Prof. Diego Manetti
Storia
L’ITALIA DAL 1848 al 1900
Una sintesi delle premesse…
La Rivoluzione Francese
14 luglio 1789
Presa della Bastiglia e scoppio della Rivoluzione Francese
Fase monarchico-costituzionale
4 agosto 1789
Abolizione della feudalità
26 agosto 1789
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
Riforme di tipo liberale in ambito economico, giuridico e amministrativo
1791
Costituzione (monarchia costituzionale – suffragio ristretto e censitario)
La repubblica giacobina
Giugno 1791
Fuga del re Luigi XVI
21 gennaio 1792
Esecuzione del re Luigi XVI
10 agosto 1792
Caduta della monarchia
21 settembre 1792 Proclamazione della Repubblica
1793
Costituzione (repubblica – suffragio universale maschile)
Guerra civile – “Terrore”
27 luglio 1794
Caduta di Robespierre
L’ascesa di Napoleone
1795
Abbattuta la repubblica giacobina, nuova Costituzione (parlamento
bicamerale + direttorio di 5 membri; suffragio censitario)
1796-1799
Conquiste napoleoniche in Italia e nascita delle repubbliche italiane
1797
Pace di Campoformio: Napoleone cede Venezia all’Austria
1799
Sconfitte francesi in Italia e crollo delle repubbliche, con la restaurazione dei
precedenti governi e dure repressioni
1799
Colpo di stato del Direttorio e di Napoleone - che entra a far parte di un
triumvirato consolare dotato di pieni poteri, per divenire poi Primo Console
con la Costituzione del 25 dicembre 1799
1802
Un plebiscito nomina Napoleone console a vita
1804
Proclamazione dell’Impero – Napoleone imperatore
1812
Massima espansione dell’impero napoleonico in Europa
Campagna in Russia e sconfitta francese
1813
Sconfitta di Napoleone a Lipsia ad opera della coalizione tra Inghilterra,
Russia, Prussia, Austria
1814
La coalizione antifrancese entra a Parigi e Napoleone deve abdicare in favore
di Luigi VXIII di Borbone. La Francia torna ai confini del 1792
1815
La coalizione antifrancese sconfigge Napoleone a Waterloo (nei pressi di
Bruxelles) e lo esilia nell’isolotto di Sant’Elena
5 maggio 1821
Morte di Napoleone a Sant’Elena
Il Congresso di Vienna (1815)
Finito il regime napoleonico, si riportano al governo i precedenti sovrani
(“Restaurazione”) e si ritorna all’assolutismo monarchico
Principi di equilibrio (evitare futuri scontri: creazione degli stati cuscinetto
come Paesi Bassi e Svizzera neutrale) e di legittimità (tornano ai governi i
sovrani precedenti al dominio napoleonico)
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Dopo il 1815
Storia
L’Italia è così divisa:
- Regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna, Savoia, Nizza, Liguria) con
Vittorio Emanuele I
- Regno Lombardo-Veneto (Lombardia e Veneto) sottoposto
direttamente all’Austria tramite un viceré
- Trentino, Venezia Giulia e Trieste, Istria e Dalmazia: entrano a far
parte dell’Impero Asburgico
- Ducati di Parma, Piacenza, Modena, Massa: sottomessi a sovrani
della dinastia asburgica
- Granducato di Toscana: governato da un sovrano asburgico
- Stato della Chiesa – comprendente Lazio, Umbria, Marche e
Legazioni pontificie (tra cui Bologna, Ravenna, Benevento)
- Regno delle Due Sicilie (Sud Italia e Sicilia) sottomesso a Ferdinando
I di Borbone, politicamente legato all’Austria
La rivoluzione industriale
Ultimi decenni del Mutamento profondo e relativamente rapido (rivoluzione) nell’economia Settecento – prima inglese prima, europea poi – ad opera del sistema di produzione delle
metà
industrie (industriale)
dell’Ottocento
Condizioni favorevoli: abbondanza di forza lavoro a basso costo per
incremento demografico, disponibilità di risorse naturali (carbone e ferro)
Meccanizzazione della filatura e della tessitura, macchina a vapore, ferrovia
Modernizzazione e urbanizzazione
Le classi sociali: borghesia e proletariato; mobilità sociale e povertà
La questione sociale: lavoro minorile, movimento operaio, sindacato e
società di mutuo soccorso, diritto di sciopero
Marx ed Engels scrivono Il manifesto del partito comunista (1848)
I moti rivoluzionari contro la Restaurazione (1820-1848)
1820
Moti in Spagna e Portogallo per ottenere la Costituzione del 1812, spenti
dalla Francia
1820
Moti nel Regno delle Due Sicilie per costituzione e indipendenza, con
intervento dell’Austria
1821
Il Piemonte si dà una costituzione, ma interviene l’Austria
1821-1829
La Grecia conquista l’indipendenza dall’Impero Ottomano
1825
In Russia: riforme liberali e abolizione della servitù della gleba (terra),
repressione dello zar Nicola I
1830
In Polonia: indipendenza dalla Russia, repressione dello zar Nicola I e
“russificazione”
1830
In Francia: ripristino delle libertà civili e ottenimento di una Costituzione più
liberale con la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans
1830-1831
Il Belgio conquista l’indipendenza dall’Olanda
1831
Emilia Romagna: indipendenza dell’Italia centrale, intervento dell’Asutria
1848
In Francia: riforma in senso liberale e democratico, proclamazione della
Repubblica con la presidenza di Luigi Napoleone
1848-1849
Confederazione germanica: riforme costituzionali, unificazione e
costituzione moderata
1848-1849
Impero d’Austria: riforma costituzionale a Vienna, repressione delle
rivendicazioni e ritorno all’ordine
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Storia
IL RISORGIMENTO ITALIANO
Il problema nazionale italiano
Con “risorgimento” si intende l’insieme di processi ed eventi che portarono alla conquista
dell’indipendenza politica e all’unificazione dell’Italia, avvenuta nel 1861. Più che un significato
etico-religioso, il termine ha valenza politica, divenendo – all’indomani dell’Unità – il modo per
identificare una “terza Italia” dopo quella di Roma antica e quella rinascimentale.
L’Italia raggiunge dunque l’unità dopo la metà dell’Ottocento, più o meno come la Germania
(1871), ma più in ritardo rispetto a Francia, Gran Bretagna e Spagna che già avevano realizzato la
formazione di stati-nazione. Le condizioni politiche degli altri stati e le grandi idee circolanti in
ambito europeo – libertà, democrazia – favorirono il processo di unificazione italiana attraverso la
formazione di una opinione pubblica nazionale.
L’Italia dopo la Restaurazione (1830) era una realtà frammentata, con un mercato interno
frazionato da dogane e deboli infrastrutture, al punto che ogni regno o ducato commerciava più
facilmente con l’estero che con le realtà italiane limitrofe. Altro fattore divisivo era la lingua, che
ancora era privilegio di pochi, mentre la maggioranza era analfabeta e legata ai dialetti locali.
Infine, dominava il policentrismo: più che sentirsi legati alla patria, si viveva l’appartenenza alla
città o al regno, e ci si impegnava più per tutelare le autonomie locali che per aspirare
all’unificazione italiana.
Nel contempo, andava emergendo una élite liberale, principalmente di estrazione borghese, che
sentiva il peso dell’arretratezza civile ed economica italiana e puntavano alla creazione di un
mercato interno unico, abbattendo le diversità di pesi e misure e riducendo le dogane interne
(processo antesignano della creazione di MEC, CEE ed EU nella seconda metà del Novecento).
Si sviluppa così, negli anni 1830-1840, un dibattito pubblico che, partendo da questioni
economiche, si allarga agli ideali politici in ottica riformista e nazionale, mirando a superare
frammentazione e municipalismo (legame con le singole “patrie” cittadine) tipico dell’Italia del
tempo.
Un elemento favorevole al dibattito politico venne dagli esuli dei moti italiani falliti nel 1830-1831
che, rifugiatisi in Gran Bretagna o Francia, avevano potuto osservare da vicino realtà di stati ben più
moderni dell’Italia, vagheggiando gli obiettivi dell’indipendenza e dell’unità nazionale secondo due
linee di pensiero: una liberale-moderata e una democratica-repubblicana.
Tra i liberal-moderati ritroviamo Gioberti, D’Azeglio, Balbo, Cavour. Tra i democraticorepubblicani Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Pisacane.
I moderati ritenevano che indipendenza e unità si sarebbero raggiunti con riforme graduali
promosse dagli stessi sovrani interni, fino a giungere a una monarchia costituzionale a carattere
liberale. I democratici puntavano invece alla insurrezione popolare per giungere a una repubblica
fondata sulla sovranità del popolo.
Massimo esponente dei democratici fu Giuseppe Mazzini (1805-1872) che sosteneva il nesso
inscindibile tra nazione e libertà, secondo un nazionalismo intriso di valori etici, religiosi e
romantici. “Dio e popolo” è il binomio che racchiude il suo pensiero, nell’ottica di una rivoluzione
vista come missione da compiere con profonda fede nella religione civile della patria. Più che nella
lotta di classe, Mazzini crede nell’unificazione del popolo tramite una grande opera di educazione
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morale. Pur sostenendo la rivoluzione popolare, non riteneva la Francia propulsore di un processo
europeo, preferendo difendere autonomia e originalità di ogni singola nazione.
Per realizzare il suo programma, Mazzini fondò l’associazione “Giovine Italia” nel 1831,
contrapponendo programmi e azioni pubbliche ai metodi segreti tipici della Carboneria. Pur
contando decine di migliaia di iscritti, l’associazione restò circoscritta al nord e al centro, e alle
classi medie (senza raggiungere le élites borghesi). Col fallimento delle insurrezioni organizzate nel
in Piemonte e Liguria, e l’arresto di molti membri, Mazzini rinunciò alla cospirazione in Italia e,
dall’esilio in Svizzera, fondò la “Giovine Europa” (1834), per dare maggior respiro alle proprie
idee.
I moderati liberali si ispiravano invece alle liberali Gran Bretagna e Francia dove il potere
monarchico era limitato da opportune garanzie di libertà civili ed economiche, oltre che dal
suffragio censitario.
Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote piemontese, nel suo Del primato morale e civile degli
italiani (1843) espone un progetto di unità nazionale italiana in forma federativa, ritenendo
irrealistica la meta di unità nazionale tra realtà locali così diverse e specifiche. Una confederazione
di staterelli sovrani a capo dei quali avrebbe dovuto esservi il papa, garante di una rifondazione
etica e politica della nazione (per il cui il pensiero di Gioberti venne detto “neoguelfismo”).
Ancora tra i moderati, troviamo il liberale piemontese Cesare Balbo che, nelle Speranze d’Italia
(1844), individuava nell’Austria il principale ostacolo all’unificazione italiana e vedeva nella
monarchia sabauda l’unica forza capace di sconfiggere il dominio asburgico e creare una
confederazione italiana guidata proprio dal Piemonte.
In Piemonte re Carlo Alberto introduce alcune riforme e codici di impostazione liberali, favorendo
così lo sviluppo della riflessione moderata e suscitando speranze tra i liberal-moderati, tra i quali
Massimo D’Azeglio (1798-1866).
Federalista fu Carlo Cattaneo (1801-1869), tra i maggiori pensatori del Risorgimento.
Condivideva l’ideale democratico di Mazzini e l’ostilità verso un processo di indipendenza guidato
dai sovrani invece che dal popolo, ma immaginava l’Italia non unitaria bensì come federazione
repubblicana di stati (simile agli USA) per salvaguardare le diverse autonomie locali, all’insegna
del binomio “federalismo e libertà” (cfr. la rinascita del progetto federalista con l’emergere nel
panorama politico italiano contemporaneo della Lega Nord).
Il 1848 in Italia
Nel 1846 l’elezione di Pio IX pareva confermare le speranze dei liberal-moderati (in particolare
Gioberti) per alcune riforme e aperture politiche, cui fecero seguito altre riforme in Piemonte e
Toscana. Il tutto alimentò un diffuso sentimento patriottico e anti-austriaco che sfociò nelle
rivoluzioni del 1848-1849 (un ampio movimento che investì l’Europa e non solo l’Italia).
Nel Regno delle Due Sicilie il moto rivoluzionario del 1848 ottenne la concessione della
Costituzione. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, concedettero gli statuti anche la Toscana,
lo Stato Pontificio e il Regno di Sardegna (lo Statuto Albertino, che resterà in vigore fino alla
Costituzione Italiana del 1948). Erano detti “statuti” in quanto Costituzioni stabilite e concesse
dai sovrani, di impronta fortemente moderata, con un sistema parlamentare bicamerale (una
camera elettiva a suffragio censitario, l’altra vitalizia di nomina regia; il governo risponde al re, non
al parlamento).
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Storia
Tranne i ducati di Parma e Modena e il Lombardo-Veneto, nel 1848 tutti gli stati italiani arrivano a
possedere una costituzione. I sovrani pensavano di conservare così il potere, ma l’eco del
movimento europeo accese rivolte a Venezia (17 marzo 1848) e Milano (le “cinque giornate” del
18-22 marzo 1848) che portarono alla cacciata degli Austriaci.
Mentre i moderati volevano l’unificazione della Lombardia al Piemonte per sancire la fine del
dominio asburgico, i repubblicani vedevano con sospetto l’intervento della monarchia sabauda.
Mentre le due fazioni si dividono, Carlo Alberto (1798-1849) prende l’iniziativa di dichiarare
guerra all’Austria (23 marzo 1848). In quella che venne detta “Prima Guerra d’Indipendenza”
il successo di Carlo Alberto fu immediato, anche per l’appoggio di volontari e patrioti di varie parti
d’Italia, e la Lombardia venne annessa al Regno di Sardegna. Nonostante importanti vittorie
(Curtatone, Montanara), Carlo Alberto non diede il colpo decisivo alla resistenza austrica in Veneto,
venendo anzi sconfitto a Custoza.
Altro fattore di debolezza fu la decisione di Pio IX di ritirare il suo appoggio perché, come Papa,
non voleva opporsi agli Austriaci, cattolici: falliva così il progetto neoguelfo di Gioberti.
Anche nel Regno delle Due Sicilie la situazione precipitò: dinanzi alle pretese di separazione tra
Napoli e Palermo, Ferdinando II di Borbone sciolse il parlamento.
Il fallimento delle aspirazioni moderate diede nuovo vigore alle idee dei democratici, con la
seconda fase del Quarantotto italiano che si aprì con l’insurrezione in Toscana che portò alla
cacciata di Leopoldo II da Firenze. Anche Pio IX dovette lasciare Roma, rifugiandosi a Gaeta,
mentre nel 1849 venne proclamata la Repubblica Romana, guidata da un triumvirato
comprendente anche Mazzini, mentre Giuseppe Garibaldi, repubblicano e mazziniano, comandava
le truppe.
Carlo Alberto, desideroso di espandere il dominio sabaudo, riprese la guerra con l’Austria, nel
1849, ma venne nuovamente sconfitto (a Novara) e, perso così ogni territorio sottratto in
precedenza agli Austriaci, dovette abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II (che sarà Re
d’Italia dal 1861 al 1878).
Contemporaneamente al fallimento delle rivoluzioni europee sotto i colpi della reazione dei
conservatori, anche in Italia si concluse in modo negativo l’esperienza delle repubbliche
democratiche: Pio IX rientrò a Roma, liberata dall’intervento francese di Luigi Napoleone (che
mirava così a ottenere il consenso del clero e dei cattolici francesi); Leopoldo II tornò a Firenze;
la Sicilia venne riconquistata dall’esercito borbonico; Venezia tornò pienamente sotto il comando
austriaco, dopo aver vissuto una breve parentesi repubblicana (17 marzo 1848 – 23 agosto 1849).
Il bilancio del Quarantotto italiano è negativo per le sconfitte dei progetti unitari e
indipendentisti e per le profonde divergenze tra moderati e repubblicani; ma è positivo per
l’emergere di una opinione pubblica nazionale diffusa non solo tra le élites ma anche presso
consistenti fasce popolari.
La REPUBBLICA è una forma di stato in cui il capo dello stato è eletto dal popolo (direttamente o
tramite le camere rappresentative)
Stato
Le Leggi esprimono…
I cittadini sono…
Fondamento dello stato è…
REPUBBLICA
MONARCHIA
DISPOTISMO
…la volontà del popolo
…la volontà del re, con dei limiti
…la volontà del despota, senza
limiti
…uguali, in quanto liberi
…disuguali
…uguali, in quanto servi
…la virtù
…l’onore
…la paura
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STATI NAZIONE E IMPERI DOPO IL 1848
1837
1848
1852
1854-56
1861
1862
1865
1866
1867
1869
1870
1871
1861-1865
In Gran Bretagna inizia il regno della regine Vittoria (1837-1901) durante il quale
il Paese raggiunge l’apice della potenza economica e coloniale e consolida le
proprie istituzioni politiche
Rivoluzioni europee
Luigi Napoleone Bonaparte diviene imperatore di Francia, dopo aver attuato un
colpo di stato (1851) che porta alla nascita del Secondo Impero; il consenso al
bonapartismo si fonda sul ricorso frequente al plebiscito tramite il suffragio
universale.
Guerra di Crimea. Gran Bretagna e Francia si oppongono a tentativi di espansione
da parte della Russia, sconfiggendo lo zar in un conflitto che causa moltissime
vittime. Si incrina l’alleanza tra Russia e Austria (che non entra nel conflitto, ma
neppure prende le difese della Russia).
L’Italia partecipa alla guerra e ottiene così di presentare il “caso italiano” alla
conferenza di Parigi del 1856.
Abolizione della servitù della gleba in Russia con lo zar Alessandro II
Bismarck diviene cancelliere in Prussia; convinto antiliberale e assertore del
potere autoritario dello stato, fu campione della Realpolitik, ovvero una politica
realistica e spregiudicata. Seppe condurre la Prussia a una graduale espansione e
alla guida dell’unificazione tedesca.
Riforma elettorale inglese
Vittoria prussiana della guerra con l’Austria. Dopo aver coinvolto l’Austria in una
alleanza contro la Danimarca (1864), Bismarck decide di dichiarare guerra
all’Austria stessa – ne approfitterà l’Italia per condurre la cosiddetta “Terza
Guerra d’Indipendenza” e riconquistare il Veneto – sconfiggendola a Sadowa, in
Boemia (1866)
Nascita della duplice monarchia austro-ungarica: la molteplicità di etnie, popoli e
nazioni pone il problema di una stabilità che pare garantita dalla nascita
dell’Impero Austro-Ungarico (un compromesso che l’Austria accetta per non
perdere definitivamente il potere).
Apertura francese del canale di Suez, tramite una società per azioni controllata
dalla maggioranza franco-inglese e dalla minoranza egiziana. Verrà
nazionalizzato dal presidente d’Egitto Nasser nel 1956, espropriando inglesi e
francesi.
Vittoria prussiana della guerra con la Francia (sconfitta a Sedan). Bismarck
approfitta di una crisi politica in Spagna per opporsi alla Francia e indurre, con
abili manovre diplomatiche, Napoleone stesso a dichiarare guerra alla Prussia per
“ingerenza” in affari di politica internazionale.
Unificazione della Germania e proclamazione del Secondo Reich - dopo il Sacro
Romano Impero di Carlo Magno e prima del Terzo Reich di Adolf Hitler (19331945). Guglielmo I viene proclamato imperatore.
Guerra di Secessione negli USA tra Nord e Sud
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La conquista dell’Unità italiana
Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49 in Italia, le posizioni democratico-repubblicana
e liberal-moderata parevano egualmente in crisi. Se il popolo non sembrava in grado di sollevarsi
per conquistare l’indipendenza e l’unità, anche i sovrani italiani parevano più interessati alle proprie
mire di governo che all’unificazione nazionale. Tuttavia, nonostante la “seconda Restaurazione”
italiana del dopo-Quarantotto, l’opinione pubblica nazionale iniziava a causare una crisi di
legittimazione nei diversi governi italiani.
La repressione venne condotta nel Lombardo-Veneto dal maresciallo austriaco Radetzky che
instaurò un duro regime di polizia; la restaurazione fu condotta pure da Leopoldo II in Toscana, da
Pio IX nello Stato Pontificio e da Ferdinando II nel Regno delle Due Sicilie.
Unica eccezione, il Regno di Sardegna, che mantenne in vigore lo Statuto Albertino concesso nel
1848 da re Carlo Alberto all’insegna di una alleanza tra monarchia e classe dirigente che Vittorio
Emanuele II desiderava continuare a mantenere per godere dell’appoggio del liberali.
Massimo D’Azeglio fu primo ministro dal 1849 al 1852 e gli successe Camillo Benso conte di
Cavour. Sotto D’Azeglio vennero approvate le “Leggi Siccardi” (1850), per l’abolizione del foro
ecclesiastico e del diritto d’asilo, avversate dai cattolici e sostenute dai liberali; non passò invece il
matrimonio civile, motivo per cui D’Azeglio dovette dimettersi, in favore di Cavour (che
promise di non presentare più tale legge, che scontentava il senato, di nomina regia e conservatore;
infatti il matrimonio civile verrà approvato dal Parlamento Italiano nel 1865, dopo la morte di
Cavour stesso, avvenuta nel 1861).
Cavour, liberale e riformista, riteneva che il progresso economico e civile del Piemonte fosse la
premessa necessaria perché potesse divenire leader della politica italiana. Diede al governo una
salda maggioranza parlamentare con la politica del “connubio” cioè con l’alleanza tra il “centrodestro” (di cui Cavour stesso era guida) e il “centro-sinistro” democratico e moderato capeggiato da
Urbano Rattazzi. In tal modo si emarginavano l’estrema sinistra e la destra “clericale”, favorendo
un’alleanza stabile tra aristocrazia e borghesia.
Cavour riteneva che il “connubio” avrebbe permesso di trasformare la monarchia costituzionale in
monarchia parlamentare.
Da convinto liberista, Cavour adottò il libero scambio, abbattendo gradualmente le barriere
doganali, stipulando accordi commerciali che inserirono il Piemonte nel circuito dell’economia
internazionale. Favorì altresì le opere di modernizzazione agricola e di canalizzazione, utilizzando
la spesa pubblica per grandi infrastrutture (strade, ferrovie).
Allo scoppio della guerra di Crimea (1854-56) – combattuta da Francia e Gran Bretagna contro la
Russia per impedirne l’espansione ai danni dell’Impero Ottomano – Cavour scelse di partecipare
con un piccolo contingente per poter poi essere presente al congresso di pace di Parigi (1856) e
rafforzare così l’immagine del Piemonte a livello internazionale e presso l’opinione pubblica
nazionale.
Nel frattempo Mazzini, dall’esilio di Londra, continuava a coordinare progetti di insurrezione
popolare, convinto che i fallimenti del 1848 non dovessero portare ad abbandonare gli ideali
democratici e repubblicani. I nuovi fallimenti del 1853-56, nonché il tragico tentativo compiuto
da Carlo Pisacane con la nefasta spedizione di Sapri (1857) - che avrebbe dovuto innescare un
moto popolare nel Mezzogiorno e vide invece l’opposizione degli stessi contadini che respinsero i
patrioti e indussero Pisacane al suicidio -, mostrarono la velleità della “via popolare”
all’unificazione italiana.
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Nel frattempo Torino, meta di migliaia di esuli, divenne riferimento del movimento nazionale,
raccogliendo consensi anche di molti mazziniani delusi. Cavour colse il clima politico favorevole e
approvò la fondazione della “Società nazionale italiana”, un’organizzazione clandestina che
mirava alla lotta per l’indipendenza sotto la guida dei Savoia, a cui aderì anche Garibaldi.
Secondo Cavour, Napoleone III restava il miglior alleato della causa italiana, in quanto mirava ad
espandersi in Europa ai danni dell’Austria. E quando il mazziniano Felice Orsini compì un
attentato proprio contro Napoleone III (1858), Cavour ebbe gioco facile nel mostrare che
l’imperatore francese aveva rischiato la vita proprio a causa della difficile situazione italiana a cui
occorreva trovare presto una soluzione.
Nel 1858 Cavour e Napoleone III stringono così gli accordi segreti di Plombières, con i quali la
Francia si impegna - in cambio della cessione di Nizza e Savoia - a entrare in guerra a fianco del
Piemonte qualora quest’ultimo fosse attaccato dall’Austria. Napoleone puntava, in realtà, a
ottenere il controllo – diretto o indiretto – dell’area italiana. E pensava che comunque l’Austria non
avrebbe avuto motivo di attaccare il Piemonte, per cui ratificò l’alleanza formale col Regno di
Sardegna nel 1859.
A questo punto, Cavour si mise all’opera, organizzando manovre militari e arruolando volontari, in
modo da provocare l’Austria che inviò un ultimatum al Piemonte. Ovviamente Vittorio Emanuele
II lo respinse e l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna. Napoleone III non poté fare a
meno di intervenire, come da accordi, al fianco del Piemonte.
Scoppiò così la “Seconda Guerra d’Indipendenza” (1859) che vide i franco-piemontesi riportare
vittorie importanti (San Martino e Solferino). Ma Napoleone III decise di non procedere oltre e di
ritirarsi, proponendo agli Austriaci la firma dell’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859),
temendo una eccessiva espansione italiana, un eventuale intervento prussiano in sostegno
dell’Austria, e non volendo eccedere nell’ostilità contro gli Asburgo che pure erano cattolici,
dunque ben visti dal papato di Pio IX, del cui appoggio Napoleone III non poteva fare a meno per
conservare il consenso del clero e dei cattolici in Francia.
Nonostante la tregua anticipata, l’Austria cedette la Lombardia alla Francia, che subito la
cedette al Piemonte in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto restava invece sotto il dominio
austriaco.
Sulla scorta della vittoria contro gli austriaci, nel 1859 la Toscana, i ducati, le legazioni pontificie
si sollevarono, si diedero governi provvisori e chiesero l’annessione al Piemonte. La Francia
vedeva così sfumare il progetto di controllare l’Italia, ma non poteva certo opporsi a tale
unificazione e favorire un ritorno degli Austriaci e una loro eventuale espansione nella penisola. Per
la stessa ragione, l’Austria non vedeva di buon occhio in intervento francese, che avrebbe
accresciuto l’influenza di Napoleone III in Italia. Anche Vittorio Emanuele II era “bloccato”: non
poteva accettare le annessioni, per non urtare la Francia, né respingerle, per non perdere il ruolo di
guida del movimento nazionale.
A sbloccare la situazione ci pensò Cavour che, nel 1860, fece indire i plebisciti che videro, col
97% dei consensi, l’approvazione delle annessioni dei diversi regni e ducati. Così si venne ad
avere un’Italia divisa in:
- Regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna + Lombardia, Toscana, Emilia)
- Stato Pontificio (Lazio, Umbria, Marche)
- Regno delle Due Sicilie
- Veneto sotto il dominio austriaco
Come nel 1848, ancora una volta la miccia dell’insurrezione fu accesa in Sicilia con una rivolta
separatista che chiese l’intervento di Garibaldi.
Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpò da Quarto, in Liguria, alla testa di oltre mille volontari
(“spedizione dei mille”) – suscitando la preoccupazione di Cavour, che temeva il carattere
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democratico e mazziniano dell’impresa – e sbarcò a Marsala, in Sicilia, assumendo il controllo
dell’isola in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia, sconfiggendo in breve l’esercito borbonico
con l’appoggio entusiasta della popolazione locale.
Nonostante alcune riforme in favore dei contadini, il governo provvisorio della Sicilia non risolse le
tensioni tra proprietari e contadini e, laddove esplosero degli scontri, la repressione guidata da
Garibaldi fu molto dura (ad esempio a Bronte, dove il generale garibaldino Nino Bixio soffocò
nel sangue una rivolta popolare), mostrando le contraddizioni e i limiti della spedizione dei mille.
Sbarcato in Calabria (agosto 1860), Garibaldi entrò poi a Napoli (settembre 1860).
Garibaldi aveva sempre conquistato e assunto il potere nel nome del re Vittorio Emanuele, tuttavia
Cavour temeva una deriva democratica di tale spedizione, che avrebbe potuto convergere su
Roma, come Mazzini avrebbe voluto, per assumere il controllo dell’intera penisola. Con il
pretesto di mantenere la calma nel centro-Italia, Cavour inviò dunque un corpo di spedizione che
sconfisse le truppe del papa e, occupate le Marche e l’Umbria, puntò sulla Campania.
Cavour chiese che i territori liberati/occupati da Garibaldi potessero esprimersi tramite plebisciti in
merito alla possibilità di annettersi al Regno di Sardegna. Garibaldi, per evitare lo scontro col re,
non si oppose. Marche, Umbria, Mezzogiorno e Sicilia votarono dunque l’annessione al
Piemonte. Il 26 ottobre 1860 avvenne lo storico incontro tra Garibaldi e il Re a Teano, con la
consegna del potere a Vittorio Emanuele II che, il 17 marzo 1861, venne proclamato dal
parlamento come “Re d’Italia”, mantenendo lo stesso nome per sottolineare la continuità tra il
nuovo Regno d’Italia e quello sabaudo.
L’età della Destra Storica (1861-1876)
Nel 1861 l’Italia conta 22 milioni di abitanti. Il 70% della forza lavoro è occupato in agricoltura,
poiché il sistema economico è ancora pre-industriale. Le condizioni di vita – operaie e contadine –
sono pessime, a causa delle cattive condizioni igienico-sanitarie (la mortalità infantile arriva fino al
20%). L’Italia è insomma una periferia economica, in ritardo rispetto all’Europa.
Inoltre, secoli di dominazione straniera hanno lasciato in eredità una profonda frammentazione
culturale, linguistica, giuridica. Solo il 2% degli italiani parla la lingua nazionale; il resto della
popolazione usa i dialetti locali.
Dal 1861 il governo è retto dalla cosiddetta “Destra storica”, gruppo di notabili espressione
dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata che avevano guidato – all’insegna del
“connubio” cavouriano – l’unificazione italiana. Uomini dunque appartenenti alla nobiltà sabauda o
alla borghesia imprenditoriale Lombarda. Tra i diversi esponenti, ricordiamo Ricasoli, Minghetti,
La Marmora, Sella. Avevano grande fiducia nel libero mercato e convinti di essere l’élite
dirigente chiamata a governare per il bene del paese.
Ma avevano forti limiti. Anzitutto rappresentavano una base elettorale esigua, poiché il suffragio
censitario dava il voto al 2% degli italiani; inoltre avevano una visione fortemente elitaria della
politica: al governo ci vanno nobili e borghesi, che nutrono nei confronti delle masse popolari
sentimenti oscillanti tra paternalismo e autoritarismo. Ancora: percepivano il Meridione come
una realtà arretrata e del tutto sconosciuta.
Tra i problemi da affrontare, il primo è il completamento dell’unità nazionale, poiché:
- Veneto, Trentino e Trieste sono ancora in mano all’Austria
- Roma e il Lazio sono ancora soggette al potere temporale del Papa (Pio IX, 1846-1878)
Ma solo il completamento dell’unificazione avrebbe assicurato la necessaria stabilità politica del
Paese. Il contesto internazionale non era così favorevole: l’Austria controllava parte dei territori
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italiani, la Francia era irritata per il processo di unificazione che ne aveva deluso le aspettative di
influenza sulla penisola.
Una occasione propizia venne però dalla richiesta della Prussia di Bismarck che, nel 1866,
propose all’Italia di allearsi contro l’Austria. In cambio, il Veneto sarebbe stato ceduto all’Italia
stessa.
Si entrò così nella Terza Guerra d’indipendenza (1866) che, se dal punto di vista militare fu un
disastro (sconfitte a Custoza e nelle acque di Lissa, nell’Adriatico), tuttavia fu una vittoria politica
in quanto l’Austria, sconfitta dalla Prussia, dovette cedere il Veneto al Regno d’Italia.
Altra questione aperta era quella “romana”. La Destra seguiva il programma cavouriano: “libera
Chiesa in libero Stato”, propugnando la separazione tra le due realtà con tale forza che spesso si
travalicò nell’anticlericalismo (cfr. già le Leggi Siccardi, 1850). Se i democratici – Garibaldi,
Mazzini – pensavano a una occupazione popolare di Roma, la Destra liberale era più prudente,
per non urtare la Francia di Napoleone III che difendeva il papa (in funzione dell’appoggio dei
cattolici francesi). Garibaldi prese l’iniziativa di una spedizione che, partendo dal Sud, avrebbe
puntato su Roma, ma le truppe napoleoniche si opposero, ferendo lo stesso Garibaldi.
Nel 1864 si firmò un accordo con Napoleone III per il graduale ritiro delle truppe a difesa di Roma.
Nel 1865 la capitale d’Italia venne spostata da Torino a Firenze, per non intimorire i Francesi
rispetto a Roma e al Papa, ma venne letta dagli italiani come una “rinuncia” a Roma capitale.
Garibaldi tentò un’ulteriore spedizione popolare alla conquista di Roma, ma venne nuovamente
respinto dalle truppe francesi (1867).
Frattanto il mondo cattolico era diviso: chi era “conciliarista” – disposti cioè a mediare,
riconoscendosi “cattolici col Papa, liberali con lo Statuto” – e chi invece era “intransigente”.
Divisione che si acuì dopo l’introduzione del matrimonio civile (1865) e la confisca, da parte delle
stato, di numerose proprietà e immobili ecclesiastici (1866-67).
La reazione di Pio IX non mancò: dopo aver pubblicato il Sillabo (1864) – elenco di 80 tesi
moderniste condannate dalla Chiesa perché di marca socialista o liberale –, nel 1869 il Concilio
Vaticano I proclamò il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e morale (come
misura preventiva per garantire l’indipendenza spirituale del papa qualora avesse perso quella
politica, per poter così continuare a esercitare l’ufficio di guida della Chiesa).
Approfittando della debolezza di Napoleone III, sconfitto nella guerra franco-prussiana del
1870, il governo italiano scelse un’azione di forza e il 20 settembre 1870 i bersaglieri
penetrarono a Roma per la breccia di Porta Pia, ponendo fine al potere temporale del papa. Pio
IX colpì con la scomunica i responsabili e si dichiarò prigioniero dello stato italiano.
Nel 1871 la Legge delle Guarentigie (“garanzie”), approvata dal parlamento italiano, sancì il
trasferimento della capitale da Firenze a Roma, concedendo al Papa il mantenimento
dell’indipendenza spirituale e della sovranità sullo Città del Vaticano. Pio IX respinse queste
norme in quanto unilaterali e nel 1874 vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana
poiché “non expedit”, cioè “non conviene”, coinvolgersi con un governo anticlericale. Si creava
così una profonda frattura tra laici e cattolici.
Frattanto lo Statuto Albertino del 1848 era stato esteso a tutto il Regno d’Italia, imponendo un
accentramento amministrativo che si scontrava con le rivendicazioni di chi, per rispettare le
autonomie e le diversità locali, avrebbe preferito un decentramento amministrativo. Alla fine
prevalse la volontà della classe dirigente sabauda di imporre un rigido controllo centrale sul
fragile stato italiano.
Il sistema scolastico nazionale venne regolato dalla Legge Casati del 1859.
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Il Regno venne diviso in province, rette da prefetti, nominati dal governo; anche i sindaci delle
città erano di nomina governativa. Questo accentramento provocò, soprattutto nel Meridione, un
profondo senso di estraneità verso le istituzioni.
La Destra sosteneva la politica commerciale liberista. In tale ottica, si impose l’unificazione
monetaria, con l’adozione della lira piemontese in tutta Italia nel 1862 (cfr. adozione dell’Euro),
e si stipularono trattati commerciali con Francia e Gran Bretagna. Con effetti contraddittori: si
migliorarono le esportazioni, ma si esposero le merci italiane alla concorrenza di quelle anglofrancesi, più competitive per un miglior sistema produttivo industriale che in Italia ancora mancava.
Furono fortemente penalizzate in particolare le attività industriale meridionali, solo parzialmente
compensate dall’esportazione di prodotti agricoli specializzati (vino, olio, agrumi).
Altra contraddizione: unita l’Italia, bisognava “cucire lo stivale” con le infrastrutture necessarie –
strade, ferrovie, poste – con una grande spesa pubblica; ma al tempo stesso si inseguiva il
pareggio di bilancio dello stato, per risanare il debito pubblico. Per far ciò, il governo decise di
emettere titoli di debito pubblico e di vendere beni del demanio, oltre che inasprire il prelievo
fiscale.
L’obiettivo del pareggio di bilancio fu effettivamente raggiunto nel 1876 dal ministro delle finanze
Quintino Sella, ma al costo di un grave peggioramento delle condizione economica dei ceti
popolari. Nel 1868 era infatti stata ripristinata la “tassa sul macinato” che colpiva in particolare il
ceto contadino su un consumo fondamentale (il pane), provocando forti proteste.
Non mancarono rivolte contadine e sommosse, soprattutto nel Mezzogiorno, in cui l’ostilità nei
confronti dello stato cresceva anche per l’imposizione del sistema fiscale e della leva obbligatoria
per il servizio militare. L’insieme di queste tensioni e problemi va sotto il nome di “Questione
meridionale”.
La crisi del Sud provocò il rafforzamento di quelle organizzazioni criminose – mafia, camorra –
che già operavano in età borbonica e che sfruttarono il malcontento popolare per raccogliere forti
consensi.
Il Mezzogiorno fu altresì insanguinato dal fenomeno del brigantaggio: bande di ex ufficiali
borbonici, contadini, renitenti alla leva, criminali comuni che si univano per restaurare il caduto
regime e difendere la “patria” meridionale contro i “piemontesi”. Questo fenomeno indeboliva il
senso dello stato nel Meridione, per cui il governo impiegò oltre 100.000 uomini per stroncare
brigantaggio e banditismo, dichiarando lo stato d’assedio nel Sud d’Italia e procedendo a giudizi
sommari con tribunali militare. La repressione, violenta e sanguinaria, pone fine al grosso del
fenomeno entro il 1865.
La Sinistra storica (1876-1896)
Nel 1876, la Destra dovette cedere il governo alla Sinistra, in quanto non era più giudicata
adeguata per affrontare i nuovi problemi che si ponevano una volta realizzata l’Unità nazionale.
In origine la Sinistra coincideva col filone democratico, mazziniano e garibaldino, che aveva
messo da parte l’ideale repubblicano e tornava ora sulla scena politica. Gruppo composito,
comprendeva la piccola e media borghesia settentrionale, ma anche notabili, intellettuali e
proprietari terrieri del Mezzogiorno. Vi erano diverse anime nella Sinistra: una più progressista,
che mirava all’ampliamento della rappresentanza politica, cioè all’estensione del diritto di voto; una
più moderata, che voleva difendere gli interessi della proprietà latifondista meridionale.
Agostino Depretis tenne il governo dal 1876 al 1887, prospettando una vasto programma di
riforme che in realtà portò a risultati inferiori alle aspettative.
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In concreto, realizzò:
- La scolarità elementare obbligatoria, con la legge Coppino (1877)
- L’estensione del diritto di voto dal 2% al 7% (1882)
- L’abolizione della odiata tassa sul macinato (1884)
Promosse inoltre inchieste parlamentari sulla arretratezza della società italiana e sul mondo
contadino, senza però varare alcuna politica di legislazione sociale.
Anche l’estensione del diritto di voto non significò la scomparsa di logiche di clientela e di
corruzione. Anche perché non esistevano ancora i moderni partiti e il parlamento era un’arena in
cui diversi gruppi di notabili cercavano mediazioni a tutela dei propri interessi.
Tale situazione era aggravata dal trasformismo, cioè la tendenza a gestire la vita parlamentare
tramite accordi e scambi di favori, con mediazioni e patteggiamenti che portavano facilmente a
“trasformarsi” da conservatori in progressisti pur di tutelare i propri interessi particolari.
La grande depressione (1873-1896) provocò una forte crisi agraria che indusse la Sinistra ad
abbandonare la politica economica liberista adottando, dal 1877, una politica protezionistica a
tutela dei prodotti nazionali, per difendersi dal grano che giungeva, a bassissimo prezzo, dalle
Americhe.
Mentre l’agricoltura delle aree padane reagì alla crisi con sviluppo di tecniche e colture, il Sud
restava arretrato, legato al latifondo, cercando però di sviluppare le colture specializzate (olivi,
agrumeti).
Si opponevano così due fazioni: da una parte gli agrari, favorevoli ai dazi per proteggere il
frumento italiano dalla concorrenza dei prodotti esteri più a buon mercato; dall’altra, i coltivatori di
prodotti pregiati che vedevano nei pesanti dazi doganali e nel protezionismo un freno alle
esportazioni italiane. Nel contempo, il partito degli industriali rivendicava un più deciso
intervento dello stato nell’economia, per colmare il ritardo e il divario rispetto alla produzione
straniera.
Nel 1887 il libero-scambismo venne di fatto sconfitto e si imposero pesanti tariffe doganali a
tutela del grano e dei prodotti industriali nazionali. Effetto negativo del protezionismo fu l’aumento
del prezzo del pane e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari.
In positivo, si diede impulso all’industria di base (acciaierie, metalmeccaniche, chimiche) e al
completamento della rete stradale e ferroviaria.
In politica estera, alla neutralità (con inclinazione filo-francese) della Destra, si sostituì con
Depretis l’avvicinamento all’Austria-Ungheria e alla Germania, fino alla firma della Triplice
Alleanza (1882, rinnovata nel 1887) che prevedeva un intervento di reciproca difesa in caso di
aggressione da parte della Francia. In favore di questa scelta giocarono sia le cattive relazioni con
la Francia per ragioni commerciali (dazi doganali) e politiche, sia i timori italiani di restare isolati
dal contesto internazionale.
Nel contempo, si decise di accrescere la spesa pubblica per favorire l’espansione coloniale, per
ragioni economiche e di prestigio internazionale. Si puntò sul Corno d’Africa. Nel 1885 si entrò in
Eritrea, ma un successivo tentativo di penetrazione portò alla reazione della confinante Etiopia e
alla sconfitta del contingente italiano a Dogali, in Eritrea, nel 1887.
Morto Depretis, gli successe nel 1887 Francesco Crispi, che terrà il governo fino al 1896.
Proveniente dall’area democratico-mazziniana, Crispi era uomo forte e autoritario.
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Storia
Dovette affrontare gli effetti negativi del protezionismo: i forti dazi doganali avevano infatti
portato a ridurre pesantemente le esportazioni in Francia e ad importare più di quanto di esportasse,
aggravando il passivo della bilancia commerciale e il deficit di bilancio dello stato.
Ammiratore del cancelliere tedesco Bismarck, Crispi concentrò sempre più potere nelle sue mani,
divenendo presidente del Consiglio, ma altresì ministro degli Esteri e degli Interni, rafforzando
il potere dell’esecutivo.
Favorì l’accentramento amministrativo, varando alcune riforme:
- La riforma sanitaria e della pubblica assistenza (accrescendo le responsabilità dello stato
in campi che fino ad allora avevano contato sulla iniziativa e sullo spirito di servizio della
Chiesa)
- Il nuovo codice penale, firmato dal ministro della Giustizia, Giuseppe Zanardelli, con
l’abolizione della pena di morte
- L’aumento del potere dei prefetti
Le condizioni di vita nelle campagne andavano peggiorando, la mortalità epidemica era
altissima; in Meridione non mancavano rivolte e movimenti migratori, mentre nelle aree padane
l’agricoltura capitalistica aveva portato allo sviluppo di un proletariato agricolo con forte
coscienza di classe (scioperi, rivendicazioni salariali).
Messo in minoranza nel 1891, Crispi perse il potere. Gli succedette Giovanni Giolitti (1842-1928),
fautore di un liberalismo “progressista”, convinto che il conflitto sociale andasse affrontato con
mediazione sociale e riforme.
Nel 1893 esplose la rivolta dei Fasci Siciliani – movimento a matrice anarchica, socialista, radicale
– in cui confluirono operai, minatori, contadini. Giolitti rifiutò di ricorrere a misure eccezionali e
questo atteggiamento giudicato troppo “morbido”, unitamente a un suo coinvolgimento nello
scandalo della Banca Romana (in seguito al quale si decise di costituire la Banca d’Italia, nello
stesso 1893), costrinse Giolitti alle dimissioni.
Crispi, tornato al governo come uomo “forte”, represse in Fasci Siciliani decretando lo stato
d’assedio dell’isola e varando leggi eccezionali che colpirono i socialisti (il cui partito, fondato nel
1892, venne sciolto).
La sua politica estera – filotedesca, aggressiva e colonialista – intendeva indirizzare le tensioni
sociali presenti nel paese verso l’esterno.
Con il Trattato di Uccialli (1889), i possedimenti italiani in Eritrea erano stati riconosciuti (1990),
insieme al protettorato italiano sulla Somalia. Alcune controversie interpretative del trattato –
scritto in italiano e lingua amarica – portarono l’Italia a rivendicare il protettorato anche
sull’Etiopia, con al quale si giunse allo scontro armato e alla grave sconfitta di Adua (1896) che
costò la vita a oltre 7.000 soldati italiani. Il governo italiano dovette riconoscere l’indipendenza
dell’Etiopia (che verrà riconquistata però da Mussolini, nel 1935-36) e, per l’umiliante sconfitta,
costrinse Crispi alle dimissioni.
La crisi di fine secolo culmina nei moti popolari di Milano, con il generale Bava Beccaris che spara
sulla folla, causando numerosi morti (1898).
Le tensioni portano l’anarchico Gaetano Bresci, nel 1900, ad uccidere Umberto I, re d’Italia. È la
crisi dello stato liberale, con cui si conclude l’Ottocento italiano.
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La seconda rivoluzione industriale
Premesse
Innovazioni
Capitalismo
monopolistico
Protezionismo
Cambia la società
Cambia la politica
Grande depressione (1873-1896)
Rivoluzione dei trasporti (prima globalizzazione)
Grandi migrazioni - Telegrafo e telefono
Innovazioni tecnologiche: acciaio / chimica / elettricità - Petrolio (automobile)
Trust (fusione di società)
Cartelli (accordi per il controllo dei prezzi) - Monopolio / Oligopolio
Intreccio tra economia & politica
Giornali, opinione pubblica, consenso
Discussione sui nuovi diritti: civili / politici / sociali
Dal liberalismo alla democrazia (battaglie per il suffragio universale)
Nascita dei partiti di massa - PSI (1892) - Classe operaia, diritto di sciopero
L’imperialismo
Alle grandi tendenze storiche del tardo Ottocento – seconda rivoluzione industriale, nascita della
società di massa – si lega anche il fenomeno dell’imperialismo, ovvero della costruzione da parte
delle potenze europee di imperi coloniali estesi nella maggior parte del pianeta. A differenza del
tradizionale colonialismo europeo, l’imperialismo ha di specifico il carattere di conquista militare
e politica, finalizzata al controllo non più di aree circoscritte, bensì di intere regioni.
Direttrici di espansione: Asia e Africa
Protagonisti: Gran Bretagna, Francia, Germania, ma anche Belgio e Italia, nonché Usa e Giappone.
Motivazioni: economiche (la ricerca di materie prime, di nuovi mercati in cui investire i capitali in
eccesso); politiche (il conflitto internazionale tra le grandi potenze, in competizione tra loro); sociali
(dirottare all’esterno le tensioni interne); ideologiche (nazionalismo e razzismo).
Gli USA preferirono a lungo la colonizzazione interna all’America, aprendosi poi all’area del
Pacifico e dell’Asia ma con un modello originale, cioè la penetrazione politica ed economica invece
della conquista militare (la cosiddetta “diplomazia del dollaro”).
La CINA è di fatto spartita in zone di influenza fra Gran Bretagna, Francia, Russia, Germania e
Giappone, benché a fine Ottocento sia formalmente indipendente. È una sorta di “semicolonia” di
tutte le maggiori potenze. La rivolta contro le ingerenze straniere porterà il leader Sun Yat-sen,
fondatore del Partito del Popolo, a proclamare la Repubblica Cinese nel 1912.
L’AFRICA viene assoggettata al 90% dalle potenze straniere con una rapidissima conquista
coloniale (“scramble for Africa”, cioè “corsa affannosa all’Africa”).
I Francesi si muovono da Ovest a Est, dall’Algeria al Corno d’Africa; gli Inglesi invece dal Sud
(Sudafrica) al Nord (Egitto); i Tedeschi occupano gli spazi liberi, in modo strategico; gli Italiani
possiedono la Libia e il Corno d’Africa (Eritrea, Somalia).
Nella Conferenza di Berlino (1884-1885), Bismarck – che ha sempre detto che la Germania non ha
vocazione coloniale, eppure funge da mediatore e arbitro delle ambizioni espansionistiche delle
grandi potenze – sancisce il principio della occupazione di fatto, per evitare discussioni e scontri
per spartizioni operate sulla carta.
Quelle africane non furono colonie di popolamento (come Australia o Nuova Zelanda) bensì di
sfruttamento: gli indigeni coltivavano e producevano, ma erano gli Europei a controllare
l’esportazione delle materie prime e l’importazione di manufatti.