MACCHINE E “DELIRI BIZZARRI” psicopatologia dei disturbi dei

MARIO ROSSI MONTI & FRANCESCA PIAZZALUNGA
MACCHINE E “DELIRI BIZZARRI”
psicopatologia dei disturbi dei confini dell’Io
INTRODUZIONE
Mario Rossi Monti e Francesca Piazzalunga
PARTE PRIMA
I DISTURBI DEI CONFINI DELL’IO
I. AI CONFINI DELL’IDENTITA’. IL CASO DEI DELIRI BIZZARRI
Mario Rossi Monti
II. MACCHINE E DELIRIO
Mario Rossi Monti
PARTE SECONDA
PSICOPATOLOGIA COGNITIVA : UNA NUOVA SINTESI
III. UNA PROSPETTIVA NEUROCOGNITIVA.
IL CONTRIBUTO DI CHRISTOPHER FRITH
Francesca Piazzalunga
IV. SENSO DI AGENCY E ALIENAZIONE NELLA SCHIZOFRENIA.
IL CONTRIBUTO DI SHAUN GALLAGHER
Francesca Piazzalunga
V. COSCIENZA DI SÉ ED INSERZIONE DEL PENSIERO
IL CONTRIBUTO DI LYNN STEPHENS E GEORGE GRAHAM
Francesca Piazzalunga
INTRODUZIONE
Questo volume raccoglie una serie di contributi che prendono in considerazione un tema
di carattere psicopatologico. Sia nel senso che questo tema attiene alla psicopatologia
genericamente intesa come patologia della vita psichica, sia nel senso che costituisce uno
dei nuclei tematici intorno ai quali è nata la psicopatologia di ispirazione fenomenologica.
Vale a dire quella tradizione di ricerca che risale alla Psicopatologia Generale di Karl
Jaspers (1913-1959), alla Psicopatologia Clinica di Kurt Schneider (1950) e che si è
venuta declinando, nella storia della psichiatria, grazie all’opera di autori come Minkowski,
Binswanger, Tellenbach, Kraus, Blankenburg. Un modo di porsi di fronte alla patologia
mentale che ha posto al centro del proprio interesse la analisi dei vissuti soggettivi e del
mondo delle persone affette da disturbi mentali. Sebbene questa tradizione di ricerca sia
sempre rimasta patrimonio di pochi e non abbia mai conquistato la psichiatria nel suo
insieme, ciò nonostante ha svolto una funzione di critica e di stimolo tale da incidere sul
pensiero e sulla prassi psichiatrica degli ultimi cento anni.
Il tema di questo volume è appunto uno dei temi che Karl Jaspers delineava con con
grande chiarezza nella sua Psicopatologia Generale sotto il nome di Disturbi della
Coscienza dell’Io. Questo ambito problematico è stato variamente denominato:
Ichstörungen, esperienze estreme di depersonalizzazione- derealizzazione, perdita di
controllo, esperienze di passività, disturbo dei confini dell’Io. Kurt Schneider (1950), nella
Psicopatologia Clinica, prende una posizione netta rispetto alla specificità nosografia di
questi disturbi:
Tra le proprietà fondamentali dell'esperire vanno menzionati particolari disturbi dell'esperienza dell'Io, in
quanto hanno la più grande specificità schizofrenica: pensiamo proprio a quei disturbi del "concernente l'Io"
o del "concernente il me" (Ichhaftgkeit-Meinhaftigkeit; egoità-meità) i quali consistono appunto in questo che
i propri atti e stati non vengono "vissuti" come propri, ma come guidati e influenzati da altri.
Questa è l’essenza del disturbo: i propri atti o stati mentali non vengono sentiti o "vissuti"
come propri ma come il prodotto di una azione esteriore che li determina e li guida. Una
forma di vero e proprio influenzamento. Ma un “influenzamento” che niente ha a che
vedere con il normale e consueto influenzamento reciproco nel quale tutti siamo immersi
in quanto esseri umani. L’autonomia di ciascuno di noi si inserisce infatti in un contesto di
reciproco, continuo influenzamento: un fenomeno delineato con grande chiarezza da
Diderot in Jacques il fatalista. Il servo Jacques discute con il suo padrone. Quest’ultimo
rivendica la sua possibilità di agire in piena e totale libertà e autonomia. Ma Jacques gli
chiede se sarebbe disposto a buttarsi giù dal suo cavallo, qualora decidesse di farlo. Il
padrone risponde senza esitazione: certo, se servisse a dare dimostrazione della mia
piena libertà. Ma allora, argomenta Jacques, lei deve ammettere che questa idea di
buttarsi giù da cavallo non le sarebbe mai passata per la testa se non fossi stato io a
suggerirla. In questo senso vi ho influenzato. Si può sostenere che è lei a volersi buttare
giù dal cavallo o invece è stato influenzato da qualcun altro?
Da questo punto di vista autonomia e influenzamento sono immersi in un incessante gioco
dialettico. In questo spazio si possono aprire possibilità anche inquietanti, che però non
arrivano mai a privarci di un senso ultimo di “sovranità” sui nostri atti mentali. L'uomo –
scriveva Freud (1916) - si sente sovrano della propria psiche. Dispone, nella propria
mente, di un “organo ispettivo” che ha nozione di tutto ciò che accade e che sorveglia i
suoi impulsi e i suoi atti, per controllare se corrispondono alla sue esigenze. Ma “in
determinate malattie, e specialmente nelle nevrosi che noi abbiamo studiato, le cose
vanno diversamente. L'Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua
stessa casa, nella psiche. Appaiono improvvisamente pensieri di cui non si sa donde
provengano, e non si può far nulla per scacciarli. Questi ospiti stranieri sembrano
addirittura più potenti dei pensieri sottomessi all'Io, e tengono testa a tutti quei mezzi, pur
già tante volte collaudati, di cui dispone la volontà; non si lasciano turbare dalla
confutazione logica, nè li tange la testimonianza opposta della realtà”. Ma questi “ospiti
stranieri” sono pensieri estranei, angosciosi ma pur tuttavia sempre avvertiti come prodotto
e possesso della propria attività mentale. Sono sentiti come qualcosa che nasce
autonomamente, anche se inspiegabilmente, nella mente del soggetto. Sono qualcosa che
avvertiamo come nostro nel quale vediamo caso mai estrinsecarsi aspetti di noi a noi
stessi ignoti: parole, pensieri, emozioni che ci sorprendono o che ci appaiono a prima vista
incomprensibili, nelle quali facciamo fatica a riconoscerci. Quasi come se non fossero
nostre. Ma questo come se è proprio ciò che fa la differenza con le esperienze di
influenzamento altamente patologiche della psicosi schizofrenica. A nessuno verrebbe
infatti in mente di attribuire il contenuto sul momento incomprensibile di un lapsus (o di un
sogno) ad un soggetto diverso da sè. Il lapsus, la fantasia, il sogno sono assolutamente
propri, ancorché estranei, disturbanti, apparentemente incomprensibili. Sono
inequivocabilmente avvertiti come frutto della propria attività mentale. Radicati nel proprio
Sé. Anche nei sogni, là dove la mente può avventurarsi in territori completamente sottratti
alla ragione, ciò nonostante non viene mai meno il senso di essere padroni del nostro
sogno. Siamo sempre noi a sognare e non siamo “fatti sognare” da un’entità esterna. Il
senso di appartenenza a Sé dei propri atti psichici non entra mai in crisi: in primo luogo nel
senso che nel mentre facciamo (e viviamo) il sogno siamo sempre e comunque radicati
nel nostro sogno, conservando il senso di esserne agenti; in secondo luogo nel senso che
non accade mai di pensare che un sogno, a causa della sua eventuale incredibile
estraneità alla nostra vita cosciente, non ci appartenga o non sia il prodotto di una nostra
attività mentale. Al contrario, collochiamo il sogno, magari con qualche turbamento, nel
novero delle esperienze che ci appartengono nonostante suonino estranee alla nostra vita
mentale cosciente. Allo stesso modo un lapsus propone spesso un aspetto sconosciuto di
noi e pur tuttavia non ne mettiamo in dubbio la fonte e la appartenenza: è qualcosa di
sconosciuto nel quale non ci riconosciamo ma nel quale, al tempo stesso, ci riconosciamo.
Non ne mettiamo in dubbio la appartenenza alla nostra vita mentale, assumendocene in
qualche modo la responsabilità.
L’influenzamento di cui si parla nei saggi raccolti in questo volume è invece un’altra cosa:
è quella esperienza estrema, specifica delle psicosi, in cui un i propri atti e stati mentali
non vengono più "vissuti" come propri, ma come guidati, influenzati o addirittura prodotti
da altri: come nel caso in cui, ad esempio, una persona faccia l’esperienza che (alcuni)
pensieri non siano suoi ma siano viceversa inoculati nella sua testa da altri (esperienza di
inserzione del pensiero) o viceversa che alcuni pensieri gli siano rubati, il tutto magari
mediante strane apparecchiature capaci di leggere la mente.
Il tema che viene qui affrontato è quindi un tema molto specifico della psicopatologia che
riguarda un’area clinica altrettanto specifica: l’area della schizofrenia o, più in generale
delle psicosi funzionali.
Le esperienze di influenzamento sopra descritte sono state annoverata originariamente da
Kurt Schneider tra i Sintomi di Primo Rango della Schizofrenia. Un elenco di sintomi (o
sarebbe meglio dire di “esperienze” soggettive) che Schneider, forte della sua pratica
clinica, considerava altamente indicative di schizofrenia. Insofferente verso le tradizionali
classificazioni psichiatriche che si limitavano (e ancora oggi spesso si limitano) ad
elencare i contenuti del delirio (persecuzione, gelosia, riferimento, grandezza, etc.),
Schneider inseguiva la possibilità di porre diagnosi non in base ai contenuti quanto
piuttosto in base alla forma dell’esperienza. In questo senso l’elenco dei Sintomi di Primo
Rango rappresenta il coronamento del sogno di Schneider di individuare delle esperienze
soggettive che possono essere considerate veri e propri marker per la diagnosi di ciò che
per convenzione abbiamo deciso di chiamare schizofrenia. Questo elenco di sintomi-
esperienze – Schneider lo dichiara chiaramente – non dice nulla sulla natura, sulla genesi
o sulla evoluzione della schizofrenica. E’ solo uno strumento pragmatico: un indicatore
forte per la diagnosi di psicosi schizofrenica. E magari anche l’indicatore di un certo modo
di funzionare della mente schizofrenica.
Questo elenco di sintomi-esperienze occupa da Schndeider in poi un posto centrale nella
clinica e nella nosografia della schizofrenia. Non per nulla è stato ripreso da tutti gli
inquadramenti clinico-nosografici della schizofrenia, dall’ICD-10 al DSM. Quest’ultimo, in
particolare, annovera la gran parte di queste esperienze nell’ambito della ambigua e
imprecisa categoria del deliri bizzarri 1. Ciò nonostante la rilevanza dei Sintomi di Primo
Rango sul piano della ricerca è stata per lungo tempo marginale. Gran parte della
letteratura psichiatrica si è casomai accanita del dimostrare la loro aspecioficità rispetto
alla schizofrenia, la loro irrilevanza nei confronti della evoluzione del disturbo. Trascurando
la possibilità di delimitare, tramite i criteri schneideriani, un’area omogenea dal punto di
vista sintomatologico-esperienziale particolarmente utile alla ricerca: dalla ricerca biologica
a quella psicopatologica. Alla psicopatologia cognitiva va riconosciuto il merito di avere
riconosciuto che il re è nudo: nel senso che l’idea di basare la ricerca sulla schizofrenia su
una categoria nosografica così eterogenea e variegata come quella delineata dal DSM-IV
si è rivelata improduttiva se non fallimentare.
Solo la apatia e l’inerzia di gran parte degli psichiatri può consentire che vengano collocate
all’interno della stessa categoria nosografica condizioni cliniche radicalmente diverse
senza che ciò susciti il ben che minimo stupore. Nessuno che non sia uno psichiatra
penserebbe che un giovane schizofrenico paranoide che narra le sue sgangherate
vicende persecutorie nelle quali, ad esempio, si sente inseguito dalla CIA, abbia qualcosa
in comune con una giovane donna che smozzica parole apparentemente prive di senso,
slegate tra loro, in una totale destrutturazione dei significati. Il primo quadro viene
collocato dalla nosografia psichiatrica nell’ambito della schizofrenia paranoide; il secondo
nell’ambito della schizofrenia disorganizzata. Come se fosse ovvio che sono espressione
della stessa malattia. Sappiamo bene che ciò che lega forme cliniche così
macroscopicamente diverse ha a che vedere con ragioni di carattere storico, in virtù delle
quali ci è stata consegnata una chimera. Ma dovremmo sapere altrettanto bene che
questo inquadramento è assolutamente insufficiente: lo possiamo al massimo considerare
il modo migliore che fino ad oggi abbiamo trovato per inquadrare ciò che
convenzionalmente abbiamo deciso di chiamare schizofrenia. Niente di più.
Ma la possibilità che forme cliniche così diverse condividano uno stesso subtstrato
biologico o funzionale appare quantomeno improbabile. Se non francamente incredibile.
L’idea di fare di questo quadro nosografico il recinto all’interno del quale condurre la
ricerca sulla natura o sulle cause della schizofrenia si è rivelata così impraticabile. Gli
psicopatologi cognitivisti e alcuni ricercatori di ambito biologico si sono accorti prima di altri
del limite rappresentato dalla nosografia psichiatrica ufficiale: “i quadri di riferimento
tradizionali neurologico-psichiatrici offrono poche possibilità di chiarire i meccanismi
psicologici che stanno alla base di condizioni neuropsichiatriche come i deliri o le
allucinazioni” (Halligan e David 2001). Per questo motivo hanno cercato di correre ai ripari.
Come? Individuando aree cliniche il più possibile definite, omogenee e delimitabili, nella
convinzione che un “recinto” clinico ben delimitato aprisse alla ricerca possibilità ben più
consistenti di quelle sviluppate sotto la generica etichetta di schizofrenia. Hanno così
recuperato una serie di sindromi rare da sempre disperse in qualche pagina dei nostri
Manuali. Sindromi rare,appunto, ma psicopatologicamente definite: definite cioè sulla base
di specifiche esperienze e vissuti. E’ il caso della Sindrome di Cotard, della Sindrome di
Capgras o ancora della Sindrome di influenzamento o passività: l’area clinica che abbiamo
sopra definito come Disturbi dei confini dell’Io. Se nella neuropsicologia cognitiva i deficit
1
Si rimanda al cap. I in questo volume.
sono stati usati per valutare e ridefinire i modelli delle normali abilità cognitive, la
psicopatologia cognitiva ha applicato lo stesso modello di indagine e di studio a specifiche
sindromi. In questo senso, da un lato ha preso atto della inconcludenza di uno studio
patogenetico fondato su categorie nosografiche troppo ampie ed eterogenee (come quelle
del DSM-IV), inutilizzabili a fini di ricerca; dall’altro ha recuperato una attenzione
privilegiata per le esperienze soggettive tipiche di alcune specifiche sindromi descritte
dalla tradizione psicopatologica continentale. E’ stato costruito così un ponte che lega la
psichiatria (o meglio, la psicopatologia) con la neuropsicologia cognitiva e con le
neuroscienze in generale (Halligan e David 2001).
Da questi presupposti è originata la messe di studi che negli ultimi anni hanno riguardato
sindromi fino a pochi anni prima cadute nel dimenticatoio. Un indicatore rozzo ma efficace
è fornito da una analisi dei lavori comparsi sulla banca dati Pubmed. Tra il 1965 e il 1980 il
numero pubblicati di lavori che ha nel titolo il termine Capgras ammonta a 61. Negli ultimi
15 anni (1993-2008) la stessa ricerca fornisce l’indicazione di ben 216 lavori! Lo stesso
confronto applicato alla Sindrome di Cotard e alla sindrome di influenzamento passività
nella schiozofrenia mostra una tendenza analoga.
Questi fenomeni clinici per tanto tempo considerati secondari rispetto alle grandi
patolologie e magari patrimonio culturale di qualche dotto anziano psicopatologo si sono
configurati sempre più come condizioni limite sulle quali incentrare un progetto di ricerca.
Intorno a questi progetti di ricerca si è assistito allo sviluppo di una interessante
convergenza tra discipline diverse: psicopatologia, psicologia clinica, neuropsicologia,
neuroscienze, filosofia, filosofia della mente. Queste ultime discipline hanno trovato in
particolare, in queste rare sindromi, la possibilità di sostituire gli esperimenti mentali
costruiti a tavolino con veri e propri esperimenti di natura. Quando una persona arriva ad
affermare (o a “credere”?) di non essere la persona che vede riflessa nello specchio,
oppure che il suo partner non è realmente più lui ma è stato sostituito da un impostore,
che i suoi organi interni sono diventati di pietra o ancora che i propri pensieri gli vengono
sottratti mediante una strana macchinasi, ognuno di questi casi offre su un piatto d’argento
alcuni dei temi di riflessione e di ricerca cari alla filosofia, alle neuroscienze e alla
neuropsicologia. Invece di ricorrere ad esperimenti mentali che restano sospesi in aria,
privi di un concreto legame con la realtà, i filosofi della mente – ad esempio - hanno
trovato in alcune esperienze soggettive di questo tipo il terreno sul quale cimentare le loro
teorie. Queste situazioni limite, tipiche di quelle rare sindromi sopra ricordate, offrono
l’occasione per mettere alla prova alcune elaborazioni teoriche relative ad esempio allo
sviluppo di una teoria della mente, alla acquisizione del senso di proprietà, intimità e
privatezza dei propri stati mentali o alla percezione della propria identità. Del resto molte
delle esperienze soggettive che sono centrali in queste sindromi pongono in maniera
radicale (e patologica) problemi sui quali da sempre i filosofi si interrogano. Un grande
psicopatologo come Gaetano Benedetti aveva ben chiaro questo aspetto quando scriveva
che “i filosofi dicono spesso le cose che i pazienti psicotici vivono esistenzialmente. Solo
che certi paradossi filosofici, che nella filosofia restano a livello di pensiero, di
rappresentazione e di fantasia, diventano qui l'unico modo di essere” (Benedetti 1991). Lo
sviluppo impetuoso delle neuroscienze intorno al problema della coscienza ha messo al
centro della riflessione anche della psichiatria temi da sempre appannaggio della
riflessione filosofica, come l’identità o i modi di conoscenza della mente, propria o altrui. In
questo processo di integrazione la psicopatologia di ispirazione fenomenologia mette sul
piatto un importante patrimonio di conoscenze, sviluppate intorno alla specificità delle
esperienza soggettiva nelle più gravi condizioni cliniche. Da questo punto di vista Fulford,
Stanghellini e Broome (2004) hanno sottolineato come il rapporto tra filosofia e
psicopatologia si sviluppi a due vie: non soltanto la filosofia può contribuire alla
psicopatologia ma anche la psicopatologia può contribuire allo sviluppo del pensiero
filosofico.
Molte esperienze psicopatologiche fanno toccare con mano come alcune nostre funzioni o
capacità, come quella di vivere "naturalmente" il senso della unitarietà della propria
identità o della appartenenza a sé dei propri atti psichici, siano apparentemente ovvie in
una condizione di normalità nel quale sono in apparenti e implicite. Ma non per questo
sono meno importanti. Anzi, proprio il fatto di essere implicite ne fa il fondamento del
nostro stesso modo di pensare e sentire. Alcune situazioni limite come i disturbi dei confini
dell’Io mostrano invece come tutto questo possa vacillare o essere radicalmente
sovvertito. “Ho in testa dei pensieri – raccontano molti pazienti – ma questi pensieri non
sono miei. Non sono cose che penso io. Qualcun altro me li mette in testa”. Quella
condizione ovvia nella quale ciò che penso e sento non può che originare e appartenere a
me si è rotta. I disturbi dei confini dell’Io parlano proprio di questa rottura, della messa in
crisi dei modi attraverso i quali siamo abituati a sentire i nostri pensieri e le nostre
emozioni come inequivocabilmente e ovviamente nostre.
Una rivista nata dalla integrazione di tre differenti prospettive come PPP, Philosophy,
Psychiatry and Psychology della The Johns Hopkins University Press rappresenta da molti
anni il palcoscenico sul quale va in scena un importante dibattito intorno a questi temi. Gli
esempi sono innumerevoli e tutti di alto livello: Sean Spence (2001) intitola un lavoro
“Controllo alieno: dalla fenomenologia alla neurobiologia cognitiva”; una filosofa come
Annalisa Coliva (2002) dedica un lavoro al tema della proprietà dei pensieri e alla
esperienza della loro inserzione; il quarto fascicolo del 2003 (Wells 2003; Kennett e
Matthews 2003) e del 2004 (Rego 2004) sono ampiamente occupati da una analisi del
senso di agency, del tema della continuità-discontinuità nella narrazione di sé; Garry
Young (2007) indaga dal punto di vista psicologico l’esperienza di familiarità e nonfamiliarità nella Sindrome di Capgras. Ognuno di questi lavori è seguito da due o tre
commenti e da una risposta dell’autore. Un tipo di dibattito, una serie di problemi e
soprattutto una prospettiva alla quale non siamo abituati nel nostro paese. Uno degli
intenti di questo volume è proprio quello di introdurre questi temi di ricerca in Italia e
soprattutto promuovere una convergenza tra discipline diverse che fa ancora fatica ad
affermarsi.
La prima parte del volume è dedicata :
1. alla messa a fuoco dei disturbi dei confini dell’Io, alla loro genealogia, alla loro
definizione e alla messa a fuoco dei loro organizzatori psicopatologici.
2. all’approfondimento di quelle (rare) condizioni psicopatologiche nelle quali il soggetto fa
ricorso a fini esplicativi alla individuazione di una “macchina” sostenendo, ad esempio, che
i pensieri che ha in testa non solo non sono suoi ma gli vengono instillati mediante la
azione di una “macchina influenzante”. Che senso ha chiamare in causa la macchina?
Che funzione svolge la macchina nella economia del funzionamento mentale di questi tipi
di delirio? In che modo la rappresentazione culturale della macchina nella nostra epoca si
presta a fare da supporto a questo modello esplicativo-delirante?
La seconda parte del volume è dedicata genericamente ai contributi della psicopatologia
cognitiva. In particolare alla analisi delle posizioni e dei modelli teorici assunti da alcuni più
importanti ricercatori del campo: il modello proposto da Christopher Frith, psichiatra e
neuropsicologo clinico di impostazione cognitivista; il contributo di Lynn Stephens e
George Graham, due filosofi che non vedono pazienti ma che si interessano ai fenomeni
allucinatori e della inserzione del pensiero per quello essi rivelano della struttura psiclogica
e dei processo dell’autocoscienza umana; ed infine la analisi del senso di essere agente
dei propri atti (psichici e motori) e dei suoi disturbi condotto dal filosofo Shaun Gallagher
del quale recentemente e molto opportunamente l’editore Raffaello Cortina ha tradotto un
volume (Gallagher e Zahavi 2008).
Mario Rossi Monti e Francesca Piazzalunga
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