Numero Maggio `09 - Il Mucchio Selvaggio

Maggio '09
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Maggio '09
Numero Maggio '09
EDITORIALE
Quinta uscita dell’anno per “Fuori dal Mucchio”, il supplemento telematico (estensione
dell’omonima e storica sezione del “Mucchio Selvaggio”) dedicata all’underground italiano.
Un numero che viene messo in linea a pochi giorni dal mega-concerto del Primo Maggio:
uno spettacolo come al solito prescindibile sotto molti punti di vista – a partire da un Sergio
Castellitto in alcuni momenti imbarazzante – ma che per lo meno ha avuto il pregio
quest’anno di concedere spazio anche ad alcuni bei nomi di cui in un passato più o meno
recente ci si è occupati anche su queste pagine, sia cartacee che virtuali. E d’accordo che il
pubblico era lì soltanto per vedere il Dio-Vasco, come non ha mancato di far notare con cori
e striscioni nel corso dell’intera giornata, ma siamo speranzosi che l’iniziativa messa in opera
dagli Afterhours abbia fatto almeno qualche nuovo proselito.
Ma non è tempo di perdersi in chiacchiere, ché il sommario di questo mese è
eccezionalmente ricco di recensioni, interviste e report di concerti e festival. A testimonianza
di una “scena” che in qualche modo (soprav)vive anche lontana da riflettori, televisioni, folle
oceaniche e kermesse nazional-popolari. Buona lettura, dunque, e come sempre buoni
ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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9
Personaggio atipico, tra cantautorato ed elettronica, l'italiano Marco Brosolo è da qualche
anno domiciliato a Berlino. Ha da poco debuttato con un album pubblicato dalla danese
Sopa, “Eponymous”, a nome 9. Abbiamo cercato di scoprire, raggiungendo il titolare
attraverso la posta elettronica, che cosa si cela dietro al numero.
Etichetta danese, domicilio berlinese, una musica per certi versi legata alla tradizione
pop italiana (una tradizione pop che magari non esiste più, viene dal passato, ma fa
capolino qui e là, in particolare in "Sogni")... Il trasferimento a Berlino, immagino per
motivi non solo legati alla musica, ti ha aperto nuovi orizzonti oltre a fornirti nuove
possibilità "logistiche"?
 "Le mie radici sono per aria", diceva qualcuno... se do
retta alla mia sensibilità, gli stimoli arrivano da qualsiasi angolo: tanto da Berlino quanto da
Otranto, da Ableton come da Glenn Gould. Trasferirsi e cambiare casa mi permette di avere
una prospettiva differente, è come guardare la propria persona da dietro o di profilo... pensa
che Berlino mi ha permesso di vedere me stesso assente!


Come mai hai scelto di chiamarti "9"?
Io penso di essere "9": intendo come caratteristica, tanto quanto sono alto o biondo...
Identificandomi in questo numero cerco la mia identità in un mondo diverso. Penso che le
coincidenze siano tra gli spunti più sensati a cui dare retta: ...è vero che il numero 9 ha delle
proprietà matematiche straordinarie rispetto agli altri numeri primi (vi ricordate la prova del 9,
per esempio?), ed è altrettanto vero che Bart Simpson ha 9 punte in testa, e che John
Lennon è nato il giorno 9 ma è stato ucciso l'8, il 9 era già da un'altra parte. Stiamo in pancia
per 9 mesi, e così via... Coincidenze, niente di più, ma soprattutto niente di meno. E voi che
numero pensate di essere?


Mi pare di poter dire che ti trovi a tuo agio sia con il songwriting che con la
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manipolazione del suono, la costruzione di strutture elettroniche. Mi chiedo quindi
quale sia stato il punto di partenza del percorso che ti ha portato a questo territorio di
mezzo, a questo equilibrio delle due componenti. Qual è il tuo background di
musicista? 

Ho studiato batteria e prima, da piccolo, sono stato iniziato alla melodia dai Beatles. Poi,
visto che il cuore era ormai musicalmente occupato da Ringo, ho deciso di riempirmi le
orecchie di minimalismo e di elettronica. Un bel trip: dai ventricoli ai timpani per contenere le
proprie sensazioni sonore.
Direi che nella tua musica c'è quella attitudine che alcuni hanno associato ad un
termine ben preciso, indietronica, mi chiedo quindi se ci sono stati dei modelli in tal
senso (mi vengono ad esempio in mente i Notwist, la Morr Music, Manual), e ti chiedo
se credi che quella etichetta possa avere un senso, in particolare in relazione a ciò
che fai...
Sì, anch'io pensavo che la Morr Music potesse essere la mia etichetta, ma la cosa ha perso
senso perché sono stati loro a rifiutare il mio disco, magari funzionerà con il prossimo?! I
Notwist sono grandi (anche se ho l'impressione che la loro voce voglia a tutti i costi essere
"piccolina"...). Io sono molto ispirato da Aphex Twin, Bruno Lauzi, Arcade Fire, Joe
Strummer, Lomki & Classen, Steve Reich, Daniel Johnston, Housemartins, Shiva Bakta,
Questlove... inoltre noto che il mio lavoro trova una perfetta simbiosi con le immagini e il
cinema: "Lullaby" è stata utilizzata per un'opera d'arte video e "Delay" è stata scelta per un
cortometraggio. Mi piacerebbe molto poter comporre la colonna sonora di un film.
Ci sono diverse voci ospiti su questo disco. Un modo per offrire altri punti di vista
sui brani, per mescolare i diversi registri (cosa evidente mi pare in "Fuori", dove al tuo
canto si intreccia una parte parlata)? Come hai scelto i contributi esterni, erano
preventivati fin dall'inizio?

Pensavo che "Fuori" fosse già completa ma poi ho conosciuto Sheryl Scharschmidt e con
lei ho aggiunto la "lista ostinata" di spoken words. L'assolo di Paolo “Polsi” Michelutti lo
sognavo proprio così: lì lo strumento non è la chitarra ma il chitarrista! Ho scritto "Sogni"
prima di incontrare Julia Erdamnn, ma poi lei mi ha fatto sentire come interpretava questo
pezzo e ho riadattato la canzone sulla sua voce. Io credo ai miracoli!

La tua attività non si limita alla musica ma va a lambire la performance art.
“Eponymous” rappresenta quindi solo uno degli aspetti di ciò che fai. In che modo hai
portato in giro la musica di questo disco? Immagino non si sia trattato di pura e
semplice promozione concertistica.

In effetti sto lavorando a "Me Against Myself", una performance dove Marco Brosolo è
accompagnato in video da una band di tanti Marco Brosolo: Marco + Marco + Marco... = 9!
Per quanto riguarda "Eponymous", va detto che è realizzato in due modalità: versione CD
"tradizionale", stampata in tante copie. Poi la versione "limitata": 9 copie originali. Attraverso
la performance "Buy It Now" io e l'artista Alvise Bittente andiamo a casa di chi compra,
tramite eBay, "Eponymous special edition" e lo realizziamo: io lo suono e lo registro e, nel
mentre, Alvise disegna la copertina. Ne sono rimaste solo 5 copie... A proposito, il tutto costa
1 centesimo più spese di viaggio, ci vediamo a casa vostra!
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Contatti: www.myspace.com/greenfeelings
Alessandro Besselva Averame
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Daniele Faraotti
La chitarra la suona da qualche decennio. Adesso Daniele Faraotti ha messo su band, la
Daniele Faraotti Band appunto, insieme a Enrico Mazzotti (basso) e Ernesto Geldes Illino
(batteria). Con loro ha sfornato un EP e un album dai titoli quasi identici “Ciò che non sai più”
e “Ciò che non sei più” (Alka Record). Faraotti è un eclettico puro, come emerge dalla
chiacchierata che abbiamo fatto con lui.
La tua formazione non è per così dire... lineare. Rock, conservatorio, cos’altro? Ci
racconti?
Direi che tutto è stato formativo. Fino ai nove anni Morandi, Pavone, Celentano, Mina (“Il
cielo in una stanza”, “Se telefonando” avevano un suono magico). Poi mia madre mi regalò
“Come Together“, per me serafico (ma non troppo) bambino di montagna: vivevo a
Dobbiaco, paradiso un po’ fuori dal mondo. È un incontro fondamentale. Mi chiudo in casa,
ingrasso, suono e ascolto. Nel Natale del ‘71 arriva “Sticky Fingers“ (copertina di Warhol con
cerniera annessa); aumento ancora di peso, non esco più. Led Zeppelin, Gentle Giant,
Beatles, King Crimson; Genesis (Gabriel-era), Henry Cow, Rolling Stones (fino a “Black and
Blue“). A scuola sono un somaro, penso solo alla musica e alla mia compagna di classe
Patty. Poi il traumatico trasferimento da Dobbiaco a Imola. Mi iscrivo al conservatorio di
Cesena per studiare chitarra, suono in un paio di cover band (Zeppelin, Crimson) ma oramai
sono proiettato verso studi accademici. Arriva anche in Italia “la musica da pirla“, la febbre
del sabato sera dilaga e a noi non resta che studiare.
Quindi irrompe la musica classica.
Sì, inizio a studiare composizione e questa volta la musica è diversa: Beethoven, Stravinsky
(in fondo avevo già preso confidenza con questa musica nei dischi degli Yes dei Gentle
Giant dei Re Cremisi), Bartók, Debussy, Ravel, Ligeti ecc. La chitarra classica mi va
un po’ stretta – il repertorio è svilente – a parte Bach e Villa Lobos c’è ben poco. Mahler e
Stravinsky mi rapiscono completamente. Finiti gli studi di composizione mi ritrovo a suonare
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in una cover band Zeppelin, il fuoco non si è ancora spento. Come compositore diciamo
così... colto, sono depresso: scrivo poco e quel che scrivo non mi convince. A scuola
(insegno chitarra), per esigenze didattiche mi ri-avvicino alla forma canzone (Beatles,
Nirvana). È il 1994, l’anno che vede anche la collaborazione con Patty Pravo. Sono due
esperienze fondamentali, ma non ne sono ancora consapevole.
C’è qualche stile, qualche avanguardia, qualche sotto-corrente a cui ti sei sentito
vicino per sensibilità e militanza artistica?
Mi riconosco in tante correnti e artisti contemporaneamente: Radiohead e Buckley (tra le
cose più recenti). Gli anni d’oro del prog: Gentle Giant, Crimson, Genesis; Yes, Henry Cow e
Beatles (quasi una religione) e poi Rolling Stones e tante cose Sixties sparse qua e là tra cui
Spirit, Byrds, Zappa ecc. Ma poi ancora Stravinsky, Mahler, Grisey, Wyatt, Ligeti. Tra gli
italiani, Marco Parente (quello di “Testa dì cuore“ in particolare), gli Scisma di “Armstrong“, i
Bluevertigo di “Zero“. Mi fermo qui altrimenti il catalogo di “Don Giovanni“ a confronto è poca
cosa... a proposito: Lucio Battisti.
Vorrei che ci raccontassi la tua esperienza con due artisti italiani di primissima
grandezza, molto personali e scontrosi rispetto al business musicale: Patti Pravo e
Claudio Lolli.
Circostanze fortuite e inaspettate. Della esperienza con Patti ti dicevo prima, fondamentale
sì, ma vissuta con ansia e un po’ di imbarazzo, ma soprattutto con molta spocchia: quella del
compositore colto che guarda al mondo della popular-music con prevenuta saccenza...
ahimé. Avrei voluto collaborare ancora con lei ma come ho già detto fui poco umile, a dire il
vero, fummo tutti poco umili (io e quelli dell’intero ensemble), pensavamo di diventare ricchi
e famosi nel giro di 24 ore e ci ritrovammo con un pugno di mosche in mano. Claudio Lolli
l’ho incrociato in studio quando ho inciso le parti di chitarra, armato di birra e sigarette si
lisciava la barba gentile e sornione. Mi chiamò Pasquale Morgante (arrangiatore de “La
scoperta dell’America”), siamo amici, è stato per un breve periodo il tastierista della Daniele
Faraotti Band in formazione quintetto.
Poi venne il trio...
Partiamo come quintetto. Tutto era più complicato, un solo qui, un solo là, le canzoni
diventavano cerimonie (personalmente non ne posso più di soli – se poi sfoggiano tecniche
mirabolanti ancor meno), poi una prima defezione, poi una seconda e ci ritroviamo a una
prova in trio. Funzionò. Il sound era “più meglio“, i voicing di chitarra si facevano ascoltare ed
io ero più tranquillo.
Con chi ti piacerebbe collaborare in futuro, e magari farti produrre?
Jimmy Page! Ah, ah! Collaborare? Vediamo... Thom Yorke! Per restare in Italia: Benvegnù,
Agnelli, Enrico Gabrielli – potrebbe essere stimolante... Nigel Godrich? Vabbé, non si smette
mai di sognare.
State portando dal vivo “Ciò che non sei più”? Fai delle cover? Vi accompagna
qualche altro musicista, tipo Vincenzo Vasi?
Suoniamo “Friends“ e “Dancing Days“ dei Led Zeppelin – anche “Power To Love“ di Hendrix
o “Life On Mars?“ di Bowie e altre ma non sempre, solo quando ci ricordiamo tutti gli accordi.
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Magari Vasi avesse il tempo di suonare con noi, è un musicista straordinario e naturalmente
molto impegnato. Era così stanco quando sono andato a prenderlo per portarlo in studio a
incidere le parti di Theremin che in macchina si è addormentato accasciandosi su se stesso!
Contatti: www.danielefaraotti.com
Gianluca Veltri
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Intercity
Credevo di dover iniziare con il funerale di un altro gruppo e invece no, perché gli Edwood,
ovvero i componenti degli Intercity, continuano a esistere. E se gli Edwood continuano,
accogliamo con ancora più entusiasmo questo progetto di elettro-acustica cantata in italiano
da Fabio Campetti che come sa fare lui incupisce ma avvicina, attanaglia ma libera. Come
spiegare la bellezza? L’anima degli Intercity sta nelle storie da ascoltare con più attenzione
delle altre volte, ma una volta rapiti si rimane di certo affascinati. In occasione dell’uscita del
debutto “Grand Piano” (Intervista Music/Audioglobe) abbiamo incontrato Fabio e Michele
Campetti e Fausto Zanardelli.
Formare gli Intercity vi ha fatto cambiare il vostro personale modo di approcciarvi alla
musica. Questo è successo per la voglia di ricominciare da zero o è più una vostra
evoluzione, come gruppo, come musicisti?
Fabio: Avevamo voglia di misurarci con la lingua italiana, anche perché comunque prima
degli edwood, in passato un po’ tutti noi abbiamo avuto altre formazioni con cui cantavamo
in italiano che sono sempre rimaste in cantina. Quindi non è una cosa del tutto nuova per noi
e ci piaceva rispolverare questo nostro approccio e quindi perché non provarci visto che
volevamo riposarci un po’ dagli Edwood. Abbiamo cambiato qualche connotato con l’arrivo di
Fausto Zanardelli dei Gretel e Hansel al laptop e arrangiamenti e Anna Vigano che ha
partecipato al disco in veste di chitarrista e qualche coro qua e là.
Quindi non si potrebbe dire che questo progetto è un’evoluzione degli Edwood?
Michele: No, perché sono due entità marcatamente diverse. Nel senso che l’approccio può
essere apparentemente simile, ma in realtà già il cantato in italiano si discosta molto da
quello che facevamo prima e l’inserimento di due nuove persone ci ha portato a scegliere
anche un nome diverso.
Presentando i due membri nuovi, da dove vengono e come li avete incontrati e
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conosciuti?
Fabio:Gli Edwood siamo io, Michele e il batterista che si chiama Pierpaolo Lissignoli, col
quale suoniamo insieme da qualche anno. Dall’ultimo tour degli edwood si è unito Fausto
Zanardelli dei Gretel e Hansel che ci aiuta: è un membro nuovo per la composizione e
l’arrangiamento delle canzoni stesse. E poi si è unità a noi anche Anna Viganò che è
qualche anno che bazzica la scena alternativa con progetti vari. Ha lavorato anche per varie
etichette, quindi c’è un colore in più e nei live da settembre farà parte della formazione.
Cosa significa “Grand Piano”?
Fabio: “Grand Piano” come il quadro di Van Gogh, perché ci piaceva il suono del titolo del
quadro ed era bello utilizzarlo già come titolo di una canzone per poi diventare anche quello
del disco. La canzone stessa ha dei riferimenti ad Amsterdam e quindi anche a Van Gogh.
Dicevate di aver già scritto in italiano, ma scrivere canzoni e lasciarle lì è una cosa.
Adesso avete proprio fatto un disco. Di fronte a quali difficoltà vi siete trovati? Quali
differenze rispetto all’inglese?
Fabio: Sinceramente trovo più difficile scrivere in inglese perché comunque, non essendo di
madre lingua, delle difficoltà ci sono perché l’approccio deve essere più morbido e devi
curare l’aspetto pronuncia. In italiano mi è venuto abbastanza spontaneo, poi vedremo se ho
fatto un buon lavoro o meno: difficoltà non ne ho trovate. Poi pensando a quando in passato
ho scritto in italiano per me è tornare alle origini.
Come fate ad armonizzare tutto rendendo l’elettronica “umana”?
Fabio: Per l’elettronica diciamo che io mi occupo della stesura del brano nudo e crudo: poi
ho Michele o Fausto che si occupano di fare quel tappeto elettronico o piuttosto con chitarre
acustiche o elettriche e fanno tutta la parte di arrangiamento. E infine c’è il nostro batterista
che si occupa della parte ritmica.
Fausto: E ci tenevo anche a sottolineare che in questo disco ci ha dato una mano al basso
Giorgetto Maccarinelli che è un bassista molto bravo.
Quando avete scritto questi testi avevate già in mente le musiche?
Fabio: Si. Le parti vocali c’erano già, quindi la metrica delle parole si adattava alla struttura
sonora che già esisteva. Noi prima scriviamo la parte musicale e poi io in particolare scrivo
le parole in italiano.
Per voi il cinema è stato sempre nell’aria, tra le note, nel nome degli edwood, nelle
diverse citazioni dai testi degli Intercity. Qualche film che avete visto ha influenzato
queste canzoni in particolare?
Fabio: In “Cineprese” ci sono quattro riferimenti puri a quattro film diversi e ci piaceva anche
tra le righe citarli - comunque adesso sono molto appassionato di cinema e mi capita di
inserirlo spontaneamente – “Intervista” di Fellini che dà anche il nome a questa etichetta
che portiamo avanti e che ci permette di veicolare e promuovere questo nuovo lavoro.
Vedremo in futuro di lavorare anche su altre cose. Poi c’è gli “Idioti” di Lars Von Trier che è
un film che mi è piaciuto molto, “Balla coi lupi” e “The Blair Witch Project”. Tutti vanno a
toccare questi quattro punti in un testo che ha questa attitudine cinematografica.
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In queste canzoni raccontate delle storie, come mai la scelta di storie con un inizio,
un‘immagine forte e una fine e non ad esempio frasi ad effetto di stile astratto?
Fabio: Ma perché all’interno del disco, alcune canzoni sono monotematiche “Keith e
Annette”ad esempio o “Sei stata compagnia” e altre sono episodi di storie di vita spicciola
come possono essere i viaggi. Mi piaceva dare un risvolto abbastanza semplice. Mi è venuto
spontaneo usare questo tipo di argomenti più o meno forti da cui sono nate le canzoni.
Voi avete vissuto tre realtà diverse: la Fosbury per il primo disco, Ghost/Midfinger e
adesso la nuova realtà che è vostra, ovvero Intervista Music. Come cambia il vostro
approccio da musicisti con queste tre realtà e quali differenze avete trovato?
Fabio: L’approccio è sempre molto positivo. Abbiamo iniziato con Fosbury per il nostro
primo approccio con la scena underground e ci hanno aiutato molto. Invece con Ghost è
successo tutto poiché la Fosbury era un po’ inattiva e abbiamo abbracciato la loro proposta.
E per quanto riguarda la nostra proposta in italiano, non è che non fossero interessati ma
avevano tempistiche molto dilatate nel tempo. Loro programmano molto prima mentre noi
volevamo uscire così abbiamo provato a fare le cose da soli, però senza rancore.
Dove avete registrato il disco?
Fabio: Il disco lo abbiamo registrato e mixato come anche gli altri due con gli edwood a
Bologna da Francesco Donadello, invece per la post produzione, le voci e i particolari
assieme a Fausto che ha un suo studio e abbiamo fatto lì anche le acustiche. Abbiamo
preso poi il malloppone e l’abbiamo portato da Francesco all’Alpha dept.
Contatti: www.myspace.com/intercitytheband
Francesca Ognibene
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Mesmerico
Non scambiateli per l’ennesimo duo che segue una moda, non certo l’ultima moda, del rock.
I napoletani Mesmerico, partiti come trio nel 2001 per poi scoprire che tutto funziona meglio
e forse rende di più quando ci sono solo due teste da convincere e due strumenti (chitarra e
batteria), da far convivere, oggi tornano sulla scena del delitto dopo l’esordio “Silos”. Ma in
questa operazione di sottrazione è la qualità che ci guadagna, e se non vi fidate delle mie
parole ascoltate il loro nuovo lavoro, “Magnete” (Octopus). Abbiamo intervistato Fabrizio, il
chitarrista e Luca, il batterista, entrambi cantanti.
Una breve presentazione diventa inevitabile, considerando che, nonostante otto anni
di storia, siete una band che, come tante altre, lotta per un briciolo di visibilità.
Fabrizio: Lottare suona un po' eccessivo. Noi speriamo che la visibilità la ottenga chi la
merita e non chi se la procura! È senza alcun dubbio molto difficile, per una band come la
nostra crescere e riuscire in una realtà come quella napoletana, dove forse hanno sempre
attirato più attenzione altri linguaggi musicali. Quando abbiamo iniziato a prendere atto che
ai nostri concerti il pubblico cominciava ad essere folto, per noi è stato bello.
Ho letto in un'intervista che vi siete dissociati dalla definizione di indie-rock, perché
troppo generica. E allora, superando la solita solfa del siamo originali, le nostre
influenze sono molteplici, in che modo riuscireste a presentare la musica dei
Mesmerico a chi non la conosce?
Fabrizio: La musica dei Mesmerico nasce spontanea e credo quella sia la caratteristica più
importante, una sorpresa costante anche per noi! Definirci o catalogarci ci risulta difficile
perché non ci soffermiamo mai sull'analisi di noi stessi e del nostro suono; se quello che
suoniamo piace ad entrambi va bene così. A chi non ci conosce direi che la nostra musica è
un concentrato viscerale di ambient, noise, hardcore in cui ogni pezzo è una storia a se.
Spesso dopo i concerti ci dicono che la cosa più intrigante è quella di ritrovarsi sempre
spiazzati momento dopo momento. E credo che questa sia la descrizione più attendibile.
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Ascoltando 'Magneti' sono rimasto colpito dalla forza d'urto delle composizioni,
considerando che siete un duo. Ma dal vivo riuscite a mantenere lo stesso impatto? E
perché questa ricerca di semplicità d'intenti - e una band di due soli componenti in
qualche modo rappresenta l'essenza - è spesso il viatico per un approccio
voluminoso e potente? Si debbono coprire lacune o c'è dell'altro?
Fabrizio: Il live è il modo più sincero di proporre la propria musica, dove chi ti ascolta lo fa a
360 gradi senza nessun filtro o finzione. Il disco è stato registrato in presa diretta e suonato
tutto in una sola giornata senza nessuna sovraincisione. Siamo felici e grati a Giulio per
essere riuscito a riprendere a pieno quello che è un nostro concerto, errori compresi.
In cosa pensate di essere cambiati, rispetto all’album di esordio “Silos”? E come
sono nati questi cambiamenti? E in che modo la musica che gira intorno vi influenza?
O anche voi fate parte di quella schiera di musicisti, che non ha tempo per ascoltare
altro, che non sia la propria arte? Pensate che vivere a Napoli, possa in qualche modo
influenzare le vostre composizioni?
Fabrizio: Sicuramente abbiamo una maturità differente rispetto a quel periodo. Silos fu
registrato con i nostri soli mezzi e fu una maniera veloce ed economica per far conoscere la
nostra musica a chi ci stava intorno. Siamo certamente cresciuti, ma credo che l'attitudine e
le intenzioni siano rimaste più o meno invariate. Ad ogni modo quello fu un periodo che ha
contribuito a dare un volto a tutto quello che abbiamo fatto in seguito. Ricordo che
passavamo settimane intere a lavorare sui pezzi e sulle registrazioni con passione e
determinazione infinite. Alla fine eravamo fieri di quello che avevamo creato, anche se
consapevoli della poca qualità delle registrazioni.
La collaborazione di Massimo Pupillo degli Zu, nell’ultimo brano “The Sleeping
Mountain Is A Time Bomb” è stata cercata o casuale? Come è stato lavorare in studio
con Giulio Favero? E quando incontrate, anche durante i concerti, musicisti con cui
condividete l’azzardo dell’osare, che tipo di meccanismo scatta? Rispetto,
competizione, semplice scambio di opinioni.
Luca: Con Massimo e Zu siamo amici da anni, abbiamo aperto molti concerti per loro e
devo dire che hanno espresso sempre una grande ammirazione nei nostri confronti, una
vera iniezione di fiducia, soprattutto se l’ammirazione viene da uno dei gruppi che apprezzi
di più. Inoltre sono stati loro a metterci in contatto con Giulio Favero, quindi l'idea di avere
Massimo sul disco è stata una cosa del tutto naturale. Devo premettere che noi e Giulio non
ci conoscevamo affatto prima delle session di registrazione, ne ci aveva sentiti quindi i primi
due giorni si parlava poco. Il terzo giorno eravamo tutti in macchina per andare a mangiare e
metto su un vecchio disco dei Wool (pensavo di essere uno dei pochi a conoscerli, Ndr) e
scopro che anche Giulio è un fan della band. Beh quel disco, ha rotto il ghiaccio. In studio
tutto è stato naturale ci siamo capiti al volo sull'impatto che volevamo catturare senza
ragionarci troppo. Proviamo una grande ammirazione per lui sia come musicista che come
produttore e la stessa cosa accade quando suoniamo con band o musicisti che ci piacciono
e da cui c'è da imparare.
Trovo fantastica l’idea di mettere una canzone bonus nell’edizione in vinile. Un
ribaltare i ruoli, che l’avvento del CD aveva stabilito, grazie al suo maggior spazio. È
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un omaggio ai nostalgici? E voi in che modo vi sentite fruitori di musica,
considerando che la tecnologia, sembra aver cancellato la forma fisica del supporto
musicale (ma non la musica naturalmente).
Luca: Non ci interessa scaricare 400 Gb di musica che non ascolteremo mai.
Personalmente non scarico musica, perché non ho tempo e perché mi annoia la cosa.
Abbiamo un modo ancora romantico di fruire la musica. Preferisco che un disco mi arrivi per
una serie di coincidenze o grazie al consiglio di un amico. Così i dischi li assorbi e ti restano,
che siano in MP3, CD o vinile non fa differenza. L'MP3 è un grande strumento di diffusione e
conoscenza, ma alcuni dischi che mi hanno impressionato poi li ho comprati. Tuttavia in
questo momento di grande cambiamento per la musica, il CD se confrontato con un vinile o
con un file digitale, sembra la cosa più obsoleta e inutile. Rispetto all’MP3, c’è una qualità
del suono simile, in compenso il file digitale è molto pratico. Mentre per alcuni tipi di sonorità,
il vinile ha una qualità di suono superiore a quella digitale, in più l'artwork non ha paragoni
rispetto a quello di un CD, che è racchiuso in uno spazio di 12,5x12,5 cm. Ti ho risposto?
Chissà?!
Contatti: www.mesmerico.com
Gianni Della Cioppa
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Speedjackers
Giovani eppure già con le idee ben chiare, un rock’n’roll tirato ed energico capace sia di
suonare vintage come al passo coi tempi quello dei vicentini Speedjackers, che con
“Secularization” (New Model) tracciano molto bene i confini della loro musica. Un esordio
divertente e grintoso a cui fa seguito un’intervista sul presente, della band, e sul futuro, della
musica, condotta assieme a 3K, sigla dietro cui si cela la voce del combo. Non è andata per
niente male.
Anzitutto il disco: soddisfatti di “Secularization”? Reazioni ne avete già avute?
Ricordi delle session?
Soddisfatti di certo, ci piace sapere che è tutta farina del nostro sacco, può piacere o no, ma
questo è ciò che eravamo quando abbiamo registrato questo disco. Le reazioni per quanto
posso vedere dalla critica sono positive, non ci aspettavamo di certo questi riscontri.
Ovviamente il merito è in buona parte di Govind della New Model che ha fatto girare bene
alla stampa il disco. Ricordi poi ce ne sono moltissimi, con Digiu (il fonico) abbiamo passato
delle serate memorabili a birre, anche subito prima di registrare; poi appena chiuso il PC si
iniziava a suonare le chitarre acustiche in un clima da spiaggia. Il miglior momento però è
stata le serata in cui abbiamo registrato i cori, con le 154 lattine da mezzo litro finite in un
paio d'ore da 18 persone.
Influenze ne citate parecchie: da Elvis ai Turbonegro passando per i Motörhead, ma
c'è qualche gruppo italiano che vi ha segnato o che in qualche modo ammirate?
Di gruppi italiani che ci hanno segnato e ammiriamo ce ne sono molti, anche perché siamo
influenzati da qualsiasi cosa ascoltiamo, anche magari non troppo vicina al nostro genere.
Personalmente di band italiane che in un certo senso mi hanno segnato sicuramente ricordo
Negrita, Litfiba, Punkreas, The Fire; ma sono solo alcuni. Potrei continuare ore...
Addirittura tre chitarre: una scelta o una casualità? Personalmente ho apprezzato
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molto l'organo di "The Road To..."; avete mai pensato di incorporare anche le
tastiere?
Non so se quella delle tre chitarre sia una scelta o una casualità; è capitato, e per noi va
benissimo così anche perché ormai stiamo imparando a gestirle nella stesura dei brani.
Apprezzo moltissimo l'apporto delle tastiere in “The Road To...” e ne approfitto per
ringraziare Doc degli amici Okkupato per essersi prestato a suonarle nel disco, tra l'altro
parteciperà, sempre come tastierista, anche nell'album che stiamo scrivendo. Trovo però
che inserire un tastierista nella line up sia un discorso molto diverso, nel senso che non
credo che la tastiera si inserirebbe così bene in tutti nostri brani, preferiamo usarla solo
quando può dare un apporto musicale davvero interessante; e non è nemmeno da
trascurare che in sette non riusciremo più ad entrare in sala prove.
Il testo de "Il suo pensiero", l'unico in italiano del disco, è da considerarsi come un
esperimento o rappresenta la vostra volontà di cantare in futuro in italiano?
Abbiamo già scritto in italiano anche in passato un brano che si intitola “John Wayne”, e
proprio in questi giorni sto scrivendo una nuova canzone nella mia lingua. Diciamo che più
che una scelta è un’esigenza: quando scriviamo una canzone arriva un momento in cui mi
rendo conto se questa musica mi "chiama" le liriche in italiano o in inglese. Tutto qui. Di
certo non lo facciamo per tattiche commerciali o cose del genere, non ne saremmo capaci.
Sono convinto che in Italia questa musica - che è essenzialmente rock'n’roll, no? non sia in grande forma al momento. Mi sto sbagliando o anche voi vi sentite un po'
persi da screamo e indie-rock?
Beh, per rispondere alla prima domanda sì, noi ci consideriamo una band rock'n'roll; è la
musica più bella del mondo per quanto mi riguarda perché mi fa sentire felice quando viene
fatta bene; non che le altre non lo facciano, ma il rock'n'roll è vero, è sincero e non mente,
quando non è sincero lo si sente subito. Comunque in Italia c'è una piccola sottocultura
underground di questo genere che lavora bene, mi riferisco a band come OJM, Small
Jackets e altre. Il punto è che non si può farlo che per pura passione e basta, perché gli
sbocchi nazionali sono pressoché inesistenti, puoi ricevere buone recensioni, partecipare a
qualche festival con nomi importanti o girare i locali di mezza Italia, il che è un ottimo
risultato, ma non potrà mai migliorare, di più non si può avere finché si resta nei confini
nazionali. Per quanto riguarda screamo e indie-rock: lo screamo mi sembra ormai sparito e
l'indie-rock mi sembra non godrà di sorti migliori.
Una provocazione: adesso gli album se li scaricano tutti, ed immagino ne siate
consapevoli. Allora perché una band esordiente non rinuncia a spendere tempo e
denaro per registrare un album? Non è un inutile bagno di sangue, o ci sono
comunque dei vantaggi?
Per noi "Secularization" è il primo disco che ci viene prodotto e ti posso assicurare che
quando stringi tra le mani il tuo primo disco ancora avvolto nella plastica ti senti davvero
bene, è la dimostrazione che a qualcuno piace la tua musica e crede in te. Se ci lasciassimo
influenzare da chi poi dovrebbe comperare i dischi allora nel nostro paese più degli altri il
rock'n'roll non esisterebbe più, e con lui il punk, il reggae, lo ska e tutti quei generi che non
possono passare nei grandi mezzi d'informazione. Io suono perché mi piace quello che
faccio, non riuscirei a suonare qualcosa solo per interessi non artistici. Per questo dico che
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se un ragazzo non vuole comperare il mio disco non penso sia un problema mio, continuerò
a suonare per me stesso e per fare in modo che il ragazzo che invece me l'ha comperato mi
comperi anche i prossimi.
Contatti: www.myspace.com/speedjackers
Giorgio Sala
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Tellaro
Approfittando della disponibilità di Francesco Cantone e Tazio Iacobacci, parliamo anche di
nuove tecnologie in questa intervista con i Tellaro. Oltre che dell'ultimo “Jars, Jams & You”
(2nd Rec.).
Uscite per la 2nd Rec. e per distribuire il vostro nuovo lavoro avete optato, come già
avevano fatto prima di voi Radiohead e Yuppie Flu, per la rete. Il prezzo viene stabilito
dall'acquirente al momento dell'acquisto, che può avvenire collegandosi con il sito
Internet dell'etichetta www.2ndrec.com/blog. Come mai vi siete orientati verso questo
tipo di soluzione?
Francesco: Il download di “Jars, Jams & You” è stato studiato da un’università tedesca,
interessata ad avere dati reali in merito a procedure discografiche à la “pay what you want”.
Abbiamo ricevuto la proposta di collaborare all’esperimento socio-discografico qualche mese
prima della nostra release e assieme alla nostra etichetta abbiamo accettato.
Quali potrebbero essere i vantaggi reali legati a una distribuzione di questo genere e
che valutazione date dell'esperienza a qualche mese di distanza dal suo inizio?
Tazio: In teoria dovresti poter raggiungere più persone, data la facilità con cui ormai si
scaricano contenuti dalla rete. In più, si lascia libero l'ascoltatore di decidere il prezzo
dell'album. Tutto ciò dovrebbe facilitare la fruizione. In realtà, se non fai 150 concerti l'anno o
non hai passaggi televisivi, chi arriva a scaricare l'album dei Tellaro è lo stesso che ne
avrebbe comprato una copia in negozio. Per ora non so dirti molto sui risultati ottenuti da
questa modalità di distribuzione. Aspettiamo il report dai ragazzi della 2nd Rec.
Il supporto fisico è destinato a scomparire?
Tazio: Credo di no. Come sta già succedendo, il supporto verrà venduto sempre meno, ma
credo che esista ancora un mercato di nicchia e di appassionati che provano piacere a
comprare dischi. Infatti il vinile sta riprendendo quota, grazie a Dio. Il classico cd,
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probabilmente, scomparirà ed io non ne sentirò la mancanza.
Come vi ponete nei confronti del fenomeno del peer to peer?
Francesco: Sono molto favorevole allo scambio di contenuti via web tramite il P2P. Anzi,
credo che esso abbia accresciuto notevolmente il senso ultimo della rete e la sua tanto
sventagliata vocazione alla democratizzazione della cultura. Adesso il disco è sensibilmente
ridimensionato in quasi tutte le sue forme materiali, ma l’inizio della fine non è venuto dalla
rete. Agli inizi degli anni ’90 il mercato tecnologico era ingolfato e ormai incapace di generare
altri desideri nei fan dell'elettro-informatica. A quel punto qualcuno pensò bene che si
potessero fare soldi vendendo su larga scala i neonati masterizzatori cd. E aveva ragione,
iniziando così il primigenio abbattimento della irriproducibilità del CD e la relativa violazione
del diritto d'autore. Adesso mi chiedo: se vanno in galera i proprietari di Pirate Bay, perché
non ci va chi ha lucrato permettendoci di duplicare all’infinito CD e DVD ? Diritti d’autore o
riproducibilità di un bene artistico: io sono per la seconda. Del resto vendere infinite copie di
un album e creare veri imperi con una manciata di canzoni, è contrario al mio principio di
giustizia sociale. Se ne ho una.
Ha ancora senso parlare di indietronica e siete d'accordo con chi vi definisce come
una band che frequenta quel tipo di immaginario?
Tazio: Varrebbe la pena non parlare di indietronica, già solo per quanto è brutto il termine.
Se lo ripeti una decina di volte ti si inceppa la lingua e appare la madonna. Una delle fortune
di chi fa musica credo sia l'essere totalmente estranei a queste settorializzazioni. Se poi mi
vuoi chiedere se i Tellaro fanno musica elettronica usando strumenti acustici, posso
risponderti di si!
Come nasce un brano dei Tellaro?
Francesco: Tellaro è divenuto un progetto fondato sul principio della non-necessarietà.
Tellaro non ci mantiene, non l’ha mai fatto, non è mai stato il nostro lavoro, tanto meno ora.
La scrittura delle canzoni credo segua le stesse direttrici compositive di qualsiasi altra band
sul pianeta, con in più la libertà di un gesto creativo che non deve produrre “guadagno”.
Detto questo, in genere i pezzi nascono così: motivi cantati in simil anglo-siculo-indù su base
piano o chitarra. Traduzione dello spunto melodico in esigenza comunicativa più composita.
Passaggio in studio. Scelta dei suoni che pensiamo possano aiutarci a dire quello che
“vogliamo dire”. Prime registrazioni del layout musicale, successive aggiunte o limature fino
alla chiusura-missaggio della canzone. Per inciso, “Jars, Jams, & You” è stata in assoluto la
registrazione più divertente che abbia mai fatto.
In “Maria” unite con gusto il vostro retroterra culturale - il dialetto siciliano – a
scenari musicali ovviamente poco in linea con le tradizioni della vostra terra. E'
questo che si intende per “glocalizzazione” in musica?
Tazio: Forse. Per quanto ne so la musica tradizionale siciliana non è mai riuscita ad
emergere. Lo stesso dicasi per la tradizione napoletana. Sicché, almeno io, essendo
cresciuto in una città come Catania che non è proprio un paese, posso dire di “sconoscere”
quasi totalmente la tradizione musicale della mia terra, esclusa qualche tarantella o appunto
le canzoni che mi cantava mia nonna. La registrazione della voce di mia nonna che è
confluita in “Jars, Jams & You” è stata tre anni nel mio hard-disk, ma sapevo benissimo che
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prima o poi avrei combinato qualcosa con quella. Mi ricordo che provai a suonarci sopra, ma
il risultato fu imbarazzante. Poi l'idea della batteria schizofrenica ha svoltato il tutto. Credo
che la tua domanda non fosse proprio questa, ma fa niente vero? All'altra non sapevo
rispondere. E comunque la globalizzazione in musica avverrà realmente quando sentirò
Francesco cantare “Vitti na crozza”.
Francesco: Ok, vado.
Rientrate, volenti o nolenti, nella scena indipendente italiana. Che giudizio date del
contesto in cui vi trovate ad operare?
Francesco: Ormai da anni Tazio e io viviamo in città diverse e riusciamo a suonare insieme
così raramente che io mi riterrei soddisfatto di rientrare almeno nella scena mainstream degli
stessi Tellaro. Noi non operiamo nella scena indipendente italiana, facciamo semplicemente
canzoni quando ci va o possiamo farle e talvolta le pubblichiamo tramite la 2nd Rec.. Da ciò
parlare di giudizio circa il “contesto in cui operate” sarebbe come parlare di un mare, mentre
noi siamo dentro una pozzanghera lungo il molo. Non se n’è accorto nessuno, lo so, ma da 4
anni non suoniamo nemmeno live.
Tazio: Sì, sono d'accordo con Francesco. Per Tellaro è proprio cosi. E ti dico anche il
perché. Prova ad immaginare nottate passate a cambiare l'equalizzazione del riverbero di
una cassa campionata con il microfono pazzesco prestato per l'occasione; altre giornate
intere a missare i pezzi, altre per il mastering super professionale al Nautilus che solo per
respirare 5 minuti la dentro devi accendere un mutuo. Poi vai in giro a suonare, porti la tua
attrezzatura e trovi in sequenza: un impianto da piano bar, il “fonico” che in realtà è istruttore
di body-building, sale che hanno un riverbero da “messadelpapaladomenicainpiazza”. Fai
partire il primo pezzo e potrebbe sembrare Fausto Papetti piuttosto che Den Harrow. Alla
fine il risultato è frustrante. Se fai rock'n'roll va bene, ma per il resto direi di no. Alla fine
continuiamo a scrivere pezzi perché non potremmo mai smettere di farlo e tutto ciò ci diverte
molto. Se mai un giorno si vedranno i Tellaro dal vivo, sarà un concerto con due chitarre e
due voci.
Francesco: Ah sì?
Tazio: Ah! Scusa, vero... due chitarre, due voci e un ukulele.
Contatti: www.myspace.com/tellaro
Fabrizio Zampighi
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The Vickers
Andrea, Francesco, Federico e Marco: i fiorentini Vickers sono, principalmente, quattro
ragazzi appassionati di rock, capaci di metter assieme un gruppo tutt’altro che di passaggio,
almeno se si ascoltano i brani di “Keep Clear” (Foolica/Halidon). Un esordio più che
convincente, che ci ha spinto ad approfondire la loro conoscenza.
Come nascono le vostre canzoni, e perché in inglese?
Nascono tra quattro mura, con la chitarra, una sequenza di accordi, un accenno di una
melodia che poi si sviluppa. Non è mai facile spiegare bene come avviene il proprio
processo compositivo. Le canzoni sono strane, la creazione è un evento particolare. Keith
Richards per esempio, intervistato sulla questione, affermò che una canzone è quasi come
un regalo che ti arriva da chissà dove. E' così, spesso ci si ritrova tra le mani una canzone e
nemmeno ci si accorge del modo in cui lo si è fatto. Una volta che c'è la base della canzone,
gli accordi la melodia, viene poi arrangiata, suonata da tutti e quattro, subendo le dovute
trasformazioni. La scelta dell'inglese è spontanea. La musica con cui siamo cresciuti è quella
angloamericana, e di conseguenza sono i suoni e le metriche dell'inglese che si sposano
perfettamente con questo genere di musica. Probabilmente esprimersi in italiano su questo
genere di sonorità, toglierebbe qualcosa al risultato finale della canzone.
Fare un disco oggi, in un momento in cui il supporto sta trapassando. Una scelta di
testimoniare artisticamente se stessi, e poi?
I supporti sono stati, sono e saranno importanti. La musica viaggia verso nuove frontiere, un
tempo si poteva camminare con un walkman o un discman, ora in un lettore di piccolissime
dimensioni si può contenere l'intera discografia di un artista, ma questo non toglie secondo
noi, che le persone vogliano avere un supporto, un qualcosa di fisicamente tangibile, sia un
vinile o un cd. Se questo non fosse vero, non si spiegherebbe l'incremento negli ultimi tempi
della vendita dei dischi in vinile. Noi siamo cresciuti nell'epoca delle musicassete e dei cd, e
siamo arrivati a incidere un disco nell'era del tramonto del compact disc, abbiamo fissato il
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nostro primo lavoro su questo supporto, ma allo stesso tempo cerchiamo di sfruttare al
meglio tutte quelle che sono le nuove opportunità per i musicisti, quindi Internet, MySpace,
Facebook, vendite digitali e così via.
Forte la vena della canzone d'autore angloamericana, nella vostra musica. C'è però
dell'altro...
Sì, in “Keep Clear” è forte l'influenza della cazone d'autore inglese (Lennon/McCartney, Ray
Davies...) e americana (Dylan, Young...) questo è forse dovuto al modo in cui queste
canzoni sono state scritte, nel modo in cui ti dicevamo nella prima risposta. Nel nostro lavoro
però emergono momenti più elettrici, più corali che dimostrano quanto ci piacciano pure i riff,
le ritmiche pungenti, i ritornelli esplosivi, cose che stanno emergendo soprattutto nei pezzi
che stiamo scrivendo da dopo la pubblicazione dell'album e che già si possono ascoltare in
alcuni momenti di “Keep Clear”, e ci riferiamo a canzoni come “Here Again”, “It's Not Easy”,
“The Only One”. In parole povere, amiamo il rock’n’roll.
Essere indipendenti dal mercato discografico, oggi, è un obbligo, una scelta e/o un
punto di forza?
Basta avere un po’ di conoscenze di storia della musica per capire che l'indipendenza ha
accezioni diverse a seconda delle aree geografiche e tematiche in cui si manifesta. Il
discorso poi può essere ampliato, naturalmente, a tanti altri ambiti. Se parliamo dell'essere
indipendenti in assoluto, artisticamente è un punto di forza ed è bellissimo, sempre. Se
parliamo a livello commerciale essere indipendenti quando non sei conosciuto lo possiamo
definire una sorta di zavorra che ti riduce le possibilità di entrare in certi mercati e di
"arrivare". Questo attualmente ha più valore in Italia però; all'estero invece è probabile ma
non una conditio sine qua non... Pensiamo soltanto a Rough Trade, XL o a Domino: piccole
che hanno sfornato grandi gruppi, sono diventate famose quasi quanto le major e
continuano con la stessa politica artistica e (forse) commerciale. Inoltre spesso
"indipendenza" significa aver trovato pubblico con le proprie forze e non con quelle del
battage pubblicitario da major. Ad esempio in Inghilterra la direzione e il sostegno del
pubblico per un gruppo fa cambiare idee anche alle teste dietro alle scrivanie. La gig nei pub
ti crea la base di pubblico per sentirti forte. Basta leggere la maggior parte delle biografie più
o meno recenti. Da noi, quanti sono gli artisti notati davvero durante la serata nel buco
suburbano? Forse l'indipendenza più vera e matura è quella post-successo. Per esempio,
quella attuale dei Radiohead, che adesso possono permettersi di autoprodursi e distribuire
l'album in free download.Se però non avessero alle spalle un contratto per cinque album e
tredici anni di major, avrebbero davvero ottenuto gli stessi risultati? La domanda quindi è: ha
davvero senso per un gruppo sconosciuto autoprodursi, non avere alle spalle qualcuno che
ti ha notato e che crede in te e quindi, autodistribuirsi, regalare la propria musica quando già
le proprie spese sono maggiori delle entrate, cercare di essere ascoltati quando il mercato è
saturato e l'ascoltatore medio difficilmente troverà la pazienza di ascoltare tutti i tuoi pezzi ?
La risposta è che c'è sempre bisogno di una struttura se si vuole lavorare bene, essere
professionali e non cazzeggiare. Ci vuole divisione dei compiti. è quello che ci ha fatto
trovare subito d'accordo con Foolica Records: il pensiero di essere piccoli ma di non volere
sguazzare nell'indie con il desiderio di rimanerci.
L'ambiente fiorentino, in cui vi muovete: qualche soddisfazione, o solo lagnanze?
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Prima le lagnanze. I locali che propongono musica dal vivo sono pochi, come le occasioni
reali per farsi notare. Spessissimo questi locali privilegiano le cover band ma, come si sa, è
una situazione comune a gran parte d'Italia. In sostanza, i posti dove proporre o ascoltare
musica nuova sono davvero pochi. Molti problemi sono dovuti agli eccessivi controlli per il
"rumore" che obbligano i locali vogliosi, il più delle volte a riconvertirsi in posti da DJ set o a
proporre showcase acustici. Certo, è sempre musica, ma solo di un certo tipo. La bella
notizia e che nonostante questa chiusura all'attività artistica e l'odore di muffa che si respira
nella nostra amata città ormai purtroppo quasi fossile, in realtà i musicisti e gli artisti fiorentini
ci sono, tanti, e alcuni di loro sono molto bravi. Manca quindi un movimento e soprattutto lo
spazio per esprimersi. Non si investe in questo perchè non porta immediato guadagno
(anche se alla lunga lo porterebbe data l'altissima densità di artisti che popola Firenze). Si
sa, è il problema di una mentalità ancora un po’ bottegaia. Perchè la bottega non può essere
artistica e quindi far girare soldi? Mah...
Che vi succederà nei prossimi mesi?
L' obiettivo principale, naturalmente, è quello di suonare il più possibile per portare in giro il
nostro album e far conoscere la nostra musica. Abbiamo avuto qualche difficoltà a trovare
una buona agenzia di booking che ci seguisse, ma ora siamo con Grinding Halt e dopo gli
ottimi riscontri ottenuti dalla stampa con “Keep Clear” non ci dovrebbero essere problemi per
organizzare un bel po' di date. In questi giorni poi è stato ultimato il video della canzone “The
Only One”. Grazie a Cristiano Foderaro (nostro caro amico nonché producer del video) è
stato possibile collaborare con Joost Lieuwma (autore di diversi spot celebri) che ha curato
la regia e le animazioni del concept ideato da Tommaso Minnetti. Il lavoro che ne è venuto
fuori è molto interessante, e sarà sicuramente un valore aggiunto per il nostro progetto.
Contatti: www.thevickers.eu
John Vignola
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Ultravixen
Post-punk (e post-rock) spigoloso, noise tagliente, quadrato math-rock alla Shellac,
blues-punk del primo Jon Spencer e dosi massicce di rock’n’roll deragliante: questi gli
ingredienti presenti nella musica degli Ultravixen, formidabile power-trio catanese al suo
debutto con l’esplosivo “Avorio Erotic Movie” (Wallace/Audioglobe), per il sottoscritto una
delle migliori uscite rock underground italiane – e non solo - dell’anno in corso. Ne abbiamo
parlato con Alessio Edy Grasso, chitarra e voce del gruppo.
Gli Ultravixen nascono dall’unione di elementi provenienti da altre band catanesi
d’impronta indie-noise, i Jasminshock e i Jerica’s. Che fine hanno fatto e cosa resta di
quella esperienza nella musica degli Ultravixen?
Gli Ultravixen nascono dall’intenzione comune di Mr. Nunzio Jamaika (basso e voce, Ndr),
*Fabulous* Carmelo (batteria e cori, Ndr) e del sottoscritto, di suonare su ogni palco che
consenta una performance libera da pregiudizi e censure. Poi, come ben dicevi, suoniamo in
Jasminshock e Jerica’s. A tal proposito ti dico che attualmente Jasmin lavora come
assistente di un lanciatore di coltelli e Shock fa il fachiro a Tivoli, Jerica’s invece ulula
sconsolata in uno scantinato aspettando che qualcuno si ricordi di lei. Credo che nel dna
degli UvX si possano rintracciare la tensione di Jasminshock e la propensione alla
sospensione armonica dei Jerica’s.
La musica e l’immaginario del gruppo sono un omaggio allo stile cinematografico e
all’attitudine del regista di culto Russ Meyer. In cosa in particolare vi ha ispirato?
L’attitudine all’esagerazione fino all’inverosimile, la destrutturazione narrativa, la capacità di
cambiare registro costantemente mixando principalmente tre ingredienti: ironia, sesso e
morte... anche gli UvX sono l’espressione di un trio! Puntualizzo però che Meyer è uno degli
elementi del nostro immaginario, che si nutre anche di altro, non solo di cinema...
Il disco è stato registrato da Fabio Magistrali a Catania e masterizzato a Chicago da
Bob Weston degli Shellac. Quali contributi specifici hanno dato alla vostra musica?
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Il team è composto anche da Pippo Barresi che si occupa da più di dieci anni della fase di
ripresa e del sound di “corde” e “pelli” dei nostri dischi. Il contributo di Fabio è stato
preziosissimo in fase di mixaggio, aiutandoci anche ad “osare” nella produzione “artistica”
dei nostri brani (della quale mi occupo personalmente). Bob è stato un perfetto finalizzatore,
che ha reso il lavoro sino a quel momento fatto il disco che conosci, del quale siamo molto
soddisfatti.
Quali sono le vostre influenze e le band preferite in assoluto?
Le nostre influenze sono frutto delle nostre esperienze di vita, quindi anche dei nostri
ascolti. Ci piace tutto ciò che è suonato in modo “genuino”, adoriamo il calore delle valvole,
le belle chitarre, le batterie “presenti”. Ci siamo nutriti di Smith e Drake e Cave, siamo
cresciuti a colpi dell’alluminio di Albini e degli “uh” di Jon Spencer, rivolgiamo il nostro ultimo
pensiero della giornata a Tim Taylor (cantante dei Brainiac, scomparso nel 1997, Ndr).
Due sono le anime principali della musica degli Ultravixen: il noise e il rock’n’roll, Jon
Spencer meets Steve Albini. Concordate con un giudizio così “sintetico” sulla vostra
proposta?
Come ti dicevo apprezziamo i sopraccitati rockers, credo che siano anche altri gli ingredienti
nella formula Ultravixen: cinica ironia, sicilianissimo romanticismo e tanta, tanta, goliardia!
Siete una band di Catania. Esiste ancora una scena rock catanese e, se ci sono, quali
nuove band emergenti ritenete meritevoli di attenzione?
Se ti riferisci a quello che successe alla fine degli anni 90, beh sono passati dieci anni,
Uzeda a parte e con le situazioni di Jerica’s e Jasminshock che ti ho detto prima, nessuna di
quelle band (Keen Toy, 100%, Plank, Pornography, White Tornado, Turn, ecc) è attualmente
in attività. Qualcuno di loro continua a suonare. Oggi ci sono delle band che suonano e si
propongono, noi apprezziamo particolarmente gli H-CB.
Quale significato date al titolo “Avorio Erotic Movie”?
E’ un nome che ben si adatta al mood delle nostre canzoni, che sguaiano “sull’amore”...in
tutte le sue più impensabili forme. Avorio Erotic Movie è un cinema porno del Pigneto, un
quartiere di Roma in pieno fermento culturale e artistico. L’idea nasce da un’intuizione di
Alessandra “Nera” Andriani, nostra amica, compagna e ufficio stampa (Nera Press).
Siete una band fondamentalmente “live” – avete girato in lungo e in largo i palchi di
mezza Europa - e tale approccio è molto presente nell’album in studio. La musica, a
quanto intuisco, rappresenta per voi un’esperienza totalizzante. Confermate?
Hai colto in pieno, Gabriele! La dimensione live per noi è quella naturale. Abbiamo sempre
suonato moltissimo nelle nostre vite e UvX è anche una risposta ad un momento nel quale,
per varie ragioni, tutti e tre suonavamo poco. Dopo un paio di mesi dalla “prima” abbiamo
esordito a Catania, da quel momento non ci siamo più fermati. I nostri live sono sicuramente
il modo migliore per conoscere la nostra proposta musicale.
Progetti imminenti dopo la pubblicazione di “Avorio Erotic Movie”?
Attualmente siamo impegnatissimi con i live show che fino a tutto il 2009 ci porteranno in
giro per l’Europa. Registreremo alcune nuove canzoni in autunno. Nel frattempo,
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continuiamo a vivere, scrivere, registrare, provare.
Contatti: www.ultravixenband.com
Gabriele Barone
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A Place In The Sun
Leaving Home
Bagana/Edel
La storia degli A Place In The Sun vale proprio la pena di essere raccontata. L’inizio è il più
classico possibile: reduci da precedenti esperienze musicali, quattro ragazzi dell’hinterland
milanese formano la band nel 2005. Dopodiché partono in tour per l’Europa e portano il loro
pop-punk ultramelodico ed ultraveloce al cospetto di maestri del genere quali Ten Foot Pole
e Four Square. Superato questo ostacolo decidono di incidere questo “Leaving Home”, che
però esce solo in Giappone per l’etichetta locale di gente come Alkaline Trio e Queers.
Logico quindi che al ritorno dall’ennesimo tour anche da queste parti ci si accorga di loro, ed
è la Bagana che finalmente licenzia in patria l’album d’esordio. Un esordio che fila veloce e
preciso come un proiettile, sprizzando melodia da tutti i pori. Il cantato, rigorosamente
inglese, è armonizzato a dovere e la produzione, seppur made in Italy, è praticamente
indistinguibile dai colossi d’oltreoceano. In questa mezz’ora al fulmicotone trova poi anche
posto la collaborazione sulla piacevole “The One She’s After” di Simon Head dei canadesi
Four Square e due remix, che per la verità non aggiungono nulla a quanto già espresso, ad
opera di Matt Fuzzo dei Better Luck Next Time; molto più interessante ascoltare la delicata
“Awake” in chiave acustica. La perplessità più forte rimane il cantato in inglese, che
purtroppo in Italia chiude ancora molte porte, ma “Leaving Home” è un disco solido che
aspetta solo di essere portato su quanti più palchi possibile.
Contatti: www.aplaceinthesunrock.com
Giorgio Sala
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Abulico
BeHind
Seahorse/Audioglobe
Parte in direzione decisamente folk "BeHind", il primo album degli Abulico - una voce
antichizzata dai riverberi, una chitarra strimpellata in lontananza e pochi tocchi di
glockenspiel che restano a mezz'aria, - ma poi deraglia subito in direzione di un rock'n'roll
saturo e tiratissimo. Il resto del disco prosegue in una sorta di mediazione decisamente più
sfumata tra le due anime della formazione, muovendosi in particolare tra l'evocazione di
Buckley figlio che si manifesta di tanto in tanto, senza implausibili pretese di emulazione e
contemporaneamente ad una buona distanza di sicurezza dalle brutte figure, e certe
sbavature soniche che potrebbero far pensare ai Motorpsycho. Stiamo parlando insomma di
gente che conosce a fondo la materia che omaggia. Tra i vari riferimenti che emergono
all'ascolto di "Behind", però, quelli che rendono al meglio la personalità della band sono
probabilmente presenti in una ballata come "Hide Me", epica e trattenuta come riesce solo
certo pop chitarristico di tradizione britannica. In quella canzone gli Abulico dosano ogni
ingrediente al meglio, mostrano di che stoffa sia la loro sensibilità musicale e quali siano le
potenzialità di un songbook già parecchio ispirato alla sua prima uscita pubblica.
Contatti: www.myspace.com/abulico
Alessandro Besselva Averame
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Badge And Talkalot
Greatest Hints
Still Fizzy
Badge And Talkalot (approssimativamente traducibile con "chiacchiere e distintivo", Robert
De Niro docet) è un progetto costituito da Gilberto Caleffi, DJ e produttore attivo da qualche
anno nel circuito della club culture con il nome d’arte di Badge nonché fondatore della Still
Fizzy, etichetta che da alle stampe questo album e che qualche mese fa ha dato i natali
all'ottimo esordio degli El Cijo; costui ha coinvolto in una buona parte delle tracce qui
presenti 10ace, il cui ruolo pare essenzialmente quello di "stratificatore" sonoro: melodie e
strumenti che vanno a rendere più corposa la filigrana dei brani. Questa raccolta di "Greatest
Hints" (ovvero "allusioni") rappresenta uno spaccato credibile di musica da ballo nella cui
composizione si bilanciano elementi breakbeat ma anche soul ed electro, echi e risonanze
ampliati grazie anche al contributo di vocalist come l'inglese Liz Melody o il tedesco Ruben,
e sono allusivi quanto il titolo promette: musica solida per il corpo, algidamente sensuale, ma
con quel poco di anima che dà una mano ai brani a spingersi a mettere il naso fuori dalla
scena di riferimento. Si sfiora più volte una dimensione pop più ampia, e questo ossigena al
meglio una musica magari non originalissima ma piuttosto frizzante.
Contatti: www.badgeandtalkalot.com
Alessandro Besselva Averame
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Numero Maggio '09
Bilingüe
En el medio de to’
Venus
Sono metà italiani e metà tedeschi, ma linguisticamente italo-spagnoli. Dai Bilingüe
vien fuori, da statuto, un meticciato globalizzato. I membri della band provengono da
esperienze diverse, dal punk alla musica gitana, ma si sono perfettamente sintonizzati su un
unico canale. Un lungo tour tedesco ha suscitato entusiasmi e cementato l’intesa. Simone
Spreafico, chitarrista dei Mercanti di Liquore, ha prodotto questo che è il loro secondo
lavoro.
L’ensemble di Davide Napolitano Gil, di stanza a Barcellona, forgia a tutto tondo un
flamenco multicolore, cantato per l’80% in spagnolo (il resto in italiano). L’effetto finale non
sarà chissà quanto originale, ma trascinante sì. In una certa uniformità stilistica, si fa prima a
segnalare le tracce che si discostano leggermente dal resto: “Ci sei anche tu” e “Pa’reir,
pa’llorar”, che propongono sulla tavolozza delle tinte in chiaroscuro. Ma ci pensa “Mucho
gusto” a spostare il sound e il ritmo verso toni bandistici da patchanka. Il tono prevalente è
musica tzigana da movida, da viaggio, da campeggio, “queste parole le canto con il cuore”,
con le chitarre a schitarrare e ben 3/5 dei componenti a percuotere o agitare percussioni.
Le tracce sono tambureggianti e combattive, sprigionano humus positivo, anche se alla
quattordicesima traccia – “CSTV” – peraltro una delle migliori, si arriva, se ci passate il
paradosso, stremati dal buonumore.
Contatti: www.bilinguemusic.com
Gianluca Veltri
Pagina 30
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Numero Maggio '09
Boo Boo Vibration
Scimmie metropolitane
Sana/Venus
Probabilmente i Boo Boo Vibration non lo hanno nemmeno pensato, ma intitolare l’album
d’esordio “Scimmie metropolitane” quando si celebra il duecentenario della nascita di
Charles Darwin apre molteplici interpretazioni. Del resto Bologna, la città che ha dato i natali
alla band nell’ormai lontano 2000, non è certamente una giungla, eppure è di certo uno dei
posti più “selvaggi” in Italia in cui fare ed ascoltare musica. Un’attitudine che si riflette
chiaramente in un album che seppur legato a doppio filo al reggae ed alla Giamaica non si fa
troppi problemi a contaminarsi con i generi più diversi; dal pop di “Lascialo andare” fino
all’elettronica che permea tutti i quattordici (più uno) brani, senza dimenticare un cantato che
sa destreggiarsi sia con la lingua madre sia col dialetto salentino. Come al solito, trattandosi
di musica in levare, davvero nutrita la lista degli ospiti, si passa da Promoe, rapper svedese
in forza anche nei Looptroop, passando per Jah Sazzah, Massimo Mercer e Gaetano
Santoro degli Aretuska di Roy Paci per arrivare a Soul Bwoy e al suo speech in “Centri”.
Tanta carne al fuoco per un lavoro certamente interessante e che, sempre per tornare alle
metafore evolutive, in alcuni momenti sembra raccogliere l’eredità di band come 99 Posse,
capaci di farsi apprezzare anche al di fuori del – pur numeroso – pubblico di nicchia. La
speranza è che ci riescano davvero, riannodando un filo che già da troppo tempo nessuno
sembra essere in grado di raccogliere.
Contatti: www.myspace.com/booboovibration
Giorgio Sala
Pagina 31
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Numero Maggio '09
Collettivo Ginsberg
Pregnancy

Il Vaso di Pandora
Canzone d'autore, ma decisamente lontana dai canoni a cui i menestrelli del Belpaese ci
hanno abituato. Piuttosto, in linea con certe derive di scuola americana, filtrata dai Sixties dei
Doors più evocativi (“I'm Waiting - Tango nero”), plagiata dall'eleganza crepuscolare dei
Tindersticks (“Maudì”), “crossoverizzata” dalle slide guitar degli Allman Brothers (“The
Farm”), vicina a certo blues bianco (“The Wish”), vagamente psichedelica e solcata da
istanze waitsiane (“Yama”). Al di là delle interconnessioni stilistiche che il secondo episodio
del Collettivo Ginsberg potrebbe suggerire – da sempre soggettive e spesso estemporanee
–, resta un fatto: con “Pregnancy” ci si trova di fronte a un disco abile nel rielaborare un
retroterra musical-letterario radicato in un immaginario ben preciso: quello che nasce dalla
beat generation, dal carattere forte del suo messaggio poetico, e che a suon di chitarre
elettriche, Rhodes, batteria, basso, più una serie di contributi strumentali di collaboratori
esterni – vi rimandiamo al MySpace del gruppo per una panoramica più esauriente –, si fa
strada verso la modernità. Su una Route 66 fuori tempo massimo o magari un sentiero in
mezzo al deserto della California. Che nei sogni del gruppo, neanche a dirlo, collega Forlì a
Cesena, vista la provenienza geografica di Cristian Fanti, Andrea Rocchi, Giovanni Pistocchi
e Christian Mastroianni.
Contatti: www.myspace.com/collettivoginsberg
Fabrizio Zampighi
Pagina 32
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Numero Maggio '09
Cora
L’aria che respiro soffoca
Jestrai
Non entrano timidi e in punta di piedi, i Cora (o .cora.), segnalandosi anzi per un esordio
fragoroso e sicuro. Il sound è compatto e cattivo, scuro. Abbastanza tipicamente anni 90.
Geograficamente – anche se i tre ragazzi vengono da Jesi – il mare che li bagna non è
l’Adriatico delle Marche ma il Pacifico di Seattle. Non è arduo situare la band: è possibile che
il cantante e chitarrista Tommaso Sampaolesi dorma con il poster di Chris Cornell sul letto, e
che i tre – il suddetto più Michele Cappannari al basso e Stefano Piersanti alla batteria – si
siano consumati i timpani con le discografie di Alice in Chains e Nirvana. Il debutto dei Cora
è come entrare in un campo di ortiche, il sound è abrasivo, il canto urlato. La produzione
Red House e il mastering lussuoso di Bob Weston degli Shellac danno ottimo smalto alle
tracce. Tra le quali, seppur in granitica continuità, emergono come un caterpillar “L’aire”, la
minacciosa “Bora lacrime” e una “D.A.P.” al fulmicotone.
Potrebbe sembrare un lavoro un po’ anacronistico, questo, e forse un po’ lo è, se non fosse
che in fondo il gioco del rock è questo da più di mezzo secolo. Non si inventa (quasi) mai
niente. Il punto non è scoprire l’acqua calda, ma cuocerla bene. Magari con un tocco
riconoscibile. Per questo alle prossime uscite ci aspettiamo dai Cora che sappiano
aggiungere ingredienti più personali, peculiari, alla loro musica. Con il loro debutto ci hanno
dimostrato che ci sanno fare; col seguito, provino a stupirci un po’.
Contatti: www.myspace.com/coralacrime
Gianluca Veltri
Pagina 33
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Numero Maggio '09
Denise
Carol Of Wonders EP
Memory Men/Venus
Denise Galdo è una ventitreenne di Salerno, che ha dato vita al suo progetto solista nel
2005. Archiviati i tre precedenti EP autoprodotti e alcuni concerti di spalla a Marco Parente,
Meg, Perturbazione, Polly Paulusma o Arab Strap, “Carol Of Wonders” è una vera e propria
entrata in scena affrontata a passo sicuro. Il dischetto schiera quattro canzoni per nemmeno
un quarto d’ora di durata: per poterci pronunciare in maniera netta, dovremmo quindi
ascoltare un più sostanzioso lavoro sulla lunga distanza. Per adesso il pop della giovane
cantautrice poggia su aggraziate trame elettroniche, atmosfere fiabesche, rimandi jazzy,
modernità e classicità a braccetto e arrangiamenti delicati ed eleganti. Corde elettriche o
acustiche, autoharp, glockenspiel, tastiere, armonium, piano, clavicembalo, programmazioni,
banjo, basso, batteria, violoncello e vari giocattoli danno man forte a un cantato fanciullesco,
etereo e a tratti leggermente monocorde. Come suggerito dalle note per la stampa, è
impossibile non pensare a certe proposte provenienti dal Nord Europa - dalla maestra Björk
sino a Emiliana Torrini - ma vengono in mente anche l’Elisa degli esordi o l’ultimo album di
Lara Martelli: è logico che la personalità si affinerà strada facendo. La scelta della lingua
inglese ha già fruttato qualche recensione all’estero, a conferma di uno sguardo oltreconfine
che sembra giustamente accomunare la maggior parte dei nostri musicisti di nuova
generazione. Non ci resta che attendere sviluppi.
Contatti: www.deniseproject.it
Elena Raugei
Pagina 34
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Numero Maggio '09
Dream Weapon Ritual
Like A Tree Growing Out Of A Sidewalk
Ticonzero
Dopo essersi trasferito in Sardegna, alla fine degli anni 90, Simon Balestrazzi ha iniziato a
cooperare con numerosi artisti isolani, allargando i propri interessi a varie forme espressive
come la danza, il teatro e le installazioni sonore. La fitta rete di collaborazioni così intrecciata
gli ha permesso non soltanto di resuscitare i T.A.C. – gruppo di culto dell’underground
post-industriale – ma anche di dar corpo e sostegno a diverse altre band più o meno
estemporanee.
Con “Like A Tree Growing Out A Sidewalk” il musicista di origini parmensi presenta uno dei
suoi progetti più recenti, Dream Weapon Ritual, che lo vede coinvolto accanto all’attrice e
cantante Monica Serra. Nato come performance multimediale, l’album documenta l’indole
più sperimentale del Balestrazzi, richiamando per molti versi la straordinaria esperienza
condotta con i Kino Glaz tra il 1986 e il 1988. Ma se allora la ricerca sonora ruotava attorno
ad un complesso strumentale prevalentemente acustico, e si ispirava ad oscure suggestioni
medievali, oggi è l’elettronica a tener testa ed è la natura – nel suo manifestarsi più
selvaggio e impenetrabile (“Black Forest Myth”) – a fornire la necessaria ispirazione.
Demolito ogni legame con la forma canzone, il duo propone un affascinante percorso fatto
di suoni, rumori e vocalizzi raccolti in presa diretta, poi filtrati e decontestualizzati per dar
corpo ad un visionario viaggio rituale tra alberi, radici e canti di uccelli.
Contatti: www.ticonzero.org
Fabio Massimo Arati
Pagina 35
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Numero Maggio '09
Elettrofandango
In quanto già peccato
Scriveremale/Goodfellas
È musica densa, viscosa, a tratti non poco minacciosa quella degli Elettrofandango; musica
difficile, perché assale l’ascoltatore a suon di chitarre urticanti, ritmiche impetuose, bassi
rugginosi e una voce enfatica e teatrale che declama testi che, quando a fuoco, sfoggiano
un taglio letterario non comune. È un blues malato il loro, come malato era il rock di Birthday
Party e Pussy Galore, figlio degli Scratch Acid e fratello minore de Il Teatro degli Orrori (ha
registrato e mixato il tutto Giulio “Ragno” Favero, e forse non è un caso), con però in più un
certo occasionale caracollare barcollante che è quello del Capossela più alcolico. Una
miscela esplosiva quanto pericolosa, per chi ascolta ma anche per chi la prepara, ché
quando si calca troppo sulla drammaticità il rischio è quello di passare dall’altra parte e
cadere nel ridicolo, così come l’esagerata ambizione è sempre a un passo dal trasformarsi in
pretenziosità: onestamente a volte la band di Treviso ci va davvero vicino (la sequenza
composta da “Confessioni di un vecchio sporcaccione”, con ospite Remo Remotti, e
“All’ippodromo” è, in tal senso, alquanto indicativa), ma nel complesso “In quanto già
peccato” dimostra una solidità di fondo invidiabile. Non ne escono tanti di lavori così vividi e
lontani da compromessi e mezze misure, destinati quindi a dividere gli animi e a fare
discutere; il che, già di per sé, rappresenta un pregio non da poco. E non sono in molti, in
Italia, ad avere il coraggio di fare cose del genere. Il che, onestamente, dovrebbe far
guadagnare agli Elettrofandango il rispetto anche di coloro che questo disco lo odieranno.
Contatti: www.myspace.com/elettrofandango
Aurelio Pasini
Pagina 36
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Numero Maggio '09
Ethnos
O bannu
Scaramuccia
Dopo un quarto di secolo al fianco di Mango, il chitarrista lucano Graziano Accinni ha deciso
di cambiare, aprendo una ditta nuova che mettesse a frutto e riassumesse secoli di folklore
della sua terra. È questo il senso di Ethnos, un collettivo che si rifà alle melodie e ai modi
della tradizione, restituita a tratti con severità, distante da toni trionfalistici e chiassosi: si
ascolti il canto devozionale “Rusariu”, eseguito per chitarra classica, voce solista e cori
profondi. È invece la grazia a guidare episodi come “Polca a matrimonio”, che fa virare
inaspettatamente l’accompagnamento delle nozze di paese verso una sorta di
country-western (che idea simpatica!), come se tutte le musiche popolari del mondo fossero
sorelle. I musicisti di Ethnos, tutti con carriera parallela in pop, si prendono una vacanza con
questa immersione folk, vissuta con pienezza e divertimento. Il benessere trasuda nella
sensuale gioiosità di “Vola e mena”, nell’accelerata “Tarantella all’aviglianese” o
nell’inseguimento a tre chitarre di “Lucanae”. Il solido basso elettrico di Sal Genovese
permette al lavoro chitarristico di farsi intreccio e fioritura. Ad affiancare Accinni nella
produzione artistica c’è Ennio Rega. Buono l’esordio. Ma più in generale, e allargando lo
spettro, da musicisti così bravi, versatili e colti, auspichiamo una contaminazione dallo
sguardo ancora più ampio, che abbia voglia di rielaborare anche più rischiosamente la
tradizione.
Contatti: www.scaramuccia.org
Gianluca Veltri
Pagina 37
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Numero Maggio '09
Fitness Forever
Personal Train
Pippola-Elefant/Audioglobe
Si potrebbe iniziare la recensione di questo esordio dei napoletani Fitness Forever
ragionando sul fatto che, grazie ai vari Morgan, Baustelle e Non Voglio Che Clara, tra le
sonorità più cool del momento vi sono cose che fino a cinque-dieci anni fa a nominarle si
rischiava la lapidazione. Il fatto è che, a differenza di tanti alfieri di un rétro-nuovismo in
realtà soltanto di facciata, l’ensemble in questione mette in atto un’operazione ancora più
radicale, perché non cerca di prendere stilemi sonoro-culturali del passato adattandoli ai
giorni nostri: no, le canzoni di “Personal Train” si tuffano a bomba nel pop di Burt Bacharach
e nella canzone italiana meno seriosa degli anni 60 (anche se una “Se come se” è in tutto e
per tutto disco-Seventies, e l’intermezzo “Je je Geox” suona terribilmente Brazil-exploitation);
e, non fosse per qualche distorsione, qualche soluzione sonora e la grana dei suoni, si
potrebbe tranquillamente credere che ci si trovi di fronte a un reperto d’epoca.
Estremamente curato in ogni dettaglio, arrangiato alla grande e interpretato con il giusto
spirito, un pezzo come “Probabilmente” – ma il discorso vale per quasi tutta la scaletta – è
un vero e proprio “guilty pleasure”: la ragione e il senso critico dicono che si tratta di una
canzoncina talmente disimpegnata e lieve da risultare fastidiosamente impalpabile, e tuttavia
è davvero difficile non rimanerne anche solo un pochino conquistati. Ben consapevoli però
che, proprio come una hit estiva, tempo qualche settimana e non vi sarà traccia di essa nella
nostra memoria. Al di là di tutto, però, non è facile muoversi con così tanta agilità lungo il
confine che separa il “senza tempo” dal “vecchio”, dote che anche i detrattori più convinti
non potranno che riconoscere alla formazione partenopea.
Contatti: www.myspace.com/fitnesswithyou
Aurelio Pasini
Pagina 38
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Numero Maggio '09
Gazebo Penguins
The Name Is Not The Named
Suiteside/Audioglobe
Tre pinguini con gli occhiali, chitarra, basso e batteria. La manopola del volume sempre
girata verso il “max”. I Gazebo Penguins, sul palco, amano definirsi power-trio di power-punk
per chi ascolta power-metal, ma parafrasando la citazione del conte Korzybski nel titolo
dell'album, la descrizione non è mai propriamente la cosa descritta, c'è dell'altro. Ci sono, ad
esempio, un tappeto di pedalini, effetti e urla sgolate. C'è un batterista che sa che cosa siano
tecnica e velocità. C'è un igloo, a Correggio, che è una sala prove, ma che sovente si
tramuta in locale clandestino dove sono transitate alcune delle migliori band italiche. “The
Name Is Not The Named” - seconda prova dei Penguins dopo l'EP casalingo
“Penguinvasion” del 2006 - mette insieme tutte queste cose e chiarifica le spinte hardcore
della band perfettamente a loro agio insieme all'attitudine equilibrata tra il pop e il nerd's
style. Oltre che conoscenti e ospiti in una manciata di tracce, i The Death Of Anna Karina, i
Settlefish e i loro fratellini più giovani My Awesome Mixtape sono anche punti di riferimento,
e i pinguini ne interiorizzano il suono per poi schiacciare sul pedale dell'acceleratore. Ne
esce un'atmosfera schizoide a tratti quasi emo-core, una allergia al 4/4 o quantomeno un 4/4
sotto mentite spoglie. Bruno Germano al mixer e la masterizzazione di Carl Saff a Chicago
fanno il resto. Passato l'inverno, la lunga marcia dei pinguini nella discografia nostrana può
iniziare senza preoccupazioni. E' primavera, la stagione dell'amore, della riproduzione e
della manopola del volume girata verso il “max”.
Contatti: www.gazebopenguins.com
Marco Manicardi
Pagina 39
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Numero Maggio '09
George Merk
X
Tube Jam/IRD
Esauriamo subito la questione anagrafica, dicendo che Giorgio “George” Merk è figlio di
Teddy Reno e Rita Pavone. E non ci torneremo più sopra, perché niente della proposta
dell’artista ha a che vedere con quella dei genitori. I territori entro cui si muove “X” – opera
seconda, a cinque anni dall’autoprodotto “George” – sono quelli di un rock solido,
muscoloso, in cui non mancano le distorsioni ma neppure difettano le melodie, classico e
“stradaiolo” nell’impianto ed estremamente curato – troppo, forse, ché un po’ di fango in più
male non avrebbe fatto – nelle sonorità. Un lavoro ben fatto, quindi, peraltro non privo di
soluzioni e deviazioni interessanti (i tocchi di elettronica in “Mask On”, i cori alla Alice In
Chains in “Ants & Spiders”, la blueseggiante “Stomp” e il pop di “A Lazy One”, l’enfasi
orchestrale di “One More Day”) e, anche nei momenti più canonicamente hard/AOR,
tutt’altro che disprezzabile. Perché, al di là della potenza e di alcune soluzioni produttive un
po’ troppo scintillanti, il cuore c’è e batte al posto giusto. Gli amanti di un certo tipo di
sonorità elettriche (pur non mancando momenti a spina semi-staccata) molto, per così dire,
“cromate” non mancheranno di apprezzare. Lontano dai sentieri solitamente battuti dall’indie
(non solo) italiano e internazionale nell’approccio: pur non potendo ancora sfoggiare una
personalità immediatamente riconoscibile, George ha le idee chiare e un piglio deciso, come
“X” attesta senza ombra di dubbio.
Contatti: www.georgemerk.com
Aurelio Pasini
Pagina 40
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Numero Maggio '09
Giorgio Tuma
My Vocalese Fun Fair
Elefant/Audioglobe
I punti di riferimento sono collaudatissimi: il pigro strimpellare della bossa nova, l'elegante
canzoniere di Burt Bacharach, il lounge rivisto attraverso le colonne sonore dei maestri
italiani del genere, gli intrecci vocali accurati e catchy. Il risultato, tuttavia, è di parecchio
superiore alle pur ottime aspettative. Rispetto al già valido esordio di qualche anno fa, infatti,
il cantautore pugliese ha acquisito una maggiore coscienza delle proprie doti vocali, grazie
anche all'appoggio di una seconda voce femminile, quella di Matilde De Rubertis
(Studiodavoli, Girl With The Gun). E può contare inoltre su un songwriting che si è fatto più
solido, senza il bisogno di ricorrere ai trucchi più tradizionali del genere di riferimento per
farsi notare. Le canzoni di “My Vocalese Fun Fair” funzionerebbero benissimo anche se
trasportate al di fuori degli stilemi easy listening in cui sta così agevolmente immerso; d'altra
parte, è con l'armamentario a base di flauti, organi elettrici e chitarre vintage che i 16 brani –
concisi e diretti quanto necessario – fioriscono pienamente, grazie anche alla mano felice di
Populous, co-produttore dell'album. Non è un caso che di questo autore si sia accorta la
spagnola Elefant, etichetta specializzata in rétro pop che ha in catalogo nomi del calibro di
Camera Obscura e Trembling Blue Stars e che pubblica questo disco. La speranza, tenendo
conto che stiamo parlando di uno dei dischi più belli prodotti da un artista italiano negli ultimi
mesi? Che queste canzoni arrivino ad un pubblico molto ampio e attento. Se lo meritano
davvero.
Contatti: www.elefant.com/bands/giorgio-tuma
Alessandro Besselva Averame
Pagina 41
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Numero Maggio '09
Grand Carabs
A fuoco lento
Danza Cosmica/Audioglobe
A partire dal 1997 i toscani Grand Carabs hanno dato alle stampe una manciata di lavori
autoprodotti, prima di firmare un accordo discografico con l’etichetta Danza Cosmica. “A
fuoco lento” è così un nuovo biglietto da visita, che si propone l’impegnativo obiettivo di
presentare una ricetta sonora retrò, in bilico fra cantautorato, folk-rock, swing e rimandi
francesi. Il cantato del frontman Fabio Tarocchi e il classico assetto chitarra, basso e batteria
- affidati rispettivamente a Lorenzo Nunziati, Mirko Verrengia e Marco Mazzoli - sono
impreziositi dai fraseggi jazzy del sax di Marco De Cotilis. Si pensa facilmente a Vinicio
Capossela, Paolo Conte, Fred Buscaglione, Tom Waits e Frank Zappa, ma le influenze
provengono da numerose sfere artistiche: movimenti letterari come Futurismo,
Decadentismo o Scapigliatura, Jules Verne, il cinema di Dino Risi e Federico Fellini. Ci si
collega all’Ottocento e al Novecento, toccando comunque tematiche di sempiterna attualità il commercio in “La chiatta dei mercanti”, l’omosessualità in “Coccobello” oppure l’impegno
socio-politico e la false apparenze in “Borghese” - mentre “Un delitto d’altri tempi” flirta con
un funk orecchiabile e “Settembre” sfiora il pop. La ricercatezza, sia musicale che lirica, non
impedisce divertissement da cabaret, seppure sporcati da una permanente cupezza di fondo
(“Fritto misto”, posta in chiusura, è una raccapricciante storia di cannibalismo). A volte si
punta sin troppo in alto, ma il banchetto può dirsi di sostanza.
Contatti: www.grandcarabs.it
Elena Raugei
Pagina 42
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Numero Maggio '09
Jenny's Joke
Jenny's Joke
Seahorse/Audioglobe
L'ultima volta che avevamo sentito parlare dei cremonesi Jenny's Joke, alcuni anni fa, il
gruppo partecipava ad un concorso per emergenti e, dobbiamo confessarlo, non ci avevano
fatto una impressione particolarmente positiva. Né particolarmente negativa, a dire il vero. Il
punto era esattamente quello, non c'erano punte di eccellenza né particolari demeriti o
grosse carenze strutturali. Ora che il gruppo è entrato in studio con Paolo Messere,
producendo il suo primo lavoro non totalmente autoprodotto, possiamo dire che si è venuto a
creare un netto miglioramento: il gruppo ha le idee più chiare, e quella che ci sembrava
inizialmente difficoltà a trovare una propria direzione è diventata una moderata propensione
all'eclettismo. In un contesto rock che guarda alla tradizione indie americana e non solo
("Spin Me Round", in apertura, sta dalle parti di certi dEUS), con l'utilizzo non scontato di
tastiere e vari accessori timbrici ed elettronici, il meglio di se il quintetto lo dà nelle ballate:
prendiamo "Acrobat", e le sue chitarre malinconiche che incedono su territori classici, epiche
e misurate come nel miglior indie rock che riscopre le tradizioni, alle quali si contrappone
una voce fragile, persa nei dubbi. Saremo onesti: neanche questa volta c'è stato il salto
definitivo, ma un netto passo in avanti, incoraggiante, ecco, quello sì, possiamo dirlo.
Contatti: www.jennysjoke.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Maggio '09
Medusa
6311 - I musicisti hanno facce tristi
Dracma/Venus
Pur leggendone i resoconti sulla stampa specializzata, avevo perso le tracce dei Medusa
dopo la pubblicazione del loro LP di esordio, nel lontano 1996 (in mezzo ci sono un EP e altri
due album). In questo caso dire lontano non è una – brutta - abitudine giornalistica, perché i
Medusa, sempre guidati sempre da Diego “il Diegone” Perrore (chitarrista fisso della band di
Caparezza dal 2004, ma che è anche un signor cantante), con questo album ipotizzano una
data precisa per la morte del CD, il sei marzo 2011 appunto. E se pensiamo che nel 1996 il
CD, dopo aver scaraventato il vinile e la musicassetta nella spazzatura, sembrava l’unico
futuro possibile per la musica, possiamo davvero dire che sembrano passati secoli. Ma
l’analisi dei Medusa non si limita alla questione musicale, abbraccia altri aspetti della nostra
vita: da qui il titolo dell’album, ovvero la consapevolezza che la musica è solo uno strumento
per analizzare ciò che ci circonda, ma non l’unico, e che comunque non ha né la forza né il
coraggio per cambiare nulla, se non regalare forse, qualche – amaro – sorriso. In queste
undici tracce funziona tutto: le canzoni sono scritte con grande abilità – penso a “Sabato”, “I
musicisti”, “La plastica”, il possibile hit “Walkman” –, hanno forza e un groove potente, ma
suonano melodiche, con refrain scorrevoli e non banali e i testi (perché non pubblicarli nel
booklet?) sanno scovare le giuste motivazioni. Un lavoro in perfetto equilibrio tra istinto e
maturità, che richiama certo hard psichedelico di scuola Ritmo Tribale e intarsi più moderni
sulla scia degli Scisma più potenti. Ma il tutto non sfocia mai – per fortuna – nel dormiente
indie-rock, tanto riverito oggi da fan e critica. Per il sottoscritto, questo è il miglior album di
rock in italiano da molto tempo a questa parte.
Contatti: www.imedusa.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 44
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Numero Maggio '09
Moodrama
Best Life Inc.
Soffici Dischi
Alzi la mano chi non ha sentito, negli ultimi anni, gruppi che si rifacessero in qualche modo
ad una idea elettronica e decadente del pop, con puntate più o meno decise nella
sofisticazione (nel senso di eleganza formale). Una idea magari pure vagamente passatista,
memore di certe algide sovrastrutture anni 80. Che, insomma, buttassero un occhio ai Nine
Inch Nails e contemporaneamente un orecchio all'elettroclash (espressione piuttosto vaga
che però rende l'idea), senza perdere di vista una concezione elegante e raffinata di
produzione pop che arriva fino agli Everything But The Girl e alla Bristol di inizio anni
Novanta. Sì, il settore è decisamente affollato, anche se spesso i sentieri percorsi hanno
minime divagazioni, un punto di vista lievemente a lato, eppure i Moodrama non sfigurano in
tutto questo riciclo di spunti e nomi, anzi, hanno più di un motivo per farsi notare: la presenza
vocale di Simona Tortora innanzitutto, capace di spaziare dal registro confidenziale ("Joey's
Suite") a quello più sguaiatamente rock ("Good Luck", "Dirty Snow"), e poi il grande lavoro di
cesello sugli arrangiamenti, i quali, se è pur vero che a volte si appesantiscono di chitarre e
di synth, restano comunque ben calibrati e soprattutto vari. Un prodotto credibile insomma,
che non difetta della materia essenziale per fare la differenza, ovvero la personalità. Magari
non è stata tirata fuori ancora del tutto, ma possiamo dire che c'è.
Contatti: www.moodrama.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 45
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Numero Maggio '09
Ottodix
Le notti di Oz
Top Music/Self
Dopo “Corpomacchina” e “Nero”, “Le notti di Oz” è il terzo capitolo di studio del progetto
Ottodix, riconducibile ormai da tempo al solo Alessandro Zannier, musicista, songwriter e
artista visuale. “Dedicato a chi sceglie di non correre, nell’era della velocità senza memoria”,
il disco si presenta come una fiaba che si articola in undici canzoni, due strumentali e un
paio di bonus-track con Madaski e G. Kalweit a farla da ospiti. Una fiaba che è sintesi
dell’omonimo soggetto teatrale scritto dallo stesso Zannier, incentrato sull’alienante
contrapposizione fra mondo reale e mondo virtuale e capace di inglobare al suo interno
suggestioni provenienti dalla fantascienza e dal cinema muto. L’ambizioso viaggio procede
per un’ora di durata fra “Nuovi Frankenstein”, “I-Man”, “Rabarbaro rabarbaro”, “Joker”, “Io e
Cassandra”, “Strananotte”, “Fiore del male”, “Insonnia” e così via, in una pittoresca carrellata
di differenti “avatar” che alternano ritmiche sostenute e riflessioni melodrammatiche,
programmazioni e arrangiamenti orchestrali. Un’idea che a livello concettuale si fa
apprezzare, ma che non trova sempre un soddisfacente corrispettivo sonoro: abbiamo difatti
a che fare con un pop sintetico abbastanza vetusto, memore degli anni 80 e di certa new
wave. Si pensa a modelli come Depeche Mode, Bluvertigo o Garbo, con il quale in passato è
stato non a caso instaurato un fruttuoso rapporto di collaborazione e che qua presta il suo
contributo insieme all’affine Luca Urbani (Soerba e Zerouno).
Contatti: www.ottodix.it
Elena Raugei
Pagina 46
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Numero Maggio '09
Ray Tarantino
Recusant
Ponderosa/Edel
Curiosa la storia di Ray Tarantino: lasciata l'Italia alla volta della Gran Bretagna appena
adolescente, il trentenne songwriter ha accumulato negli anni un vasto canzoniere a lungo
nascosto alla famiglia, che lo voleva senza troppi grilli per la testa; si è occupato di tutt'altro
ma alla fine la musica è tornata a bussare prepotentemente, spingendolo a suonare le sue
canzoni ovunque potesse, con formazioni di varia composizione e foggia. Ecco così che
abbiamo per la mani, dopo che il nome del Nostro ha iniziato a circolare su MySpace e a
incontrare fan come Stewart Copeland e Matthew Bellamy dei Muse, il suo debutto,
registrato a New York con turnisti locali e con il contributo di Tony Bowers dei Simply Red,
co-produttore. "Recusant" è una raccolta di canzoni che non nascondono il ruolo formativo di
certo rock anni '80 e che rivelano una vena molto inglese nell'approccio. Il talento c'è, e un
pezzo come "Five O'Clock In The Morning" ti si appiccica addosso; quando le cose vanno a
pieni giri pare di sentire artigianato pop nella vena sofisticata dei Blue Nile ("So Easy"),
altrove le soluzioni applicate - sia in sede di scrittura che di arrangiamento - paiono
decisamente più datate e scontate (è il caso della sontuosa ballata "I'll Be Back Someday"),
nell'insieme il prodotto finale ci lascia l'ottima impressione di un percorso artistico che
potrebbe riservare sorprese.
Contatti: www.raytarantino.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 47
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Numero Maggio '09
Sciarada
The Addiction
Lizard/LordWinni/BTF
A indirizzare questo esordio degli Sciarada ci sono Michele Nicoli, chitarrista dei Canadians
e spirito musicale irrequieto, e Matteo Sorio dei Dagored, musicista versatile che si diletta al
basso e non solo. Dopo un primo album autoprodotto del 2006 si è aggiunto Marco Tuppo,
voce, tastiere e anima dei Nema Niko, che qui rappresenta il versante equilibrato del
progetto. Il fatto di conoscere due terzi della formazione, mi ha permesso di entrare nel vivo
del tutto, consentendomi di superare lo scetticismo iniziale. Ovvero, dove è il confine tra idee
e banalità, in questo modo di approcciarsi alla musica? Tra tappeti vellutati di suoni,
fragranze vaporose di note e loop che avanzano, non è semplice distinguere il già sentito
dalla novità o dalla semplice cosa bella e fatta bene. Spesso, chi fa la musica la vive troppo
dal di dentro per essere obiettivo, ma Tuppo è stato abile nel farmi districare tra la matassa
sonora, sciogliendomi i dubbi. Di fatto “The Addiction” è un album suonato, e, sono davvero
pochi i momenti campionati; si tratta di lavoro di studio, ma strumenti alla mano, con chitarre,
basso, tastiere e batteria a cucire melodie. Nove le tracce proposte, con la conclusiva
“Baratio” che dopo tanto girovagare si spegne per riaccendersi, dopo alcuni minuti di silenzio
(ma è vero silenzio?). Altrove spuntano momenti di vera poesia sonora, lontana e
malinconica, soprattutto quando a ingentilire le melodie appare la voce dell’ospite Antonella
Bertini (della Compagnia d’Arte Drummatica), autentica musa vocale in “N.V.”. Lo ammetto,
il mio non è stato un viaggio spontaneo tra le onde di questi Sciarada, ma alla fine ne è valsa
la pena. Ora solo una considerazione: ma la Lizard, riuscirà mai a stampare un CD in cui le
scritte del booklet siano facilmente leggibili? Il motto della label è “open mind”, non “open
eyes”.
Contatti: www.lizardrecords.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 48
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Numero Maggio '09
Silvia’s Magic Hands
Flying Saucer For Recreation
Irma
Una delle cose più belle di “Flying Saucer For Recreation”, esordio sulla lunga distanza del
trio acustico dei Silvia’s Magic Hands è la sua durata: 31 minuti, perfetto per un disco pop di
puro divertissement e senza pretese di genere se non quella di accompagnare l’ascoltatore
con melodie efficaci a cavallo tra quel folk-pop anglosassone che periodicamente invade lo
stivale e un background blues che rende il tutto a suo modo particolare.
Due chitarre acustiche – ed effettate – e batteria, ricetta ideale per James Woods III,
Giuseppe Lovreglio (che scrivono anche le canzoni) e Luca Casamassima che riescono così
a mettere su un lavoro godibile capace di strizzare l’occhio alle melodie agrodolci che tanto
piacciono ai critici dall’animo pop (qualcuno ha addirittura tirato in ballo il NAM, vi ricordate
quel movimento inventato dalla stampa inglese per dar credito a un mucchio di ragazzetti
con le chitarre acustiche?) e riproporle con una sensibilità “italiana” che, di primo acchitto,
potrebbe far venire in mente i Marta sui Tubi.
Come esordio non è affatto male. Resta da vedere se in futuro saranno capaci di essere un
po’ più graffianti ed efficaci, evitando di appiattirsi sullo sfondo della mediocrità. Le
potenzialità sembrano esserci.
Contatti: www.myspace.com/silviasmagichands
Hamilton Santià
Pagina 49
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Numero Maggio '09
Small Jackets
Cheap Tequila
Go Down/Audioglobe
Non presenta sostanziali novità il nuovo disco degli Small Jackets, la cui musica
rappresenta una rivisitazione in chiave moderna del classico hard dei Seventies, con echi di
garage dei Sixties, proto-punk detrotiano, accenti funky e southern e richiami al rock
scandinavo (Hellacopters e Gluecifer), il tutto animato dalla giusta attitudine sleazy. La band,
nata nel 2000 dall’incontro tra il batterista Danny Savanas e il cantante/chitarrista ritmico Lu
Silver, suona un boogie-hard-rock’n’roll energico e sanguigno, in cui è facile rintracciare le
influenze di AC/DC, Grand Funk Railroad (di cui i Nostri qui rileggono “Are You Ready”),
Motörhead, ZZ Top e perfino Rolling Stones. “Cheap Tequila” è il terzo album targato Go
Down, dopo “Play At High Level” (2004) e “Walking The Boogie” (2006) con i quali il gruppo
romagnolo è riuscito a imporsi come una delle migliori realtà rock’n’roll in circolazione in
Italia, maturando nel frattempo un curriculum di tutto rispetto (ha diviso il palco con gente
come Black Rebel Motorcycle Club, Hardcore Superstar, Gorilla, Thee STP, One
Dimensional Man, OJM e Hellacopters). Il nuovo lavoro, registrato e prodotto in Svezia da
Chips K (ingegnere del suono e produttore di Nomads, Hellacopters e Millencolin) presso gli
studi Music A Matic di Göteborg, mantiene la stessa cura di arrangiamenti delle uscite
precedenti ed è impreziosito dagli interventi di sax, Hammond, piano e armonica. Si passa
dal tipico hard-boogie degli AC/DC (“Long Way Home”, “Listen To The Rock”, “Sweet Lady”,
“We Are Boozers”) agli assalti motorheadiani di “Out The Rain Cries” e “Dancing With The
Monster”, dal funk-rock di “We Got A Problem” alla classica ballata anni 70 (“Goodbye
Angel”) e agli accenti country-blues di “Lonely Man”. Ennesimo centro pieno della Go Down.
Contatti: www.smalljackets.com
Gabriele Barone
Pagina 50
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Numero Maggio '09
Taster’s Choice
Rebirth
Bagana/Edel
Arrivano da Livorno, e sin dal 1999 si adoperano per dare un volto professionale al
crossover-metal di casa nostra. È bastato loro un solo CD-promo di cinque tracc, per essere
notati dalla label tedesca Shark Records (in catalogo gente come Sepultura e Virgin Steele)
e giungere nel 2005 all’esordio con “Shining”, distribuito anche nei territori asiatici attraverso
la Gencross Records. Con gli inevitabili cambiamenti di formazione che contraddistinguono
tutte le band semi professionali, quando si trovano a dover fronteggiare un impegno
maggiore di qualche concerto sparso, i Taster’s Choice, ora puntellati su un solo cantante,
l’ottimo Daniele Nelli, si sono accasati con la Bagana e hanno pubblicato un secondo
capitolo, che sin dal titolo sembra una dichiarazione di intenti. Considerando che questo
genere – chiamiamolo nu-metal per comodità, loro lo definiscono tribal-metal-core - che
incrocia 30 Seconds To Mars (a cui hanno fatto da spalla) e Linkin Park, necessita
assolutamente di una produzione spettacolare, che sappia valorizzare il suono, prendiamo
atto che “Shining” è competitivo e invidia poco o nulla in fatto di adrenalina e compattezza ai
nomi citati. Le due chitarre incrociano riff micidiali e la ritmica, con un basso che pare un
vulcano, supporta una batteria per nulla geometrica che spande ritmo, in compagnia delle
percussioni di Francesco Tonarini. Ma a valorizzare il lotto di canzoni, tra cui spicca persino
un rifacimento in chiave crossover di “Superstition” di Stevie Wonder, ci sono interventi di
tastiere e samples, che aggiungono fantasia, e un approccio melodico garantito comunque
da un cantante sorprendente per tenuta e soluzioni vocali. Se vi piacciono queste genere di
sonorità, i Taster’s Choice hanno la ricetta giusta per darvi la scossa.
Contatti: www.myspace.com/tasterschoice7
Gianni Della Cioppa
Pagina 51
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Numero Maggio '09
The A’dam Sykles
Out Of The Circle Game
Teen Sound
La copertina sembra la pubblicità di una boutique di Carnaby Street del 1967. La prima nota
della prima canzone è quella di un sitar. E se qualcuno avesse ancora qualche dubbio su
quale possa essere l’epoca di riferimento per le tredici canzoni di questo album degli A’dam
Sykles, non bastasse il nome della band basterebbe aggiungere che si tratta del nuovo
progetto di Massimo Del Pozzo (già negli Others, Tyme Society, Trypps, creatore della
meravigliosa fanzine 60s “Misty Lane”, nome esteso anche alla sua label) vale a dire il più
infaticabile, entusiasta, incrollabile rappresentante italiano della scuola neo-sixties. Garage,
ma non solo. In questa occasione a imporsi è l’anima più gentile e trasognata di Del Pozzo,
quella che potremmo definire psycho-pop, o popsike, o acid-folk. Insomma, ci siamo capiti. I
riferimenti di queste ballate ultra-melodiche, costruite con una cura per i dettagli sonori
ammirevole (si sentono acustiche, flauti, violoncelli, harpsichord) si chiamano Beatles, Love,
Blossom Toes, Left Banke (la favolosa “Sunshine Girl”), i Kinks di “Something Else”. Ma si
aggiunga alla miscela anche certo sunshine pop californiano, prodromi di prog alla Traffic
(Shades of Blue) e di hard alla Hendrix/Deep Purple (“Rain Child”). E persino, balzando di
vent’anni in avanti, raga-rock in stile Paisley Underground (vengono in mente soprattutto i
Rain Parade e i Three O’Clock). Non chiamatela nostalgia, però. Questi sono piccoli gioielli
fuori dal tempo, e non riuscire ad apprezzare canzoni bellissime come “The Big Green” o
“Mary Grace’ s Mind” in ossequio a una presunta fame di “nuovo” significherebbe solo
essere dei poveri di spirito.
Contatti: www.myspace.com/adamsykles
Carlo Bordone
Pagina 52
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Numero Maggio '09
The Hacienda
Conversation Less EP
Black Candy/Audioglobe
Colpisce come un fulmine questo EP di esordio dei fiorentini The Hacienda: sedici minuti
tondi al fulmicotone, che travolgono con le loro ritmiche serrate e con gli spigoli delle loro
chitarre, ma non si fanno mancare niente neppure dal punto di vista della ricerca melodica.
Dovendo trovare un riferimento geografico alla loro musica, questo è senza dubbio il Regno
Unito: pur guardando di tanto in tanto anche a certo alternative rock” statunitense degli anni
80, infatti, le canzoni contenute in “Conversation Less” hanno un sapore tipicamente
albionico, potendosi idealmente collocare a mezza via tra l’impeto dei primi Jam, il post-punk
e le stratificazioni vocali dei Futureheads, gli scenari urbani degli Arctic Monkeys, le
impennate funkeggianti dei Franz Ferdinand e la spensieratezza dei Fratellis. Una miscela
non originalissima, ma neppure smaccatamente derivativa, e – ciò che più conta – divertente
e coinvolgente. Menzione speciale per la title track, ma anche il resto del programma
convince decisamente. Un’incisività ancora maggiore in fase di scrittura e un pizzico di
esperienza in più potrebbero rendere il loro primo album vero un disco realmente
“importante”; nell’attesa, comunque, per il quartetto toscano il presente è senz’altro roseo.
Contatti: www.myspace.com/thehaciendaband
Aurelio Pasini
Pagina 53
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Numero Maggio '09
The Shadow Line
Fast Century
Hit Bit
Fanno tutto per bene i capitolini Shadow Line per questo loro debutto. Del resto, gli anni
spesi a suonare, dal vivo di apertura a tanti bei nomi (inter)nazionali e in studio per
realizzare un pugno di demo, hanno senz’altro affinato l’intesa e la capacità del quartetto.
Eppure in “Fast Century” non tutto gira a dovere. E il motivo è presto detto: le canzoni
faticano a lasciare il segno, le melodie non decollano come dovrebbero, e il pur frizzante
pop-rock chitarristico messo in mostra non colpisce né coinvolge se non in parte. Non che
manchi qualcosa dal punto di vista vocale, strumentale o produttivo, che come si diceva in
apertura ogni cosa è al posto giusto e suona al meglio; è solo che terminato l’ascolto e
ripetutolo, non c’è molto che si appiccichi alla memoria. Le ritmiche funkeggianti di “One
Shot Hit”, il nervoso post-punk di “Erasing Mind”, “Stoned” e in misura appena minore la
conclusiva “God Save My Soul” sono l’eccezione a quanto detto finora, a dimostrazione di
come a Daniele Giannini e soci non manchino le idee interessanti e gli spunti degni di nota,
e che fanno vedere come nelle loro corde ci sia qualcosa di più di un disco carino ma dalla
vita non lunghissima come “Fast Century”. Una maggiore attenzione in fase di composizione
e una puntina di personalità in più non potranno fare che bene a un secondo album da cui ci
aspettiamo qualcosa di più rispetto a questo – lo ripetiamo, non esattamente epocale ma
tutt’altro che pessimo – esordio.
Contatti: www.myspace.com/theshadowline
Aurelio Pasini
Pagina 54
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Numero Maggio '09
The Shipwreck Bag Show
Il tempo...tra le nostre mani scoppiaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Soudmetak-Longsongrecords-Wallace/Audioglobe
Questo progetto nato dopo qualche week-end passato assieme da parte delle due menti ed
esecutori Roberto Bertacchini (già batteria negli Sturfuckers e Sinistri) e Xabier Iriondo
(Polvere, Uncode Duello, Tasaday, A Short Apnea), oggi con questo primo disco sulla lunga
distanza, si fa più definito e stabilisce un equilibrio o squilibrio - se preferite - costante, dando
a queste tracce un loro perché, un significato forte, che ci diverte e ci stupisce.
Ai tempi del primo mini-CD omonimo, tra i titoli delle WallaceMailSeries, avevo riscontrato
come dal vivo il risultato non fosse entusiasmante come quello su CD. Ancora il duo, forse,
doveva sviluppare bene l’idea fisica del gruppo, che qui invece è ben presente. Amalgamare
i suoni e trovare i ritratti comuni da specchiare, le citazioni affini da esibire e quel borbottare,
plasmare, soggiacere, istigare veloce, forte, virulento, storto, cantante, noiseggiante, ruvido,
pressante, fischiettante – mi rendo conto possa essere un delicato lavoro che non si
improvvisa ma viene naturale se hai alle spalle anni di suoni studiati, lavorati e percorsi. Ti si
tingono addosso come tatuaggi certe espressioni musicali ed esprimono la tua storia che sia
blues, punk, impro-rock o noise. La loro è un storia musicale che racconta di due nuvole che
attingono dai suoni buoni provenienti dalla terra.
Contatti: www.myspace.com/shipwreckbagshow
Francesca Ognibene
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Numero Maggio '09
Tomviolence
Borderlinelovers
Black Candy/Audioglobe
“Borderlinelovers” è il secondo album per i Tomviolence, registrato come il precedente
esordio omonimo del 2005 al Bunker Studio di Rubiera con il supporto di Andrea Rovacchi.
Le novità che saltano subito all’occhio riguardano la line-up della formazione toscana:
Leonardo Cioni (voce e chitarre), Lorenzo Cerelli (voce e chitarre), Giulio Artini (basso) e
Antonio Martini (batteria, percussioni, elettronica e synth) sono stavolta accompagnati dal
nuovo entrato Mirco Tani (piano, organo e Wurlitzer), che ha così sostituito in un colpo solo il
violinista Tommaso Olivieri e il sassofonista Edo Arnetoli. Indizi che portano a un
cambiamento a livello stilistico, a un allontanamento dal post-rock “tout court” in favore di
una formula maggiormente diretta e personale. Quando è necessario le elettriche sanno
farsi taglienti (“Randomize The Feelings To Feel”), a sostegno di un brio melodico che sa
essere sciolto e fragrante (“For Your Trial Flight”). A conferire policromia a un lavoro
comunque compatto nella sua visione di fondo, ci pensano il breve strumentale “We Did It
Before, Better”, le trasformazioni di “I’m Non-Aligned”, i cambi ritmici di “She Has A Squint”, il
crescendo di “Love In Lo-Fi”, le morbidezze acustiche di “At Last...” o l’handclapping della
conclusiva, coinvolgente “Burnt Brain Son”. Fra le pagine dell’orientaleggiante artwork, si
scorge la simpatica scritta “High volume recommended”. Un suggerimento quantomai
appropriato per godere appieno delle dodici, buone tracce in scaletta.
Contatti: www.tomviolence.it
Elena Raugei
Pagina 56
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Numero Maggio '09
Torpedo
Terrastation
Way Out/Edel
Atmosfere sintetiche fanno da sfondo a sonorità compatte, scure, molto sperimentali.
Circondati da questa ambientazione aliena la sensazione è quella di osservare il suono
dall’interno, o di esserne totalmente avvolti, posarlo sul palmo della mano e sviscerarlo con
precisione chirurgica, fino a vederne le componenti più impercettibili, sfuggenti, invisibili.
“Terrastation”, il nuovo disco dei romani Torpedo, segna il punto di arrivo di una ricerca
stilistica tutta protesa verso la contaminazione tra generi diversi, che spaziano con
disinvoltura dal punk al drum’n’bass, dal dub al reggae, sfociando, infine, in un continuum
sonoro fluido e ininterrotto, abrasivo e tagliente quanto basta. Non è “Sempre la stessa
musica”, sia ben chiaro, nonostante si avverta nell’aria un forte legame con i lavori
precedenti, sia nei presupposti stilistici che nelle idee di fondo. Sono numerosi però gli
elementi di innovazione che sfilano sul tappeto rosso, a partire dalla voce di Kohra, che
rafforza quel sapore reggae già scritto in origine sull’atto di nascita del gruppo. Le 12 tracce
si susseguono alternando minimalismo estremo, con poche combinazioni di suoni a dettare
le regole del gioco (ne è un bell’esempio “Alto voltaggio”), e riempimento selvaggio, dove
parole e musiche entrano in rotta di collisione per far nascere sperimentazioni inedite,
violente, come accade in “Passo dopo passo”, “Baci dall’underground” o nella title track
“Terrastation”. Un lavoro molto curato, nato quasi per vocazione o per composta
venerazione nei confronti della musica, mi verrebbe da dire ascoltando i testi, dove niente è
abbandonato al caso, a partire dalle collaborazioni, pregevoli senza ombra di dubbio, tra cui
spiccano i nomi di Lee “Scratch” Perry e di Stefano Benni, che si è occupato della stesura
del testo della bonus track “La Musica Nel Sangue”. Pollice alto anche per l’artwork del
disco, curato dagli street artist Sten e Lex, i cui lavori popolano ogni angolo della Capitale.
Contatti: www.myspace.com/torpedoweb
Federica Cardia
Pagina 57
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Numero Maggio '09
Il Teatro degli Orrori+Elettrofandango
Hiroshima Mon Amour, Torino, 17 aprile 2009
Hiroshima Mon Amour un venerdì sera qualunque non è sinonimo di teatro. Se poi sul palco
vedi chitarre batterie e amplificatori allora non è davvero teatro. D’accordo, il cartellone recita
“Il Teatro degli Orrori”, ma tutti i presenti sanno che si tratta del nome dietro al quale si
celano quattro personalità forti del rock italiano, quindi musica. Eppure è teatro. E lo si
capisce fin dall’arrivo degli Elettrofandango, cui tocca aprire la serata. Si presentano
mascherati, monatti forse?, e tutto il loro live set, energico e sospeso tra una ritmica rock con
incursioni di sintetizzatore, è tratteggiato da filmati proiettati su tutta la sala. Un’esperienza
che va ben al di la del solo aspetto sonoro, e le influenze che citano da Remo Remotti a
Jodorowsky - nemmeno un musicista, un caso? - parlano da sole. Strappano parecchi
applausi, e finalmente si esce dal già sentito e dalla posa classica del rock’n’roll, anche
indipendente. Senza accorgersene il locale si è nel frattempo riempito e quando entra la
compagnia, ehm il gruppo, il pubblico sembra palpitare. Qui accade la trasformazione,
perché Pierpaolo Capovilla non è solo un frontman, ma a tratti ci troviamo di fronte a un
attore, perfino ad un domatore circense per come gestisce la folla a colpi di microfono.
Interpreta ora la parte del poeta ubriaco, e per sua stessa ammissione l’ubriaco ci sembra
davvero molto convincente, ora quella di un novello Iggy Pop senza lame, ora quella del
chansonnier vagamente politico. Poco importa che dietro di lui si scateni l’inferno, con
chitarre basso e batteria davvero “Carrarmatorock”, e che davanti si stia poco meglio, tutti
ammassati alle transenne a cantare. I brani sono tutti potenti e, dopo tutto questo tempo,
filano via alla perfezione, ma fa piacere sapere che il più richiesto è la storia della partigiana
“Teresa”, e del resto questa e pur sempre Torino ed è pur sempre il 17 aprile. Un’ora e venti
di sudore ed energia, di urgenza creativa come se ne vedono raramente in Italia oggi e di
musica. Non male come serata a teatro.
Giorgio Sala
Les Fauves
Ex Fila, Firenze, 16 aprile 2009
A parere di chi scrive, i Les Fauves sono una delle nostre migliori band emergenti. Dispiace,
quindi, che gli spettatori accorsi al concerto fiorentino - trasmesso in diretta sulle frequenze
di Novaradio - non fossero numerosi. Dispiace ancor di più perché il quartetto di Sassuolo,
che ha comunque raccolto meritate soddisfazioni oltreconfine, ha dimostrato una freschezza
impressionante anche in sede di palcoscenico. La scaletta, per poco meno di un’ora di
durata, è focalizzata su “N.A.L.T. 2 - Liquid Modernity”, l’ultimo, eccellente album di studio
che ha segnato una coraggiosa, originale evoluzione a livello stilistico. Ci si diverte
parecchio, sempre all’insegna di soluzioni fuori dagli schemi: come amalgamare gusto per
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Numero Maggio '09
l’orecchiabilità, contaminazioni eccentriche, cambi improvvisi, rock abrasivo, pop arty,
colorate aperture filo-tropicali e molto altro ancora. Merito di una formazione che gira alla
grande, affiatata e attenta a esaltare il ruolo di ogni singolo elemento: la voce e la chitarra
elettrica di Roberto Papavero garantiscono energia da vendere e surreali giri melodici, la
batteria elettronica esagonale - collegata a un campionatore - di Davide Caselli scandisce
ritmiche sfrontate, il basso di Silvia Dallari sfodera riff di groovosa robustezza e le tastiere di
Paolo Pugliese aggiungono ulteriori, imprevedibili nuance. Quello che ne risulta è un ideale
mix di Pixies, Fiery Furnaces, Talking Heads e Devo, ma in realtà i punti di riferimento sono
tantissimi a dispetto di una personalità già forte e ben delineata. Si passa dal tiro
stravagante di “Funeral Party” alle travolgenti “Death Of The Pollo” e “Back To The Anal
Phase”, dal passo più rilassato ed esotico di “Snow In Trinidad And Tobago” e “Lagos” al
punk-funk a tutta velocità di “Fava Go Go Dancer” o alla suggestiva ballata “February
Lullaby”, recuperate dal precedente “N.A.L.T. 1 - A Fast Introduction”. Una proposta “aliena”
per gli standard italiani e perciò entusiasmante. Una proposta dal respiro internazionale, che
dovrebbe e potrebbe fare sfracelli.
Elena Raugei
Meeting People Is Easy #2
Maffia, Reggio Emilia, 4-5 aprile 2009
Jestrai, Suiteside, Unhip, Urtovox, Black Candy, A Silent Place, Madcap Collective, Bad Trip
e tante altre, ma soprattutto Acuarela, Sub Pop e Touch&Go, riunite a Reggio Emilia da
“Youthless”, piccola fanzine fotocopiata della zona. Gran parte del locale, quando arriviamo,
è già predisposto per diventare una specie di mercato rionale del disco indipendente. I
banchetti con dischi, magliette e oggettistica varia (andranno a ruba gli arbre magique dei
Calexico) sono sparsi per tutto il Maffia, che non è un posto piccolo. I modenesi Pip Carter
Lighter Maker suonano di fronte ai primi arrivati, pochi in realtà, ma abbastanza per
applaudire il loro rock psichedelico texano di chiara influenza 60's. Seguono Francesco
Candura alias Stop The Wheel, con una chitarra acustica mai effettata e un cantautorato
sghembo che richiama il pubblico crescente sotto il palco, e i Velvet Score nella loro ultima
mutazione in un indierock distorto, ma perfetto come colonna sonora di “The O.C.” (pare
piacciano parecchio agli spagnoli dell'Acuarela, i quali sospendono le vendite al banchetto
per alzare la testa verso il palco). Quando lo spagnolo The Secret Society, one-man band
con chitarra acustica e loop-station, chiude il pomeriggio concertistico, la sala è già
stracolma e la gente è raccolta in nugoli attorno ai banchetti, alle prese con acquisti d'ogni
genere, preascolti di novità in uscita e chiacchiere concitate sul futuro della discografia.
In serata ci attendono le bordate dei Red Worm's Farm (un gorilla alla batteria schizofrenica
e due chitarre con due testata-e-cassa a testa a tagliarci i timpani) e il rock in salsa kraut dei
nuovi Julie's Haircut con la partecipazione straordinaria di Paolo Campani al sax e il ritorno
sulle scene di Laura Storchi. Il finale è letteralmente un'ovazione per la band che da queste
parti è diventata una specie di culto. Fuori il cielo è grigio e la pioggia è scesa copiosa per
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Numero Maggio '09
tutta la giornata. Pare che nessuno se ne sia accorto.
I misteri della meteorologia primaverile fanno sì che il secondo giorno del festival inizi, alle
tre del pomeriggio, con un sole tanto inatteso quanto confortevole. Si parte con i trevigiani
Satan Is My Brother che per poco meno di un'ora, senza interruzioni, accompagnano l'arrivo
del pubblico con una lunga suite strumentale tra ambient oscuro, elettronica e
sperimentalismo noir. Seguono le spinte power-punk quasi hardcore dei Gazebo Penguins e
lo screamo nevrotico dei The Death Of Anna Karina, con le casse del Maffia tirate al
massimo. The Secret Society ripete lo show della sera prima, ma lo fa all'esterno al
tramonto, con un piccolo amplificatore da un pugno di watt e la gente a semicerchio che lo
applaude fragorosamente soprattutto nella sua versione lo-fi di “Diane” degli Hüsker
Dü. A questo punto il mercato rionale del disco indipendente è al culmine, e in pochi si
aggirano per il Maffia a mani vuote.
La serata si chiude con Beatrice Antolini e il suo show eclettico, penalizzato dal lungo
soundcheck (un'ora abbondante è decisamente troppo per un festival in cui la gente si
accalca sotto il palco non appena i suonatori salgono) ma arricchito da arrangiamenti
sopraffini tra cui spiccano le melodie aggraziate della tromba di Enrico Pasini.
Ci accorgiamo che quasi la metà del pubblico è formato da musicisti della zona. Alla fine del
Meeting People Is Easy, mentre le etichette iniziano a smontare e i banchetti della Sub Pop
e della Touch&Go sono stati letteralmente razziati, sono parecchi i capannelli di artisti che si
scambiano complimenti, promesse di collaborazioni o semplici bevute a banco. I ragazzi di
Youthless che ci capita di incontrare sono sfiniti, ma di quella stanchezza compiaciuta di chi
ha visto le proprie intenzioni tramutarsi in successo. Non è difficile immaginarli intorno a un
tavolo a tirare le somme della due giorni appena conclusa... e magari chiedersi: “Come la
facciamo l'anno prossimo?”.
Marco Manicardi
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Numero Maggio '09
Murder
Si intitola come un componimento classico (“Op. 01 in re”) questo CD-R marchiato Plumbea
Records, ma è solo uno dei tanti giochi stranianti di questi ventidue minuti ossessivi,
nichilisti, travianti. I Murder si definiscono folk-noise (nella loro cartella stampa si può
leggere: “Sonorità noise sono arricchite da suggestioni blues lo-fi, mentre le ambientazioni
noir di alcuni testi contaminano loop ipnotici”) e sembrano legati a quell’estetica musicale
cara agli ambienti a cavallo tra l’underground e l’off che farebbero la felicità di alcune riviste
di settore. Andando di pura associazione mentale, possiamo pensare – tanto per restare nei
patri confini – al giro torinese dei Larsen e soci. Abbiamo sonorità malate, arpeggi di chitarra
acustica mandati in loop, ghirigori di glockenspiel sintetizzato e mandato all’incontrario
mentre in sottofondo un drone un po’ dark e un po’ ambiente si staglia minaccioso ed
imperante. I quattro movimenti di questa opera prima – cui seguirà un secondo capitolo,
autunnale, che si occuperà della rivisitazione dei Madrigali di Carlo Gesualdo – si chiamano
“Pigs!”, “Dream”, “Soren Larsen” (!!!) e “Murder In A Swimming Pool”. Direi che titoli del
genere spiegano già molte cose. Da seguire con attenzione.
Contatti: www.myspace.com/murderduo
Hamilton Santià
Svetlanas
La Russia del ’77 non era certamente l’ombelico del mondo musicale. Eppure, per chi ci
vuole credere, è proprio da li che vengono fuori gli Svetlanas, che di sicuro recuperano la
parte migliore del sound “occidentale” di quegli anni, con la mente che torna subito ai Germs
e compagnia sferragliante. Il loro lavoro di agenti segreti li ha portati spesso in situazioni al
limite, e forse per questo esprimono violenza e rabbia con un punk rock energico e
tiratissimo, non supera i due minuti a brano e che è stato cristallizzato in queste “KGB
Session” distribuite digitalmente. Ovviamente traspare in queste cinque schegge tutto il
lirismo tipico della Grande Madre Russia, e si passa quindi da “Cremlin Killer” a “Chernobyl
Boy” passando per “Soviet of Your Heart”. Adesso si son rifatti una vita, ed una faccia, a
Milano. E giurerei che han suonato anche con altre band. Forse un giorno getteranno la
maschera, nel frattempo queste “session” fanno più che bene.
Contatti: www.myspace.com/svetlanas77
Giorgio Sala
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it