La nascita della nuova filosofia

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MATTEO PERRINI
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DALLA PROTESTA È NATA LA NUOVA FILOSOFIA
Non c'è grande pensiero che non sembri creare un mondo nuovo e che non
conferisca una potenza evocatrice a termini che designano un'esperienza, su cui prima
non s'era riflettuto abbastanza, dilatandone infinitamente il significato. La filosofia nasce
sempre da un atto di meraviglia, come ben videro Platone e Aristotele, ma anche - e
l'aggiunta è di Bergson - da un'appassionata protesta. La protesta di Bergson si levò
contro impostazioni e pregiudiziali metodologiche che ai suoi occhi mutilavano la realtà,
negando conoscibilità e valore a quei fatti d'esperienza verso i quali scattava una sorta di
implacabile divieto d’indagine.
Che cosa ha suscitato in Bergson quella meraviglia da cui germina ogni autentica
interrogazione filosofica e contro che cosa egli ha protestato, dalla prima all'ultima opera,
durante la sua vita? Quando Bergson si era formato e negli anni del suo insegnamento
secondario, il positivismo trionfava e, più ancora, lo scientismo materialista. Era ormai opinione diffusa che l’unico sapere “positivo” possibile fosse quello scientifico.
Comte nella prima metà dell'Ottocento aveva impresso nella cultura e nell'opinione
pubblica un vigoroso impulso in quella direzione; ma nella seconda metà del secolo
quell'orientamento si era trasformato in una sorta di idolatria della scienza fisicomatematica e del meccanicismo, a cui si attribuiva carattere di assolutezza ed estensione
universale, al punto che una scienza sarebbe divenuta “positiva” solo se la serie dei
fenomeni che essa indaga - fosse anche la vita, la psiche, la condotta umana, la politica e
la storia - fosse riconducibile a formule matematiche, poiché sapere significa, in ultimissima istanza, conoscere l'eterna necessità del tutto.
Una siffatta mentalità divenne pervasiva di tutto e i francesi per designarla coniarono un termine, scientisme (scientismo), quasi a significare - ma a provarlo sarebbe
stato proprio Bergson - che la scienza sta allo scientismo, che ne è l'enfatizzazione
fanatica, come l'arte autentica sta a quella malattia dello spirito che è l'estetismo. Il
pensatore che meglio rappresentò quella forma mentis fu il Taine, per il quale tutti i fatti, e
quindi anche i fatti di coscienza, non sono qualitativamente diversi fra loro, perché tutti
determinati da un'unica legge, la legge della causalità meccanica.
A Bergson toccherà misurarsi con i presupposti del positivismo e dello scientismo
ma ciò che prepara e accompagna la ricostruzione filosofica intrapresa dal pensatore
francese rimane l'esperienza, sempre presente nella sua coscienza e incessantemente
approfondita, di ciò che era negato, o semplicemente ignorato dalle correnti filosofiche e
culturali che occupavano quasi per intero la scena. È l'esperienza del perpetuo sbocciare
della vita, dell'imprevedibile novità che si manifesta incessantemente nell'universo; della
parziale, e qualche volta totale, non-coincidenza fra gli inizi e gli esiti, fra le cause e gli
effetti, fra le mie rappresentazioni e l’avvenimento, che si produce in me o davanti ai miei
occhi, fra quello che attendo e quello che mi sarà dato. È la presenza, data a ognuno di
noi in un arcobaleno di sfumature, della “qualità”, e dunque della diversità, che la scienza
disdegna a vantaggio del numero, non ritenendo dei fenomeni che gli aspetti quantitativi,
anche se è la qualità che impreziosisce la vita e ne rivela la realtà sostanziale. Il reale,
infatti, è sempre colorato, odorante e sonoro, resiste o cede alla pressione della mano.
Ogni esistente ha qualcosa di incomparabile che fa la sua individualità. La qualità del
reale è, dunque, il suo valore ed è offerta alla sensibilità di ognuno, dell'ignorante come
del dotto, del bambino, che ne accoglie spontaneamente l'incantesimo, e dell'artista, che
tenta di captare ed esprimere nel suo linguaggio la commozione che essa gli apporta.
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Giornale di Brescia, 1.12.1995, 5.12.1995 e 11.12.1995.
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La nuova filosofia rivendica, come mai prima era accaduto, la realtà sostanziale del
divenire e del tempo, in cui gli esseri sono e trovano la loro consistenza. La polemica, che
attraversa l'intera opera di Bergson, è diretta pertanto nei confronti di tutto ciò che nega o
svilisce, il divenire e il tempo, rendendo così del tutto inspiegabili lo zampillio di novità, il
rilievo della qualità, la creazione continua, l'azione libera, l'esercizio della responsabilità, le
invenzioni dell'eroismo morale e della santità, come pure l'umile, e tuttavia mirabile, durata
del tempo necessario alla fruttificazione, o a far sciogliere una zolla di zucchero in un
bicchier d'acqua, giacché a nessuno è dato comprimere il tempo di fusione. Gli uomini
sperimentano fuori di ogni dubbio che tutto è nel mutamento e tuttavia, anche se in forme
diverse, per ragioni pratiche o per bisogno di sicurezza, nel linguaggio corrente e perfino
in quello della speculazione filosofica, si sforzano continuamente di abolirlo. È
impressionante come riesca facile al pensiero snaturare il tempo riducendolo a spazio,
distruggere la diversità percepita a vantaggio di un'identità astrattamente pensata, estinguere le differenze, cancellare la qualità per ridurla a quantità omogenea e a misura. Lo
scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto
uno scandalo per il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai
afferrate perché non sono mai compiute, un qualcosa che è lì solo per attestare una sorta
di deficit.
La presa di posizione di Bergson diventa sempre più esplicita: il mutamento e il
tempo non sono parvenze ingannevoli, qualcosa che concerne l'imperfetto (Aristotele
diceva “il mondo sublunare”), il non-essere piuttosto che l'essere. La filosofia di Bergson
sarà una sorta di rigorosa psicanalisi di queste credenze collettive divenute presupposti
pseudo-metafisici. La nuova filosofia si presenta, dunque, come un rovesciamento della
concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece di
dissolvere il mutamento e il tempo, essa mira a insediarci nell'uno e nell'altro per meglio
afferrare come gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare
gli esseri dalla loro falsa immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il fluire
della realtà.
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La riflessione, semplicissima e originale, che suscitò “grande stupore” in Bergson e
dette il primo avvio al “mutamento”, fu la seguente: “Se tutti i movimenti dell'universo si
producessero due o tre volte più rapidamente, non ci sarebbe nulla da modificare né nelle
nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare” (Saggo sui dati immediati della
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coscienza, in Ouvres, C.U.F., Pars 1970 , 77-78). A1 limite, se una rapidità infinita
racchiudesse il successivo nell'istantaneo, nessuna formula scientifica, sarebbe
modificata. Che cosa sta a significare un'ipotesi del genere?
A ventidue anni Bergson lascia la Scuola Normale e va ad Angers, a insegnare
filosofia nel Liceo di quella cittadina. Ad Angers si ferma due anni. Molto tempo dopo,
rispondendo ad una lettera del pensatore statunitense William James, che gli aveva scritto
per chiedergli qualche informazione biografica, dovendo preparare una conferenza sulla
sua opera, il filosofo francese spiega in poche righe come egli vedesse allora la storia del
suo spirito: “Per quanto riguarda avvenimenti notevoli, non ve ne sono stati nella mia vita.
Ma, soggettivamente, non posso impedirmi di attribuire una grande importanza al
mutamento sopravvenuto nel mio modo di pensare durante i due anni che seguirono alla
mia uscita dalla Scuola Normale, dal 1881 al 1883”. La lettera prosegue chiarendo in che
cosa consiste tale “mutamento totale” e quale ne fu l'occasione. “Fino ad allora ero
rimasto del tutto imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto
grazie alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo senza riserve. Mia
intenzione era di consacrarmi a ciò che allora si chiamava la filosofia delle scienze; a tal
fine avevo intrapreso, dalla mia uscita alla Normale, l'esame di qualche nozione scientifica
fondamentale”. Ebbene, fu “l'analisi della nozione di tempo, così come interviene in
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meccanica o in fisica, che scompigliò tutte le mie idee. Mi accorsi con mio grande stupore
che il tempo scientifico non dura, che non vi sarebbe stato nulla da mutare per la nostra
conoscenza scientifica delle cose se la totalità del reale fosse spiegata d'un tratto, in un
istante, e che la scienza positiva consiste essenzialmente nella eliminazione della durata.
Questo fu il punto di partenza di una serie di meditazioni che mi portarono progressivamente a respingere quasi tutto ciò che avevo accettato fino ad allora e a mutare
totalmente il mio punto di vista” (Écrits et paroles II, P.U.F., Parigi, 295 - Lettera del 9
maggio 1908).
Se una delle nozioni scientifiche fondamentali è quella di tempo, e se l'analisi del
tempo della scienza fisico-matematica mostra che essa è indifferente ed estranea al
mutamento reale che invece viene attestato in modo irrefutabile dalla vita della coscienza,
ebbene allora si deve concludere che il fatto di cui noi siamo meglio garantiti è incontestabilmente la realtà del nostro io cosciente, la nostra coscienza, per la quale il tempo è una
realtà sperimentata e la parola esistere significa appunto continuità e novità di durata nel
mutamento. Il tempo vissuto è la nostra “durata reale” (durée réelle), la quale si può
cogliere solo là dove è vissuta, cioè nella coscienza.
Alla mente del giovane filosofo apparve sempre più evento di straordinario
significato che nel secolo XIX, che volgeva ormai alla fine, fossero sorte e tendessero a
darsi un rigoroso statuto epistemologico la biologia, la psicologia e la sociologia, cioè
scienze che osservano e sperimentano, servendosi della matematica, ma senza il segreto
pensiero che l'intelligibilità di ogni livello di realtà sia esclusivamente di tipo matematico, o
possa essere comunque racchiusa in una formula matematica.
Bergson comprese che sotto i suoi occhi si stava svolgendo la seconda rivoluzione
scientifica - dopo la prima di Galilei, Cartesio e Newton - con lo sviluppo impetuoso della
biologia, della psicologia e della sociologia. Sviluppo che metteva, però, in evidenza le
idee di probabilità e di discontinuità, l’irriducibilità di ogni tipo di fenomeni vitali a ciò che
sembra prepararli; quelle scienze nuove, inoltre, come aveva ben visto Boutroux,
provavano nei loro rispettivi campi la contingenza delle leggi. Infatti più un fenomeno è
complesso e si presenta sotto un aspetto preciso e determinato, meno è soggetto a
necessità. A mano a mano che saliamo nella scala delle scienze, dalla logica e dalla
matematica fino alla psicologia, noi troviamo più libertà: la ripetizione dell'identico,
l'omogeneo e il necessario che regnano incontrastati solo nell'astratto, si manifestano,
certamente, anche nei viventi, ma solo alla superficie. Le nuove scienze, dunque, facevano scricchiolare il presupposto meccanicistico, cioè uno schema arbitrariamente
esteso da una parte della fisica, la meccanica, dove assolve una sua funzione, a tutto il
reale, e a ogni conoscenza scientifica di esso, compreso l’uomo nelle molteplici forme
della sua attività. Per Bergson, invece, e questa è una di quelle idee che illumina il
significato storico della sua opera, l'avvento delle scienze della vita impone una nuova instaurazione filosofica, una filosofia che sia “positiva”, tale cioè da “modellarsi sul contorno
dei fatti che studia”.
All'evidenza di tipo matematico si aggiunge adesso un'altra chiarezza, quella dei
fatti esattamente stabiliti. Occorre fare finalmente, osserva Bergson, non quello che Cartesio fece nel suo tempo, ma ciò che avrebbe fatto nel nostro “dinanzi a una scienza più
flessibile, nutrita di un'esperienza più vasta e disposta ad ammettere nei fenomeni della
natura una complessità di organizzazione che non si può ridurre senza disagio al
meccanicismo matematico”. Di qui l'ardita scelta di Bergson. “Occorre rompere i quadri
matematici, tener conto delle scienze biologiche, psicologiche e sociologiche, e su questa
più vasta base edificare una metafisica capace di salire sempre più in alto mediante lo
sforzo continuo, progressivo, organizzato di tutti i filosofi associati nello stesso rispetto
dell'esperienza”. La storia impone oggi una rottura dell'alleanza, conclusa da Platone e
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rinnovata da Cartesio, tra metafisica e matematica e, al suo posto, l'avvento dell'alleanza
tra metafisica e scienze della vita.
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Le riflessioni svolte da Bergson nel Saggio sono direttamente legate al “grande
stupore”, che è all'origine della svolta filosofica. Quello stupore, però, per tradursi in acquisto di verità aveva bisogno di un difficile lavoro di smascheramento degli schemi e delle
immagini del “tempo spazializzato”, cioè ridotto a spazio e pensato come se non fosse
altro che spazio. Questa prima figurazione del tempo è rappresentata perfettamente dal
tempo convenzionale del calendario e degli orologi, quello che regola il trambusto quotidiano e lo svolgersi della vita sociale, ma anche quello che viene usato da quelle scienze
finalizzate al dominio e all'uso delle cose. Consideriamo, per esempio, il tempo scandito
da un orologio.
La lancetta che segna i secondi copre in un minuto primo uno spazio suddiviso in
sessanta parti. Ognuna delle parti dello spazio raggiunta dalla lancetta è omogenea
all'altra e tutte coesistono in uno spazio omogeneo. Essendo uguali e collocate le une
accanto alle altre, le parti dello spazio non si potrebbero distinguere se non fossero l'una
fuori dell'altra, l'una esterna all'altra. La lancetta sul quadrante simbolizza la successione
dei secondi con le porzioni di spazio che occupa. Il suo tempo è, quindi, perfettamente
“spazializzato”, ha cioè i caratteri che troviamo nello spazio. Spogliate di ogni differenza
qualitativa, le porzioni di spazio identificate con il tempo occorrente per coprirle possono
essere contate, mediante l'aggiunta di unità a unità, e sono misurabili, in rapporto alla
quantità di spazio che occupano. Noi siamo naturalmente convinti che l'orologio ci indichi
delle variazioni temporali, ma i suoi prima e i suoi dopo non sono altro che dei qua e dei
là. Un tempo così concepito non può essere che un “concetto bastardo” (concept bâtard)
perché irrimediabilmente compromesso dall’idea di spazio.
La confusione del tempo e dello spazio è così abituale che l'uno e l'altro vengono
trattati come cose del medesimo genere e collocate sul medesimo piano. Si indagano
prima la natura e le funzioni dello spazio e poi se ne trasferiscono le conclusioni sul tempo; e poiché lo spazio è definito come l'omogeneo da cui è assente ogni qualità, il tempo
spazializzato non può essere che l'altra faccia dell'omogeneo. Accade allora che noi
pensiamo allo spazio quando parliamo del tempo, e quando chiamiamo all'appello il
tempo, risponde lo spazio. Per una specie di osmosi si attribuisce al movimento e al
tempo la divisibilità dello spazio; in tal modo si cade nella trappola di Zenone.
Sul finire del XIX secolo si è fatta avanti, cercando di darsi un suo statuto
epistomologico, una nuova scienza, la psicologia. Ed ecco che già si cerca si
sottometterla ai pretesi postulati e ai metodi delle scienze fisico-matematiche: la
cancellazione della qualità dei fatti psichici a vantaggio della loro quantificazione, il
determinismo meccanicistico, in ultima analisi l'ossessiva riduzione della temporalità
vivente alla spazialità omogenea. In tal modo la psicologia diventa nient'altro che psicofisica, come in Fechner e Wundt. In tal modo, in un'epoca dominata dal positivismo e
ancor più dallo scientismo, si mette sul conto di una scienza, così necessaria e
promettente come la psicologia, un'aporia insolubile: quella di “innalzare a grandezza
un'intensità pura come se si trattasse di un'estensione”, applicando la dimensione
spaziale là dove non c'è spazio, l'esteriorità alla interiorità, l'estensione a una realtà
inestesa. In una parola, ciò che noi pensiamo della spazialità estesa e numerabile diviene
arbitrariamente il modo di inquadrare e di spiegare il tempo vissuto della coscienza. “Ci si
potrebbe chiedere - scrive Bergson nella "Premessa" al Saggio - se le difficoltà
insormontabili che certi problemi filosofici sollevano non dipendano dal fatto che ci ostiniamo a sovrapporre nello spazio i fenomeni che non occupano spazio... Quando una
traduzione illegittima dell'inesteso in esteso, delle qualità in quantità, ha installato la
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contraddizione nel cuore stesso della domanda, deve meravigliare se la contraddizione si
ritrova nelle soluzioni che se ne danno?”.
E ancora: “Che cosa, dal punto di vista della grandezza, può esserci mai di comune
fra l'estensivo e l'intensivo, fra l'esteso e l'inesteso?”. Insomma, “più si scende nelle profondità della coscienza, meno si ha il diritto di trattare i fatti psichici come delle cose che si
giustappongono”.
La riduzione a spazialità di ciò che non è spaziale - anche se vive in un corpo e
opera attraverso un corpo che si ritaglia un suo spazio - è per Bergson uno dei casi più
evidenti di “problema mal posto”; nel quale si fa intervenire questo tipo di meccanismo:
nell'analizzare un dato di natura mista, come tutto ciò che attiene all'esperienza umana, si
raggruppano in modo univoco arbitrariamente cose che differiscono per natura. Un
problema è “falso” se i termini in cui è formulato non rispondono a delle “articolazioni
naturali” (L'evoluzione creatrice, in Ouvres, 827) e pertanto sono tali da deformare la
natura stessa delle cose, obbligando a vedere in ogni fenomeno solo differenze di
posizione, intensità e proporzione; in ultima analisi differenze di grado fra il “meno” e il
“più” su una stessa linea. L'operazione che si compie è sempre la stessa: “Noi sciogliamo
le differenze qualitative nell'omogeneità dello spazio che le sottende” (ibid., 679). Non c'è
da stupirsi poi se, all'interno di questa rappresentazione, non sappiamo distinguere la
durata e l'estensione, il tempo vissuto e il tempo spazializzato. Se si conosce un solo
genere di fenomeni e un solo tipo di scienza, ci si condanna a diventare uomini a una sola
dimensione, anzi “automi coscienti” dotati solo di “ragione calcolatrice”.
In sintesi, la psico-fisica non ha fatto che formulare con precisione e spingere alle
sue estreme conseguenze una concezione familiare al nostro linguaggio e al nostro modo
di rappresentarci il mondo e la vita. Ma l'ossessione spazializzatrice espone l'umanità a un
grave rischio. “A mano a mano che le nostre conoscenze si accrescono, noi percepiamo
sempre più l'estensivo dietro l'intensivo e la quantità dietro la qualità, e tendiamo sempre
più a mettere il primo termine nel secondo” (ibid., 49). Se la confusione della qualità con la
quantità si limitasse a ognuno dei fatti di coscienza presi isolatamente - conclude Bergson
alla fine del primo capitolo del Saggio - piuttosto che problemi, creerebbe oscurità. Ma
invadendo la serie dei nostri stati psicologici, essa corrompe, alla loro stessa sorgente, le
nostre rappresentazioni del cambiamento esterno e del cambiamento interno, del
movimento e della libertà, dell'io e del suo destino.
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