Provincia di Cuneo Nuove opportunità per l’inserimento lavorativo dei disabili- L. 68/99 Cuneo, 8 ottobre 1999 Le nuove opportunità sociali e culturali della legge 68 di Flavio Cocanari Premessa E’ pensabile affermare il diritto al lavoro dei disabili con la semplice approvazione di una legge? Mi rendo conto che a pochi mesi dall’approvazione della nuova legge, in un seminario in cui si intende riflettere sul diritto al lavoro delle persone disabili , una battuta del genere può essere scambiata per una inopportuna provocazione. In effetti, sappiamo tutti che la legge è preliminarmente necessaria a qualsiasi strategia di costruzione della cultura dell’integrazione, del coinvolgimento degli attori del mondo del lavoro, dell’organizzazione dei servizi nel territorio. Del resto, questa legge noi l’abbiamo ricercata a lungo e ci abbiamo lavorato con impegno da tutti i fronti. Eppure, è necessario avere chiaro l’obiettivo ultimo di questo impegno. E’ necessario chiarire il quadro di fondo, i soggetti di riferimento, le finalità.. Non possiamo accontentarci di affermare un diritto e di indicare alcune norme generali per il suo perseguimento. Il diritto al lavoro deve essere una componente riconosciuta dei diritti generali della persona e deve essere parte del percorso di definizione dei suoi obiettivi e delle sue strategie. Il diritto al lavoro non può sovrastare la persona, condizionandola.. E’, invece, da questa che occorre partire: non semplicemente per comprenderne i desideri e le aspettative rispetto ad un’attività lavorativa, quanto le sue scelte - nonostante i condizionamenti che può vivere - i suoi percorsi nell’interezza della sua esperienza. L’obiettivo va quindi individuato nell’apertura di opportunità per la crescita delle competenze (professionali e non solo), che si possano riflettere nella costruzione dell’autonomia e delle scelte di vita della persona . Il compito che abbiamo di fronte – al di là della vigenza di una legge - è ben più difficile ed articolato dell’inserimento di una persona disabile in un posto di lavoro . D’altra parte, non si tratta di sostituire una legge coercitiva con una di tipo incentivante. Questo è già un buon risultato. Si tratta, piuttosto, di uscire fuori dalla logica mercantilistica, per cui l’inserimento lavorativo ed il percorso verso l’inserimento è oggetto di contrattazione e di “messa in luce” di una serie di convenienze delle parti in causa. Potremmo dire che la persona non si contratta: ma non è con una battuta ad effetto che risolveremmo il problema. Si tratta di entrare in un rapporto diretto con la persona, nella ricerca e nella considerazione delle sue opzioni espresse, inespresse o inesprimibili. Rispetto a questa ipotesi il lavoro è solo un elemento funzionale e può entrare in gioco nelle maniere più disparate. Ciò starebbe ad indicare che l’idea del diritto al lavoro deve tradursi in costruzione delle condizioni dell’incontro tra la persona e le strutture produttive: quelle specifiche del territorio in cui la persona vive ed è inserita. L’inserimento della persona disabile in una struttura produttiva va focalizzato in rapporto al percorso di definizione del suo ruolo e dei suoi obiettivi: nel processo produttivo, nelle specifiche attività lavorative, nella vita sociale. Per fare ciò è necessario mettere sotto osservazione le caratteristiche (in positivo e in negativo, in un dato momento e nella sua dinamicità) dell’ambiente sociale ed economico in cui questa persona chiede di entrare. Tutto ciò dovrebbe significare che l’inserimento lavorativo non può essere il frutto di atti di forza, perché le resistenze che poi si svilupperebbero potrebbero comportare il rifiuto del lavoro da una parte e il rifiuto della persona inserita dall’altra. Vi sono però due obiezioni a quanto sinora affermato. 1. Non possiamo pensare che nella ricerca di un rapporto armonico e non conflittuale tra persona e ambiente sociale i problemi (e le aspettative) tendono a risolversi spontaneamente. Al contrario, occorre costantemente sperimentare elementi innovativi, verificandone le conseguenti reazioni, puntando a valorizzare le nuove aperture. In altri termini, non possiamo adagiarci in atteggiamenti scettici (o avallarli) né possiamo pensare di risolvere tutto con meccanismi istituzionali, operativi (e culturali) cristallizzati o tendenti alla burocratizzazione e alla ripetitività. 2. L’aver messo l’accento sull’importanza dell’itinerario verso l’inserimento non deve farci illudere che una volta realizzato l’inserimento tutto sia stato compiuto. Tutt’altro! Questo dovrà essere monitorato, sostenuto e adattato giorno per giorno. Cerchiamo ora di dare un po’ di concretezza al nostro ragionamento. Quale inserimento lavorativo Oggi, ci troviamo di fronte al compito di reimpostare il significato dell’inserimento lavorativo delle persone disabili. Questo dovrebbe abbandonare la sua funzione indennizzatoria per assumere quella di parte di un progetto di crescita e di vita. A questo fine possiamo scorgere nella nuova legge le opportunità di superamento di due elementi che ancor oggi dominano il sistema: - la categorialità e la valutazione su basi tabellari della residua capacità lavorativa. Questi due elementi sono finalmente ridimensionati: - dall’istituzione della lista unica, che facendo convergere tutti i disabili delle diverse categorie, supera le riserve categoriali; - dai nuovi criteri di valutazione delle condizioni di disabilità (per le invalidità civili) che il Presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe emanare con un suo atto di indirizzo. Su questi due punti si gioca gran parte dell’impatto innovativo della legge 68. Diventa così più credibile la possibilità che ogni percorso di inserimento lavorativo muova da una valutazione delle condizioni della persona, della sua storia, delle sue aspettative, delle sue difficoltà e delle sue abilità, della sua domanda di futuro. Si aprono nuove possibilità di riconoscere la persona non in funzione della causa della sua disabilità (lavoro, guerra, servizio ....) ma in funzione di quanto manifesta e dei percorsi (riabilitativo-formativi) in cui si inserisce. Realizzare inserimenti quindi non dovrebbe significare più guardare al passato (da cosa sei stato danneggiato e quanto) con intenti indennizzatori ma guardare al futuro, con l’intento di aiutare la persona nella costruzione del suo progetto. La stessa persona dovrebbe essere riconosciuta nella sua unicità e nella sua dinamicità e non scomposta sulla base di tabelle percentuali o numeriche. La persona disabile che di conseguenza chiede o accetta di inserirsi in un (più o meno) articolato percorso che dovrebbe portarlo all’inserimento lavorativo reclama, con lo sguardo rivolto al suo futuro, nuove possibilità di autonomia e non di risposte assistenziali. Si dovrebbe accantonare finalmente quella logica dell’assunzione lavorativa che tante volte aveva come effetto una passivizzazione ed una colpevolizzazione della persona nel suo ambiente lavorativo. In questo momento – tenendo conto che un gruppo di esperti è al lavoro per elaborare la direttiva del Presidente del Consiglio in questione - non siamo sicuri delle scelte che verranno compiute. Il rischio che si crei un sistema in cui coesistono diversi sistemi di accertamento è concreto. E’ possibile che ad un sistema di accertamento basato sui parametri tabellari per la valutazione della riduzione della capacità lavorativa (r.c.l) finalizzato all’individuazione delle persone (invalide civili) che entrano nel sistema per l’inserimento mirato, venga affiancato un altro sistema per una confusa valutazione (affidata alle commissioni di cui all’art. 4 della legge 104/92) delle “condizioni di disabilità” e che, solo sulla base di questa valutazione, possa essere attivato un terzo sistema teso a valutare gli elementi specifici1 per la formulazione del progetto di inserimento mirato (affidato al “comitato tecnico”). 1 La lettera b) del comma 2 dell’art. 6 della legge in questione attribuisce al Comitato tecnico i compiti relativi “alla valutazione delle residue capacità lavorative, alla definizione degli strumenti e delle prestazioni atti all’inserimento …” Nonostante queste perplessità (che si rafforzano dalla considerazione che per le invalidità delle altre categorie il percorso di valutazione rimane differenziato) oggi abbiamo elementi per poter essere fiduciosi in una nuova prospettiva di inserimento mirato. In altri termini, sia pure con il solo riferimento alle invalidità civili (oggi schiacciante maggioranza sul fronte delle invalidità) e sia pure con le incertezze rispetto al passo coraggioso (accantonamento di criteri di valutazione tabellare ed adozione di criteri derivanti dalla Classificazione Internazionale delle Minorazioni, delle Disabilità e degli Handicap, ICIDH2) che nel nostro Paese potrebbe essere compiuto si apre la possibilità che nelle singole situazioni territoriali si costituiscano strutture e si sperimentino metodologie di lavoro di “personalizzazione” della tecnica di inserimento lavorativo. La complessa innovazione legislativa (la legge 68/99, il decreto legislativo 469/97, le conseguenti leggi regionali) che ci si trova a gestire apre nuove possibilità. Si apre oggi la prospettiva di riconoscere e consolidare le esperienze di “inserimento mirato” gestite finora “spontaneamente” (sia pure con l’appoggio di norme regionali, delle vecchie strutture per l’impiego e delle autonomie locali) dai servizi territoriali (di emanazione delle autonomie locali, delle Usl, delle Agenzie per l’impiego e così via) La scommessa è che queste esperienze diventino cultura e diventino alla lunga pratica quotidiana. Perché ciò si realizzi è però necessario che, al di là delle indicazioni della legge, si sperimentino e consolidino nuovi canali di comunicazione tra strutture preposte alla valutazione, servizi riabilitativoformativi, servizi per l’impiego. Vanno, cioè, rielaborati ed armonizzati i linguaggi e vanno garantiti costanti flussi di informazione e di verifica. Il punto di maggiore difficoltà è infatti nell’acquisizione e nel trasferimento delle informazioni relative alla persona ed alla sua capacità di interagire nella comunità e nell’ambiente. A questo proposito è pure utile che la legge specifichi le competenze dei componenti del “comitato tecnico” ma ancor più servirà che questo si dia un metodo di lavoro in grado di metterlo in costante rapporto con le strutture di servizio del territorio, idonee a fornire informazioni ed intervenire costantemente a sostegno del percorso delineato o a correggerlo. In questa ricerca di continuità tra percorso educativo-formativo e riabilitativo-adattivo e dello stesso inserimento nel sistema produttivo sarà importante che questa struttura di progettazione e di regìa sia in grado di realizzare connessioni con tutte le realtà che nel territorio prestano servizi (tra cui quelle riconosciute dagli articoli 17 e 18 della legge 104/92) e quindi anche di natura sociale e non solo istituzionale. Mirato su chi Ma chi e cosa deve essere oggetto degli interventi di questo coordinamento di risorse? Siamo sicuri che l’unico riferimento per gli interventi ai fini della realizzazione di un inserimento mirato debba essere la persona? In effetti, la persona è solo una delle polarità. Inserimento mirato però non significa percorso di riadattamento della persona. Significa anche riorganizzare il mondo produttivo3 2 International Classification of Impairment, Disability and Handicap, approvata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ginevra, 1980 3 Per entrare nello specifico delle questioni in discussione in questi giorni – in vista della per renderlo aperto, accessibile e vivibile (e partecipato) a tutti i lavoratori. Significa intervenire sulla cultura collettiva per rimuovere quelle tenaci idee secondo le quali la soluzione più facile è “dare una pensione” a chi fa fatica ad inserirsi. Significa far comprendere che una società che riceve il contributo da persone diverse è sicuramente una società più ricca e ben più capace di crescere e di adattarsi al nuovo, vincendo sfide che le società chiuse e cristallizzate neanche riescono ad intravedere prima di essere soffocate. Inserimento mirato, quindi, deve avere il significato di un’azione che si prolunga nel tempo perché vi siano sempre nuove condizioni di incontro tra una persona e una struttura produttiva. Incontro che si può realizzare solo a condizione di un convinto sostegno della collettività e di una concreta rete di servizi che parte da precise scelte di tutta la società. Quale lavoro per quale persona. Nel riferirci a specifici “progetti di vita” da formulare, da verificare o da sostenere, non possiamo pensare che il lavoro abbia lo stesso valore in situazioni differenziate e per persone diverse. Il “valore lavoro” è costantemente rivisto e messo in discussione. Sempre di più il “tempo-lavoro” è subordinato alle esigenze del “tempo-vita”. Questa “revisione” ha maggior valore per una persona disabile o handicappata, per la quale il raggiungimento dell’obiettivo inserimento lavorativo è funzionale alla verifica del proprio percorso di crescita e della propria capacità di autonomia. L’inserimento lavorativo diventa obiettivo secondario dello stesso percorso e diventa occasione di nuove possibilità relazionali. Diventa possibilità di affacciarsi su un nuovo mondo e su una nuova vita prima impensabile. Proprio per questo sarebbe sbagliato pensare all’inserimento lavorativo come ad un atto conclusivo o ad un diritto elementare da conseguire subito e senza passaggi intermedi. Una volta conseguito questo diritto, una volta realizzato l’obiettivo vanno lasciate tutte aperte le possibilità di ulteriori percorsi e passaggi, prevedendo anche la possibilità di un ridimensionamento del significato del lavoro nel percorso di crescita e di ridefinizione costante della persona. Una legge più europea. emanazione dei decreti attuativi – dovremmo interrogarci sul senso che può avere la discussione su quali strutture produttive possono ottenere l’esonero parziale dall’obbligo di legge, se questo esonero non lo si raccorda con una prospettiva di riadattamento degli stessi e se non si cerca di individuare in ciascuno di essi gli spazi (mansioni) accessibili alle persone in diversa condizione di disabilità. Non si tratta di una battuta demagogica. Non professiamo l’idea dell’inserimento ad ogni costo, tutt’altro! Si tratta piuttosto di entrare nello specifico della logica dell’inserimento mirato puntando – se necessario - anche al capovolgimento dell’obiettivo del “matching” abbinamento capacità-mansioni - per giungere al suo contrario, ratificando non tanto l’esonero parziale dall’obbligo di un’impresa (magari in virtù del generico concetto di “faticosità”) quanto l’incollocabilità in determinate e specifiche attività e strutture produttive di persone con particolari minorazioni e condizioni di disabilità. In coerenza con l’abbandono della logica della categorialità e dell’approccio indennizzatorio, la legge punta ora al coinvolgimento delle diverse componenti della società e dei diversi attori sociali. La riduzione della quota d’obbligo al 7%, che, pur rimanendo la quota più alta , si avvicina ora alla media di quelle in vigore nei diversi Paesi europei va vista in raccordo al sistema di incentivi. Il mix di strumenti vincolistici ed incentivanti dovrà però trovare il suo equilibrio più avanzato in rapporto alle specifiche indicazioni che scaturiranno dai progetti di inserimento mirato. Tra questi, sia pure di natura diversa, dobbiamo considerare: - la chiamata nominativa, - le specifiche soluzioni contrattuali, - la fiscalizzazione degli oneri sociali, - i contributi al riadattamento del posto di lavoro, - la disponibilità di tutors, - specifici servizi di consulenza e sostegno continuo L’obiettivo preliminare da non perdere di vista è la realizzazione di interventi di sostegno in grado di convincere il datore di lavoro del fatto che l’inserimento di persone disabili nella sua struttura produttiva non costituirà intralcio alla sua attività e soprattutto del fatto che egli non verrà lasciato solo nella gestione delle eventuali difficoltà dell’inserimento lavorativo. Allora, ancor più delle singole misure agevolative, sarà importante aprire confronti con i datori di lavoro e le loro organizzazioni di rappresentanza per pervenire ad accordi e a convenzioni in cui tutti i termini e gli strumenti dell’inserimento vengono previsti ed organizzati, tenendo conto delle valutazioni dello stesso “comitato tecnico” e delle indicazioni dei singoli progetti. Qui la legge però, nell’indicare il vincolo della gravità (in percentuali) segna il passo. Qualunque percentuale di riduzione della capacità lavorativa non ha alcun significato se non è raccordata ad un quadro – dinamico – delle condizioni della persona. Quali convenzioni L’approccio delle convenzioni - sulle specificità delle quali qui non ci soffermiamo, rinviando per l’illustrazione delle stesse alla scheda allegata - deve comunque spingere ad una grande prudenza ed alla consapevolezza della necessità di una grande attenzione. L’abbandono degli automatismi di legge apre prospettive più affascinanti ma più impegnative. Sarà quindi necessario mantenere un atteggiamento critico rispetto alle scelte che giorno per giorno verranno compiute per evitare – come in molte esperienze registrate – che i contenuti della convenzione si riducano ad una rateizzazione della quota dell’obbligo, al ricorso alla chiamata nominativa, al semplice inserimento in attività di tirocinio. Andrà così pretesa la possibilità di percorsi formativi, di riorganizzazione del posto di lavoro e dello stesso modo di lavorare, oltre a specifici momenti di verifica del percorso che si compirà. Ciò comporterà maggiore responsabilità da parte dei diversi “attori” che si troveranno a formulare, gestire o a garantire – e non più soltanto ad avallare l’adozione di questo o quello strumento - i percorsi di attuazione delle convenzioni. Quali reti di servizio Un giudizio attendibile sulla legge che sta per entrare in vigore potrà essere espresso solo alla luce di una chiara analisi della rete dei servizi attivi nel territorio. Senza di questa nessuna ipotesi di inserimento mirato diventa credibile. Non si tratta di costituire una generica rete di coordinamento ma di attivare veri servizi che possano coprire tutto il percorso, nella chiarezza di ruoli e di responsabilità. Non ci si può accontentare di strutture di servizio di facciata. Occorre attrezzare il territorio. Occorre puntare ad una rete vera di servizi - che valorizzi anche i contributi che possono venire dal sociale – e, più precisamente, nell’area dei servizi per l’impiego, occorre una chiara precisazione dei ruoli e delle competenze (Provincia, Commissione provinciale, Comitato tecnico, centri per l’impiego) che deriverebbero dall’attuazione del decreto legislativo 469/97 e delle conseguenti leggi regionali. Il quadro istituzionale, le competenze, le modalità di raccordo costituiranno il banco di verifica della validità della legge Condizioni di successo. Nello sviluppo di questa esposizione abbiamo scelto di soffermarci sugli elementi di fondo e di qualificazione di questa legge. Abbiamo evitato di entrare nel merito delle questioni tecniche (strutture e modalità di valutazione della disabilità; “fondo nazionale4” e “fondo regionale”, criteri e modalità di esonero parziale, meccanismi di computo e di denuncia periodica) e degli stessi punti di caduta (livello della quota e livello delle agevolazioni, mantenimento di norme di tutela per fasce specifiche di lavoratori invalidi e quantificazioni delle ammende o dei contributi esonerativi) risultanti dal lungo confronto che si è avuto nel corso della discussione della legge. Abbiamo cercato di mettere in evidenza che il giudizio sulla legge non può che rimanere sospeso. Troppo dipende dalla capacità che si avrà nel territorio di: organizzare una vera rete di servizi a supporto degli inserimenti mirati; mettere in sequenza ed in rete tutte quelle esperienze e risorse (istituzionali e non: di volontariato, di cooperazione sociale, associative) che operano negli ambiti educativi-formativi, della socializzazione, della realizzazione, della sperimentazione di nuove forme di produzione etc.); riconoscere l’inserimento lavorativo come fase di un percorso di crescita e di valorizzazione della persona nella sua dinamicità e nelle sue potenzialità; abbandonare la logica vincolistica e coercitiva per abbracciare quella del coinvolgimento e del confronto aperto su ogni nuova ipotesi di inserimento; 4 Emerge ora, in sede di elaborazione del decreto attuativo, la discutibilità della scelta di attribuire ai fondi regionali il compito di sostenere gli enti le cui attività sono rivolte all’integrazione lavorativa ed al Fondo nazionale il compito di finanziare le fiscalizzazioni totali o parziali riconosciute alle stesse imprese, nell’ambito delle specifiche convenzioni. Sarebbe stato più logico attribuire al fondo nazionale il compito di sostenere la creazione di strutture ed infrastrutture tese alla riorganizzazione-costruzione del nuovo sistema e al fondo regionale il finanziamento delle specifiche convenzioni e delle agevolazioni in esse contenute. abbandonare i meccanismi di gestione tutta istituzionale a favore di una gestione sociale e concertata. Ed in effetti, le prospettive che si sono aperte con questa legge trovano tutte una ragione in processi più generali che la nostra società sta vivendo: - di riorganizzazione e di decentramento delle funzioni dello Stato, nel riconoscimento sempre più ampio del principio della sussidiarietà; - di deistituzionalizzazione; - di apertura al ruolo delle componenti della società civile, - dell’apparire di nuove politiche sociali di coinvolgimento e responsabilizzazione della persona. Contrattare nuove occasioni di lavoro Gli inserimenti nel mondo del lavoro delle persone disabili non possono essere ora pensati come un fatto puramente organizzativo o come una scommessa di superamento di alcune resistenze culturali. Debbono far parte di un più articolato processo di riorganizzazione e di valorizzazione delle risorse produttive nelle singole situazioni territoriali. Non è accettabile l’idea che l’inserimento lavorativo delle persone disabili sia possibile solo nelle situazioni di sviluppo avanzato. D’altra parte, il grado di successo di un inserimento lavorativo e della sua accettazione dipende in maniera diretta dalla vivacità e dinamicità economica e sociale dello stesso sistema economico e produttivo. Quanto più questo vive condizionamenti che ne limitano lo sviluppo tanto più l’inserimento lavorativo di una persona disabile verrà interpretato come vincolo e intralcio alla produzione di ricchezza5. Per aprire nuove prospettive di inserimento lavorativo non basta appellarsi al rispetto di quote o di vincoli di legge. Al contrario, occorre creare le condizioni per cui ogni persona viene riconosciuta e valorizzata come risorsa. Perché ciò si realizzi è necessario riattivare meccanismi di sviluppo e di crescita economica. La stessa però non avrebbe senso se non investisse tutte le componenti della società e se non riconoscesse tutte le sue potenzialità. Qui la legge non vale più molto. Molto di più vale la convergenza di attenzione e di obiettivi delle diverse componenti della nostra società. Molto utile sarebbe quindi la ripresa di quell’attività contrattuale – interna ed esterna al posto di lavoro e non necessariamente antagonistica - con cui le parti sociali cercano di individuare le condizioni per realizzare nuovi inserimenti lavorativi, concertandone la realizzazione nel territorio (vanno ricordati, come esempio o come ipotesi da verificare fino in fondo gli accordi comunali o territoriali realizzati alcuni anni fa qui nel Piemonte, gli accordi con le associazioni imprenditoriali per la formazione e i tirocini lavorativi nel Veneto, gli stessi contratti nazionali di categoria, come quello dei tessili) e puntando ad azioni di verifica e di rielaborazione delle ipotesi di lavoro. 5 A questo riguardo, occorre riflettere che la stessa cooperazione sociale, osannata o osteggiata, a secondo della priorità degli obiettivi scelti, potrà pure essere considerata come esempio negativo di un sistema produttivo che “esternalizza” e si deresponsabilizza. La stessa cooperazione sociale, però, al di là della nobiltà degli intenti e delle risorse messe in campo avrà possibilità di sviluppo solo in una situazione dinamica dell’economia e del sistema produttivo. Nuovi patti territoriali per una crescita sociale La legge 68 oggi ci offre l’occasione di rilanciare la scommessa della moltiplicazione e di una riqualificazione dei patti di sviluppo territoriali. Questi, dal nostro punto di vista, saranno più significativi se saranno in condizione non solo di innestare meccanismi di crescita economica e produttiva ma anche di crescita sociale e di realizzare condizioni per nuovi inserimenti in attività lavorative e occasioni di ruolo sociale per quelle fasce di cittadini tradizionalmente messe ai margini della vita sociale, tra cui le persone disabili ed handicappate. Le condizioni di integrazione possono essere sostenute dalla legge, queste però usciranno dalla marginalità e dalla irrilevanza solo se inserite in percorsi concertati di ricostruzione del territorio, delle sue strutture, delle sue attività produttive, economiche e sociali. In altri termini, oggi, di fronte a noi - al sindacato ed alle altre organizzazioni del sociale, dell’associazionismo, del volontariato, della cooperazione sociale – si apre la sfida del superamento degli atteggiamenti rivendicativi , nella prospettiva della “programmazione concordata” del nuovo. In questo nuovo deve esserci una ridinamicizzazione della società, delle sue strutture e dei suoi modelli di funzionamento, il tutto però senza perdere di vista un nuovo valore. Quello della persona che si ripropone con tutti suoi talenti, le sue risorse, le sue speranze ed una nuova gioia nascosta. Flavio Cocanari