Bergson - la vita oltre la morte.rtf

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MATTEO PERRINI
BERGSON: C’È UNA VITA OLTRE LA MORTE?1
Bergson rivisitò e sviluppò, nell'arco di oltre un ventennio, i risultati cui si era pervenuto in
Materia e memoria attraverso saggi e conferenze. Quei testi furono raccolti dal loro autore nel 1919,
all'indomani del grande conflitto mondiale, nel volume L'energia spirituale. L'opera, che è di agevole
lettura, è apparsa anche in lingua italiana, nella bella traduzione di Marinella Acerra, con il titolo Il
cervello e il pensiero (Editori Riuniti, Roma 1990).
Bergson non ne vuol sapere affatto di elaborare, a sua volta, una qualche nuova prova
dell'immortalità dell'anima. Anzi, egli oppone un netto, implacabile rifiuto al modo in cui la tradizione
filosofica, a partire da Platone, aveva impostato la questione. Anche nell'ultimo suo capolavoro, Le due
fonti della morale e della religione, permane la condanna e il congiunto divieto a battere quella via. «Con
Platone si può stabilire a priori - scrive Bergson - una definizione dell'anima che la consideri non
decomponibile perché semplice, incorruttibile in quanto non divisibile, immortale in virtù della sua
essenza. Da questa per deduzione si passerà all'idea di una caduta delle anime nel Tempo e poi a quella di
un loro ritorno nell'Eternità. Che cosa si può obiettare a chi contesta l'esistenza dell'anima, se l'anima è
definita in questi termini? La concezione platonica si presentava come definitiva, come la nozione di un
triangolo e per le stesse ragioni. Come non vedere che ogni problema dell'anima, se ha un'effettiva
giustificazione, dovrà sempre esser posto in termini di esperienza e che potrà essere risolto, sebbene in
progresso di tempo e sempre parzialmente?» (Oeuvres, PUF, Parigi 1970, pp. 1198-1199).
Il giudizio di Bergson attesta l'intransigenza severa che egli porta nel rifiuto metodologico di ogni
procedimento aprioristico in filosofia. L'autore delle Due fonti colpisce nel segno certamente, ma solo per
quegli aspetti del platonismo in cui c'è un effettivo ricorso a quel tipo di argomentazione, e dunque una
caduta nel dogmatismo e nel gioco verbale. Sono queste le parti caduche del platonismo; ma esse non
devono impedirci di vedere quanto vasta, profonda, geniale sia stata l'opera di esplorazione dell'anima
umana condotta da Platone. La critica radicale del platonismo svolta da Bergson, a nostro avviso, pecca
per eccesso e, si potrebbe dire, di omissione; essa, però, è servita a reimpostare su basi del tutto nuove il
problema della vita oltre la morte.
Ma Bergson non è solo nemico dichiarato di deduttivismi che non riescono a dimostrare alcunché;
egli, come Kant, detesta insieme al dogmatismo, le cui argomentazioni sono meramente verbali, anche lo
scetticismo e quell'atteggiamento secondo cui la filosofia dovrebbe limitarsi a interrogazioni periferiche,
rifugiandosi in una sorta di «nobile silenzio» - come raccomandavano Buddha e il Circolo neopositivista
di Vienna - su tutte le questioni che contano. Ma sarebbe ancora filosofia una investigazione che metta tra
parentesi proprio la ricerca del significato? Nella conferenza del 1911 su «La coscienza e la vita», con cui
si apre L'energia spirituale, Bergson scrive che «la triplice questione della coscienza, della vita e del loro
rapporto è la più importante», e aggiunge: «Ma al momento di affrontare il problema, non oso contare
troppo sul sostegno dei sistemi filosofici. Non sempre ciò che è inquietante, angosciante, appassionante
per la maggior parte degli uomini, occupa il primo posto nelle speculazioni dei metafisici. Da dove
veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? Ecco delle questioni vitali, di fronte a cui ci porremmo
immediatamente, se filosofassimo senza passare per i sistemi» (Oeuvres, cit., p. 815). Il filosofo francese
torna sull'argomento con accenti appassionati nella conferenza su «L'anima e il corpo». Le domande
esistenziali non si possono eludere, perché porsele appartiene proprio alla natura umana, alla nostra
condizione. Se davvero la filosofia non avesse nulla da rispondere a quelle domande, che sono di interesse
vitale, o se essa fosse incapace di chiarirle progressivamente, come si chiarisce un problema di biologia o
di storia, se essa non potesse volgere a loro vantaggio un'esperienza sempre più approfondita, una visione
sempre più acuta della realtà, allora vorrebbe dire che il suo compito si limita a «seminare zizzania» fra
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Studium, n. 1/1997.
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quelli che affermano e quelli che negano l'immortalità per ragioni astratte e non con argomenti ritagliati
sui fatti. «Allora sarebbe quasi il caso di dire, dando un altro senso alle parole di Pascal, che tutta la
filosofia non vale un'ora di fatica» (ibid., p. 859).
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Quando la religione parla di immortalità si richiama alla rivelazione; d'altro canto la filosofia sa
bene che l'immortalità non può essere provata sperimentalmente. E allora come la mettiamo, che cosa
possiamo dire circa «il più grave dei problemi che l'umanità possa porsi»? (ibid., pp. 858-859). Per
Bergson sarebbe già qualcosa, anzi sarebbe molto, poter stabilire sul terreno dell'esperienza che la
sopravvivenza è possibile e persino probabile. Ridotto a queste proporzioni più modeste, il problema
filosofico del destino dell'anima non appare più del tutto insolubile. «Ecco un cervello che lavora. Ecco
una coscienza che sente, pensa e vuole. Se il lavoro del cervello corrispondesse alla totalità della
coscienza, se ci fosse equivalenza tra cervello e pensiero, la coscienza potrebbe seguire il destino del
cervello e la morte essere la fine di tutto... E se, invece, come abbiamo tentato di mostrare, la vita mentale
oltrepassa la vita cerebrale, se il cervello si limita a tradurre in movimenti una piccola parte di ciò che
succede nella coscienza?... In effetti l'unica ragione per credere ad un'estinzione della coscienza dopo la
morte è che si vede il corpo disgregarsi; ma questa ragione non ha più valore se l'indipendenza della quasi
totalità della coscienza rappresenta anch'essa, nei confronti del corpo, un fatto che si constata» (ibid., p.
859).
Bisogna scegliere in filosofia fra il puro ragionamento che mira ad un risultato definito, non
perfezionabile perché ritenuto perfetto, ed un'osservazione paziente che dà risultati approssimativi, però
suscettibili di essere indefinitamente corretti e completati. Il primo metodo, volendo fornirci subito la
certezza, ci condanna a restare sempre nel meramente probabile, o nel puro possibile. Il secondo mira fin
dall'inizio alla probabilità, ma poiché opera su un terreno in cui, grazie alla convergenza su punti decisivi
di esperienze diverse, la probabilità può crescere all'infinito, esso ci porta a poco a poco sulla strada della
certezza. «Fra questi due modi di filosofare - scrive Bergson - la mia scelta è fatta. Sarei felice se avessi
potuto contribuire, anche se di poco, ad orientare la vostra» (ibid., p. 860).
In breve: i fatti che inducono Bergson a pensare l'aldilà come una prospettiva ben fondata sono
quelli che obbligano gli scienziati e i filosofi a concepire in un modo radicalmente diverso il rapporto tra
cervello e pensiero. Le conclusioni a cui il pensatore francese giunge sono riassunte in un passo
particolarmente perspicuo nella sua brevità: «Più ci abituiamo all'idea di una coscienza che oltrepassa
l'organismo, più troveremo naturale che l'anima sopravviva al corpo. Certo, se il mentale fosse
rigorosamente calcato sul cerebrale, se nella coscienza di un uomo non ci fosse nulla di più di ciò che è
iscritto nel suo cervello, potremmo ammettere che la coscienza segua il destino del corpo e muoia con
esso. Ma se i fatti, studiati indipendentemente da ogni sistema, ci conducono invece a considerare la vita
mentale come molto più vasta della vita cerebrale, la sopravvivenza diventa tanto probabile che l'onere
della prova ricade su colui che la nega, piuttosto che su colui che l'afferma» (ibid., pp. 874-875). Vi è,
però, anche un contributo di tutt'altro genere che Bergson propone alla nostra riflessione per rendere più
agevole il cammino verso la certezza: un cammino che non esclude alcuna forma di esperienza, ma
muova alla ricerca di punti di coincidenza tra linee di fatti provenienti da campi molto diversi fra loro.
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Nel 1913 Bergson accettò di diventare presidente della Society for Psychical Research, fondata a
Londra più di trent'anni prima con il fine di sottoporre a controllo scientifico i fenomeni che rientrano
nell'ambito del paranormale, sottraendoli in tal modo alla credulità e alle fantasticherie degli uni come al
facile scherno degli altri. Qualcuno ha parlato a questo proposito di «gusto di Bergson per le esperienze
rischiose», ma l'espressione andrebbe forse corretta in «gusto di Bergson per qualsiasi esperienza, ivi
compresa quella del paranormale», purché fondata su testimonianze precise, molteplici, indipendenti le
une dalle altre e sottoposte a rigorosa critica. A quella società avevano aderito, del resto, personalità di
primo piano come lo statista inglese William Gladstone, lo scrittore Robert Louis Stevenson, Carl Gustav
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Jung, William James e Madame Curie. Bergson era, dunque, in buona compagnia ed egli stesso fin da
giovane aveva studiato con grande attenzione quel tipo di fenomeni.
L'inaugurazione della presidenza della Society for Psychical Research fu solennizzata dalla lettura
di un testo assai meditato, poi incluso nell'Energia spirituale con il titolo «Fantasmi di viventi e ricerca
psichica». In esso il filosofo sollecita lo studio approfondito anche di quelle esperienze che fanno ancora
della psicologia una terra incognita e raccomanda di praticare nei loro confronti «un metodo che stia a
metà tra quello dello storico e quello del giudice istruttore», perché anche di lì possono venire alle altre
scienze dello spirito apporti e chiarimenti da non sottovalutare aprioristicamente. Si prenda, ad esempio,
un fatto pienamente accertato di telepatia: nella mente di una signora si affaccia la visione di un quadro
complesso, ma preciso fin nei minimi particolari, della morte del marito su di un campo di battaglia, nello
stesso istante in cui l'evento si verifica. L'episodio fu riferito in una riunione, a cui era presente anche
Bergson, da uno dei maggiori scienziati francesi, che ne garantiva l'assoluta autenticità; ma lo stesso
scienziato negava, nel medesimo tempo, che potesse esistere la telepatia. Il suo ragionamento era il
seguente: è successo a molte donne di sognare che il loro marito fosse morto o moribondo, mentre questi
stava bene; la coincidenza tra la visione e la realtà può verificarsi, ma è cosa rarissima, mentre la non
coincidenza si può constatare nella quasi totalità dei fenomeni di questo tipo sottoposti a controllo; se ne
deduce che, se ci rendiamo conto della straordinaria sproporzione fra i «casi veri» e i «casi falsi», la
coincidenza tra la visione e la realtà è puramente casuale.
«Un siffatto ragionamento - osserva Bergson - un vizio ce l'aveva ed era precisamente quello di
chiudere gli occhi sull'aspetto concreto del fenomeno» (ibid., p. 866). Lo scienziato, infatti, sostituiva la
descrizione della scena concreta e viva - l'ufficiale che cade in un momento determinato, in un luogo
determinato, con questi o quegli altri soldati attorno a lui - con una formula arida e astratta: la signora era
nel vero e non nel falso. L'astrazione, in cui egli si rifugiava, consisteva proprio nel trascurare quello che è
essenziale: il quadro visto dalla signora riproduce tale e quale una scena molto complicata di
combattimento e di morte; la fisionomia dei soldati presenti alla scena, benché a lei precedentemente
sconosciuta, le è apparsa proprio come era nella realtà. «Potete immaginare - incalza Bergson - che un
pittore, che disegna sulla tela una scena di battaglia, facendo affidamento sulla propria fantasia, possa
essere tanto favorito dal caso da eseguire il ritratto di soldati reali, effettivamente impegnati quel giorno in
una battaglia in cui hanno compiuto i gesti che il pittore gli attribuisce? Certamente no. Il calcolo delle
probabilità, a cui si fa appello, ci mostrerà che è impossibile» (ibid.). Avremmo bisogno di un numero
infinito di coincidenze perché il caso facesse della scena di fantasia la riproduzione fedelissima di una
scena reale. Inoltre, nell'ipotesi delineata, non teniamo conto della coincidenza nel tempo, cioè del fatto
che le due scene, il cui contenuto è identico, hanno scelto per apparire lo stesso momento. Rifugiarsi nella
statistica si rivela a questo punto solo un pretesto per mettere da parte certi fenomeni che non rientrano nei
nostri schemi mentali.
Il punto di vista, cui perviene Bergson, è dunque diametralmente opposto a quello dell'amico
scienziato: «Quand'anche fosse provato che ci sono state migliaia di visioni false, e quand'anche non ci
fosse mai stata altra allucinazione veritiera che questa, considererei come stabilita rigorosamente e
definitivamente la realtà della telepatia o, più in generale, la possibilità di percepire degli oggetti e degli
avvenimenti che i nostri sensi, con tutti gli strumenti che ne estendono la portata, sono incapaci di
cogliere» (ibid., p. 867).
Ci viene qualche indicazione, ci è suggerita una qualche prospettiva da un fenomeno accertato come la
telepatia? Se la telepatia è un fatto reale, il filosofo deve nello stesso tempo considerare come stabilito
rigorosamente e definitivamente che quel fenomeno è dovuto all'azione esercitata da una coscienza
sull'altra, o all'azione reciproca di due coscienze in grado di comunicare tra loro senza intermediari
visibili, mediante la loro sola presenza, per il solo sguardo dell'anima. Ci si deve chiedere se un'esperienza
del genere, non infrequente in questa vita, benché eccezionale, non apra un qualche spiraglio anche sulla
condizione dell'anima dopo la morte.
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L'ultima riflessione di Bergson sul valore dell'immortalità è proprio nella pagina finale delle Due
fonti. L'uomo potrebbe giungere finalmente a non temere la morte e a guardare con amicizia a questo
universo, di cui è la ragion d'essere, se «la semplicità di vita fosse nel mondo veicolo di un'intuizione
mistica diffusa» e se egli divenisse partecipe di «quella gioia che logicamente deriva da una visione
dell'aldilà fondata su un'esperienza scientifica più larga» (ibid., p. 1245).
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