Equazioni di Maxwell Le quattro equazioni che vanno sotto il nome del fisico scozzese J. C. Maxwell (1831-1879), che possiede il merito di averle revisionate, ordinate e sviluppate, sono fondamentali per carpire la struttura del campo elettromagnetico. Vediamole scritte quando, non essendo presenti interazioni �⃗, ci troviamo in presenza di campi statici: tra 𝐸𝐸�⃗ e 𝐵𝐵 La prima equazione altro non è che il teorema di Gauss per il campo elettrico (il flusso del campo elettrico attraverso una superficie chiusa è uguale alla somma algebrica delle cariche all’interno della superficie, diviso la costante elettrica del mezzo in cui si trovano le cariche); La seconda equazione rappresenta il teorema di Gauss per il campo magnetico (il flusso attraverso una qualsiasi superficie chiusa è sempre zero, ovvero ∄ monopoli magnetici); La terza equazione formalizza che la circuitazione di un campo elettrico statico lungo una qualsiasi linea chiusa è sempre zero e dunque tale campo si dice essere conservativo; La quarta equazione evidenzia, infine, la non conservatività del campo magnetico, in quanto la sua circuitazione risulta diversa da zero (legge della circuitazione di Ampère). �⃗ Ma tali equazioni possono essere riscritte in presenza di interazioni tra 𝐸𝐸�⃗ e 𝐵𝐵 (ovvero quando siamo in presenza di campi non statici, ma indotti) nella seguente forma: Le prime due equazioni, riguardanti il flusso, restano invariate; La terza equazione mostra non la conservatività del campo elettrico indotto (Legge di Faraday-Lenz); La quarta equazione, ripresa da Maxwell con l’inserimento del termine 𝑖𝑖𝑠𝑠 (corrente di spostamento), generalizza la legge della circuitazione di Ampère. Le equazioni di Maxwell assumono una straordinaria importanza, però, quando esse analizzano il campo elettrico e magnetico in assenza di cariche e correnti, ovvero in assenza delle sorgenti stesse dei campi elettrici e magnetici. Assumono, pertanto, questa forma, evidenziando una profonda simmetria tra le quattro equazioni: A partire da questa scrittura, Maxwell notò la profonda analogia tra i due campi e ciò lo indusse a credere (a ragione) che questi avessero la medesima natura. Era evidente, infatti, che una variazione di flusso di campo magnetico generasse un campo elettrico indotto, mentre una variazione di flusso di campo elettrico generasse un campo magnetico indotto. Il fisico scozzese capì che i due campi sono aspetti tra di loro complementari di un’unica entità: il campo elettromagnetico. Tale campo si propaga come un vero e proprio “impulso elettromagnetico”, ma restava ancora da definire la velocità con cui tale impulso si propagasse e bisognava precisare rispetto a quale sistema di riferimento tale velocità dovesse essere calcolata. Come soluzione della terza e della quarta equazione, Maxwell trovò che: In altre parole, scoprì che il prodotta tra permittività elettrica (costante dielettrica) e permeabilità magnetica ha le dimensioni fisiche dell’inverso del quadrato di una velocità. Fu poi scoperto sperimentalmente che questa velocità (c, dal latino celeritas) coincideva proprio con la velocità della propagazione luminosa nel vuoto. Infatti, anche la luce è una radiazione elettromagnetica (emessa nello spettro del visibile) e, come tale, fa parte delle cosiddette onde elettromagnetiche, le quali videro la loro scoperta proprio grazie a queste quattro equazioni. A causa dell’anchilosato modo di vedere le cose (fortemente meccanicistico) dell’epoca, sembrava assurdo che tali onde potessero propagarsi nel vuoto. Maxwell dovette mutuare il concetto di etere dalla filosofia aristotelica per poter descrivere un mezzo materiale di propagazione per questo fenomeno. L’esperimento di Michelson-Morley (1887), basato su fenomeni di interferenza della luce, dimostrò l’assenza di questo mezzo, poiché non furono evidenziati (in un arco temporale di un anno) segni del movimento della Terra rispetto a questo mezzo (vento d’etere). Una delle conseguenze di tale esperimento fu la prova che la radiazione luminosa si propagasse con la medesima velocità in tutte le direzioni. A questo punto, il fisico tedesco Albert Einstein (1879-1955) pensò di addurre tale conseguenza a riprova dell’isotropia dello spazio per tutti gli osservatori e fornire finalmente la prova che non esistesse alcun etere. Dalla considerazione che la velocità della luce fosse indipendente dal moto della sorgente e dell'osservatore, Einstein partì per elaborare la sua Teoria della Relatività Ristretta (1905). Ulteriori e numerose prove sono state addotte per dimostrare, con tutta razionalità, l’assenza dell’etere: ad esempio, l’etere dovrebbe risultare più denso del ferro per permettere la propagazione delle onde elettromagnetiche, ma, contemporaneamente, meno denso dell’aria affinché la Terra non sia rallentata da esso. N.B. le equazioni sono state qui presentate per semplicità in forma integrale. Sono, dunque, valide globalmente (su tutta la regione di integrazione). Qualora espresse in forma differenziale (come scritte da Maxwell), esse valgono localmente. Vincenzo Ventriglia