Cuneo, 8 ottobre 1999

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Provincia di Cuneo
Nuove opportunità per l’inserimento lavorativo dei disabili- L. 68/99
Cuneo, 8 ottobre 1999
Le nuove opportunità sociali e culturali della legge 68
di Flavio Cocanari
Premessa
E’ pensabile affermare il diritto al lavoro dei disabili con la semplice
approvazione di una legge?
Mi rendo conto che a pochi mesi dall’approvazione della nuova legge, in un
seminario in cui si intende riflettere sul diritto al lavoro delle persone disabili , una
battuta del genere può essere scambiata per una inopportuna provocazione.
In effetti, sappiamo tutti che la legge è preliminarmente necessaria a qualsiasi
strategia di costruzione della cultura dell’integrazione, del coinvolgimento degli
attori del mondo del lavoro, dell’organizzazione dei servizi nel territorio.
Del resto, questa legge noi l’abbiamo ricercata a lungo e ci abbiamo lavorato con
impegno da tutti i fronti.
Eppure, è necessario avere chiaro l’obiettivo ultimo di questo impegno. E’
necessario chiarire il quadro di fondo, i soggetti di riferimento, le finalità.. Non
possiamo accontentarci di affermare un diritto e di indicare alcune norme generali
per il suo perseguimento.
Il diritto al lavoro deve essere una componente riconosciuta dei diritti generali
della persona e deve essere parte del percorso di definizione dei suoi obiettivi e
delle sue strategie.
Il diritto al lavoro non può sovrastare la persona, condizionandola.. E’, invece, da
questa che occorre partire: non semplicemente per comprenderne i desideri e le
aspettative rispetto ad un’attività lavorativa, quanto le sue scelte - nonostante i
condizionamenti che può vivere - i suoi percorsi nell’interezza della sua
esperienza.
L’obiettivo va quindi individuato nell’apertura di opportunità per la crescita delle
competenze (professionali e non solo), che si possano riflettere nella costruzione
dell’autonomia e delle scelte di vita della persona .
Il compito che abbiamo di fronte – al di là della vigenza di una legge - è ben più
difficile ed articolato dell’inserimento di una persona disabile in un posto di
lavoro .
D’altra parte, non si tratta di sostituire una legge coercitiva con una di tipo
incentivante. Questo è già un buon risultato.
Si tratta, piuttosto, di uscire fuori dalla logica mercantilistica, per cui l’inserimento
lavorativo ed il percorso verso l’inserimento è oggetto di contrattazione e di
“messa in luce” di una serie di convenienze delle parti in causa.
Potremmo dire che la persona non si contratta: ma non è con una battuta ad effetto
che risolveremmo il problema.
Si tratta di entrare in un rapporto diretto con la persona, nella ricerca e nella
considerazione delle sue opzioni espresse, inespresse o inesprimibili. Rispetto a
questa ipotesi il lavoro è solo un elemento funzionale e può entrare in gioco nelle
maniere più disparate.
Ciò starebbe ad indicare che l’idea del diritto al lavoro deve tradursi in
costruzione delle condizioni dell’incontro tra la persona e le strutture produttive:
quelle specifiche del territorio in cui la persona vive ed è inserita.
L’inserimento della persona disabile in una struttura produttiva va focalizzato in
rapporto al percorso di definizione del suo ruolo e dei suoi obiettivi: nel processo
produttivo, nelle specifiche attività lavorative, nella vita sociale.
Per fare ciò è necessario mettere sotto osservazione le caratteristiche (in positivo
e in negativo, in un dato momento e nella sua dinamicità) dell’ambiente sociale ed
economico in cui questa persona chiede di entrare.
Tutto ciò dovrebbe significare che l’inserimento lavorativo non può essere il frutto
di atti di forza, perché le resistenze che poi si svilupperebbero potrebbero
comportare il rifiuto del lavoro da una parte e il rifiuto della persona inserita
dall’altra.
Vi sono però due obiezioni a quanto sinora affermato.
1. Non possiamo pensare che nella ricerca di un rapporto armonico e non
conflittuale tra persona e ambiente sociale i problemi (e le aspettative) tendono a
risolversi spontaneamente. Al contrario, occorre costantemente sperimentare
elementi innovativi, verificandone le conseguenti reazioni, puntando a valorizzare
le nuove aperture. In altri termini, non possiamo adagiarci in atteggiamenti
scettici (o avallarli) né possiamo pensare di risolvere tutto con meccanismi
istituzionali, operativi (e culturali) cristallizzati o tendenti alla burocratizzazione e
alla ripetitività.
2. L’aver messo l’accento sull’importanza dell’itinerario verso l’inserimento non
deve farci illudere che una volta realizzato l’inserimento tutto sia stato compiuto.
Tutt’altro! Questo dovrà essere monitorato, sostenuto e adattato giorno per giorno.
Cerchiamo ora di dare un po’ di concretezza al nostro ragionamento.
Quale inserimento lavorativo
Oggi, ci troviamo di fronte al compito di reimpostare il significato
dell’inserimento lavorativo delle persone disabili. Questo dovrebbe abbandonare
la sua funzione indennizzatoria per assumere quella di parte di un progetto di
crescita e di vita.
A questo fine possiamo scorgere nella nuova legge le opportunità di superamento
di due elementi che ancor oggi dominano il sistema: - la categorialità e la
valutazione su basi tabellari della residua capacità lavorativa.
Questi due elementi sono finalmente ridimensionati:
- dall’istituzione della lista unica, che facendo convergere tutti i disabili delle
diverse categorie, supera le riserve categoriali;
- dai nuovi criteri di valutazione delle condizioni di disabilità (per le invalidità
civili) che il Presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe emanare con un
suo atto di indirizzo.
Su questi due punti si gioca gran parte dell’impatto innovativo della legge 68.
Diventa così più credibile la possibilità che ogni percorso di inserimento
lavorativo muova da una valutazione delle condizioni della persona, della sua
storia, delle sue aspettative, delle sue difficoltà e delle sue abilità, della sua
domanda di futuro.
Si aprono nuove possibilità di riconoscere la persona non in funzione della causa
della sua disabilità (lavoro, guerra, servizio ....) ma in funzione di quanto
manifesta e dei percorsi (riabilitativo-formativi) in cui si inserisce. Realizzare
inserimenti quindi non dovrebbe significare più guardare al passato (da cosa sei
stato danneggiato e quanto) con intenti indennizzatori ma guardare al futuro, con
l’intento di aiutare la persona nella costruzione del suo progetto.
La stessa persona dovrebbe essere riconosciuta nella sua unicità e nella sua
dinamicità e non scomposta sulla base di tabelle percentuali o numeriche.
La persona disabile che di conseguenza chiede o accetta di inserirsi in un (più o
meno) articolato percorso che dovrebbe portarlo all’inserimento lavorativo
reclama, con lo sguardo rivolto al suo futuro, nuove possibilità di autonomia e non
di risposte assistenziali.
Si dovrebbe accantonare finalmente quella logica dell’assunzione lavorativa che
tante volte aveva come effetto una passivizzazione ed una colpevolizzazione della
persona nel suo ambiente lavorativo.
In questo momento – tenendo conto che un gruppo di esperti è al lavoro per
elaborare la direttiva del Presidente del Consiglio in questione - non siamo sicuri
delle scelte che verranno compiute. Il rischio che si crei un sistema in cui
coesistono diversi sistemi di accertamento è concreto. E’ possibile che ad un
sistema di accertamento basato sui parametri tabellari per la valutazione della
riduzione della capacità lavorativa (r.c.l) finalizzato all’individuazione delle
persone (invalide civili) che entrano nel sistema per l’inserimento mirato, venga
affiancato un altro sistema per una confusa valutazione (affidata alle commissioni
di cui all’art. 4 della legge 104/92) delle “condizioni di disabilità” e che, solo sulla
base di questa valutazione, possa essere attivato un terzo sistema teso a valutare
gli elementi specifici1 per la formulazione del progetto di inserimento mirato
(affidato al “comitato tecnico”).
1
La lettera b) del comma 2 dell’art. 6 della legge in questione attribuisce al Comitato tecnico
i compiti relativi “alla valutazione delle residue capacità lavorative, alla definizione degli
strumenti e delle prestazioni atti all’inserimento …”
Nonostante queste perplessità (che si rafforzano dalla considerazione che per le
invalidità delle altre categorie il percorso di valutazione rimane differenziato)
oggi abbiamo elementi per poter essere fiduciosi in una nuova prospettiva di
inserimento mirato.
In altri termini, sia pure con il solo riferimento alle invalidità civili (oggi
schiacciante maggioranza sul fronte delle invalidità) e sia pure con le incertezze
rispetto al passo coraggioso (accantonamento di criteri di valutazione tabellare ed
adozione di criteri derivanti dalla Classificazione Internazionale delle
Minorazioni, delle Disabilità e degli Handicap, ICIDH2) che nel nostro Paese
potrebbe essere compiuto si apre la possibilità che nelle singole situazioni
territoriali si costituiscano strutture e si sperimentino metodologie di lavoro di
“personalizzazione” della tecnica di inserimento lavorativo.
La complessa innovazione legislativa (la legge 68/99, il decreto legislativo
469/97, le conseguenti leggi regionali) che ci si trova a gestire apre nuove
possibilità. Si apre oggi la prospettiva di riconoscere e consolidare le esperienze
di “inserimento mirato” gestite finora “spontaneamente” (sia pure con l’appoggio
di norme regionali, delle vecchie strutture per l’impiego e delle autonomie locali)
dai servizi territoriali (di emanazione delle autonomie locali, delle Usl, delle
Agenzie per l’impiego e così via)
La scommessa è che queste esperienze diventino cultura e diventino alla lunga
pratica quotidiana. Perché ciò si realizzi è però necessario che, al di là delle
indicazioni della legge, si sperimentino e consolidino nuovi canali di
comunicazione tra strutture preposte alla valutazione, servizi riabilitativoformativi, servizi per l’impiego.
Vanno, cioè, rielaborati ed armonizzati i linguaggi e vanno garantiti costanti flussi
di informazione e di verifica.
Il punto di maggiore difficoltà è infatti nell’acquisizione e nel trasferimento delle
informazioni relative alla persona ed alla sua capacità di interagire nella comunità
e nell’ambiente. A questo proposito è pure utile che la legge specifichi le
competenze dei componenti del “comitato tecnico” ma ancor più servirà che
questo si dia un metodo di lavoro in grado di metterlo in costante rapporto con le
strutture di servizio del territorio, idonee a fornire informazioni ed intervenire
costantemente a sostegno del percorso delineato o a correggerlo. In questa ricerca
di continuità tra percorso educativo-formativo e riabilitativo-adattivo e dello
stesso inserimento nel sistema produttivo sarà importante che questa struttura di
progettazione e di regìa sia in grado di realizzare connessioni con tutte le realtà
che nel territorio prestano servizi (tra cui quelle riconosciute dagli articoli 17 e 18
della legge 104/92) e quindi anche di natura sociale e non solo istituzionale.
Mirato su chi
Ma chi e cosa deve essere oggetto degli interventi di questo coordinamento di
risorse? Siamo sicuri che l’unico riferimento per gli interventi ai fini della
realizzazione di un inserimento mirato debba essere la persona? In effetti, la
persona è solo una delle polarità. Inserimento mirato però non significa percorso
di riadattamento della persona. Significa anche riorganizzare il mondo produttivo3
2
International Classification of Impairment, Disability and Handicap,
approvata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ginevra, 1980
3
Per entrare nello specifico delle questioni in discussione in questi giorni – in vista della
per renderlo aperto, accessibile e vivibile (e partecipato) a tutti i lavoratori.
Significa intervenire sulla cultura collettiva per rimuovere quelle tenaci idee
secondo le quali la soluzione più facile è “dare una pensione” a chi fa fatica ad
inserirsi. Significa far comprendere che una società che riceve il contributo da
persone diverse è sicuramente una società più ricca e ben più capace di crescere e
di adattarsi al nuovo, vincendo sfide che le società chiuse e cristallizzate neanche
riescono ad intravedere prima di essere soffocate.
Inserimento mirato, quindi, deve avere il significato di un’azione che si prolunga
nel tempo perché vi siano sempre nuove condizioni di incontro tra una persona e
una struttura produttiva. Incontro che si può realizzare solo a condizione di un
convinto sostegno della collettività e di una concreta rete di servizi che parte da
precise scelte di tutta la società.
Quale lavoro per quale persona.
Nel riferirci a specifici “progetti di vita” da formulare, da verificare o da sostenere,
non possiamo pensare che il lavoro abbia lo stesso valore in situazioni
differenziate e per persone diverse. Il “valore lavoro” è costantemente rivisto e
messo in discussione. Sempre di più il “tempo-lavoro” è subordinato alle esigenze
del “tempo-vita”. Questa “revisione” ha maggior valore per una persona disabile o
handicappata, per la quale il raggiungimento dell’obiettivo inserimento lavorativo
è funzionale alla verifica del proprio percorso di crescita e della propria capacità
di autonomia. L’inserimento lavorativo diventa obiettivo secondario dello stesso
percorso e diventa occasione di nuove possibilità relazionali. Diventa possibilità
di affacciarsi su un nuovo mondo e su una nuova vita prima impensabile. Proprio
per questo sarebbe sbagliato pensare all’inserimento lavorativo come ad un atto
conclusivo o ad un diritto elementare da conseguire subito e senza passaggi
intermedi.
Una volta conseguito questo diritto, una volta realizzato l’obiettivo vanno lasciate
tutte aperte le possibilità di ulteriori percorsi e passaggi, prevedendo anche la
possibilità di un ridimensionamento del significato del lavoro nel percorso di
crescita e di ridefinizione costante della persona.
Una legge più europea.
emanazione dei decreti attuativi – dovremmo interrogarci sul senso che può avere la
discussione su quali strutture produttive possono ottenere l’esonero parziale dall’obbligo di
legge, se questo esonero non lo si raccorda con una prospettiva di riadattamento degli stessi
e se non si cerca di individuare in ciascuno di essi gli spazi (mansioni) accessibili alle
persone in diversa condizione di disabilità.
Non si tratta di una battuta demagogica. Non professiamo l’idea dell’inserimento ad ogni costo,
tutt’altro! Si tratta piuttosto di entrare nello specifico della logica dell’inserimento mirato
puntando – se necessario - anche al capovolgimento dell’obiettivo del “matching” abbinamento capacità-mansioni - per giungere al suo contrario, ratificando non tanto
l’esonero parziale dall’obbligo di un’impresa (magari in virtù del generico concetto di
“faticosità”) quanto l’incollocabilità in determinate e specifiche attività e strutture produttive
di persone con particolari minorazioni e condizioni di disabilità.
In coerenza con l’abbandono della logica della categorialità e dell’approccio
indennizzatorio, la legge punta ora al coinvolgimento delle diverse componenti
della società e dei diversi attori sociali.
La riduzione della quota d’obbligo al 7%, che, pur rimanendo la quota più alta , si
avvicina ora alla media di quelle in vigore nei diversi Paesi europei va vista in
raccordo al sistema di incentivi. Il mix di strumenti vincolistici ed incentivanti
dovrà però trovare il suo equilibrio più avanzato in rapporto alle specifiche
indicazioni che scaturiranno dai progetti di inserimento mirato.
Tra questi, sia pure di natura diversa, dobbiamo considerare:
- la chiamata nominativa,
- le specifiche soluzioni contrattuali,
- la fiscalizzazione degli oneri sociali,
- i contributi al riadattamento del posto di lavoro,
- la disponibilità di tutors,
- specifici servizi di consulenza e sostegno continuo
L’obiettivo preliminare da non perdere di vista è la realizzazione di interventi di
sostegno in grado di convincere il datore di lavoro del fatto che l’inserimento di
persone disabili nella sua struttura produttiva non costituirà intralcio alla sua
attività e soprattutto del fatto che egli non verrà lasciato solo nella gestione delle
eventuali difficoltà dell’inserimento lavorativo.
Allora, ancor più delle singole misure agevolative, sarà importante aprire
confronti con i datori di lavoro e le loro organizzazioni di rappresentanza per
pervenire ad accordi e a convenzioni in cui tutti i termini e gli strumenti
dell’inserimento vengono previsti ed organizzati, tenendo conto delle valutazioni
dello stesso “comitato tecnico” e delle indicazioni dei singoli progetti.
Qui la legge però, nell’indicare il vincolo della gravità (in percentuali) segna il
passo. Qualunque percentuale di riduzione della capacità lavorativa non ha alcun
significato se non è raccordata ad un quadro – dinamico – delle condizioni della
persona.
Quali convenzioni
L’approccio delle convenzioni - sulle specificità delle quali qui non ci
soffermiamo, rinviando per l’illustrazione delle stesse alla scheda allegata - deve
comunque spingere ad una grande prudenza ed alla consapevolezza della necessità
di una grande attenzione. L’abbandono degli automatismi di legge apre
prospettive più affascinanti ma più impegnative. Sarà quindi necessario
mantenere un atteggiamento critico rispetto alle scelte che giorno per giorno
verranno compiute per evitare – come in molte esperienze registrate – che i
contenuti della convenzione si riducano ad una rateizzazione della quota
dell’obbligo, al ricorso alla chiamata nominativa, al semplice inserimento in
attività di tirocinio. Andrà così pretesa la possibilità di percorsi formativi, di
riorganizzazione del posto di lavoro e dello stesso modo di lavorare, oltre a
specifici momenti di verifica del percorso che si compirà. Ciò comporterà
maggiore responsabilità da parte dei diversi “attori” che si troveranno a formulare,
gestire o a garantire – e non più soltanto ad avallare l’adozione di questo o quello
strumento - i percorsi di attuazione delle convenzioni.
Quali reti di servizio
Un giudizio attendibile sulla legge che sta per entrare in vigore potrà essere
espresso solo alla luce di una chiara analisi della rete dei servizi attivi nel
territorio. Senza di questa nessuna ipotesi di inserimento mirato diventa credibile.
Non si tratta di costituire una generica rete di coordinamento ma di attivare veri
servizi che possano coprire tutto il percorso, nella chiarezza di ruoli e di
responsabilità.
Non ci si può accontentare di strutture di servizio di facciata. Occorre attrezzare il
territorio.
Occorre puntare ad una rete vera di servizi - che valorizzi anche i contributi che
possono venire dal sociale – e, più precisamente, nell’area dei servizi per
l’impiego, occorre una chiara precisazione dei ruoli e delle competenze
(Provincia, Commissione provinciale, Comitato tecnico, centri per l’impiego) che
deriverebbero dall’attuazione del decreto legislativo 469/97 e delle conseguenti
leggi regionali.
Il quadro istituzionale, le competenze, le modalità di raccordo costituiranno il
banco di verifica della validità della legge
Condizioni di successo.
Nello sviluppo di questa esposizione abbiamo scelto di soffermarci sugli elementi
di fondo e di qualificazione di questa legge. Abbiamo evitato di entrare nel merito
delle questioni tecniche (strutture e modalità di valutazione della disabilità;
“fondo nazionale4” e “fondo regionale”, criteri e modalità di esonero parziale,
meccanismi di computo e di denuncia periodica) e degli stessi punti di caduta
(livello della quota e livello delle agevolazioni, mantenimento di norme di tutela
per fasce specifiche di lavoratori invalidi e quantificazioni delle ammende o dei
contributi esonerativi) risultanti dal lungo confronto che si è avuto nel corso della
discussione della legge.
Abbiamo cercato di mettere in evidenza che il giudizio sulla legge non può che
rimanere sospeso.
Troppo dipende dalla capacità che si avrà nel territorio di:
 organizzare una vera rete di servizi a supporto degli inserimenti mirati;
 mettere in sequenza ed in rete tutte quelle esperienze e risorse (istituzionali e
non: di volontariato, di cooperazione sociale, associative) che operano negli
ambiti educativi-formativi, della socializzazione, della realizzazione, della
sperimentazione di nuove forme di produzione etc.);
 riconoscere l’inserimento lavorativo come fase di un percorso di crescita e di
valorizzazione della persona nella sua dinamicità e nelle sue potenzialità;
 abbandonare la logica vincolistica e coercitiva per abbracciare quella del
coinvolgimento e del confronto aperto su ogni nuova ipotesi di inserimento;
4
Emerge ora, in sede di elaborazione del decreto attuativo, la discutibilità della scelta di attribuire
ai fondi regionali il compito di sostenere gli enti le cui attività sono rivolte all’integrazione
lavorativa ed al Fondo nazionale il compito di finanziare le fiscalizzazioni totali o parziali
riconosciute alle stesse imprese, nell’ambito delle specifiche convenzioni. Sarebbe stato più logico
attribuire al fondo nazionale il compito di sostenere la creazione di strutture ed infrastrutture tese
alla riorganizzazione-costruzione del nuovo sistema e al fondo regionale il finanziamento delle
specifiche convenzioni e delle agevolazioni in esse contenute.

abbandonare i meccanismi di gestione tutta istituzionale a favore di una
gestione sociale e concertata.
Ed in effetti, le prospettive che si sono aperte con questa legge trovano tutte una
ragione in processi più generali che la nostra società sta vivendo:
- di riorganizzazione e di decentramento delle funzioni dello Stato, nel
riconoscimento sempre più ampio del principio della sussidiarietà;
- di deistituzionalizzazione;
- di apertura al ruolo delle componenti della società civile,
- dell’apparire di nuove politiche sociali di coinvolgimento e
responsabilizzazione della persona.
Contrattare nuove occasioni di lavoro
Gli inserimenti nel mondo del lavoro delle persone disabili non possono essere ora
pensati come un fatto puramente organizzativo o come una scommessa di
superamento di alcune resistenze culturali. Debbono far parte di un più articolato
processo di riorganizzazione e di valorizzazione delle risorse produttive nelle
singole situazioni territoriali. Non è accettabile l’idea che l’inserimento lavorativo
delle persone disabili sia possibile solo nelle situazioni di sviluppo avanzato.
D’altra parte, il grado di successo di un inserimento lavorativo e della sua
accettazione dipende in maniera diretta dalla vivacità e dinamicità economica e
sociale dello stesso sistema economico e produttivo. Quanto più questo vive
condizionamenti che ne limitano lo sviluppo tanto più l’inserimento lavorativo di
una persona disabile verrà interpretato come vincolo e intralcio alla produzione di
ricchezza5.
Per aprire nuove prospettive di inserimento lavorativo non basta appellarsi al
rispetto di quote o di vincoli di legge. Al contrario, occorre creare le condizioni
per cui ogni persona viene riconosciuta e valorizzata come risorsa.
Perché ciò si realizzi è necessario riattivare meccanismi di sviluppo e di crescita
economica. La stessa però non avrebbe senso se non investisse tutte le componenti
della società e se non riconoscesse tutte le sue potenzialità. Qui la legge non vale
più molto. Molto di più vale la convergenza di attenzione e di obiettivi delle
diverse componenti della nostra società. Molto utile sarebbe quindi la ripresa di
quell’attività contrattuale – interna ed esterna al posto di lavoro e non
necessariamente antagonistica - con cui le parti sociali cercano di individuare le
condizioni per realizzare nuovi inserimenti lavorativi, concertandone la
realizzazione nel territorio (vanno ricordati, come esempio o come ipotesi da
verificare fino in fondo gli accordi comunali o territoriali realizzati alcuni anni fa
qui nel Piemonte, gli accordi con le associazioni imprenditoriali per la formazione
e i tirocini lavorativi nel Veneto, gli stessi contratti nazionali di categoria, come
quello dei tessili) e puntando ad azioni di verifica e di rielaborazione delle ipotesi
di lavoro.
5
A questo riguardo, occorre riflettere che la stessa cooperazione sociale, osannata o osteggiata, a
secondo della priorità degli obiettivi scelti, potrà pure essere considerata come esempio
negativo di un sistema produttivo che “esternalizza” e si deresponsabilizza. La stessa
cooperazione sociale, però, al di là della nobiltà degli intenti e delle risorse messe in campo
avrà possibilità di sviluppo solo in una situazione dinamica dell’economia e del sistema produttivo.
Nuovi patti territoriali per una crescita sociale
La legge 68 oggi ci offre l’occasione di rilanciare la scommessa della
moltiplicazione e di una riqualificazione dei patti di sviluppo territoriali. Questi,
dal nostro punto di vista, saranno più significativi se saranno in condizione non
solo di innestare meccanismi di crescita economica e produttiva ma anche di
crescita sociale e di realizzare condizioni per nuovi inserimenti in attività
lavorative e occasioni di ruolo sociale per quelle fasce di cittadini
tradizionalmente messe ai margini della vita sociale, tra cui le persone disabili ed
handicappate.
Le condizioni di integrazione possono essere sostenute dalla legge, queste però
usciranno dalla marginalità e dalla irrilevanza solo se inserite in percorsi
concertati di ricostruzione del territorio, delle sue strutture, delle sue attività
produttive, economiche e sociali.
In altri termini, oggi, di fronte a noi - al sindacato ed alle altre organizzazioni del
sociale, dell’associazionismo, del volontariato, della cooperazione sociale – si
apre la sfida del superamento degli atteggiamenti rivendicativi , nella prospettiva
della “programmazione concordata” del nuovo. In questo nuovo deve esserci una
ridinamicizzazione della società, delle sue strutture e dei suoi modelli di
funzionamento, il tutto però senza perdere di vista un nuovo valore.
Quello della persona che si ripropone con tutti suoi talenti, le sue risorse, le sue
speranze ed una nuova gioia nascosta.
Flavio Cocanari
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