Eziopatogenesi della depressione

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L’eziopatogenesi della depressione nella prospettiva cognitivo-comportamentale
Tristezza, pessimismo e scoraggiamento sono stati d’animo comuni e costituiscono una naturale
reazione a un avvenimento spiacevole, a un evento che comporta una perdita o allo stress. In alcuni
casi, il basso tono dell’umore assume dimensioni tali da renderlo estraneo alla comprensione del
sentire comune, non più confrontabile con uno stato di tristezza fisiologico.
Quando la condizione emotiva di una persona assume una dimensione clinicamente significativa è
necessario avere dei criteri diagnostici utili a distinguere gli stati d’animo “normali” da ciò che può
essere considerato come una patologia dell’umore.
Secondo il DSM-IV TR per porre la diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore (EDM) è necessaria
la presenza di almeno cinque di una serie di nove sintomi.
Criteri diagnostici per l’Episodio Depressivo Maggiore (DSM-IV TR, APA, 2000)
A. Almeno 5 dei seguenti sintomi sono presenti durante lo stesso periodo di due settimane e
rappresentano un cambiamento rispetto al funzionamento precedente; almeno uno dei sintomi è
(1) umore depresso o (2) perdita di interesse o di piacere.
(Non includere sintomi che siano chiaramente dovuti a condizioni fisiche , deliri o allucinazioni
incongrue all’umore, incoerenza o marcata perdita di associazioni).
1. Umore depresso (oppure umore irritabile nei bambini e negli adolescenti) per la maggior
parte del giorno, quasi ogni giorno, come riferito dal resoconto del soggetto o osservato
dagli altri
2. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la
maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come indicato dalla presenza di apatia per la
maggior parte del tempo, riferita dal soggetto o osservata dagli altri)
3. Significativa perdita di peso o aumento di peso non dovuto a diete (per esempio, più del 5%
del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi giorno
(nei bambini considerare l’incapacità a raggiungere i normali livelli ponderali)
4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservato da altri, e non
soltanto sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato)
6. Affaticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno
1
7. Sentimenti di svalutazione o di colpa eccessivi o immotivati (che possono essere deliranti)
quasi ogni giorno (non soltanto autoaccusa o sentimenti di colpa per il fatto di essere
ammalato)
8. Diminuita capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno (come
riferito dal soggetto o osservato da altri)
9. Pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrenti propositi di suicidi senza
un piano specifico o un tentativo di suicidio o ideazione di un piano specifico al fine di
commettere il suicidio
B. I sintomi non soddisfano i criteri per un Episodio Misto
C. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione de funzionamento
sociale, lavorativo o di altre aree
D. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, abuso di
droga, di un medicamento) o di una condizione medica generale (per esempio, ipotiroidismo)
E. I sintomi non sono meglio giustificati da lutto, cioè la perdita di una persona amata, i sintomi
persistono per più di 2 mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata,
autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento
psicomotorio.
L’approccio cognitivo comportamentale
Learned Helplessness
Il termine “helplessness” indica lo stato psicologico che, solitamente, compare in un individuo
quando viene a contatto con eventi incontrollabili. Per poter comprendere pienamente questa
nozione è utile pensare all’insieme di aspettative, convinzioni e credenze che una persona sviluppa
relativamente all’esperienza e alle relazioni esistenti tra il proprio comportamento volontario e gli
eventi a cui va incontro. In particolare, gli esseri viventi colgono i legami esistenti tra le proprie
azioni e le conseguenze di queste ultime. La Learning Theory si è occupata delle relazioni che si
verificano nei casi un cui un organismo apprende che:
-
un proprio comportamento (R) produce degli eventi rinforzanti ogni volta (p=1; rinforzo
continuo);
-
un proprio comportamento (R) è seguito da eventi rinforzanti in una certa percentuale di casi
(1>p>0; rinforzo parziale);
-
un proprio comportamento (R) non è seguito, in nessun caso, da eventi rinforzanti (p=0;
estinzione);
2
-
i medesimi eventi rinforzanti possono verificarsi in assenza del comportamento (R), a seguito
dell’emissione di altri comportamenti (Dro: Differential Reinforcement of Other Behaviour).
Le relazioni esistenti tra un comportamento (o risposta, R) e un evento che ad esso fa seguito (o
outcome, O) possono essere rappresentare in uno spazio bidimensionale, utilizzando come assi i
valori di probabilità dell’evento rispetto al comportamento (p(O/R)) e dell’evento rispetto alla non
emissione del comportamento (p(O/R-)).
Se la probabilità che un evento si verifichi cambia quando viene emesso un determinato
comportamento rispetto a quando quest’ultimo non viene emesso, allora esiste controllabilità.
Quindi, i nostri comportamenti volontari possono rendere più o meno probabile il verificarsi di
determinati accadimenti. Si avrà invece incontrollabilità quando tali accadimenti hanno la stessa
probabilità di verificarsi indipendentemente dal fatto che l’azione in esame venga emessa o meno.
Nella Figura 1 ogni punto della retta a 45° rappresenta situazioni di incontrollabilità.
1.0
Indipendenza della risposta
p (O/R-) 0.5
DRO
45°
Rinforzo parziale
0
Estinzione
0.5
p (O/R)
1.0
Rinforzo continuo
Figura 1. Lungo l’ascissa sono riportati i valori di probabilità p(O/R) di un evento O (outcome) nel caso in
cui l’individuo abbia emesso una risposta (R). In ordinata sono indicati i valori di probabilità del medesimo
evento nel caso in cui la risposta non sia stata emessa (R-). Ogni punto sterno alla retta a 45° implica un
certo grado di controllabilità dell’individuo relativamente all’evento in questione (Seligman 1975).
Un organismo può apprendere che gli eventi in genere (o sottoclassi di tali eventi) sono
incontrollabili. Il risultato di un tale apprendimento è indicato come “Learned Helplessness” o
“incapacità di reagire appresa”. Un aspetto rilevante di tale teoria è che una helplessness di rilievo
clinico non si sviluppa perché ci si imbatte in fatti per loro natura traumatici, ma perché questi
risultano non controllabili (o sono ritenuti tali). Vissuti rilevanti di incontrollabilità producono
3
conseguenze che vanno al di là delle circoscritte classi di eventi e di comportamenti da cui traggono
origine, producendo conseguenze non trascurabili su tutto il repertorio comportamentale. A tale
proposito, sono stati individuati tre tipi di deficit che fanno seguito ad esperienze di
incontrollabilità.
-
Deficit motivazionale: diminuisce la spinta ad attivare nuovi comportamenti e viene meno la
motivazione a far fronte a minacce e ad eventi nocivi.
-
Deficit cognitivo: difficoltà in nuovi apprendimenti, in particolare risulta ostacolata la capacità
di fare proprie, sulla base di nuove esperienze positive, relazioni di controllabilità che vadano a
soppiantare le relazioni di incontrollabilità acquisite in precedenza.
-
Deficit emozionale: si apprende che gli eventi traumatici non possono essere controllati. La
paura iniziale svanisce e viene sostituita da frustrazione e depressione.
Una storia pregressa di esperienze e aspettative di controllabilità può offrire una immunizzazione
dai pericoli di helplessness insiti in occasionali situazioni di incontrollabilità.
La teoria della Learned Helplessness è, sostanzialmente, una teoria cognitivo-comportamentale
della depressione. Secondo Seligman (1975) questa nozione permette di collegare tra loro fenomeni
molteplici e, al riguardo, cita i casi di insuccesso scolastico e di deficit di apprendimento che si
riscontrano in bambini intellettivamente competenti, molto simili alle condizioni di pseudoinsuffucienza mentale descritte in neuropsichiatria infantile. In particolare, ricorda le osservazioni
di Spitz sui danni dovuti all’istituzionalizzazione e alle carenze materne. In queste condizioni, al
bambino viene a mancare il controllo diretto sulle proprie fonti di stimolazione e quindi, a dare il
via ai deficit che si accumulano con l’istituzionalizzazione, non è la deprivazione in quanto tale ma
la situazione di incontrollabilità che ad essa fa seguito.
Helplessness e riformulazione attribuzionale
Di fronte alle medesime esperienze di incontrollabilità è possibile osservare, in soggetti diversi, una
evidente variabilità nelle risposte. È proprio rispetto a questa condizione che si manifesta il limite
principale del modello della Learned Helplessness, rappresentato dalla difficoltà di fornire una
spiegazione e una previsione dell’ampiezza e della durata della risposta individuale. Pertanto, il
potere predittivo del modello risulta assai modesto. Inoltre, la Learned Helplessness spiega i tre
principali deficit (motivazionale, cognitivo, emozionale) connessi a helplessness ma non il quarto,
vale a dire l’abbassamento del livello di autostima, frequentemente collegato ai primi. Nel tentativo
di offrire una valida spiegazione delle differenze interindividuali che possono modulare il fenomeno
dell’helplessness e delle modificazioni dell’autostima, Seligman fa riferimento alla teoria
attribuzionale.
4
Con il termine “attribuzione” si indica quella proprietà che un individuo considera, giustamente o
meno, propria di un oggetto. La teoria attribuzionale origina nell’ambito della psicologia sociale e si
occupa, in particolare, del problema della motivazione al successo. Nel 1978 tale teoria venne
introdotta in psicologia clinica proprio in relazione alla revisione del modello Human Helplessness.
Il punto fondamentale su cui si basa la riformulazione della teoria dell’helplessness è l’introduzione
di attribuzioni causali aventi un ruolo di mediazione tra aspettative di incontrollabilità e sintomi
depressivi: nel momento in cui un individuo si trova a vivere una condizione significativa di
incontrollabilità, è portato a formulare delle attribuzioni di causalità sugli eventi.
In questo processo sono rilevanti le seguenti dimensioni:
-
locus of control: i fattori causali sono attribuiti a qualcosa che dipende dall’individuo stesso
(attribuzioni interne) o da altri fattori (attribuzioni esterne);
-
stabilità: i fattori causali sono concepiti come occasionali e transitori, oppure stabili e duraturi;
-
grado di generalità: i fattori causali vengono considerati come elementi che influenzano aspetti
specifici della propria vita (attribuzioni specifiche) o tutte le aree significative (attribuzioni
globali).
Nella riformulazione del modello si avanza la seguente ipotesi: in seguito a esperienze prolungate e
significative di incontrollabilità, tendono a sviluppare depressione quegli individui che,
nell’attribuzione di causalità, invocano cause interne, stabili e globali per gli eventi negativi, e cause
esterne, instabili e specifiche per gli eventi positivi.
Sarebbe lo stile attribuzionale a influenzare la risposta del soggetto e a dare conto del fatto che, in
situazioni di perdita e di grave incontrollabilità (ad es., un lutto) individui diversi rispondano in
maniera diversa. Pertanto, è lecito aspettarsi che, di fronte alla medesima situazione, alcune persone
sviluppino una depressione grave tendente alla cronicizzazione, mentre in altre si osservi,
solamente, la comparsa di sintomi depressivi moderati e temporanei.
Mediante i tre parametri sopraindicati (locus of control, stabilità e generalità delle attribuzioni
causali) è possibile identificare uno specifico stile esplicativo, detto “depressivo”, da considerare
non come l’elemento causale che genera la depressione ma, piuttosto, come una variabile di tratto.
Seligman si riferisce alle attribuzioni causali in quanto “costrutti ipotetici” che legano variabili e
non come variabili intervenenti. Con ciò, prende chiaramente le distanze da altri studiosi delle teorie
attribuzionali e della psicopatogenesi della depressione, secondo i quali le capacità introspettive del
soggetto e il fatto di riferire verbalmente le proprie credenze causali costituiscono condizioni
necessarie e sufficienti alla genesi della depressione.
In conclusione, possedere uno stile attribuzionale depressivo non conduce di per sé alla depressione,
pur rappresentando un fattore di vulnerabilità.
5
La teoria cognitiva di A.T. Beck
Aaron T. Beck ha determinato una svolta nella moderna psicopatologia e psicoterapia della
depressione con la sua impostazione teorico-pratica basata su un forte interesse per i processi di
distorsione cognitiva. Prima dei suoi studi, la depressione era concepita come un disturbo affettivo
ed eventuali caratteristiche dell’ideazione venivano considerate
solo come secondarie
all’alterazione dell’umore: nessuna importanza veniva attribuita ai processi di pensiero. Alla fine
degli anni cinquanta Beck ha iniziato ad occuparsi degli aspetti psicologici della depressione in
un’ottica perlopiù psicoanalitica. Grazie a intensi programmi di ricerca presso l’Università di
Pennsylvania (Filadelfia), Beck e i suoi collaboratori hanno avuto modo di esaminare e studiare
oltre mille pazienti in poco più di cinque anni. Nel corso di tali ricerche è stato sviluppato il Beck
Depression Inventory (strumento fortemente utilizzato per l’assessment della depressione). Questa
fase ha portato alla pubblicazione de La depressione (1967), monografia ormai classica che prende
le distanze dalle concettualizzazioni psicodinamiche e suggerisce una prospettiva cognitiva.
La parte più stimolante di tali ricerche era fornita da una piccolo campione di soggetti sottoposto a
psicoterapia o analisi formale: una cinquantina di pazienti con le varie diagnosi di depressione e
altrettanti pazienti psichiatrici non depressi inclusi in un gruppo di controllo. Nell’esame di
trascrizioni o appunti relativi alle sedute di trattamento emergeva che i pazienti depressi si
differenziavano dai non depressi per la prevalenza di determinati temi (materiale cognitivo).
Beck considera “cognizione” qualunque attività mentale che abbia un contenuto verbale: idee,
pensieri, giudizi, ma anche autodistruzioni, autocritiche, desideri articolati verbalmente. Sulla base
dei risultati ottenuti tramite le sue ricerche, concluse che il contenuto delle cognizioni dei pazienti
depressi risulta caratterizzato come segue.
-
Bassa considerazione di sé. La persona opera un confronto sfavorevole rispetto alle altre
persone del gruppo di riferimento o ai propri standard e/o si autodenigra in maniera non
realistica negli ambiti per lui importanti.
-
Idee di privazione. Il soggetto verbalizza di sentirsi solo o indesiderato anche a fronte di
manifestazioni di amicizia e affetto. Ritiene di trovarsi in una situazione economica precaria
anche a dispetto di un solido conto in banca.
-
Autocritiche e autorimproveri. Il soggetto rivolge a se stesso critiche per difetti o
manchevolezze, anche prive di fondamento logico, in aree in cui nutre aspettative nei propri
confronti.
-
Problemi e doveri opprimenti. L’individuo ingigantisce considerevolmente problemi e
responsabilità che, in altri periodi, considerava secondari o insignificanti.
6
-
Autocomandi e ordini. Il paziente si ripete spesso “dovrei” o “devo”, si impone di eseguire una
serie di attività anche se inattuabili.
-
Desideri di fuga e/o suicidio. La persona giudica i propri problemi irrisolvibili e
spaventosamente gravose le proprie responsabilità, vedendo nella fuga e/o nella morte le uniche
soluzioni possibili.
In realtà, l’analisi dei processi attraverso i quali i soggetti depressi operano sui dati di origine per
formulare le cognizioni appare molto più utile dello studio del loro contenuto. Questi processi sono
caratterizzati dalla presenza di una sorta di “errore sistematico” connesso alla valutazione dei dati
di realtà e all’elaborazione delle informazioni disponibili.
Beck individuò i seguenti errori sistematici (distorsioni cognitive).
-
Deduzione arbitraria. Analizzando un evento o un’esperienza il soggetto giunge ad una
conclusione nonostante non vi siano prove a sostegno di quest’ultima, non prendendo in
considerazione spiegazioni alternative più probabili.
-
Astrazione selettiva. Analizzando le informazioni relative a un evento, la persona estrapola un
particolare dal suo contesto. La situazione viene concettualizzata sulla base di questo
particolare, mentre vengono del tutto ignorati elementi rilevanti di carattere contrario.
-
Generalizzazione eccessiva. Tendenza a trarre conclusioni generali sulle proprie capacità o altri
aspetti di sé sulla base di un solo episodio o di pochi episodi.
-
Ingigantire e minimizzare. Esagerare l’intensità o l’importanza di un evento negativo. Nel caso
contrario, sminuire i fatti positivi.
-
Definizione inesatta. La precedente distorsione nella valutazione delle proporzioni di un
avvenimento può riferirsi, in alcuni casi, ad un errore nel modo in cui viene definita
un’emozione o una particolare esperienza (ad es., una puntualizzazione da parte di un amico è
descritta come un’osservazione critica).
Gli studi successivi hanno portato all’individuazione di altri due processi.
-
Personalizzazione. L’individuo tende a mettere in relazione a se stesso determinati eventi
esterni, senza che vi sia uno specifico motivo per farlo.
-
Pensiero dicotomico. Nella valutazione delle proprie esperienze, la persona utilizza degli
schematismi del tipo “bianco o nero”. Perché un’esperienza sia considerata positiva, essa deve
essere perfetta (positiva al 100%). Se presenta qualche piccolo elemento di insoddisfazione non
viene considerata positiva al 95% ma passa immediatamente nella categoria opposta (esperienza
negativa).
Questi processi rappresentano gradi diversi di distorsione della realtà: “Il nostro studio dimostra che
anche nelle fasi lievi della depressione avvengono deviazioni sistematiche dal pensiero logico e
7
realistico” (Beck, 1967). Tali distorsioni vengono individuate solo nelle ideazioni con particolari
contenuti, ma non sono presenti nelle altre ideazioni verbalizzate dai pazienti depressi. La
medesima serie di fatti conduce a conclusioni di severa critica e rimprovero se riferita a se stessi,
ma se riferita ad altre persone porta a conclusioni neutre o positive.
Sulla base di quanto è stato detto fin qui si può osservare come la pluralità delle caratteristiche
cognitive riscontrate nella depressione possa essere ricondotta a tre pattern cognitivi idiosincratici
(“triade cognitiva”):
-
interpretazione negativa dell’esperienza, ovvero la tendenza dell’individuo depresso a
interpretare in maniera selettiva, impropria e autodenigratoria fatti ed esperienze attuali. La
persona depressa finisce col pensare che gli altri le facciano delle richieste esorbitanti per le
proprie risorse, con il risultato di vedere la propria giornata costellata di ostacoli e le interazioni
quotidiane con l’ambiente come una serie di insuccessi;
-
valutazione negativa di sé, in base alla quale l’individuo depresso tende a sottovalutare le
proprie capacità e le proprie risorse, a considerarsi inutile, sgradevole o indegno, a ritenersi
privo di qualcuno degli attributi che reputa essenziali per una vita normale e serena;
-
aspettative negative sul futuro, che conducono l’individuo depresso a formulare previsioni
negative sia breve sia a lungo termine, ad aspettarsi un futuro cosparso di ostacoli e sofferenze,
con il risultato di vedere la morte come una liberazione o come una soluzione. Beck osserva
come la stessa dimensione del futuro venga compromessa: come progettualità, libertà,
imprevedibilità. Il futuro non esiste, se non come protrarsi e ampliarsi delle odierne sofferenze.
Questo è facilmente osservabile mettendo a confronto le aspettative di insuccesso e le paure di
pazienti ansiosi con le previsioni negative di pazienti depressi (Beck, 1967, p. 313):
“…il paziente ansioso è preoccupato dalla possibilità di essere ferito (sia
fisicamente che emotivamente), ma vede il trauma come qualcosa appartenente
al futuro. Il paziente depresso percepisce se stesso già danneggiato (sconfitto,
defraudato o denigrato). Quando pensa al futuro, lo fa in termini di persistenza
del suo dolore attuale. Nessuno stimolo lo allarma, poiché l’evento temuto si è
già verificato. Egli prevede i fallimenti futuri come repliche del fallimento che
ha già vissuto”.
Sulla base di queste teorizzazioni inizia a prendere forma un rovesciamento delle teorie classiche
della depressione: in questa condizione clinica è presente, secondo Beck, un disturbo del pensiero
8
(distorsioni cognitive). Le distorsioni non coinvolgono l’intera sfera cognitiva, ma sono limitate a
particolari tipi di contenuto collegabili alla triade depressiva e a schemi idiosincratici del paziente.
La gravità della depressione è direttamente collegata alla perdita dell’obiettività e alla
compromissione dell’esame di realtà. Se nelle fasi lievi il soggetto riesce a considerare con
obiettività i suoi pensieri negativi e, pur non allontanandoli, li esamina e li modifica, nelle fasi più
gravi, fatica a prendere in considerazione la possibilità che le sue idee o interpretazioni siano
erronee. Se è vero tutto ciò, allora non vi è motivo per considerare il disturbo del pensiero come
conseguenza del disturbo dell’umore e non viceversa. Più plausibile è ritenere che esista un disturbo
primario del pensiero con conseguenti alterazioni dello stato emotivo e del comportamento.
Beck conclude (1967, p. 289):
“Si suggerisce, quindi, che gli affetti depressivi tipici sono suscitati da
concettualizzazioni erronee: se il paziente erroneamente percepisce se stesso
inadeguato, abbandonato o colpevole, proverà gli affetti corrispondenti, cioè la
tristezza, la solitudine o la colpa.
D’altro canto, bisognerebbe considerare anche la possibilità che l’affetto suscitato
possa a sua volta influire sul pensiero. È concepibile che una volta che sia stato destato
un affetto depressivo, esso faciliterà la comparsa di ulteriori cognizioni di tipo
depressivo. Di conseguenza, si può produrre un’interazione continua tra cognizione e
affetto, che può così portare alla tipica spirale discendente osservata nella
depressione”.
La risposta affettiva è determinata dalle modalità con cui un individuo struttura la propria
esperienza: così si evidenzia il primato del cognitivo. In questo caso, è bene precisare cosa si intende
per primato del cognitivo. Beck non ha mai avuto difficoltà né a riconoscere l’importanza di fattori
non cognitivi, di carattere affettivo, esperenziale, biochimico, né ad affermare che il modello
cognitivo “non si occupa della possibile eziologia fondamentale, o causa, della depressione”. Beck
et al. (1979) fanno esplicito riferimento alla nozione di Bandura di “interazione reciproca” per
collegare assieme, in un circolo vizioso, deterioramento dell’umore, concettualizzazioni negative e
derive comportamentali. La sostanza della questione è semplicemente un’altra: le distorsioni
cognitive non possono essere considerate sbrigativamente come sintomi o epifenomeni privi di
effettiva rilevanza causale nel determinismo dei disturbi depressivi.
Merita attenzione la nozione di “pensieri automatici” (Beck, 1967, p. 285):
9
“Una delle caratteristiche più singolari delle cognizioni depressive tipiche era che
nell’esperienza dei pazienti esse sorgevano come se fossero risposte automatiche, cioè
senza previa riflessione o ragionamento apparenti. … I pensieri depressivi non solo
apparivano automatici …, ma sembravano anche avere un carattere involontario.
Sovente i pazienti raccontavano che questi pensieri venivano loro anche quando essi
avevano deciso di <<non averne>> o cercavano attivamente di evitarli”.
Costrutti come quelli sopraccitati (distorsioni cognitive, triade) non rappresentano un livello di
astrazione elevato e sono facilmente deducibili dal materiale clinico e di ricerca. Beck ritiene utile,
per completare il modello, introdurre formulazioni a un livello di astrazione maggiore. Di questi
concetti, per loro natura meno vicini ai dati clinici e di ricerca, Beck parla con cautela.
L’opportunità di questo passaggio è imposta dalla plausibilità della tesi secondo la quale la triade
fondamentale non descriva semplicemente caratteristiche del pensiero presenti durante gli episodi di
depressione, ma possa identificare caratteristiche rintracciabili, in forma latente, nell’organizzazione
cognitiva premorbosa (Beck et al.., 1979, p. 31).
“Non ci sembra plausibile che i meccanismi cognitivi distorti si creino ex novo ogni volta
che l’individuo cade in una depressione. Ci pare più credibile che, invece, egli abbia
qualche anomalia relativamente durevole nel suo sistema psicologico. Occorre, quindi,
elaborare la nostra analisi longitudinale in termini strutturali. Un insieme di <<strutture
cognitive>> disfunzionali (schemi) formatesi precedentemente si attiva quando si
scatena la depressione (per stress psicologico, squilibrio biochimico, stimolazione
ipotalamica, o per qualche altro agente)”.
A differenza del processo cognitivo, che è transitorio, una struttura cognitiva è una componente
relativamente stabile, che non viene ipotizzata per spiegare le regolarità osservate nel
comportamento cognitivo. Per indicare gli aspetti strutturali del pensiero depressivo Beck riprende il
concetto di schema, definendolo come “modello complesso, presumibilmente impresso nella
struttura dell’organismo dall’esperienza, che contribuisce, con le proprietà dell’oggetto-stimolo
presentato o dell’idea presentata, a determinare il modo in cui deve essere percepito e
concettualizzato l’oggetto o l’idea”. Nella formazione di una cognizione lo schema fornisce la
cornice concettuale, mentre gli stimoli esterni forniscono i dettagli particolari.
Gli errori sistematici e le distorsioni cognitive, identificate nel pensiero dei soggetti depressi, sono
specifici processi nei quali visualizziamo l’azione momentanea di schemi depressogeni. Questi
10
schemi, sul piano del contenuto, si riconducono sostanzialmente ad articolazioni idiosincrasiche
della triade fondamentale. L’organizzazione cognitiva depressiva è costituita, dunque, da una rete di
tali schemi: si ritrovano generalizzazioni negative su di sé e sull’esperienza. Inoltre, meritano
attenzione le proprietà strutturali di questi schemi, che possono differenziarsi sulla base di
determinate caratteristiche:
-
flessibilità/inflessibilità;
-
apertura/chiusura;
-
permeabilità/impermeabilità;
-
concretezza/astrattezza.
Gli schemi risultano relativamente inattivi durante i periodi asintomatici, divenendo attivi
all’insorgere della depressione. Le cognizioni depressive tendono a sovrastare quelle non depressive
e, vagliando le diverse interpretazioni possibili di una situazione, l’individuo è colpito dall’intensità
delle prime, a scapito di una interpretazione più realistica e aderente ai fatti. Con l’aggravarsi della
depressione gli schemi depressogeni dominano sempre più l’attività cognitiva, prendendo il posto di
schemi più appropriati, limitando l’obiettività e compromettendo l’esame di realtà. L’organizzazione
cognitiva può diventare talmente indipendente dalle stimolazioni esterne, da rendere l’individuo
insensibile ai cambiamenti che avvengono intorno a lui e sostanzialmente autonoma la sua
produzione ideativa.
L’origine degli schemi depressogeni è ricondotta all’intero arco dello sviluppo infantile e
adolescenziale dell’individuo, senza particolari focalizzazioni in momenti specifici o fasi. Una simile
organizzazione cognitiva, nella teoria di Beck, rappresenta un fattore di vulnerabilità specifica e di
predisposizione alla depressione. L’attivazione, in età adulta, di tali schemi e l’insorgere della
depressione sono stati ricondotti al prodursi di eventi scatenanti, definiti da Beck come “eventi
stressanti”. L’Autore divide tali eventi in specifici e non specifici. Esempio comune di stress non
specifico è un lutto, una perdita significativa, un incidente molto grave. Più sottile è la categoria
indicata come stress specifico. Nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza l’individuo si è, per così
dire, “sensibilizzato” a certi tipi di situazioni di vita acquisendo una sorta di iperreattività: eventi
affini a quelli prototipici, quando si ripresenteranno nel corso della vita, potranno attivare la
costellazione depressiva con facilità. In questo caso il rapporto tra venti scatenanti e insorgenza della
depressione potrebbe apparire poco chiaro. A tale proposito Beck riferisce il seguente esempio
(1967, p. 333):
“Un uomo d’affari di successo raccontò che si era sempre sentito inferiore ai suoi
compagni di scuola che venivano da famiglie agiate, poiché la sua era una famiglia
11
povera. Egli si sentiva sempre nettamente diverso e inaccettabile. Quando da adulto, si
trovava con persone più ricche di lui, questo gli faceva pensare di essere fuori posto, di
non valere quanto gli altri, di essere un emarginato sociale. Queste idee erano associate
a sentimenti di tristezza passeggeri. A un certo momento fu eletto al consiglio di
amministrazione di una società. Ritenne che gli altri consiglieri venissero dal lato giusto
della vita mentre lui veniva dal lato sbagliato. Sentì che non poteva essere all’altezza
degli altri consiglieri e cadde nella depressione per parecchi giorni”.
Nel caso appena riportato, l’evento stressante non è rappresentato da un licenziamento, ma da una
promozione. Esisterebbe, dunque, un ambito di vulnerabilità specifico per ciascuna persona.
Eventi stressanti specifici molto frequenti sono: situazioni che abbassano l’autostima, la frustrazione
di mete significative, il presentarsi di un dilemma insolubile o una malattia fisica.
Infine, Beck non esclude la possibilità di un lento logorio, senza particolari eventi degni di
menzione, lungo il quale si indeboliscono schemi di carattere adattivo e positivo fino a lasciare
emergere un’organizzazione depressiva.
L’approccio comportamentale
Il modello di C.B. Ferster
Ferster (1965), basandosi sui principi dell’apprendimento operante, presentò il primo modello
comportamentale che esaminò i meccanismi alla base dello stato depressivo. Lo strumento
utilizzato dall’Autore fu l’analisi funzionale del comportamento, i cui obiettivi sono essenzialmente
due:
-
permettere la selezione di uno o più comportamenti bersaglio da sottoporre a trattamento;
-
scegliere un adeguato metodo di trattamento.
La procedura comprende i seguenti punti nodali:
-
delineare un’immagine il più possibile completa delle persone e delle circostanze che tendono a
mantenere i comportamenti critici e delle conseguenze che questi producono sul paziente e sulle
persone del suo ambiente (dove si verifica il comportamento bersaglio, quando, in presenza di
chi, in quali modalità). Vanno considerati sia gli elementi overt (ogni comportamento viene
analizzato in termini di caratteristiche fisiche osservabili) sia quelli covert (componente
emozionale e cognitiva);
-
analizzare la personalità del paziente, in modo da ricavare informazioni utili circa le strategie
migliori per approcciarsi ad esso, pianificare la terapia e prevedere, nei limiti del possibile, la
reazione al trattamento;
12
-
ricostruire, in maniera fedele ed esauriente, la storia personale del paziente (anamnesi).
Tramite le analisi funzionali, Ferster notò che:
-
nel comportamento depressivo si ha una diminuzione dei rinforzi positivi dell’ambiente;
-
in un individuo depresso vi è un aumento nella frequenza delle reazioni di fuga/evitamento di
fronte a stimoli avversativi;
-
i punti precedenti sono facilitati dalla scarsa capacità del soggetto di fronteggiare stimoli
avversativi.
Le teorizzazioni di Ferster, quindi, hanno rappresentato il primo tentativo di delineare un modello
che, utilizzando il paradigma comportamentale, potesse spiegare il “mantenimento di uno stato
depressivo.
Diminuzione dei rinforzi erogati dall’ambiente
Condizione generale di diminuzione dei rinforzi
DEPRESSIONE
Aumento della frequenza dei comportamenti
di fuga/evitamento dinanzi a stimoli avversativi
Il modello di P.M. Lewinsohn
L’Autore definisce la depressione come “l’alterazione di una serie di moduli comportamentali sia
come caratteristica di stato (momento situazionale o temporaneo di un individuo) sia come tratto
(aspetto costante nel tempo del suo comportamento)” (1974).
Studi condotti da Lewinsohn et al. hanno dimostrato che i soggetti depressi percepiscono le proprie
capacità come insufficienti. Questa valutazione negativa di se stessi determina una rinuncia a
conseguire determinate mete, perché ritenute irraggiungibili. Il senso di depressione, e gli altri
sintomi, sono elicitati nei casi in cui i comportamenti messi in atto da una persona ricevono uno
scarso rinforzo positivo. Questo debole rinforzo, a sua volta, riduce l’attività e, di conseguenza, i
rinforzi saranno sempre più scarsi.
La quantità di rinforzo positivo dipenderebbe da tre fattori:
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-
le caratteristiche dell’individuo (età, sesso, etc.);
-
l’ambiente in cui egli si trova;
-
le modalità di azione presenti nel repertorio comportamentale in grado di fare ottenere il
rinforzo.
Il fattore precipitante viene identificato nella mancanza di rinforzo contingente positivo (RCP).
Il modello proposto da Lewinsohn può essere sintetizzato in cinque punti, rappresentanti un sistema
unico, in cui ogni elemento interagisce con l’altro, rinforzando le caratteristiche negative: una volta
innescato, tale processo si automantiene.
-
Rinforzi: la riduzione o la mancanza di RCP determina e mantiene un circuito di feedback
negativo che perpetua lo stato generale di depressione.
-
Livello di abilità sociali: il basso livello di abilità comunicative diminuisce ulteriormente a
seguito della depressione, impedendo al soggetto di ricevere rinforzi positivi dell’ambiente e
limitandone le relazioni interpersonali.
-
Sintomi somatici: insonnia, mancanza di energia, inappetenza e diminuzione del desiderio
sessuale rappresentano il quadro dei sintomi somatici su cui il soggetto depresso focalizza la sua
attenzione, riducendo la focalizzazione sui programmi operativi.
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Stato emotivo: permanente condizione di disforia che contribuisce al ritiro sociale.
-
Self - efficacy: la bassa quota di RCP determina una bassa stima di sé e la persona si percepisce
come incapace di affrontare l'ambiente e di agire su di esso per il raggiungimento dei propri
bisogni.
Il processo può essere così schematizzato:
bassa quota di RPC
scarse abilità sociali
focalizzazione dell'attenzione del soggetto sul quadro dei suoi sintomi somatici
condizione disforia e ritiro dall'ambiente sociale
bassa self - efficacy
Le differenze fra gli individui depressi e non depressi rispetto ai rinforzi contingenti positivi ( RPC)
sono dovute a:
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variazioni, numeriche e qualitative, nelle attività e negli eventi potenzialmente rinforzanti,
ovvero variabili soggette alle differenze individuali, influenzate da variabili biologiche (sesso ed
età) e dall'esperienza;
-
e/o possibilità che gli individui depressi possano trovarsi più facilmente in situazioni in cui
manchino per loro i rinforzi;
-
e/o differenze tra individui depressi e non in quelle abilità che sono necessarie per ottenere
rinforzi dal proprio ambiente.
Un ultimo chiarimento riguarda la nozione di “abilità sociale”. Con questa espressione Lewinsohn
fa riferimento alla capacità di emettere comportamenti che sono positivamente rinforzati dagli altri.
Il modello di L.P. Rehm
Rehm definisce la depressione come “l’effetto del fallimento nell’efficacia del self-control rispetto
alla scarsità o assenza del rinforzo esterno. Il comportamento depressivo è, di conseguenza, una
riduzione o perdita dei rafforzatori positivi che inibirebbe la produzione dei comportamenti sociali.
Infine, il quadro depressivo si manterrebbe a causa del rinforzo sociale fornito per il ruolo down
assunto dal soggetto depresso”.
La depressione sarebbe originata e mantenuta dal mal funzionamento dei tre processi di self-control.
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Self-monitoring (autoosservazione): attenzione selettiva sugli aspetti negativi e sugli effetti a
breve termine del proprio comportamento.
-
Self-evaluation (autovalutazione): rigidità nei criteri di valutazione, ovvero attribuzione di
merito per i successi personali ai fattori ambientali e attribuzione di responsabilità per i
fallimenti solo a se stessi.
-
Self-reinforcement: scarsa o nessuna presenza di autorinforzatori e notevole presenza di
autopunizioni.
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Schema riassuntivo della depressione
Triade fondamentale e rapporto con i sintomi affettivi e motivazionali.
- Umore depresso
-
Visione negativa del presente
- Paralisi della volontà
-
Visione negativa di sé
- Desideri di elusione
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Visione negativa del futuro
- Aumento della dipendenza
- Desideri suicidi
Fattori predisponenti alla depressione
Repertorio comportamentale overt:
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deficit di abilità sociali;
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deficit di autonomia forzata;
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comportamento tendente all’isolamento.
Repertorio comportamentale covert:
-
deficit nelle abilità di problem solving;
-
convinzioni rigide e irrazionali basate su concetti di valore personale e dovere.
Repertorio emotivo:
-
primato della tristezza nella frequenza delle risposte emozionali negative.
Fattori scatenanti
-
Lutto, difficoltà nell’instaurare un rapporto affettivo, malattie inabilitanti protratte.
Reazione Depressiva
Repertorio comportamentale overt:
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contrazione progressiva del repertorio comportamentale e diminuzione in frequenza dei
comportamenti emessi.
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Repertorio comportamentale covert:
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pensieri e immagini relativi alla visione negativa di sé e della realtà; aspettative negative sul
futuro.
Condizione emozionale:
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disforia con manifestazioni di ansia e aggressività.
Manifestazioni fisiologiche:
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disturbi del sonno;
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disturbi dell’alimentazione;
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disturbi sessuali.
Conseguenze e mantenimento dello stato depressivo
Fattori ambientali:
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diminuita erogazione di rinforzi, che tende a incrementare il basso livello di self-efficacy;
-
rinforzamento familiare e sociale del comportamento depressivo.
Fattori personali:
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attenzione selettiva su aspetti negativi e inappropriati del risultato ottenuto con i propri
comportamenti;
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rigidità valutativa dei risultati ottenuti;
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scarsa considerazione degli aspetti positivi derivanti dal proprio agire;
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criteri assolutistici nell’interpretazione di ciò che è rinforzante;
-
distorsione nello stile attributivo circa il merito;
-
modalità di external-control nel rapporto con l’ambiente;
-
blocco della self-efficacy a basso livello;
-
aspettative riguardo il futuro basate sulla rappresentazione anticipatoria di fallimenti.
Dr. Gargiullo Stefano
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