro pilastri della European Employment Strategy fino al 2004 ed è un criterio che ha guidato e ancora guida le politiche di attivazione nell’ambito dell’inserimento lavorativo. Animazione Sociale luoghi&professioni l’obiettivo del mantenimento del posto di lavoro, nodo critico delle politiche di inserimento lavorativo dei disabili e in particolare dei «disabili deboli»; l’inserimento dei disabili deboli, sia in generale che con la predisposizione di misure ad hoc. Quest’ultimo aspetto testimonia la consapevolezza che le persone più fragili costituiscono un importante termine di riferimento per sorvegliare le dinamiche di selezione ed esclusione (Van Berkel, Hornemann Møller, 2002), che rischiano di essere rinforzate invece che contrastate dalle misure di inserimento lavorativo. Infatti, quando gli interventi non assumono come parametro proprio i beneficiari più svantaggiati, rischiano di limitare la loro efficacia soltanto ai casi che con tutta probabilità avrebbero comunque trovato lavoro. In questo modo risultano poco efficaci nel correggere il funzionamento del mercato del lavoro e rafforzano traiettorie di esclusione sociale. Un orientamento che stenta a tradursi. Come abbiamo visto, il Piano Emergo riconosce a livello di programmazione la necessità di porre attenzione al soggetto disabile, alle sue capacità professionali e relazionali, per strutturare percorsi lavorativi capacitanti, adeguati e pertinenti rispetto alla situazione personale e contestuale. Tuttavia, l’osservazione dei percorsi di inserimento lavorativo, ha evidenziato alcune criticità che sembrano ostacolare l’obiettivo della personalizzazione degli interventi. Nelle prossime pagine discuteremo, sinteticamente, alcuni problemi legati alle diverse fasi del processo di inserimento lavorativo: l’accesso alle misure, la progettazione dell’intervento, la ricerca del posto di lavoro, l’inserimento e il mantenimento del lavoro. Criticità nella fase di accesso I criteri di selezione e di accesso dei beneficiari degli interventi rappresentano un primo elemento a cui guardare per capire se un inserimento lavorativo possa essere considerato capacitante o meno. Animazione Sociale Il certificato di invalidità come unico criterio di valutazione. Innanzitutto va detto che la porta di accesso alle misure, promosse dal Piano Emergo, è costituita dal certificato di invalidità. Questo tuttavia riconosce come pertinenti solamente due tipi di informazioni: il tipo e la percentuale di disabilità, poiché all’interno delle commissioni che certificano l’invalidità il criterio di valutazione fa riferimento – quasi esclusivo – al danno biologico (Coordinamento medico legale Inca Cgil Lombardia, 2009). Le informazioni raccolte sono, in prevalenza, di carattere medico e frequentemente sono le sole che gli enti rilevano per avviare un percorso di inserimento lavorativo. Il rischio è che gli interventi possano essere poco personalizzati e inadeguati a incrociare interessi, abilità e desideri della persona: la certificazione è uno strumento che riduce le caratteristiche della persona alle sue disabilità. Il frame in cui rischiano di essere collocati i disabili è quindi di tipo passivizzante: la persona viene definita «per difetto» come «paziente», «malato», secondo un registro che si scontra con le parole chiave dell’attivazione e della capacitazione, che invece guidano l’orientamento complessivo del Piano. Un circuito che porta alla standardizzazione dei progetti. Unitamente a ciò, la ristrettezza dei tempi e la scarsità di risorse previste dal Piano, assieme alle routine organizzative degli enti, creano un circuito che porta alla standardizzazione dei progetti, come ci racconta il responsabile di un ente: 17 progetti tutti fatti col copia incolla... Io faccio copia incolla, cambio solo i nomi perché altrimenti è troppo lungo e non ci sono i soldi e le persone per farlo. Infatti i destinatari dei progetti, nella maggior parte dei casi, vengono scelti tra una rosa di disabili inviati dai servizi e con cui l’ente ha rapporti consolidati. In pochi arrivano autonomamente, come ci racconta un’operatrice: Vengono dai servizi sociali, via internet, noi non cerchiamo gli utenti, forse è la cosa anomala... noi non chiamiamo la Provincia per avere i nominativi ma ce li invia la scuola con i servizi diretti di sostegno. Poi i servizi territoriali, il Sil, e poi ci sono le famiglie che si attivano da sole. 9 Novembre 81 luoghi&professioni Il fatto che, una persona arrivi spontaneamente all’ente che progetta un percorso, o venga inviata da un servizio di base che lo ha in carico, ha delle ricadute sulle modalità con cui la persona può essere seguita durante il percorso di inserimento. Le criticità nel rapporto con i servizi invianti. Oltre a indicare l’esistenza di un legame con altri servizi (siano essi servizi territoriali pubblici o soggetti privati), il fatto che l’individuo sia inserito in un contesto relazionale e di servizi apre la possibilità per l’ente di poter contare su una rete variabile che, spesso, si rivela determinante per la buona riuscita del progetto. Questo aspetto viene riconosciuto come rilevante, in particolare, durante l’inserimento, come osservano due diversi operatori: Sono stati molto importanti i rapporti con i servizi, perché lo psichiatrico che improvvisamente non prende più i farmaci è un bel problema. E poi non tutte le aziende sono disponibili a un lavoro di questo tipo e, soprattutto, l’azienda richiede di avere un supporto territoriale, un riferimento, perché sanno benissimo che poi noi non ci siamo più. Non è che non ci siamo più ma non abbiamo, magari, la possibilità di intervenire. Però vogliono un appoggio sul territorio, perché sanno, come sappiamo tutti, che ci saranno dei problemi, delle crisi. Se si fa un lavoro buono con il servizio, non si hanno poi grossi problemi. Io ho incontrato delle difficoltà nella selezione dei disabili da far partecipare. A rifarlo probabilmente mi appoggerei di più ai servizi sociali o ai servizi che già conoscevo, perché mi sono accorto che, facendo così, è più facile seguire una persona e puoi sapere la sua storia, perché gli assistenti sociali magari la seguono già e poi possono andare avanti a seguirla e a dare un supporto anche dopo. In alcuni casi, tuttavia, questo legame può essere allo stesso tempo un vincolo perché si corre il rischio che venga data una definizione della situazione del disabile come «non recuperabile» e del disabile come «non inseribile», e questo comporta automaticamente l’inserimento in percorsi di tipo assistenzialistico. Quando ciò avviene, le persone rimangono intrappolate in una serie di misure di tipo paternalistico, orientate prevalentemente a riprodurre la situazione esistente, piuttosto che ad attivare le capacità del disabile. Come sostenuto da un’operatrice, questo rischio in82 Novembre 9 veste, in particolare, le persone con disabilità di tipo psichiatrico: Per l’utenza psichiatrica ci sono quelli che noi chiamiamo i laboratori, che servono a tenere operativi degli utenti che difficilmente usciranno, quindi il laboratorio di tessitura e quello di cartonaggio. Però è una sfera particolare. Anche a causa di altri fattori, come vedremo, tali dinamiche conducono a procedure di scrematura del rischio (Gori, 2004) attraverso cui i disabili deboli vengono scartati perché considerati non reinseribili. Un approccio capacitante dovrebbe consentire ai servizi di effettuare procedure di selezione che definiscano progetti e percorsi diversi a seconda della persona e più o meno strutturati a seconda delle sue aspettative, dei suoi desideri e della sua situazione. Criticità nella fase di progettazione L’impulso a lavorare in una logica di progettazione è stata una di quelle maggiormente recepite dagli enti. Tuttavia, al momento della ricerca, la progettazione era ancora un’attività interpretata come una fase di lavoro da portare avanti con tempi e modalità poco dispendiosi. Il Piano non ha previsto incentivi specifici per questa fase e questo – unito alle abitudini e alle routine organizzative dei servizi – ha fatto sì che, spesso, si facesse ricorso a un modello standard di progetto, a scapito di elementi di personalizzazione e capacitazione. Il prevalere di una logica «di collocamento». Spazi di confronto con altri soggetti o servizi di riferimento del beneficiario sono stati scarsi e il coinvolgimento dello stesso beneficiario inesistente. Come segnala un’operatrice dell’inserimento lavorativo: No, la progettazione l’abbiamo sempre fatta noi come servizio o all’interno delle équipe. Poi è diventata anche una fotocopia perché diventa un’attività di routine, si mette in atto un sistema abbastanza automatico. La prima volta ci abbiamo messo un po’ più la testa, dopodiché meno. Inoltre, in alcuni casi, è prevalsa una logica che può essere definita «di collocamento», soAnimazione Sociale luoghi&professioni prattutto per quegli enti che partono, abitualmente, dalle richieste delle aziende. In questi casi i progetti sono stati disegnati su misura più delle esigenze di queste ultime che delle caratteristiche, capacità e potenzialità delle persone. Ma anche in quegli enti in cui la progettazione parte «dalla persona», spesso i tempi stretti e l’incertezza degli esiti hanno spinto a definire i progetti con modalità standardizzate. Tuttavia, se il Piano ha incentivato e promosso una logica della progettazione, questa però si è combinata in modi diversi – a seconda delle culture e pratiche operative degli enti – senza che abbia prodotto, al momento della ricerca, sostanziali trasformazioni nel loro modo di lavorare. L’adattarsi alle routine organizzative. Le misure del Piano sono state in gran parte piegate e adattate alle esigenze e alle routine organizzative di ogni singolo ente e restano differenze significative. In alcuni casi gli interventi sono stati «diluiti» nel lavoro svolto, quotidianamente, dalle équipe dei servizi, senza portare a sostanziali cambiamenti nelle prassi, nella composizione e nel numero degli addetti. In altri, invece, si è verificato solo un ampliamento del numero di operatori, attraverso il ricorso a personale a progetto. Come testimoniato da un operatore: Lavorano adesso due, poi quattro o cinque esterni. Credo sia proprio un aspetto critico perché non cresciamo nella professionalità, così non potremo mai farlo. È un modello con una forte presenza di operatori. Questo permette una grossa continuità con le persone, e io lavoro con le stesse persone da sempre, sia che abbiano un contratto a tempo determinato, o a prestazione a seconda della richiesta dell’interessato. Però tendiamo a mantenere le stesse persone, da 10 anni a questa parte contiamo più o meno sulle stesse risorse, perché all’inizio abbiamo fatto molta formazione, perché gestiamo questi progetti con una riunione di équipe settimanale per monitorare e tarare i processi identificati per l’allievo. L’operato degli enti, dunque, è rimasto caratterizzato da un notevole grado di differenziazione. La differenza principale emerge tra gli enti che tendono a interpretare l’inserimento lavorativo come un «servizio alle aziende» – configurando progetti e percorsi in coerenza Animazione Sociale con le esigenze di queste ultime e lavorando con una logica da agenzia di collocamento – e gli enti che lavorano a partire dalla «presa in carico» dell’utenza, che configurano progetti e percorsi a partire dalle persone disabili, secondo una logica tipica dei servizi di assistenza. I rischi di una progettazione completamente interna all’ente. Anche per quanto riguarda la creazione di una rete tra i vari soggetti che gravitano nel campo dei servizi alla persona, il Piano sembra non aver avuto grossi effetti. Dal punto di vista della capacitazione, la costruzione di relazioni e scambi tra i diversi soggetti può essere una base solida per strutturare un progetto capacitante e comprensivo di tutte le sfere della persona, anche perché il loro coinvolgimento, o mancato tale, comporta cambiamenti significativi nell’organizzazione (Bifulco, 2005). Nel caso in cui ci sia un forte coinvolgimento, si profilano due situazioni: la prima è quella in cui si riesce a trovare consenso tra operatori, famiglia, servizi e destinatario così da creare una sinergia che supporti la persona; la seconda è quella in cui questi stessi attori si sostituiscono alla persona disabile, considerata troppo debole e dunque incapace di scelte e decisioni. Il rischio è che questi ultimi siano orientati in senso protettivo e che, se coinvolti eccessivamente nella progettazione del percorso, abbiano la tendenza a prenderne le veci, riproponendo un quadro della persona come impossibilitata a un reale percorso di autonomia. Nella fase di progettazione, tuttavia, questo tipo di coinvolgimento non sembra avere riscontro: la progettazione rimane completamente interna all’ente, nessun soggetto esterno viene coinvolto, siano queste associazioni, famiglie o servizi territoriali, cosa che accade, in parte, nella fase di implementazione del progetto. Anche i beneficiari dell’intervento non vi partecipano, in alcuni casi perché la progettazione è guidata principalmente dalle esigenze delle aziende. Tuttavia, anche nei casi in cui la progettazione parte «dalle persone», i tempi 9 Novembre 83 luoghi&professioni stretti, il fatto che non ci sia certezza sull’approvazione del progetto e che questa fase non sia retribuita fanno sì che si cerchi di portarla avanti con modalità autoreferenziali, veloci e poco dispendiose. In questo modo, però, le persone disabili non hanno la possibilità di esercitare la propria libertà di scelta e attivare un processo di capacitazione. In tale senso sono esplicative le parole di un operatore: Sì, per la progettazione ho fatto tutto io. È stato fatto da me con il mediatore, una figura diversa da me che ero quello visto più come il responsabile di tutto. Criticità nella ricerca del posto di lavoro Per quanto concerne la ricerca del posto di lavoro gli enti e i servizi sembrano lavorare principalmente secondo due logiche organizzative: con un approccio centrato prevalentemente sull’abbinamento tra destinatario dell’intervento e azienda in cui si svolge l’inserimento lavorativo (matching); con un approccio centrato prevalentemente sui destinatari degli interventi (presa in carico). Se i criteri seguono la logica del matching. Quando i criteri che guidano la scelta del posto di lavoro operano seguendo la logica del matching e si parte dalle disponibilità e necessità delle aziende, la disabilità rischia di diventare un vero e proprio fattore di esclusione. Come analizza in modo chiaro e puntuale un’operatrice parlando delle modalità e dei vincoli di finanziamento posti dal Piano Emergo: Io non posso dare una garanzia, possono intervenire talmente tanti fattori che non hai idea di come andrà. Solo che questo ti limitava tantissimo anche nella scelta dei ragazzi da inserire. Se avevi un ragazzo che potenzialmente avrebbe potuto farlo però magari non eri certo alla fine non lo mettevi. Sulla psichiatria non è realistico che alla fine tutti e sei vadano a lavorare. Allora se mettiamo vincoli troppo rigidi di successo creiamo ancora i disabili deboli, perché nessuno farà più corsi per la psichiatria. 84 Novembre 9 D’altro canto gli enti che lavorano con una logica di questo tipo hanno una maggior abilità nell’intercettare le aziende e una particolare attenzione alle dinamiche lavorative, sia a livello micro (il singolo posto di lavoro), sia a livello macro (le dinamiche del mercato del lavoro in generale). L’attività di inserimento lavorativo, in questi casi, rischia di collassare sulla logica del collocamento lavorativo: partire dalle disponibilità di posizioni lavorative fa sì che gli enti selezionino, prevalentemente, persone adatte a mansioni date, piuttosto che lavorare con le capacità delle persone. Sembra che ci si avvicini più a una logica di selezione del personale che non a una di capacitazione e sostegno di persone fragili. Se i criteri seguono la logica della presa in carico. A sua volta l’approccio della presa in carico ha il suo principale punto di forza nella continuità della responsabilità del servizio rispetto al destinatario, precondizione per la promozione delle capacità della persona disabile. Noi proponiamo un servizio di mediazione dalla A alla Z, quindi un primo contatto, un orientamento, un periodo di osservazione magari in stage, uno stage occupazionale, l’assunzione in cui si cerca di seguire con la Provincia un percorso che ha una sua logica per processi. Cerchiamo di adattare queste azioni per processi a dispositivi diversi e puntuali delle misure. Il monitoraggio lo facciamo da sempre, e vengono fuori sempre problemi soprattutto su pazienti psichiatrici e quindi vale la pena utilizzarlo. Non inventiamo niente di nuovo rispetto a prima, ma lo facciamo più schematizzato. La debolezza di questo approccio risiede nel fatto di non sviluppare un sistema di relazioni con il mondo del lavoro non protetto, e nell’essere orientato a mantenere legami con competenze e relazioni interne all’ambito dei servizi assistenziali. Se questo permette di porre l’attenzione nel supportare la persona nelle sue difficoltà, rischia tuttavia di inserire i destinatari di queste politiche in registri passivizzanti («paziente», «malato», «assistito»), che rendono impossibile l’attivazione e la capacitazione richieste da politiche di inserimento lavorativo efficaci. È in questi casi che, spesso, si avviano percorsi di tipo assistenzialistico attraverso Animazione Sociale luoghi&professioni forme di lavoro protetto (tirocini, laboratori), che possono essere definite delle vere e proprie «carriere da tirocinante», in cui si passa da un tirocinio protetto all’altro, senza che si riesca a definire un percorso di indipendenza e capacitazione del soggetto disabile. La ricerca di un lavoro di qualità. Un’ultima questione da mettere in luce, relativa alla ricerca del posto di lavoro, riguarda la sua qualità. Si tratta di una dimensione che spesso viene tralasciata a favore di valutazioni di tipo quantitativo (quante persone sono state inserite e, a oggi, lavorano?), ma le dinamiche del mercato del lavoro, così come una postura assistenzialistica di alcuni servizi, rischiano di relegare i disabili a «lavori specifici da disabili» in contesti lavorativi marginali e immiserenti senza valorizzarne le capacità. Nella maggior parte dei casi le posizioni che vengono aperte per i soggetti disabili sono di tipo residuale e non mirano a una progressione delle competenze: La grande distribuzione, magazzino, uffici, ristorazione: coi ragazzi con disabilità psichiche è difficile creare postazioni più difficili e più alte dell’ufficio. Per le donne cooperative di pulizie, mensa. Per gli uomini soprattutto la grande distribuzione, magazzinieri oppure nei centralini. Nei casi in cui si ha a che fare con mansioni più complesse, si selezionano le persone non in base alle loro capacità, ma al tipo di disabilità, con la conseguenza che i soggetti più deboli rimangono «intrappolati» in percorsi di tipo assistenziale. Noi facciamo solo informatica, però poi il Cfp fa anche altri corsi, più somiglianti a una scuola media, ci sono i corsi che si occupano di ristorazione, di segretariato, però quelli sono per ragazzi con forti disabilità. Qui arrivano solo quelli che sono soggetti deboli o disabili fisici che però intellettivamente ci sono. Criticità nell’inserimento al lavoro Come abbiamo visto, spesso i soggetti più deboli vengono selezionati solo per percorsi Animazione Sociale estremamente protetti e molto poco capacitanti. Il fatto che queste persone non diano garanzie sufficienti di successo (ma – al contrario – sia quasi certo l’insuccesso) fa sì che la disabilità diventi un fattore di esclusione irreversibile. Situazioni di particolare fragilità vengono dunque considerate «pericolose», a motivo dell’incertezza del successo che coincide con l’assunzione finale. Invece di mettere a punto un percorso maggiormente strutturato e sostenuto (attraverso il sostegno dei servizi, della famiglia, del contesto sociale e relazionale della persona), si adotta la soluzione di non scommettere su queste persone. Il delicato processo di costruzione di una rete di supporto. L’esistenza di un sistema di opportunità coeso e integrato (fra servizi, famiglie, terzo settore) sarebbe invece fondamentale per la buona riuscita dei progetti più complessi. Allo stato attuale, il delicato processo di costruzione di questa rete di supporto è del tutto affidato alla capacità dei servizi di tessere rapporti caso per caso, o confida nell’attivazione «spontanea» delle famiglie, o della rete di prossimità della persona disabile. Questo è vero, soprattutto, nel caso dei disabili deboli: le relazioni con i servizi invianti in molti casi si limitano alla fase iniziale di invio, in altri invece costituiscono una parte importante del lavoro quotidiano degli operatori, attraverso un coinvolgimento frequente nella verifica in itinere dei percorsi e nelle fasi più critiche. A me è capitato, ad esempio X era in cura al Cps ed è stato fondamentale. Non puoi occuparti del percorso di una persona se non conosci quello che sta facendo e quelli che sono i suoi problemi, quindi io sono andata diverse volte e ho sentito spesso il suo psicologo e lo psichiatra che la curava mentre facevo l’inserimento lavorativo, anche perché all’inizio lei prendeva un sacco di psicofarmaci, che la rimbambivano un po’ e questo si sentiva tanto al lavoro. Quindi parlando con lei abbiamo deciso di parlare di questo problema al medico, in modo che magari glieli potesse diminuire un po’ e lei potesse lavorare meglio. La debolezza della rete tra i servizi, favorisce invece l’insuccesso. Come lo favorisce il mancato coinvolgimento del beneficiario, condizione invece preliminare per avviare 9 Novembre 85 luoghi&professioni un percorso di capacitazione e indipendenza (Monteleone, 2005). Un’impostazione lavorista. Nella maggior parte dei casi, la persona disabile non procede per gradi nel diventare responsabile e autonoma nel e del proprio contesto lavorativo. Molto spesso i beneficiari non sono resi partecipi delle decisioni che concernono i loro percorsi e tempi, mansioni e modalità del tirocinio sono per lo più concordate tra operatori degli enti e rappresentanti aziendali: Ci sono tre momenti canonici della verifica: quello della presentazione, il primo incontro che facciamo con l’azienda e con il responsabile che ha deciso la collaborazione. Poi c’è un secondo momento di verifica nel corso del tirocinio, sempre con questa persona, e una verifica finale con il referente. Poi gli altri sono incontri di percorso che fanno loro, però queste tre sono in genere abbastanza standardizzati. Però il lavoratore in genere non c’è in queste cose, salvo occasioni particolari. La criticità più evidente di questa strategia è la mancanza di un accompagnamento all’autonomia. Volendo evitare situazioni di confronto difficili o impegnative, i tutor si sostituiscono alla persona disabile nel rapporto con l’azienda, con il rischio di creare una dipendenza eccessiva e, di conseguenza, un vuoto al momento della chiusura del progetto. Io generalmente preferisco avere a che fare singolarmente con ogni soggetto, questo per evitare una serie di problematiche varie. Chiaramente se io parlo con l’utente e c’è anche il datore di lavoro, l’utente più di tanto non parla, si sente fortemente in soggezione. Normalmente noi preferiamo fare colloqui separati, quindi parliamo con l’azienda e poi parliamo con il ragazzo, in modo da non metterlo in una situazione imbarazzante. Un’impostazione lavorista, come quella del Piano, non permette ai servizi di affrontare con i giusti strumenti questi percorsi e non amplia le prospettive di capacitazione: un impianto che si basa così fortemente sul lavoro come unico scopo non sembra adatto a creare capacitazione. L’impatto della flessibilità. Infine, un ultimo fattore di ordine macro che deve essere sottolineato in questa fase dell’inserimento lavorativo, 86 Novembre 9 è relativo ai cambiamenti strutturali del mercato del lavoro. La flessibilità del mercato del lavoro, la creazione di posti a tempo determinato sono fenomeni che investono anche questo tipo di mansioni e il mercato occupazionale rivolto ai disabili. Le parole di un’operatrice intervistata inquadrano con lucidità questo ordine di problemi: Sono stati molto bravi perché per la prima volta hanno raccolto un suggerimento, è stato quindi ottimo riuscire ad avere il dispositivo sul mantenimento del posto di lavoro. È la prima volta che lo facciamo tutti, ed è importante. Io chiudo il primo adesso, in questi giorni, però il problema è che ormai è un dispositivo superato perché il mio giovanotto di 25 anni non lavorerà mai per tutta la vita nello stesso posto, esattamente come una qualunque persona che si presenta sul mercato del lavoro in questo momento. Quindi il mantenimento bisogna ripensarlo, perché deve essere non del posto di lavoro ma di opportunità lavorative. Secondo me è un dispositivo che andrebbe utilizzato anche per un allievo disabile che chiude un contratto, e quindi nel momento tra un contratto e l’altro, perché è quello il momento di vera crisi per la persona. Questo mantenimento andava bene nel ’95. Ormai è obsoleto, bisogna mettersi in testa che anche gli allievi disabili non lavoreranno in un posto solo tutta la vita, Attenzione che il mondo del lavoro cambia anche per i disabili, non solo per gli altri. Quale accompagnamento? Come abbiamo visto, il Piano provinciale riconosce la «centralità della persona disabile», mettendo in campo misure articolate e diversificate per offrire strumenti operativi adattabili alle differenti situazioni personali. L’intento dichiarato è quello di produrre condizioni di occupazione attraverso la promozione delle capacità delle persone, con un’attenzione specifica rivolta ai cosiddetti disabili deboli. Nel momento in cui questo strumento viene implementato, l’attività di inserimento lavorativo tende a collassare sulla logica del collocamento lavorativo: in alcuni casi le procedure di «selezione del personale» sembrano prevalere sulla necessità di sviluppare percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro. In generale sembra che sia ridotto lo spazio che potrebbe permettere ai servizi di promuovere quelle condizioni di capacitazione che Animazione Sociale luoghi&professioni vengono riconosciute dallo strumento. La sua logica prettamente lavorista limita il lavoro dei servizi, e racchiude il loro margine di manovra in spazi confinati alla gestione di un intervento molto stretto tra obbligo di inserimento e una tempistica rigorosa. Nonostante ciò i servizi in pochi casi sono stati in grado di modificare le loro modalità di lavoro e, anzi, hanno nella maggior parte dei casi adattato le possibilità del Piano Emergo alle loro routine di lavoro. Perché invece un percorso di inserimento lavorativo possa dirsi capacitante, in particolare per le fasce più deboli della disabilità, sarebbe opportuno avere servizi in grado di accompagnare la persona in un percorso che, per gradi, riesca a ridarle capacità di scegliere la propria vita, partendo da una base di diritti solida ed esigibile: difficilmente, diversamente, si potranno avere forme di personalizzazione degli interventi capaci di supportare gli individui nel fondare saldamente i propri progetti di vita (Bifulco, Vitale, 2005). Solo in questo modo, dunque, si può dotare l’individuo di quelle capacità e strumenti che gli permettano di ascoltare il passato, analizzare il presente e «padroneggiare l’avvenire» (Castel, 2004). De Leonardis O., Principi, culture e pratiche di giustizia, in Montebugnoli A. (a cura di), Questioni di welfare, FrancoAngeli, Milano 2002. Gori C., I livelli essenziali, in Gori C. (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia. L’attuazione della 328 e le sfide future, Carocci, Roma 2004, pp. 55-68. Heikkilä M. (a cura di), Linking Welfare and Work. European Foundation for Improvement of Living and Working Conditions, Dublin 1999. Monteleone R., La contrattualizzazione nelle politiche socio-sanitarie: il caso dei vouchers e dei budget di cura, in Bifulco L. (a cura di), op. cit., pp. 101-115. Mozzana C., I servizi a servizio delle capacità delle persone, in «Animazione Sociale», 3, 2008, pp. 14-22. Sen A. K., La diseguaglianza. Un riesame critico, il Mulino, Bologna 2000. Sen A. 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