Che cos`è il tempo? S

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19.2.1998
MATTEO PERRINI
TEMPO E COSCIENZA NELLA FILOSOFIA DI BERGSON1
1. Seneca, Agostino e Bergson
"Che cos'è il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se però volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so"
(Confessiones 11, 14). E' il paradosso con cui Agostino introduce l'ardita meditazione sul tempo
nell'undicesimo libro delle Confessioni. Nel ripercorrere tante volte la storia del pensiero quella domanda mi
è stata ben presente e un po' per volta sono pervenuto alla conclusione che su quel problema i più alti
contributi si collocano nel periodo tardo antico: all'inizio con Seneca, e alla fine con Agostìno. L'uno,
precristiano, ci ha dato la più penetrante "etica del tempo", spezzando di fatto i quadri concettuali del sistema
stoico a cui pure aderiva, l'altro, cristiano, ci ha dato la prima metafisica fondata sull'intuizione di un tempo
concepito come reale svolgimento., non chiuso nella ripetizione ciclica dell'identico, un tempo insomma che
comporti continua differenziazione e novità del reale, poiché ogni atto della vita, ogni stato di coscienza,
ogni evento storico ha una sua individuale irripetibilità e, per così dire, fiorisce una sola volta come l'agave
mediterranea.
A distanza di sedici secoli il problema del tempo torna di nuovo al centro della riflessione con un altro
grande pensatore, Henri Bergson. "Un filosofo degno di questo nome - ebbe a dire il filosofo francese - noti
ha mai detto che una cosa sola: meglio, ha cercato di dirla piuttosto che dirla veramente" (L'intuition
philosophique, in Oeuvres, Ed. du Centenaire, Paris 1970, p. 1350). Ebbene, ciò che individua il contributo
di Bergson alla storia del pensiero è precisamente il tentativo di rispondere alla domanda: "che cos'è il
tempo?" La riprova viene dall'Edizione del Centenario delle sue Oeuvres: scorrendo le voci dell'indice degli
argomenti, curato da André Robinet, non si trova la voce temps, perché essa ricorre letteralmente in ogni
pagina dell'opera. "Nessuna questione - scrive Bergson - è stata più trascurata dai filosofi di quella del
tempo; e tuttavia tutti concordano nel dichiararla di capitale importanza... E' lì la chiave dei maggiori
problemi filosofici" (Prèface a Durée et simultaneité, P.U.F., Paris 1922; VII ed. 1968, pp. X-XI).
Lo scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto uno scandalo per
il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai afferrate perché non sonoun qualcosa
che è lì solo per attestare una sorta di deficit. Per venticinque secoli, a partire da Parmenide e da Zenone di
Elea, la concezione stazionaria ed etemista dell'essere ha avuto nettamente la meglio, anche se incorporata in
sistemi di pensiero molto diversi fra loro. La filosofia bergsoniana si presenta, dunque, come un
rovesciamento della concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece
di dissolvere il mutamento ed il tempo, essa mira a insediarci nell'uno e nell'altro per meglio afferrare come
gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare gli esseri dalla loro falsa
immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il loro fluire.
2. Ciò che suscitò in Bergson "grande stupore"
E' interessante ricordare quando e come il tempo divenne l'argomento tematico della filosofia bergsoniana.
La riflessione semplicissima che suscitò "grande stupore" in Bergson, dando il primo avvio al "mutamento",
fu la seguente: "Se tutti i movimenti dell'universo si producessero due o tre volte più rapidamente, non ci
sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare" (Essai sur
1
Testo rivisto dall'Autore.
les données immediates de la consciènce, in Oeuvres, pp. 77-78. Al limite, se una rapidità infinita
racchiudesse il successivo nell'istantaneo, nessuna formula scientifica sarebbe modificata; ma se ciò
accadesse, il tempo sarebbe azzerato e così pure il divenire. Quell'ipotesi che balenò alla mente del giovane
professore di liceo non era affatto una fantasticheria; essa era ed è l'esatta formulazione del "sogno
mefistofelico" che ha tentato non pochi scienziati anche di primo piano, da Laplace ad Einstein. Ma se quella
pretesa potesse mai verificarsi, o anche soltanto apparire plausibile, le conseguenze che ne deriverebbero
nella concezione della realtà e nella vita morale sarebbero da incubo. Il problema del tempo, infatti, fa
tutt'uno con quello della libertà e tale connessione nessuno l'ha colta ed espressa con la lucidità e l'intensità
di Thomas Eliot nei Quattro quartetti: "Tempo presente e tempo passato / sono forse entrambi presenti nel
tempo futuro e il tempo futuro / è contenuto nel tempo passato. /Ma se tutto il tempo è eternamente presente,
/ tutto il tempo è irredimibile " (trad. it, di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 1995, p. 95).
Quando questo pensiero si impose alla sua mente, negli anni 1881-1883, Bergson aveva ventidue - ventitré
anni; molti anni dopo, il filosofo francese spiegò come egli vedesse allora la storia del suo spirito: "Fino ad
allora ero rimasto del tutto imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto grazie
alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo senza riserve. Mia intenzione era di consacrarmi
a ciò che allora si chiamava la filosofia delle scienze; a tal fine avevo intrapreso, all'uscita dalla Normale,
l'esame di qualche nozione scientifica fondamentale. Fu l'analisi della nozione di tempo, così come
interviene in meccanica o in fisica, che scompigliò tutte le mie idee " (Ecrits et paroles II, Lettera a William
James dei 9 maggio 1908, P.U.F., Paris 1959, pp. 294-95). Charles Du Bos nel suo diario, in data 22 ottobre
1922, registra quello che Bergson gli aveva raccontato in occasione di una sua visita: "Io vedevo che il tempo
non poteva essere quello che si diceva, ma non vedevo ancora chiaramente che cosa fosse. Questo fu il
punto di partenza, ancora troppo vago... Cominciai a vedere più nettamente in quale direzione occorreva
cercare un giorno mentre spiegavo ai miei studenti, alla lavagna, i sofismi di Zenone..." (Journal 1922-23,
Corréa, Paris 1946) Da quel giorno il pensatore di Elea divenne uno degli interlocutori privilegiati del
filosofo francese.
3. I sofismi di Zenone e l'insostenibilità dell'immobilismo
Per quale ragione - si chiede Bergson - i sofismi dì Zenone appaiono difficilmente confutabili malgrado la
loro palese assurdità? In sostanza Zenone dice questo: ove si supponga che lo spazio e il tempo siano
divisibili all'infinito, non si dà movimento; per raggiungere il termine bisogna, infatti, che l'oggetto mobile
arrivi a metà della corsa; ma in uno spazio pensato come divisibile all'infinito vi sarà sempre una metà della
metà, e poi ancora una metà della metà, e così via. Insomma, se si riduce il movimento a una traiettoria
divisibile all'infinito, l'oggetto mobile è tale solo in apparenza: esso, infatti, sarà sempre pensato immobile
rispetto alla particella di spazio che occupa in un determinato istante. Zenone vede che è del tutto
impossibile spiegare il movimento addizionando posizioni immobili; ma, invece di prendere atto della
falsità delle premesse da cui muovono le sue argomentazioni, dichiara il movimento e il tempo che lo misura
logicamente assurdi e, pertanto, inesistenti agli occhi della mente.
Per il filosofo francese, che affronta subito in extenso i sofismi di Zenone nel secondo capitolo dell'Essai,
l'illusione degli Eleati dipende dall'aver identificato un atto indivisibile come il movimento con lo spazio
omogeneo che gli è sotteso, e quindi la successione con la simultaneità, la durata con l'estensione, la qualità
con la quantità (Essai, ed. cit., pp. 74 e-1-56). E l'illusione si badi, non è solo un errore: è una maniera
abitualmente sbagliata di vedere le cose. In Materia e memoria, rivolgendosi idealmente ai maestri e ai
seguaci dell'eleatismo, Bergson scrive: "Voi sostituite la traiettoria al tragitto e poiché il tragitto ha sottesa la
traiettoria, credete che coincida con essa. Ma come potrebbe coincidere un progresso con una cosa, un
movimento con un'immobilità? " (Oeuvres, p. 325). La riflessione sui paradossi di Zenone ritorna
nell'Evolutíon créatrice, dove l'argomento vittorioso è riformulato con la massima chiarezza possibile.
"Zenone non vede che se si può dividere a volontà la traiettoria, una volta che sia stata prodotta, non si
saprebbe dividere il suo prodursi, che è un alto in progresso e non una cosa" (Oeuvres, p. 756).
4. Un concetto bastardo: il "tempo spazializzato"
L'eleatismo come filosofia professata è morto, anche se non mancano isolati pensatori neo-parmenidei, ma
esso "domina in una specie di subconscio metafisico", come dice acutamente il Gouhier (Introduction a
Bergson, Oeuvres, p. XV), e ciò accade perché in un certo senso la nostra intelligenza lo secerne
naturalmente. Bergson in un qualche modo ha psicanalizzato questo subconscio metafisico e ciò spiega la
ragione per cui la critica degli argomenti di Zenone ritorna per oltre trent'anni - dall'Essai, che è del 1889,
agli scritti metodologici del 1922, con cui si apre La pensée et le mouvant (pubblicato nel '34) - allo stesso
modo di un tema musicale. Bergson ha conferito a quel pensatore del V secolo a.C. il ruolo di
contrapposizione semantica estrema nei confronti della prospettiva che egli andava elaborando. E, in verità,
il guadagno teoretico della confutazione dell'eleatismo non fu di poco conto: essa servì a individuare il
peccato originale che la nostra mente si porta con sé e che produce nel nostro modo di parlare, di pensare e
di vivere guasti di eccezionale gravità. Quel peccato d'origine si chiama "tempo spazializzato".
Che cosa, dunque, Bergson designa con quella espressione? Egli riporta la nostra attenzione su di un fatto
elementare di universale esperienza. Nei nostri orologi la lancetta che segna i secondi copre in un minuto
primo uno spazio suddiviso in sessanta parti e, perché possa esserci la misura matematica del tempo, ognuna
delle parti raggiunta dalla lancetta deve essere omogenea all'altra e tutte devono coesistere in uno spazio
omogeneo. Le parti dello spazio, pertanto, sono uguali e collocate le une accanto alle altre, né si potrebbero
distinguere se non fossero l'una fuori dell'altra, l'una esterna all'altra. Noi siamo naturalmente convinti che
l'orologio ci indichi delle variazioni temporali, ma in realtà i suoi prima e i suoi dopo non sono qua e dei là.
Un tempo così concepito è, però, uno pseudo-concetto, e più propriamente un "concetto bastardo" (concept
bátard) perché irrimediabilmente compromesso dall'idea di spazio. La confusione del tempo e dello spazio è
così abituale che l'uno e l'altro vengono trattati come cose del medesimo genere e collocate sul medesimo
piano. Si indagano prima la natura e le funzioni dello spazio e poi se ne trasferiscono le conclusioni sul
tempo; e poiché lo spazio è definito come l'omogeneo da cui è assente ogni qualità, il tempo spazializzato
non può essere che l'altra faccia dell'omogeneo. Accade allora che, per una specie di osmosi, si attribuisce al
movimento e al tempo la divisibilità dello spazio e, in tal modo, si cade ancora nella trappola di Zenone,
rendendo impensabile il tempo nella sua propria specificità. Bergson non manca di sottolineare che nelle
preclusioni aprioristiche e nel restringimento di orizzonte che derivano dall'ossessiva riduzione del tempo
allo spazio va cercata la genesi del materialismo come forma mentis spontanea e come teoria. E' accaduto,
almeno nel primi decenni della sua storia, persino a una scienza così necessaria come la psicologia, quando
ha creduto di dover applicare in modo esclusivo la dimensione spaziale là dove non c'è spazio, l'esteriorità
all'interiorità, l'estensione a una realtà inestesa. Ma se si opera una traduzione illegittima dell'inesteso
nell'esteso e della qualità nella quantità, si installa la contraddizione nel cuore stesso della domanda prima
ancora che nelle risposte che se ne danno. Se non si può conoscere che un solo tipo di fenomeni, quelli
spaziali, e se non può esistere che un solo gruppo di scienze, quelle che con più comodità ci rappresentiamo
meccanicisticamente, ci si condanna a credersi uomini a una sola dimensione, automi coscienti dotati solo di
una ragione calcolatrice.
5. La "durata reale" e il tempo vissuto
Nell'Essai sur les données immediates de la conscience (1889) e in Matière et mémoire (1895) la critica del
concetto bastardo di tempo apre l'accesso a più di una verità: il tempo non è lo spazio, lo spazio non è l'unica
dimensione della realtà dunque ciò che è nello spazio non esaurisce affatto tutto il reale e tutte le esperienze.
Di fronte alla materia, di cui i sensi ci fanno conoscere qualcosa e di cui la maggior parte delle scienze cerca
di penetrare la condotta, sta il nostro essere interiore che solo la coscienza è capace di rivelarci. Il "tempo
spazializzato" dei nostri schemi mentali e della nostra pratica quotidiana, delle nostre misurazioni, delle
scienze fisico-matematiche è quanto mai utile e indispensabile al punto che sarebbe di fatto impossibile
vivere senza di esso, ma oltre quella dimensione sta la realtà profonda del "tempo vissuto" della coscienza,
di ciò che veramente ci appartiene sul piano esistenziale e che conferisce valore al nostro vivere.
Un oggetto esteriore all'io è un fenomeno per l'io, ma l'io non è un fenomeno di nulla: è una realtà vivente e,
nello svolgersi della propria vita, l'esperienza che l'io ha del suo divenire è una sola cosa con il suo essere, è
il suo stesso essere. La coscienza di sé, della realtà vivente dell'io è, dunque, l'esperienza metafisica
fondamentale ed è la condizione di ogni altra esperienza; ogni uomo in quanto uomo, che sia cioè capace di
concentrazione e di autoapprofondimento, può attingere in sé quella realtà a cui Bergson ha dato il nome di
"durata reale» (durée réelle).
Per l'io che dura esistere significa mutare, ma il suo mutamento non è mai un mero andare, non è il perdersi
di ogni cosa, non è affatto il panta rei, del filosofo dì Efeso1. Non è vero affatto che "tutto passa", e su
questo punto decisivo Freud si dirà d'accordo con Bergson. Nella vita della coscienza il passato non passa
per nulla: anzi l'io dura perché continuo è il processo di conservazione e trasformazione di tutto quello che
ha vissuto. Coscienza significa memoria (ibid, p. 1397), scrive epigraficamente Bergson, e il passato ci segue
dappertutto e si accresce di continuo, inglobando in sé quello che di volta in volta è il presente; d'altra parte,
nemmeno il presente sarebbe senza la memoria del passato. lo non sono più lo stesso di ieri, questo è certo;
ma non per questo sono altro, al punto di essere estraneo a me stesso. Poiché la durata è memoria, io non
sono altro, poiché la durata è creazione, io non sono lo stesso. Ciò che occorre fare è "rappresentarsi la
sostanzialità dell'io come la sua stessa durata" (ibid, p. 1312). La coscienza è continuità di vita ed è nello
stesso tempo zampillo di novità. Ed è una cosa proprio perché è insieme l'altra.
6. "Non siamo soltanto noi a durare"
La durata reale è la più alta conquista della filosofia bergsoniana, ma in una concezione autenticamente
realistica, se il primo capitolo è senz'altro di psicologia metafisica, è altrettanto vero che bisogna scriverne
altri. L'uomo, infatti, va colto anche nell'evoluzione della vita, perché questo mondo è il nostro mondo,
quello di cui facciamo parte, e la materia e la vita che costituiscono l'universo sono anche in noi, si che
"l'uomo non deve mettersi in un angolo della natura come un bambino in castigo" (L'intuition
philosophique, in Oeuvres, p. 1361). Ma ciò significa che non siamo soltanto noi a durare e che, accanto alla
durata reale dell'io, accanto al tempo vissuto della coscienza personale ci sono altre realtà biologiche e
psichiche che durano nel mutamento e che si situano a livelli diversi.
Nell'Introduction à la metaphisique, del 1903, si legge: "La coscienza che abbiamo della nostra propria
persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all'interno di una realtà sul modello della quale dobbiamo
raffigurarci le altre" (Oeuvres, p. 1420). Sarà questa la tesi di fondo dell'Evolution créatrice che estenderà
all'intero universo, ed in particolare al vivente, il principio della durata, la quale appare, pertanto, come
"coestensiva alla vita" e all'"esistenza in generale". Ma se le cose stanno così, il tempo è davvero la stoffa del
diveniente e lo è in ogni sua forma, in ogni suo aspetto. Guai a perdere di vista che anche nel fenomeno più
1
In una nota aggiunta alla seconda edizione dell'Introduction à la metaphisique, Bergson precisava: "Dicendo la realtà è mobilità.
noi non mettiamo per nulla da parte la sostanza; al contrario affermiamo il permanere di ciò che esiste e crediamo di averne
facilitata la rappresentazione". Di qui l'accorata protesta: "Come si è potuto avvicinare questa dottrina a quella di Eraclito?"
(Oeuvres, p. 1420)
umile il tempo riempie un intervallo che nessuno può omettere o saltare, e neppure accorciare. E'
meritatamente celebre per la sua semplicità e profondità il seguente passo dell'Evolution: "Se voglio
prepararmi un bicchiere d'acqua zuccherata, non c'è scampo: devo aspettare che lo zucchero si sciolga.
Questa piccola circostanza è ricca d'insegnamenti. Il tempo che devo aspettare, infatti, noti è più quel tempo
matematico capace di misurare altrettanto bene l'intera storia del mondo materiale, anche se questa fosse
spiegata d'un sol tratto nello spazio: esso coincide con la mia impazienza, cioè con una certa parte della
durata mia propria, che non è allungabile né accorciabile a volontà. Non è più qualcosa di pensato, ma di
vissuto" (ibid., p. 502).
Queste osservazioni sono riprese e convalidate nel saggio Le possible et le réel, pubblicato nel 1930: "Circa
cinquant'anni fa ero molto legato alla filosofia di Spencer. Ma un giorno mi accorsi che in essa il tempo non
serviva a nulla, non produceva nulla. Ora, ciò che non produce nulla, è nulla. E tuttavia, mi dicevo, il tempo
è qualcosa. Quindi agisce. Ma che cosa può fare? Il semplice buon senso rispondeva: il tempo è ciò che
impedisce che tutto sia dato in un colpo solo. Esso ritarda, o piuttosto è un ritardare. Deve dunque essere
elaborazione. Ma allora non sarà forse veicolo di creazione e di scelta?" (Oeuvres, p. 1333).
7. Il meccanicismo e il finalismo radicale cancellano il tempo
Nell'Evolution créatrice, pubblicato nel 1907, si sviluppa un'originale, vigorosa dimostrazione del valore del
tempo attraverso la critica del meccanicismo pseudo-evoluzionistico e del finalismo radicale. "La filosofia
della vita in cui ci siamo incamminati dichiara Bergson - pretende di oltrepassare insieme il meccanicismo e
il finalismo" (ibid., p. 537). La realtà è in continua evoluzione, "la vita si sviluppa e dura" (ibid., p. 538):
ecco la verità posta in forte evidenza da Lamarck, Darwin, Spencer. Ma per un incredibile paradosso sono
proprio i teorici dell'evoluzione a rendere impensabile il processo evolutivo, avendo assunto a premessa e a
criterio esplicativo dell'evoluzione il meccanicismo, cioè uno schema mentale in cui il "dopo" è già
necessariamente determinato e incluso nel "prima", sì che ogni reale divenire, qualsiasi effettiva novità2 resta
senza spiegazione. Ai teorici dell'evoluzionismo, però, è accaduto di peggio: essi, senza saperlo,
soggiacciono ancora al presupposto parmenideo perché non solo incorporano alle loro ipotesi il
meccanicismo, ma lo collegano al principio di conservazione dell'energia, indebitamente estrapolato dalla
teoria del calore ed eretto ad assioma universale. Ma se nulla si crea e nulla si distrugge, prima o poi ci si
accorge che l'evoluzione di cui si parla è solo parola vuota e vana parvenza e che il primo principio della
termodinamica diventa così l'ultimo travestimento dell'immobilismo parmenideo. Qualcuno potrebbe
2
Vi è nel primo capitolo dell'Evoluzione creatrice una pagina particolarmente perspicua, in cui Bergson inquadra la questione del
meccanicismo nei suoi termini essenziali. E' un testo che va riportato così come l'Autore lo pensò e lo scrisse. "L'essenza delle
spiegazioni meccaniche - scrive il Nostro - consiste nel considerare passato e avvenire come calcolabili in funzione del presente, e
nell'ammettere, quindi. che tutto è dato. In tale ipotesi, passata, presente e avvenire potrebbero essere scorti d'un sol tratto da una
intelligenza sovrumana capace di eseguire il calcolo. Gli scienziati che hanno creduto all'universalità e alla perfetta oggettività
delle spiegazioni meccaniche hanno fatto, coscientemente o no, un'ipotesi di questo genere. Laplace la formulava già con la
massima precisione: "Un'intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura, e la situazione
rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse, altresì, abbastanza vasta per sottoporre all'analisi questi dati, abbraccerebbe
nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quelli del minimo atomo. Nulla sarebbe incerto per essa. e
l'avvenire come il passato sarebbero presenti ai suoi occhi..." In una dottrina siffatta si parla ancora del tempo, se ne pronunzia il
nome: ma non si pensa, in realtà, alla cosa, perché il tempo vi appare sprovvisto di efficacia e, non facendovi nulla. non è nulla. Il
meccanicismo radicale implica una metafisica in cui la totalità del reale è posta in blocco, nell'eternità, e la durata apparente delle
cose non fa che esprimere la debolezza d'uno spirito incapace di conoscere tutto in una volta. Ma la durata è ben altra cosa per la
nostra coscienza, ossia per ciò che vi è di più indiscutibile nella nostra esperienza... Essa è il fondo del nostro essere e, ben lo
sentiamo, la sostanza stessa delle cose con cui siamo in comunicazione, Invano ci si fa brillare davanti agli occhi il miraggio di una
matematica universale: non si può sacrificare l'esperienza alle pretese di un sistema. Per questa ragione respingiamo il
meccanicismo radicale" (ibid. pp. 426 - 428)
obiettare, ma allora Bergson nega la validità del primo principio della termodinamica? Niente affatto. Per
l'autore dell'Evolútion créatrice il principio di conservazione dell'energia ha un suo posto di rilievo nella
storia delle scienze della natura, perché serve a costruire una teoria meccanica del calore e si applica a buon
diritto a ciò che è intercambiabile in energie di tipo diverso (cinetiche, termiche, elettriche ecc.). Esso non ha
però validità alcuna negli ambiti della biologia, della fisiologia, della psicologia e della sociologia, per non
parlare di tutto ciò che attiene alla realtà dello spirito e al mondo della storia. In una parola, il principio di
conservazione dell'energia non è applicabile laddove i fenomeni sono irreversibili. Ben diverso è il ruolo che
gioca, invece, il secondo principio, formulato da Camot e Clausius, il quale non solo attesta in termini
matematici un fenomeno reale, ma costituisce una veduta generale colta sulla natura delle cose: è lì a dirci
che l'universo è una storia, che è reale il suo mutamento e irreversibile il processo evolutivo - anche se
esposto a continui arresti e a incidenti di ogni genere. Insomma, se il primo principio della termodinamica ci
informa sul rapporto di una parte con l'altra all'interno di un sistema che si suppone chiuso, il principio
Carnot-Clausius ci informa sulla natura del tutto e in questo senso è il più metafisico tra i principi della
fisica.
Agli occhi di Bergson, però, è insostenibile anche quel "meccanicismo alla rovescia" (ibíd., p. 528), che è il
finalismo radicale, alla Leibniz per intenderci. La dottrina della finalità nella sua forma estrema implica che
le cose e gli esseri non facciano altro che realizzare un programma inscritto nella loro natura. "Ma se non vi è
nulla di imprevisto, se non vi è alcuna invenzione o creazione nell'universo, il tempo, anche questa volta,
diviene inutile. Anche qui, come nell'ipotesi meccanicistica, l'errore sta nel supporre che tutto sia dato"
(ibid., p. 528). Installando l'immaginazione nel prima-di-essere, il finalismo fa sì che il
ciò-che-si-va-facendo venga concepito come il già fatto. A veder bene, il meccanicismo e il finalismo non
fanno che trasformare in tesi e principi i modi in cui si esplica il lavoro dell'uomo. Un piano, un progetto è
un termine fissato ad un lavoro: esso disegna, e per ciò stesso chiude, la forma dell'avvenire. Ma chi ci
autorizza - protesta Bergson - a supporre che la vita, o l'Artefice della natura, operi allo stesso modo di chi
fabbrica una casa, facendo seguire l'esecuzione al progetto? Molti anni dopo Bergson sarebbe tornato
sull'argomento con una domanda paradossale che serviva a far capire come funziona in noi la cosiddetta
"illusione retrospettiva". A chi ci chiedesse: "era possibile che Shakespeare scrivesse l'AmIeto?", che cosa
potremmo rispondere? In realtà l'AmIeto sarebbe stato possibile crearlo, ma solo dopo che Shakespeare lo
creò. Non ha senso, infatti, pensare ad un'opera d'arte possibile prima di essere realizzata. In che cosa mai
consisterebbe, infatti, questa possibilità? Nell'idea incerta e nebulosa che l'artista portava in sé prima di
mettersi all'opera? Ma è proprio di questa idea che egli cerca d'impadronirsi agendo, ed essa diventa precisa
e completa solo nel compiersi dell'opera. Noi concepiamo il possibile come precedente nel tempo la sua
realizzazione, ma è il tempo che crea sia il possibile che il reale e, contrariamente alle apparenze, crea il
possibile dopo il reale (Le possible et le réel, pp. 1341-42).
8. Il tempo della storia
C'è, infine, un altro aspetto fondamentale della concezione bergsoniana del tempo, quello che riguarda la
storia propriamente detta, ambito anch'essa del reale e laboratorio per eccellenza dell'umano, in cui il tempo
è appunto, e nel modo più evidente, "la materia prima" (V. Mathieu, Saggi bergsoniani, nel volume Bergson
- Il profondo e la sua espressione, Guida, Napoli 1971, p. 375). Del divenire storico, indagato "en bas", nelle
sue forme inferiori, e "en haut", nelle espressioni più alte dell'eroismo morale e della santità, Bergson si
occupa nell'ultima sua opera, Les deux sources de la morale et de la religion, apparsa nel 1932, venticinque
anni dopo L'Evolution créatrice. Bergson non spende neppure una riga a confutare la visione della storia di
Hegel, di Marx e dei loro continuatori, ripugnando al suo spirito il carattere dommatico dei presupposti, gli
arbitrii del procedimento dialettico e la miseria morale del cosiddetto giustificazionismo storicistico. E'
facile, pertanto, ravvisare nell'ultimo capolavoro di Bergson l'origine di quelle prospettive che di lì a breve
saranno sviluppate per vie diverse da Toynbee, Popper e Maritain. Non c'è nella sua riflessione critica sul
cammino umano la pretesa di costruire un'altra "filosofia della storia" che, distruggendo insieme il valore del
tempo e della libertà, pieghi a priori gli esiti dell'avventura umana all'una o all'altra presunta "legge" o
"tappa" del processo dialettico. Nelle Deux sources non vi è alcun diktat del sistema alla realtà dei fatti, ma
solo l'indicazione di linee di tendenza, ricavate sempre per induzione e attraverso un largo uso del metodo
comparativo.
Al termine dell'itinerario che intendevo percorrere, mi piace concludere con le stesse parole che fanno da
chiusa alle Deux sources. Vittorio Mathieu ravvisa in quelle pagine "il risultato più importante dell'intera
ricerca di Bergson, e non della sua ultima opera soltanto" (ibid., p. 408); a me pare di scorgere in esse uno
dei vertici speculativi del nostro secolo, ma anche un appello pressante che nasce da una nobilissima ansia
per l'uomo. Alla fine di un lungo cammino, Bergson ha voluto additarci, senza esitazione alcuna, la grande
scommessa con cui si misureranno il nostro tempo e i secoli che verranno. "L'umanità geme - scrive il
filosofo francese - quasi schiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire
dipende da lei. E' ad essa, infatti che spetta decidere prima di tutto se vuol continuare a vivere. All'umanità
tocca poi domandarsi se vuol soltanto vivere, o anche produrre lo sforzo necessario perché persino sul nostro
pianeta refrattario sì compia la funzione essenziale dell'universo, che è una macchina per fare degli dei"
(Oeuvres, p. 1245).
Alla domanda: "da che cosa dipende in gran parte il futuro della specie umana?" Bergson dà una risposta
originale e profonda. La funzione essenziale dell'universo sarà adempiuta o non lo sarà, a seconda che si
realizzi o meno l'alleanza tra la meccanica e la mistica, tra le conquiste della civiltà tecnico - scientifica e un
moto, sufficientemente diffuso, di approfondimento della vita interiore, di risveglio delle coscienze allo
Spirito, e più specificamente al messaggio e all'esempio di colui che pronunciò il Discorso della Montagna e
altre divine parole. Bergson sintetizza su questo punto il suo pensiero in due espressioni di capitale
importanza: la mistica chiama la meccanica, l'una, e l'altra, la meccanica esige la mistica. La mistica
chiama la meccanica, affinché i bisogni naturali e necessari di tutti, e non solo dei privilegiati, possano
essere soddisfatti, ma è altrettanto vero che la meccanica esige la mistica affinché il progresso tecnico scientifico possa veramente trasformarsi in via di liberazione per l'umanità. Far uso della tecnica, infatti, non
è mai un problema puramente tecnico. E' e rimarrà sempre un problema spirituale, ed è in quel campo che va
cercata la soluzione.
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