file msword, scarica/visualizza - SEDUTA DI LAUREA MARZO 2013

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FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DI CASSINO
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN TEORIE E TECNICHE
DELLA COMUNICAZIONE E INFORMAZIONE (LM -92)
Anno Accademico 2010 – 2011
Dossier
Materiali di lavoro
Pedagogia del linguaggio e della comunicazione
Docente: Vincenzo Orsomarso
Composizione grafica a cura di Vincenzo Orsomarso
Indice
Avvertenze......................................................................................................... 7
Parte prima – Sapere, lavoro e comunicazione ............................................ 9
- L’educazione dell’individuo sociale .......................................................... 11
Parte seconda – Comunicazione e processi formativi ............................... 47
- Antonio Labriola , la politica come opera pedagogica............................ 49
- Le idee non cascano dal cielo ...................................................................... 69
- L’alternativa gramsciana ............................................................................. 85
- La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno
sguardo al presente ................................................................................ 105
- La recensione tra scienza e didattica. A.ntonio Labriola a «La
Sapienza» ................................................................................................ 119
- Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
(Nicola Siciliani de Cumis) ................................................................... 133
Appendice ........................................................................................................ 159
Norme editoriali per la composizione di un elaborato scritto
(a cura di M.P. Musso) ................................................................................. 161
Avvertenze
Il presente dossier raccoglie, prevalentemente, articoli non
pubblicati in volume dal docente e si propongono di offrire parte dei
contenuti, di carattere contestuale, che verranno svolti durante le
lezioni.
D’altronde l’attività didattica, essendo incentrata sullo studio di
alcune specifiche categorie della comunicazione pedagogica, non
potrà prescindere da una analisi tesa a cogliere i significati dei
concetti presi in esame colti nella loro dimensione storica.
I testi presentati non svolgono semplicemente la funzione di
materiale di supporto alle lezioni ma saranno recensiti criticamente
dagli studenti che nel corso di tale attività ricorreranno, tra l’altro,
alle conoscenze acquisite nel corso dell’esperienza universitaria. Ed è
proprio ai fini di una corretta comunicazione scientifica che è stata
collocata in appendice una scheda sulle norme editoriali per la
compilazione di un elaborato scritto1.
Si fa inoltre presente che il dossier, ai fini della comprensione delle
specificità comunicative ed educativo-pedagogiche del recensire,
comprende un testo di Nicola Siciliani de Cumis, Il «punto di vista» del
recensore tra storiografia e educazione, pubblicato in Id., Antonio Labriola
e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti 2005 – 2006, con la
collaborazione di Alessandro Sanzo e Domenico Scalzo, Edizioni
Nuova Cultura, Roma, 2007.
1 Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Cari studenti faccio blog… magari insegno, Roma,
Editrice Nuova Cultura, 2006, pp.35-47.
Parte prima
SAPERE, LAVORO E COMUNICAZIONE
L’educazione dell’individuo sociale
La recente pubblicazione, presso l’editore Armando, dell’opera di
Mario Alighiero Manacorda, Marx e l’educazione, ripropone alcuni
termini di un pensiero critico più volte “messo in soffitta” ma che
puntualmente si riaffaccia e chiede il conto, oggi come ieri, a chi ha
preteso, la sua messa in liquidazione, proprio quando il mondo va
«sperimentando l’esasperazione del sistema capitalistico di
appropriazione privata dei beni comuni».
«Quel vecchio liberale del comunista Karl Marx»?
Il libro raccoglie le parti su Marx tratte da due studi famosi di Mario
Alighiero Manacorda: l’antologia Il marxismo e l’educazione,del 1964
(comprendente tre volumi, I classici del marxismo. Marx, Engels, Lenin, La
scuola sovietica, La scuola nei paesi socialisti), e Marx e la pedagogia moderna
del 1966.
Per quanto riguarda l’antologia del 1964, ristampata nel 1976, il
nuovo volume, Marx e l’educazione, pubblicato ancora, come nel 1964 e
nel 1976, dall’editore Armando, riprende, nella prima parte, solo i testi
tratti dalle opere di Marx ed Engels e dedicati ai temi dell’educazione,
nonché la Guida alla lettura che precede i brani scelti e la bibliografia dei
due autori così come elaborata per la prima edizione. Mentre del saggio
critico su Marx e la pedagogia moderna, pubblicato dagli Editori Riuniti, il
nuovo volume contiene la prima parte di un’opera che comprendeva
originariamente una Parte seconda, dedicata ad un confronto tra la
pedagogia marxiana e le altre pedagogie, e un’Appendice dove
Manacorda dibatte e si misura con i lettori e i critici di Marx (Galvano
della Volpe, Lamberto Borghi, Roberto Mazzetti, la cultura cattolica).
Il testo del 1966 rappresenta un’attenta ricognizione filologica
interessata a evidenziare come l’ambito pedagogico sia implicito in tutto
il pensiero del filosofo di Triviri. Il che richiede in proposito una ricerca
da svolgere in «altri testi, pedagogicamente meno espliciti, nei quali»
Marx «fonda una dottrina della persona, che è tutt’uno con la
prospettiva di emancipazione dell’uomo e della società»2.
Per Marx si tratta infatti di affrontare il
2
M. A. MANACORDA, Marx e l’educazione, Roma, Armando, 2008, p. 189.
12
Capitolo primo
problema dell’uomo, del suo rapporto con la natura e coi suoi simili per
dominarla e umanizzarla per produrre la propria vita materiale e spirituale, e
della storia, che attraverso la divisione del lavoro lo ha portato, da una
“disponibilità” naturale a ogni attività, alla disumana “unilateralità” tanto del
capitalista quanto dell’operaio. Eppure, proprio per dominare la totalità delle
moderne forze produttive occorre lo sviluppo di una “totalità di uomini
totalmente sviluppati”[…], allaseitig, […] “onni laterali”.
La questione diventa per Marx, in una prospettiva di trasformazione
sociale, quella della formazione dell’uomo onnilaterale che, secondo
Manacorda, viene affrontato, dall’autore de Il Capitale, facendo ricorso
tanto al « principio socialista dell’unione di istruzione e lavoro», quanto
al «principio liberale della libertà dell’istruzione. Libertà e lavoro. Due
principi naturalmente associabili e perciò inscindibili», un «intreccio di
liberalismo e comunismo» che per Manacorda rappresenta «il punto
centrale di una positiva rilettura di Marx», del «suo essere stato in cerca
di una “libertà maggiore”»; è questo «il segreto del marxismo», della
moderna “ideologia” «della liberazione dell’uomo dalla disuguaglianza,
dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla “alienazione”»3.
Marx quindi erede della tradizione liberale, ma sempre in cerca di
maggiori spazi di libertà. Un Marx con un’ascendenza illuminista e una
formazione laica che non ha mai pensato di smentire, nonostante le
critiche mosse al liberismo e alle palesi contraddizioni del liberalismo
reale.
Una interpretazione di Marx che si propone di togliere spazio a
qualsiasi tentativo di attribuire all’autore tedesco una riduzione
dell’uomo a homo oeconomicus, nonchè una strategia insurrezionalista e
l’aspirazione ad uno stato autoritario.
Per Manacorda liberalismo e comunismo, lungi dall’essere due idee
contrapposte, sono necessarie l'uno all’altro: sono nati dalle stesse
esigenze, e solo unendoli si può pervenire a quella democrazia che segue
libertà e uguaglianza come terzo momento ideale dello sviluppo storico;
ecco perché Manacorda, come lui stesso scrive, è «solito parlare di “quel
vecchio liberale del comunista Karl Marx”»
Una provocazione, quella lanciata dall’insigne storico dell’educazione
che sollecita a tornare a discutere di Marx, di Marx e l’educazione e
3
Ivi, pp. 13-15.
L’educazione e l’individuo sociale
13
soprattutto della prospettiva in cui si colloca l’attenzione marxiana
all’istruzione e alla formazione scolastica, culturale e politica.
È la ricognizione a cui ci apprestiamo e nel corso della quale, facendo
anche ricorso alle opere di Mario Alighiero Manacorda che continuano
ad offrire materia di riflessione e di ricerca come avremo modo di
evidenziare, proveremo, tra l'altro, a misurarci con l’idea che sostiene
l’ipotesi intorno a «“quel vecchio liberale del comunista Karl Marx”»4.
Ma prima di procedere nella trattazione ci sia consentito di porre
alcune domande: il comunismo inteso marxianamente, oltre ad essere
l'assoluto governo della democrazia, non è concepito come critica totale
ai valori presenti e ricerca di nuovi valori? Non c’è nell’ipotesi di «“quel
vecchio liberale del comunista Karl Marx”» quella sorta di continuismo,
si pensi al rapporto Labriola – Gramsci, che ha segnato la storia,
culturalmente e politicamente fondamentale quanto oggi dimenticata,
della tradizione marxista italiana?
Ebbene procedendo nel nostro ragionamento, proprio Manacorda
precisa che il marxismo, per i suoi propositi di emancipazione, ha
implicita una componente pedagogica che pur subendo rettifiche e
accentuazioni, si svolge ininterrottamente come parte integrante della
ricerca marxista. Essa è presente non solo nel periodo giovanile ma
anche nella fase dell’elaborazione della critica dell’economia politica5.
Prendendo quindi le mosse dagli scritti giovanili di Marx, i problemi
pedagogici che appaiono in primo piano in questa fase della riflessione
politica e filosofica dello scrittore rivoluzionario riguardano i rapporti
tra filosofia e vita sociale e i temi concernenti la posizione dell’uomo
nella società borghese.
La prima di tali questioni viene discussa nel 1844 nei «DeutschFranzösische Jahrbücher», nell’introduzione alla Critica della filosofia del
diritto di Hegel. Qui Marx analizza i rapporti tra la filosofia e il
proletariato, assegnando alla prima il compito, innanzitutto, di liberare
gli uomini dalle illusioni, mostrandone le radici sociali e incitandoli
all’azione rivoluzionaria6. La «critica del cielo» va trasformata nella
«critica della terra», la «critica della religione nella critica del diritto, la critica
della teologia nella critica della politica».
Ibidem.
Cfr. M. A. MANACORDA, op. cit., p. 21.
6Cfr. K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in ID., Un carteggio del
1843 e altri scritti giovanili, Roma, Edizioni Rinascita, 1954, p. 90.
4
5
14
Capitolo primo
La critica della filosofia del diritto indica compiti per la cui soluzione
è necessario ricorrere alla prassi, l’arma della critica non può sostituire la
critica delle armi, la teoria diventa forza materiale non appena essa
investe le masse cogliendone i bisogni e assumendo un carattere radicale
in ragione della natura di classe assunta. Una radicalità che prospetta il
dominio dell’uomo sulle sue fonti di vita.
Una funzione, creatrice, educatrice e attivizzante, che la filosofia può
assumere solo se diventa appunto strumento di liberazione,
diversamente è destinata a rimanere in una sfera separata dalla vita, i
suoi sforzi si ridurrebbero a realizzare un cambiamento della «filosofia
in quanto filosofia» e i mutamenti riguarderebbero un mondo di
astrazioni e illusioni7.
L’attività pedagogica che ne discende non può che avere carattere
politico in forza, tra l'altro e soprattutto, del capovolgimento della
concezione hegeliana dell’alienazione che da processo puramente
spirituale va acquistando la materialità dei rapporti sociali di
produzione.
La più misera delle merci
Partendo dall’economia politica e valendosi delle sue stesse parole
Marx svela la decadenza a merce del lavoro vivo, «alla più misera delle
merci»; «miseria [che] sta in rapporto inverso con la potenza e la
quantità della sua produzione»8.
La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con
la valorizzazione del mondo delle cose; il lavoro non produce soltanto
merci, produce se stesso e l’operaio come una merce, proprio nella stessa
proporzione in cui produce in generale le merci.
L’evento non esprime altro che la contrapposizione del prodotto del
lavoro al lavoro stesso, l’assurgere dell’oggetto dell’attività umana a
«potenza indipendente da colui che lo produce». Questa «realizzazione del
lavoro si presenta come annullamento» del lavoratore, «l’oggettivazione
appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come
estraniazione, come alienazione»; e alienazione del lavoratore «nel suo
prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto,
Ivi, p. 101.
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, prefazione e traduzione di N.
Bobbio, Torino, Einaudi, 1975, p. 69.
7
8
L’educazione e l’individuo sociale
15
qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui,
indipendentemente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una
potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli
si contrappone ostile e estranea»9.
Posta l’estraneazione, cioè l’alienazione del lavoro vivo, dal lato del
suo rapporto coi prodotti della sua attività, va rilevato il mostrarsi della
stessa «nell’atto della produzione, entro la stessa attività produttiva». Marx
punta l’attenzione sull’«alienazione del lavoro», il non appartenere
all’essere dell’operaio, la riduzione dell’attività umana a coazione fisica,
alla negazione del libero sviluppo della sua energia fisica e spirituale, da
ciò ne consegue l’«estraneazione di sé, come, prima, l’estraneazione della
cosa», cioè dal prodotto del lavoro quanto dall’atto della produzione10.
È nella trasformazione del mondo oggettivo che l’uomo si mostra
come
essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come
essere appartenente ad una specie. Mediante essa la natura appare come la sua
opera e la sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita
dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non
soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente,
realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato.
Il lavoro alienato fa dunque «dell’essere dell’uomo, come essere
appartenente ad una specie, tanto della natura quanto della sua specifica
capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza
individuale. Esso rende all’uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la
natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano11».
L’uomo è uomo, scrive Manacorda nella Parte seconda del volume
già citato, in quanto
cessa di identificarsi, alla guisa degli animali, con la propria attività vitale nella
natura; in quanto inizia a produrre le condizioni stesse di una sua vita umana,
cioè i mezzi di sussistenza e i rapporti con cui si pone con l’altro uomo nella
divisione del lavoro; in quanto conosce e vuole la propria attività e la configura
come un rapporto non limitato con una sola parte della natura ma, almeno
potenzialmente, come rapporto universale o onnilaterale con tutta la natura
Ivi, p. 72.
Ivi, p. 76.
11 Ivi, pp. 78-80.
9
10
16
Capitolo primo
come suo corpo organico; e in quanto, infine, umanizza la natura, facendo della
storia naturale e di quella umana un solo processo, e nel far questo modifica se
stesso, crea l’uomo, appunto, e la società umana 12.
Ma ogni «autoestraneazione» dell’uomo «da sé e dalla natura –
precisa Marx – si rivela nel rapporto che si stabilisce tra sé e la natura da
un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro».
Con il lavoro estraniato l’uomo realizza non solo il suo rapporto con
l’oggetto e con l’atto della produzione come rapporto con forze estranee
ed ostili, ma costituisce anche il rapporto in cui altri uomini stanno con
la sua produzione e con il suo prodotto, e il rapporto con cui egli sta con
questi altri uomini.
Se il prodotto del lavoro non appartiene al lavoratore, e «un potere
estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso
appartiene ad un altro uomo [a lui] estraneo». Se la sua attività è per lui un
tormento deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia
della vita altrui».
La «proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza
necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce»
tra il lavoratore, «da un lato, e la natura e lui stesso dall’altro».
Ma solo al «vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il
suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro
alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la
realizzazione di questa alienazione»13.
Un processo che allo stesso tempo, per intromissione della «scienza
naturale nella vita dell’uomo mediante l’industria», pone i presupposti
storici dell’«emancipazione dell’uomo» di cui la stessa industria ha
condotto a «compimento la sua disumanizzazione»; è la profetizzazione
del subentrare dell’uomo ricco di bisogni umani, dell’«uomo ricco» che
«è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di
vita umane, l’uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come
necessità interna, come bisogno»14.
Ciò che oggi caratterizza il lavoro nella fabbrica meccanizzata – scrive
Marx nella Miseria della filosofia- è l’avere «perduto ogni carattere di
specializzazione»; ma «dal momento che ogni sviluppo speciale cessa, il
M. A. MANACORDA, op. cit., p. 226.
Ivi, pp. 80-83.
14 Ivi, pp. 121-123.
12
13
L’educazione e l’individuo sociale
17
bisogno di universalità, la tendenza verso lo sviluppo integrale
dell’individuo, comincia a farsi sentire»15.
Alle «forze produttive si contrappone la maggior parte degli
individui, dai quali queste forze si sono staccate e che quindi sono stati
spogliati da ogni reale contenuto di vita», sono diventati «individui
astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in
condizioni di entrare come individui in collegamento tra loro». L’unico
nesso «che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza,
il lavoro, ha perduto in essi ogni parvenza di manifestazione personale,
e mantiene la loro vita soltanto intristendola»16
Quindi «il lavoro […] essenza della ricchezza»17 è ridotto «alla più
misera delle merci»18, in una condizione che Engels coglie e restituisce
nella sua concretezza storica privilegiando l’osservazione empirica. Ed è
proprio in questo ambito che affronta i problemi educativi come
testimoniato dalle Lettere dal Wuppertal, pubblicate nel 1839 sul
«Telegraph für Deutschland» di Amburgo. I testi contengono una
descrizione delle istituzioni scolastiche a Barmen ed Elberfeld, ma
soprattutto denunciano lo sfruttamento minorile, la sottovalutazione da
parte delle classi dirigenti e dominanti dei contenuti della scuola per i
figli degli operai, il disinteresse per la scienza, per l’arte e per i metodi di
insegnamento.
Sullo sfruttamento del lavoro minorile, sulla più generale condizione
operaia Engels ritorna nelle Lettere da Londra, pubblicate sullo
«Schweizerischer Republikaner» tra il maggio e il giugno 1843, dove
inoltre sottolinea le crescenti richieste degli operai inglesi in materia di
istruzione e l’interesse che vanno esprimendo per l’arte e la scienza, così
come per la filosofia e l’economia. Tutto questo grazie all’impegno
profuso dai socialisti per l’educazione delle classi lavoratrici in
Inghilterra, un impegno politico-pedagogico affiancato da un’attività
editoriale che si propone la circolazione di testi filosofici, come il
«Contrat social di Rousseau, il Système de la Nature e diverse opere di
Voltaire, e inoltre, in opuscoli e giornali da uno o due soldi,
l’esposizione dei fondamenti del comunismo»19.
K. MARX, Miseria della filosofia, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 114.
ID., L' ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 65.
17 Ivi, p. 105.
18 Ivi, p. 67.
19 F. ENGELS, Lettere da Londra, in M. A. Manacorda, op. cit., pp. 39-40.
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16
18
Capitolo primo
Il carattere sociologico, delle opere di Engels finora citate, si rinnova e
si amplia in La situazione della classe operaia in Inghilterra, così l’attenzione
per i temi della scuola e dell’istruzione di cui sente la necessità lo stesso
processo di produzione.
Bisogni strutturali che si intrecciano alle aspirazioni operaie
all’istruzione e a cui la borghesia risponde con «quel tanto che è negli
interessi della borghesia stessa»20.
Tutto questo mentre la classe operaia, come dicevamo, va facendo le
sue prime esperienze formative e autoformative; gli operai «hanno
primariamente come scopo la dottrina, la propaganda» e «con ciò si
appropriano […] di un nuovo bisogno, del bisogno della società».
In questa «fratellanza» Marx ed Engels si immergono negli anni
Quaranta, le loro numerose discussioni politiche in società operaie e
circoli, le loro attività organizzatrici hanno un contenuto decisamente
pedagogico; aspirano a quella formazione e autoformazione dei
lavoratori che certo non viene meno con il maturare del pensiero
materialista. D’altra parte se la storia è scandita dallo sviluppo delle
forze produttive «la più grande forza produttiva è la classe
rivoluzionaria stessa»21.
Marx già a Parigi, dopo il fallimento dell’impresa dei «DeutschFranzösische Jahrbücher»,viene a contatto con le associazioni operaie
(artigiane) clandestine.
Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primamente come
scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un
nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è
diventato uno scopo. Questo movimento pratico più essere osservato nei suoi
risultati più luminosi, se si guarda ad una riunione di «ouvriers» socialisti
francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più puri mezzi per stare uniti,
mezzi di unione. A loro basta la società, l’unione, la conversazione che questa
società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro
una frase, ma una verità, e la nobiltà dell’uomo si irradia verso di noi da quei
volti induriti dal lavoro.
Nessuna idealizzazione della classe operaia, in più composta di ouvriers in
cui prevaleva ancora una forte componente artigiana, d’altronde - aveva scritto
20 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in M. A. Manacorda,
op.cit. p. 60.
21 K. Marx, Miseria della filosofia, cit. p. 140.
L’educazione e l’individuo sociale
19
poco prima nella stessa pagina dei Manoscritti - per «sopprimere la proprietà
privata reale occorre un’azione comunistica reale. Questa azione sarà il
prodotto della storia, e nella realtà dovrà passare attraverso un duro e lungo
processo quel movimento di cui già sappiamo idealmente che si
sopprime da se stesso»22.
A noi sembra evidente come fin dal 1844 Marx, riflettendo sullo stato
delle organizzazioni dei lavoratori, fosse giunto ad accertare la necessità
di una azione politica e formativa che in primo luogo si contrapponesse
al «comunismo idealistico» dei precursori.
Questa attività «reale», tesa a conseguire una più elevata coscienza
dei propri compiti e a favorire l’identificazione degli obiettivi politici del
movimento operaio, non poteva essere calata dall’esterno ma doveva
fare riferimento alle iniziative condotte fino ad allora dal movimento
rivoluzionario.
Nel quadro di questa azione Marx sottopose, insieme ad Engels, a
una critica radicale le correnti del socialismo esercitanti una qualche
influenza su mondo del lavoro e sulle associazioni operaie, pubblicando,
tra l’altro,
una serie di opuscoli, in parte a stampa, in parte in litografia, ove la miscela di
socialismo e comunismo anglo-francese e di filosofia tedesca, formante allora la
dottrina segreta della Lega [dei Giusti], era sottoposta a una critica spietata, e si
stabiliva per contro l’intelligenza scientifica della struttura economica della
società borghese come l’unica base teorica; e finalmente si esponeva [il
socialismo] in forma popolare, come non si trattasse dell’attuazione di alcun
sistema utopico, ma della cosciente partecipazione al processi storico
rivoluzionario della società, svolgentesi sotto gli occhi nostri23.
Obiettivo fondamentale di questa iniziativa politica e culturale
era il superamento di ogni settarismo e cospirativismo, un
impegno rappresentato proprio dalla nuova denominazione
assunta dall’associazione, da Lega dei Giusti a Lega dei
Comunisti; un’organizzazione democratica, attenta alle attività
educative e culturali24, che discuteva i propri statuti e si dotava di
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici, cit. p 137.
ID., Il signor Vogt, Roma, 1910, p. 51, in G. M. BRAVO, Da Weitling a Marx. La lega
dei comunisti, Milano, La Pietra, 1980, p. 43.
24 «La Lega dei comunisti considerava suo primo compito fondare associazioni
culturali di operai tedeschi che le rendessero possibile una propaganda pubblica,
22
23
20
Capitolo primo
«organi eletti e sempre destituibili, il che di per sé sbarrava il
passo a tutte le voglie cospirative» che richiedevano «la dittatura e
[di] trasformare la Lega - almeno per tempi pacifici e ordinari – in
una semplice società di propaganda»25.
Al tema del lavoro, della sua divisione e organizzazione, Marx ritorna
nell’Ideologia tedesca, nell’ambito di una critica radicale ad ogni
immagine rovesciata della realtà e di cui è necessario riconoscere le
tappe del suo sviluppo. In questo modo la critica all’ideologia si
trasferisce dal piano filosofico al piano storico e pratico per cogliere
l’essere, l’ideologia, l’espressione di determinate forme di esistenza
umane e non semplice illusione dello spirito.
Ciò che gli individui sono «coincide […] immediatamente con la loro
produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come
producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni
materiali della loro produzione»26; di conseguenza «la morale, la
religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di
coscienza che ad essa corrispondono, non conservano oltre la parvenza
dell’autonomia». Gli «uomini che sviluppano la loro produzione
materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa
loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero».
L’affermazione intorno alla «vita che determina la coscienza» trova la
sua ragione negli «uomini» non «isolati e fissati fantasticamente, ma nel
loro processo di sviluppo, reale empiricamente costatabile sotto
condizioni determinate»
allo scopo di completarsi ed estendersi partendo dai suoi membri più idonei. Il
funzionamento di queste associazioni era dappertutto lo stesso. Un giorno alla
settimana era destinato alla discussione, un altro ai trattamenti sociali (canto,
recitazione ecc.). Dappertutto furono istituite biblioteche sociali e, dove possibili,
classi per l’istruzione elementare degli operai» (F. Mehring, Vita di Marx, Roma,
Editori Riuniti, 1972, p. 140). Sempre nell’ambito dell’iniziativa politica ed educativa
promossa da Marx rientra il famoso discorso del 1848, pronunciato a Bruxelles
davanti all’Associazione degli operai tedeschi,che sarà conosciuto con il titolo Lavoro
salariato e capitale. Si tratta di una sorta di corso inaugurale di economia dispensato
ad un gruppo di operai ed è in questa occasione che Marx traccia per la prima volta
le grandi linee della sua teoria sul plusvalore.
25 F. Engels, Per una storia della Lega dei Comunisti, in K. Marx e F. Engels,
Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Torino, Einaudi,
1948, p. 243.
26 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 17.
L’educazione e l’individuo sociale
21
Su questa base Marx muove alla ricerca della genesi della
considerazione dell’ideologia quale fattore autonomo e indipendente dal
quadro storico, e individua le ragioni di fondo nella divisione del lavoro
e soprattutto nella divisione di lavoro intellettuale e lavoro manuale.
La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui
interviene una divisione tra lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo
momento la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso
dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza
concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di
emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia,
filosofia, morale ecc.
Da questo momento in poi la coscienza tende a interpretare in modo
falso se stessa e i propri prodotti, a ritenere se stessa la fonte e l’ultima
istanza della realtà, a considerare gli avvenimenti, le trasformazioni e i
conflitti culturali in modo del tutto separato dal mondo materiale.
Soltanto la ricomposizione del lavoro, di mano e mente, può consentire
l’abolizione della divaricazione tra coscienza e realtà; una riconquista di
se stesso da parte dell’uomo, una appropriazione degli individui della
totalità delle forze produttive esistenti che «non è altro […] che lo
sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali
di produzione».
Si tratta pertanto di «abolire la divisione del lavoro»27, il tutto
attraverso un processo di appropriazione culturale e sociale; quindi
l’abolizione del «lavoro alienato»28 quale condizione del libero sviluppo
dell’individuo sociale.
Un esito che non può prescindere dal ruolo contraddittoriamente
progressivo della borghesia, che dove è
giunta al potere […] ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci.
[…] ha lacerato spietatamente tutti i variopinti legami feudali che stringevano
l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro
legame che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha annegato
nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa,
dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconica ristrettezza provinciale. Ha
dissolto la dignità personale nel valore di scambio; e in luogo delle
27
28
Ivi, p.28.
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 83.
22
Capitolo primo
innumerevoli libertà faticosamente conquistate oppure accordate, ha posto
come unica libertà quella del commercio privo di scrupoli. In una parola, in
luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha introdotto lo
sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido.
Allo stesso tempo, «per la prima volta», la borghesia
ha mostrato di cosa è capace l’attività dell’uomo. Ha realizzato ben altre
meraviglie che le piramidi egizie, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche;
ha compiuto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti
di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di
esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata
conservazione del vecchio sistema di produzione, l’ininterrotta messa in
discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetuo
distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti29.
In più con lo «sfruttamento del mercato mondiale», con il rapido
miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni rese
infinitamente più agevoli, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni,
anche le più barbare […]. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di
produzione della borghesia se non vogliono andare in rovina, le costringe ad
introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè diventare borghesi. In una
parola crea un mondo a propria immagine e somiglianza30.
Ma i «rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti
borghesi di proprietà», la società borghese moderna, «che ha suscitato
come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio,
rassomiglia allo stregone che non riesce a dominare la potenza degli
inferi da lui evocata»31. Le forze produttive a sua disposizione «non
servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di
proprietà; al contrario esse sono diventate troppo potenti per tali
rapporti e vengono da questi inceppate». La borghesia inoltre «non ha
soltanto forgiato le armi che le arrecheranno la morte, ha anche generato
Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di D. Losurdo, Roma –
Bari, Laterza, 1999, pp.9-10.
30 Ivi, p. 11.
31 Ivi, p. 13.
29
L’educazione e l’individuo sociale
23
gli uomini che impugneranno quelle armi – gli operai moderni, i
proletari»32.
Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e
passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la
loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande
industria toglie quindi da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale
essa produce i prodotti e se ne appropria. Essa produce anzitutto i propri
becchini. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente
inevitabili33.
Una tesi quella espressa nelle pagine del Manifesto che fanno
riconoscere al Labriola, nel più hegeliano dei Saggi, «nel corso presente
delle cose umane una necessità», che «trascende ogni nostra simpatia,
ogni subiettivo assentimento»34: «il socialismo moderno […] un normale
e perciò inevitabile portato della storia attuale»35.
Ma al di là dell’affermazione intorno alla necessità della rottura
rivoluzionaria, parole scritte alla vigilia delle insurrezioni che scoppiarono da
Parigi a Vienna, da Palermo a Berlino, e ritornando alla funzione storica dei
processi formativi, ciò che si richiede alla pedagogia è un solido ancoraggio
storico ai fini della riappropriazione sociale delle forze produttive; una istanza
che si coglie già nei Principi del comunismo e che ha, per alcuni aspetti, dei
precedenti nel socialismo utopistico.
Scrive Manacorda che nel
paragrafo 18 dei […] Principi, Engels, dopo aver affermato, in risposta alla
domanda sul prevedibile svolgimento della rivoluzione comunista, che il primo
passo sarà l'instaurazione di una «costituzione democratica», cioè di un nuovo
potere politico che dovrà consentire l'adozione di misure immediate volte a
intaccare direttamente la proprietà privata e garantire l'esistenza del
proletariato, elenca come ottava fra queste misure la seguente:
Ivi, p. 14.
Ivi, p. 23.
34 A. LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei Comunisti, in Id., La concezione
materialistica della storia, a cura e con un’introduzione di E. Garin, Bari, Laterza, 1969,
p. 10.
35 Ivi, p. 16.
32
33
24
Capitolo primo
«istruzione di tutti i fanciulli, a cominciare dal primo momento in cui possono
fare a meno delle cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione.
Istruzione e lavoro di fabbrica [Fabrikation] insieme»
Queste proposte come si vede contengono e assorbono anzitutto le
tradizionali richieste di carattere illuministico-giacobino o, come si può dire,
genericamente democratico, relative all’universalità a alla gratuità
dell’istruzione. […]. Ma tipicamente socialista è qui quell’unione di istruzione e
lavoro di fabbrica (se esattamente così va inteso – come pare – l'anglicismo o
francesismo «Fabrikation»), che Engels, del resto non inventa, ma trova già
predicata e attuata dagli utopisti, e in particolare da Robert Owen36.
D’altronde, molto più tardi, lo stesso Engels in L’evoluzione del
socialismo dall’utopia alla scienza, nonostante le critiche avanzate agli
utopisti, non tralascia di sottolineare quanto di utile si cela sotto quelle
costruzioni astratte. Tra l'altro, il particolare approccio ai problemi
educativi che vengono posti in relazione ad un piano di riforme sociali;
ed è alla luce di tale proposito che si colloca, nel quadro della prima
industrializzazione, l’attenzione dei primi socialisti alla cultura
scientifica e la ricerca di una combinazione di lavoro produttivo e
istruzione. L’autore di riferimento è soprattutto Robert Owen che
andava auspicando la formazione integrale, nel fisico e nel morale, di
uomini e donne.
Un socialismo, per Marx ed Engels, fin dall’inizio condannato
all’utopia in quanto non in grado di cogliere tutta la contraddittorietà
della realtà e l’emergere dell’antagonismo che per Marx poteva essere
storicamente risolutore del dramma sociale. Allo stesso tempo però,
Owen, ha avuto il merito di evidenziare la necessità di una diversa
divisione sociale del lavoro da sostenere facendo leva su un nuovo
concetto di formazione, che è poi la direzione intrapresa da Marx ed
Engels37, un obiettivo a cui risponde specificatamente l’attenzione
marxiana ai temi pedagogici ed educativi.
Dal sistema della fabbrica - scrive Marx ne Il Capitale -, come si può seguire nei
particolari negli scritti di Robert Owen, è nato il germe della educazione
dell’avvenire, che collegherà, per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro
produttivo con l’ istruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare
M. A. MANACORDA, op. cit., pp. 189-190.
Cfr. F. ENGELS, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, Editori
Riuniti, 1976, p. 22.
36
37
L’educazione e l’individuo sociale
25
la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini
pienamente sviluppati38.
Ritornando al paragrafo 18 dei Principi del comunismo (1847) Engels,
riprendendo, come dicevamo, tanto la tradizione illuministico-giacobino
quanto quella socialista pre-marxista afferma la gratuità e l’universalità
dell’istruzione e il «lavoro di fabbrica insieme»39. Il proposito di Engels è
quello di operare nella direzione della formazione di uomini «che
sviluppino le loro attitudini in tutti i sensi», per effetto del venire meno
della divisione del lavoro ma anche grazie allo sviluppo della grande
industria socializzata.
Così nel paragrafo 20 Engels precisa che come
i contadini e gli operai manifatturieri del secolo passato hanno mutato tutto il
loro tipo di vita e sono diventati essi stessi uomini del tutto nuovi quando
furono trascinati nella grande industria, così l’esercizio
comune della
produzione da parte dell’intera società e il conseguente sviluppo nuovo della
produzione abbisognerà di uomini del tutto nuovi e li genererà anche.
L’esercizio comune della produzione non può essere attuato da uomini come
quelli di oggi, ognuno dei quali è subordinato a un unico ramo della
produzione, incatenato ad esso, da esso sfruttato, ognuno dei quali ha
sviluppato una sola delle sue attitudini a spese di tutte le altre, e conosce
soltanto un ramo, o soltanto un ramo di un ramo della produzione complessiva.
Già l’industria attuale ha sempre minor uso per tali uomini. L’industria
esercitata in comune e secondo un piano da tutta la società presuppone
assolutamente uomini le cui attitudini siano sviluppate in tutti i sensi, che siano
in grado di abbracciare tutto il sistema della produzione. La divisione del
lavoro già ora minata dalle macchine, la quale fa di uno un contadino, dell’altro
un calzolaio, d’un terzo un operaio di fabbrica, d’un quarto uno speculatore in
borsa, scomparirà dunque del tutto. L’educazione potrà far seguire ai giovani
rapidamente l’intero sistema di produzione, li metterà in grado di passare a
turno da uno all’altro ramo della produzione, a seconda dei motivi offerti dai
bisogni della società o dalle loro proprie inclinazioni40.
K. MARX, Il capitale, in M. A. Manacorda, op. cit., p. 127.
«Educazione di tutti i fanciulli a cominciare dal momento in cui possono fare a
meno delle prime cure materne, in istituti nazionali e a spese della nazione.
Educazione e lavoro di fabbrica insieme» (F. ENGELS, Principi del comunismo, in K.
MARX e F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori
Mezzomonti, cit., p. 277)
40 F. ENGELS, Principî del comunismo, in ivi, p. 279.
38
39
26
Capitolo primo
Dalle argomentazioni di Engels trapela una visione sostanzialmente
ottimistica dell’evoluzione dei processi di lavoro nella società industriale
e l’accoglienza di quella pluriprofessionalità che è oggetto invece della
critica di Marx. Ed è così che le posizioni espresse da Engels solo in parte
saranno accolte da Marx nel Manifesto, dove l’autore tiene conto dei
brevi enunciati contenuti nel paragrafo 18 dei Principi, legame istruzione
– lavoro mentre non assume l’impostazione engelsiana per la parte
contenuta nel paragrafo 20.
A tale proposito Manacorda precisa che nello stesso periodo in cui
Engels lavorara ai suoi Principi Marx
teneva all’Unione degli operai tedeschi di Bruxelles una serie di conferenze, il
cui testo fu da lui, solo parzialmente però, pubblicato due anni dopo col titolo
ben noto di Lavoro salariato e capitale.
Negli appunti per una delle ultime di queste conferenze (rimasti allora
inediti e che, trovati in una cartella con l'indicazione autografa «Dicembre
1847», furono pubblicati postumi soltanto nel 1925) egli svolge una tesi che
appare in singolare contrasto con quella engelsiana sulla «istruzione
industriale», di cui sottolinea il carattere utopistico e riformistico:
«Un’altra proposta prediletta dai borghesi è l'istruzione, in particolare
l'istruzione industriale [industrielle] universale …
«Il vero significato che l'istruzione ha presso gli economisti filantropici è
questo: addestrare ciascun operaio in quante più branche è possibile, in modo
che, se per l'introduzione di nuove macchine o per una mutata divisione del
lavoro egli viene espulso da una branca, possa trovare il più facilmente
possibile sistemazione in un’altra».
Una valutazione intorno all’educazione pluriprofessionale che
probabilmente lo portò, come dicevamo, nel corso della stesura
definitiva del Manifesto, a non accogliere e né a confutare ma
semplicemente ad accantonare l'impostazione engelsiana per la parte
contenuta nel paragrafo 20, mentre tenne conto chiaramente dei brevi
enunciati contenuti nel paragrafo 18 (legame istruzione- lavoro).
Così nel Manifesto, dopo aver ricondotto l’educazione alla società e
dichiarato il proposito di sottrarla all’influenza della classe dominante,
alla fine del secondo capitolo, nell’indicare le misure immediate che il
proletariato dovrà prendere dopo la conquista della democrazia, Marx
cita l’«istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», l’«abolizione
L’educazione e l’individuo sociale
27
del lavoro infantile nelle fabbriche nella sua forma attuale»,
l’«unificazione fra istruzione e produzione materiale ecc.»41.
A tale proposito Manacorda sottolinea come nel testo Marx non
tralascia la richiesta «di abolizione della forma attuale del lavoro di
fabbrica dei fanciulli», diversamente da Engels. «Una “dimenticanza”
[…]? Certo, ma motivata dalla sua utopistica fede nell’automatismo
dell’efficacia trasformatrice del sistema moderno di produzione».
Pare - scrive Manacorda - che in ogni caso «si possa dire che Marx,
nell’accettare il principio dell’unione dell’istruzione col lavoro materiale
produttivo, esclude tuttavia ogni istruzione svolta nella fabbrica
capitalista, così come essa è», perché «per lui la fabbrica non è un
sistema che elimina la divisione del lavoro, ma anzi un sistema a cui
unicamente l'intervento politico, non riassumibile nelle sole misure
immediate […], abolendo gli aspetti alienanti, può assegnare una
funzione liberatrice»42. In realtà fino ad un certo punto se si considera, e
la cosa non sfugge a Manacorda, che il lavoro per Marx rimane sempre
una costrizione e «non può divenire giuoco, come vuole Fourier»43.
D’altronde lo stesso storico dell’educazione, discutendo le
affermazioni di Galvano Della Volpe, intorno all’incertezza di Marx a
riguardo della libertà che scaturirebbe «dalla socialità del lavoro»,
riconosceva nella «riduzione del tempo di lavoro» e nell’«aumento del
tempo libero umano», ai fini del libero sviluppo dell’individuo sociale, il
senso della ricerca marxiana44.
Comunque l’accantonamento del concetto di pluriprofessionalità
nasce dalla consapevolezza, che fin da allora si delinea nel pensiero
marxiano, dell’affermarsi di un punto di vista capitalista sul percorso di
istruzione - lavoro inteso come acquisizione delle capacità necessarie ad
operare su nuove macchine e in contesti produttivi diversi; si tratta di
quella «versatilità» operaia da cui il processo di produzione capitalistico,
con il rapido variare della tecnologia, non può prescindere.
Una convinzione ulteriormente argomentata, anni dopo, nel I libro
del Capitale, dove il modo di produzione capitalistico si precisa per la
«sua base tecnica rivoluzionaria», diversamente dalla
K. MARX e F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, a cura di D. Losurdo, cit.,
p. 37.
42 M. A. MANACORDA, op. cit., pp. 193-194.
43 K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, a cura di G.
Backhaus, vol I, Torino, Einaudi, 1976, p.724.
44 Cfr. M. A. MANACORDA, Marx e la pedagogia moderna, Roma, Editori Riuniti,
1966, pp. 133-140.
41
28
Capitolo primo
base di tutti gli altri modi di produzione [che] era sostanzialmente
conservatrice. Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa
sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, la funzione
degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa
rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e
getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della
produzione nell’altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé
variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi 45.
Una realtà che produce la miseria del presente ma anche la possibilità
per le soggettività fondanti l’organizzazione sociale di mutare il corso
degli eventi; ed è questo ordine di possibilità che Marx ricerca nelle
dinamiche contraddittorie dello sviluppo capitalistico e nella
sussunzione del sapere ai processi di produzione.
È la ricerca del «varco» che può consentire «il libero sviluppo delle
individualità», grazie quindi ad una nuova formazione umana,
«artistica, scientifica ecc.». Sono i termini in cui nei Grundrisse, cioè nei
materiali preparatori il Capitale, Marx in qualche modo rievoca il passo
de L’ideologia tedesca intorno ad una umanità sviluppata
onnilateralmente, capace di padroneggiare la totalità delle forze
produttive.
Lo stesso testo in cui precisa che la
“estraniazione” […] può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche.
Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si
agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità
affatto «priva di proprietà» e l’abbia posta altresì in contraddizione con un
mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che
presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del
suo sviluppo, e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già
implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale,
invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario
anche perché senza di esso si realizzerebbe la miseria e quindi col bisogno
ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta
45
K. MARX, Il capitale, in M. A. Manacorda, op. cit, p. 129-130.
L’educazione e l’individuo sociale
29
la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze
produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini46.
Non è che uno dei primi risultati di un percorso che a partire dalla
individuazione delle «radici» dei rapporti giuridici, e dalle forme di
Stato nelle condizioni materiali di vita giunge, sul finire degli anni
Cinquanta, alla convinzione che una
formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le
forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi
e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di
esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società. Perciò
l’umanità si pone sempre e soltanto quei problemi che essa è in grado di
risolvere; infatti a guardar meglio, si noterà sempre che il problema sorge solo
quando le condizioni materiali per la sua soluzione sono già presenti o almeno
in via di formazione. I modi di produzione asiatico, antico, feudale, borghese
moderno possono essere definiti a grandi linee, come i vari tipi, in epoche
successive, di formazioni economico-sociali. I rapporti di produzione borghesi
sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale di produzione,
antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale ma in quello di un
antagonismo che nasce dalle condizioni sociali di vita degli individui; nello
stesso tempo però le forze produttive che si sviluppano nel seno della società
borghese creano anche le condizioni materiali per il superamento di tale
antagonismo47.
La «forza produttiva principale» è «l’uomo stesso» e il passaggio ad
un diverso sistema di relazioni sociali si specifica nell’«appropriazione
della totalità delle forze produttive esistenti» da parte degli individui
sociali e l’«appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo
sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali
di produzione»48.
A partire dagli anni Cinquanta Marx ricerca i presupposti del
comunismo, come evento risolutore della condizione umana alienata,
nell’analisi delle forme della produzione capitalistica; ed è ancora la
K. MARX, F. ENGELS, L’ideologia tedesca, cit., p.31.
K. MARX, Prefazione, a, Per la critica dell’economia politica, Roma, Newton
Compton, 1972, p. 32.
48 K. MARX, F. ENGELS, L’ideologia tedesca, cit., p. 65.
46
47
30
Capitolo primo
liberazione dell’uomo il motivo dell’immersione di Marx nella critica
dell’economia politica dove ritorna alla riduzione del lavoro a merce,
alla sussunzione del lavoro vivo alle potenze da lui stesso create, per
procedere al disvelamento dei meccanismi di riproduzione dei rapporti
capitalistici e delle contraddizioni insite in essi.
Allo stesso tempo non va dimenticata l’attenzione con cui Marx
guarda ai temi dell’istruzione, della formazione e dell’autoformazione
dei lavoratori. A proposito della prima questione, quella dell’istruzione,
Mario Alighiero Manacorda si è soffermato sui testi marxiani
esplicitamente attinenti alla ricerca in campo pedagogico che
corrispondono ad alcuni momenti particolarmente rilevanti della storia
del movimento operaio, precisamente in occasione della stesura di tre
programmi politici: a) per il primo movimento storico che assunse il
nome di Partito comunista, alla vigilia della rivoluzione del 1848 e su cui
ci siamo già soffermati; b) per la I Associazione internazionale dei
lavoratori, nel 1866, c) per il primo partito operaio unitario in Germania,
nel 187549.
Per quanto riguarda l’impegno di Marx nell’Internazionale, che
cominciò negli ultimi mesi del ’6450, va detto che non fu solo di carattere
teorico (si rammenti che quegli anni erano anni di studio dedicati alla
stesura del Capitale, di cui fu edito il primo volume nel’67), Marx
affrontò i temi del «salario, prezzo e profitto» anche in forma
divulgativa nel 1865, nella sede del Consiglio generale
dell’Internazionale. Il lavoro rimase inedito fino al 1898, due anni dopo
la conferenza comparve il primo volume del Capitale, di cui questo
scritto costituiva per l’appunto un’anticipazione in forma popolare51.
L’impegno di Marx nell’Associazione internazionale dei lavoratori si
specificò soprattutto per la sua azione dirigente e pratica in vista della
costruzione di una organizzazione solida e duratura.
Come lo stesso Marx scrive nel 1866, nelle Istruzioni per i delegati del
Consiglio generale provvisorio su singole questioni52, l’obiettivo della fase in
corso è quello di unificare le aspirazioni e la volontà di lotta del
49
50
Cfr. M. A. MANACORDA, op. cit., pp. 188-189.
Cfr. G. M. BRAVO, Marx e la Prima Internazionale, Roma- Bari, Laterza, 1979, p.
26.
Cfr. V. VITELLO, Introduzione, a K. MARX, Salario,prezzo, profitto, Roma, Editori
Riuniti, 1955, p. 7 e n.
52 Il testo scritto per il I Congresso dell’Associazione internazionale dei
lavoratori, tenutosi a Ginevra dal 3 all’8 settembre 1866, fu approvato dall’assise
come propria risoluzione.
51
L’educazione e l’individuo sociale
31
movimento operaio che muoveva da situazioni differenti ma a cui si
addicevano sbocchi unitari. Compito dell’Internazionale era quello di
generalizzare e dare uniformità ai movimenti spontanei dei lavoratori,
non di dirigerli o di imporre loro un qualunque sistema dottrinario.
L’unità andava ricercata sul piano dell’organizzazione e dell’iniziativa,
da cui non sarebbe scaturita soltanto l’autocoscienza ma anche un
ampliamento degli obiettivi che da sociali ed economici sarebbero
diventati politici.
Era lungo questa linea che Marx recuperava il valore della
democrazia e dell’azione di classe nell’ambito della democrazia
borghese laddove questa era una realtà, oppure dell’iniziativa per la
democratizzazione dei regimi autoritari. Ed è nel quadro di tale processo
di autoformazione politica che Marx coglieva la necessità della
democrazia all’interno del movimento operaio, di una pratica fondativa
le istituzioni dei lavoratori derivatagli dalle sperimentazioni
caratterizzanti l’associazionismo operaio fin dagli anni della Lega dei
giusti e di quella dei comunisti53.
L’iniziativa politica però non poteva prescindere dalla conoscenza
del terreno sul quale si intendeva agire, a tale fine nelle Istruzioni viene
proposta l’elaborazione di una «statistica delle condizioni delle classi
operaie di tutti i paesi, eseguita dagli operai stessi»; è evidente l’intento
autoformativo a cui si affiancava la rivendicazione della riduzione
dell’orario di lavoro, quale condizione preliminare a «ulteriori tentativi
di miglioramento e di emancipazione».
Il testo inoltre avanzava proposte intorno alla limitazione del lavoro
notturno, alla tutela delle donne e dei fanciulli.
La «parte più illuminata degli operai - scrive Marx- comprende
perfettamente che il futuro della sua classe, […], dipende totalmente
dalla formazione delle giovani generazioni», pertanto a nessuno,
genitore o datore di lavoro che sia, «può venir dato […] il permesso di
usare del lavoro di fanciulli o di adolescenti, se non a patto che quel
lavoro produttivo sia legato con l’istruzione». Intendendo per istruzione
un combinato di «formazione spirituale» di «educazione fisica» e «di
istruzione politecnica che trasmetta i fondamenti scientifici generali di
tutti i processi di produzione, e che contemporaneamente introduca il
fanciullo e l’adolescente nell’uso pratico e nella capacità di maneggiare
53
Cfr. G. M. BRAVO, Marx e la Prima Internazionale, cit., p. 33.
32
Capitolo primo
gli strumenti elementari di tutti i mestieri»54. Un’articolazione
dell’istruzione i cui contenuti rimangono indeterminati e in cui la parola
chiave, accolta dall’Internazionale, è «politecnica», un termine che,
precisa Manacorda, Marx nel Capitale non usa, parla invece di
«istruzione tecnologica teorica e pratica».
Una realtà già presente nel mondo industriale, infatti, ricorda Marx,
sia la legislazione inglese sulle fabbriche e sia l’azione filantropica di
Owen hanno dimostrato la possibilità di collegare l’istruzione e la
ginnastica col lavoro produttivo, ma anche il lavoro manuale con
l’istruzione e la ginnastica. Quindi la proposta avanzata non è una
escogitazione ideologica ma una realtà già in atto e rappresenta, come
abbiamo già detto, citando direttamente Marx, il «germe dell’educazione
dell’avvenire».
Nel Capitale il termine politecnico è utilizzato per indicare «gli istituti
politecnici e di agronomia», consequenziali ai movimenti di
rivoluzionamento a cui il capitale sottopone la sua base tecnica e
produttiva, a cui si affiancano le «“écoles d’enseignement professionnel”,
nelle quali i figli degli operai ricevono i primi rudimenti in tecnologia e
nell’uso pratico dei vari strumenti di produzione». Una miseria elargita
dal capitalismo a cui la classe operaia dovrà contrapporre nelle sue
scuole, «nelle scuole degli operai», per l’appunto, l’«istruzione
tecnologica teorica e pratica»55
Dunque la «modernissima scienza della tecnologia», nata
dall’«applicazione della scienza alla produzione», la cui conoscenza
«svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediato
processo di produzione della sua vita, e con essi anche l’immediato
K. MARX, Istruzioni ai delegati del Consiglio generale provvisorio su singole questioni,
in M. A. MANACORDA, op. cit., pp. 111-112. Inoltre per Marx con «la suddivisione dei
fanciulli e degli adolescenti dai 9 ai 17 anni in tre classi, dovrebbe essere collegato
un programma graduale e progressivo d’istruzione spirituale, ginnica e politecnica.
Ad eccezione forse della prima classe, i costi delle scuole politecniche dovrebbero
essere parzialmente coperti con la vendita dei loro prodotti. L'unione di lavoro
produttivo remunerato, formazione spirituale, esercizio fisico e addestramento
politecnico innalzerà la classe operaia molto al di sopra delle classi superiori e
medie. Si comprende da sé che l'occupazione di tutte le persone dai 9 ai 17 anni
(inclusi) nel lavoro notturno e nei mestieri dannosi deve essere proibita entro breve
tempo» (ibidem).
55 K. MARX, Il capitale, in M. A. MANACORDA, op. cit., p. 131.
54
L’educazione e l’individuo sociale
33
processo di produzione dei suoi rapporti sociali e delle idee
dell’intelletto che ne scaturiscono»56.
Va detto che non c’è alcun determinismo tecnologico nelle
affermazioni sopra riportate, il potenziamento dell’apparato tecnicoproduttivo ai fini dell’estorsione di plusvalore è assunto a risultato
dell’incalzare dello stesso antagonismo di classe, partorito dal corpo del
modo di produzione capitalistico57.
Quanto finora sottolineato, a proposito del punto di vista marxiano
sull’educazione e sull’istruzione, va considerato come un insieme di
indicazioni che si proiettano nella direzione di una ricomposizione di
teoria e pratica, l’asse su cui strutturare la nuova formazione umana,
incentrata sullo sviluppo di una capacità diffusa di governare i processi
tecnico-produttivi.
In questo quadro di intenti la preoccupazione engelsiana del 1847 di
far seguire i giovani l’intero sistema della produzione è dunque ripresa e
collocata in un programma politico più generale di lotta allo
sfruttamento del lavoro e ai fini di un potenziamento delle competenze
dei lavoratori in ordine all’autodeterminazione politica e produttiva.
Quindi, unione di istruzione e lavoro produttivo previa abolizione delle
K. MARX, Il capitale, libro I, Roma, Editori Riuniti, 1974, p.414.
«Appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe
costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto
una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento
dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il
prolungamento della giornata lavorativa fu precluso una volta per tutte, il capitale si
gettò a tutta forza con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo
mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine». Ma il carattere del
plusvalore relativo subisce un mutamento; infatti mentre comunemente, scrive
Marx, è inteso quale metodo che consente di produrre di più, con uguale dispendio
di lavoro e in uguale periodo di tempo, tramite l'aumento della forza produttiva del
lavoro; diversamente, «l'accorciamento forzato della giornata lavorativa», in seguito al
grande impulso dato allo sviluppo della forza produttiva e all’economizzazione
delle condizioni di produzione, costringe l'operaio, in un tempo rimasto immutato,
a un più grande dispendio di lavoro, a una più forte tensione della forza lavorativa
e a colmare in maniera più spessa i vuoti del tempo di lavoro, vale a dire a
condensare il lavoro «a un grado che si può raggiungere solo entro i limiti della
giornata lavorativa accorciata»57. Ciò accade in due modi: «mediante l'aumento della
velocità delle macchine e mediante l'ampliamento del volume di macchinario da far
sorvegliare da uno stesso operaio, ossia mediante l'ampliamento del suo campo di
lavoro» (ivi, pp. 453-454).
56
57
34
Capitolo primo
condizioni in cui viene esercitato quello vigente, come Marx ribadisce,
nel 1875, nella Critica al programma di Gotha58.
La «forza produttiva principale»: «l’uomo stesso»
Inoltre, nella Risoluzione del congresso di Bruxelles, settembre
186859, la questione dell’istruzione si lega alla rivendicazione delle otto
ore, in un disegno più complessivo di trasformazione sociale. Il che
rende evidente l’influenza di Marx che, sul terreno della lotta per la
riduzione dell’orario di lavoro e per l’istruzione, delinea una
piattaforma rivendicativa e politica che non prescinde dalla prospettiva
della «abolizione definitiva del sistema di lavoro salariato», dalla
necessità per il movimento dei lavoratori di sostituire la « parola
d’ordine conservatrice: “un equo salario per un’equa giornata di lavoro”», con
il motto rivoluzionario: «Soppressione del sistema del lavoro salariato»60, cioè
della forma esistente di lavoro, o in altri termini, soppressione di quella
particolare forma-lavoro prodotto della storia umana e segnata da una
profonda antinomia. Infatti, scrive Manacorda, da una parte
nelle condizioni storicamente determinate, […], il lavoro è veramente «l’uomo
perduto a se stesso», la negazione di ogni manifestazione umana, l’assoluta
miseria […]. Dall’altra parte […] l’attività dell’uomo si presenta come
umanizzazione della natura, il divenire della natura per l’uomo, il quale
operando in modo volontario, universale e cosciente, come ente generico o
individuo sociale, e facendo dell’intera natura il suo corpo inorganico, si libera
dalla soggezione alla causalità, alla naturalità, alla ristrettezza animale, crea una
totalità di forze produttive e ne dispone per svilupparsi onnilateralmente.61
Soppressione quindi del lavoro, che può realizzarsi solo in una fase di
«grande incremento della forza produttiva», come aveva già scritto
Nella Critica al programma di Gotha Marx ribadirà la richiesta del legame
dell’istruzione col lavoro produttivo, come «uno dei più potenti mezzi di
trasformazione della società», ma subordinandola, ancora una volta, alla severa
regolamentazione della durata del lavoro secondo le diverse età (Cfr. K. MARX,
Critica al programma di Gotha, in M. A. MANACORDA, op. cit. , p. 146).
59 Cfr. G. M. BRAVO (a cura di), La Prima Internazionale. Storia documentaria, Roma,
Editori Riuniti, 1978.
60 K. MARX, Salario, prezzo e profitto, cit. , pp.113-114.
61 M. A. MANACORDA, op. cit., pp. 218-219.
58
L’educazione e l’individuo sociale
35
nell’Ideologia tedesca, questione su cui ritorna nelle note pagine dei Grundrisse
sul macchinismo. Lì dove Marx si immerge nelle dinamiche delle
trasformazione del sistema di produzione capitalistico a partire dal mezzo di
lavoro che una volta assunto nel processo di produzione del capitale, percorre
diverse metamorfosi, l’ultima delle quali è la macchina o, piuttosto, «un sistema
automatico di macchinari (sistema di macchinari; quello automatico è soltanto
la sua forma più adeguata e perfezionata, ed esso soltanto trasforma il
macchinario in un sistema), azionato da un automa, forza motrice che muove se
stessa», che rende gli operai «sue membra coscienti»62.
Nella macchina, e ancor più nel macchinario come sistema automatico, il
mezzo di lavoro è trasformato, dal punto di vista del suo valore d’uso, cioè
della sua esistenza materiale, in un’esistenza adeguata al capitale fisso e al
capitale in generale, e la forma in cui esso è stato assunto come mezzo di lavoro
immediato nel processo di produzione del capitale è superata in una forma
posta dal capitale stesso e a esso corrispondente. Da nessun punto di vista la
macchina si presenta come mezzo di lavoro del singolo operaio. La sua
differentia specifica non è affatto come nel mezzo di lavoro, di mediare l’attività
dell’operaio nei confronti dell’oggetto, piuttosto quest’attività è posta in modo
tale da mediare ormai soltanto il lavoro della macchina, la sua azione sulla
materia prima – da sorvegliarlo e da preservarlo dalle interferenze.
Non è l’operaio che anima la macchina, è «invece la macchina che
possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso, che
possiede una propria anima nelle leggi meccaniche che in essa operano»;
mentre l’attività dell’operaio «ridotta a pura astrazione dell’attività, è
determinata e regolata per tutti i versi dal moto del macchinario, e non
viceversa». La scienza, «che costringe le membra inanimate del
macchinario – con la sua costruzione – ad agire in conformità allo scopo
come un automa, non esiste nella coscienza dell’operaio, ma agisce su di
lui, attraverso la macchina, come potere estraneo, come potere della
macchina stessa».
Ecco allora che il processo di produzione ha cessato di essere
processo di lavoro nel senso che il lavoro lo «soverchia come unità che lo
domina». Il lavoro si presenta piuttosto come «organo cosciente […] in
vari punti del sistema meccanico; disperso, sussunto sotto il processo
complessivo del macchinario stesso, esso stesso è soltanto un membro
del sistema, la cui unità esiste non già negli operai vivi, bensì nel
62
K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit. , pp. 706-707.
36
Capitolo primo
macchinario vivente (attivo), che di fronte all’operare isolato e
insignificante dell’operaio si presenta come un poderoso organismo»63.
Allo stesso tempo l’aumento della forza produttiva del lavoro è la
massima negazione del lavoro necessario, è la «tendenza necessaria»
dello sviluppo capitalistico; la realizzazione di questa tendenza, per
Marx, è, appunto, nella trasformazione del mezzo di lavoro in
macchinario che non è accidentale ma è la trasformazione storica del
mezzo di lavoro recepito dalla tradizione, modificato in una forma
adeguata al capitale64.
Proprio in ragione di quanto asserito poc’anzi (l’aumento della forza
produttiva del lavoro come massima negazione del lavoro necessario)
nelle pagine successive la critica marxiana conosce ulteriori sviluppi;
Marx prosegue considerando le dinamiche della divisione del lavoro
suscettibili di portare a ricomposizione sviluppo scientifico e lavoratore
collettivo.
Già in passaggi precedenti dei Grundrisse Marx aveva dichiarato
come il capitale tenda allo
sviluppo universale delle forze produttive e in tal modo diviene il presupposto di
un nuovo modo di produzione che non è fondato su uno sviluppo delle forze
produttive teso a riproporre e tutt’al più ad ampliare una situazione determinata,
ma nel quale lo sviluppo libero, illimitato, progressivo e universale delle forze
produttive costituisce il presupposto stesso della società e quindi della sua
riproduzione; nel quale l’unico presupposto è il superamento del punto di partenza.
Questa tendenza - che è propria del capitale, ma che al tempo stesso è in
contraddizione con esso in quanto forma di produzione limitata, e perciò lo spinge
alla sua dissoluzione - distingue il capitale da tutti i precedenti modi di produzione
e implica, al tempo stesso, che esso è posto come puro punto di transizione 65.
Riprendendo il discorso intorno alla natura della tendenza di cui
sopra Marx dà conto, sempre relativa alla riduzione del tempo di lavoro
necessario, viene ribadito come la scienza incorporata nel macchinario si
presenti come qualcosa di estraneo all’operaio e «il lavoro vivo» è
«sussunto sotto quello materializzato che agisce autonomamente».
D’altronde il «pieno sviluppo del capitale ha […] luogo» quando
«l’intero processo di produzione non si presenta come sussunto sotto
Ivi, pp. 707-708.
Cfr. ivi, p. 709.
65 Ivi, p. 528.
63
64
L’educazione e l’individuo sociale
37
l’abilità immediata dell’operaio, ma come applicazione tecnologica della
scienza».
Dare carattere scientifico alla produzione è […] la tendenza del capitale, e il
lavoro immediato è ridotto a un semplice momento di questo processo. Come
nella trasformazione del valore in capitale, così analizzando più da presso il
capitale si rileva che da un lato esso presuppone un determinato sviluppo
storico già avvenuto delle forze produttive - tra queste forze produttive anche la
scienza - , e dall’altro lo stimola e lo accelera.
Nell’ambito di tale processo
il lavoro immediato è ridotto a proporzione esigua, e sul piano qualitativo è
posto come un momento certo indispensabile, ma subalterno, rispetto al lavoro
scientifico generale, all’applicazione tecnologica delle scienze naturali da un
lato e forza produttiva generale risultante dall’articolazione sociale nella
produzione complessiva dall’altro – forza produttiva generale che si presenta
come dono naturale del lavoro sociale (pur essendo un prodotto storico) 66.
È l’esito di un di un movimento storico che ha fatto leva sul
potenziamento del sistema di macchine ai fini di una crescente
estorsione di plusvalore. «Il capitale impiega» infatti «la macchina
soltanto se essa mette l’operaio in condizione di lavorare per il capitale
per una parte maggiore del suo tempo come a un tempo che non gli
appartiene, di lavorare più a lungo per un altro». Con questo processo
«la quantità di lavoro necessaria alla produzione di un determinato
oggetto viene effettivamente ridotta a un minimo, ma solo perché un
massimo di lavoro venga valorizzato nel massimo di tali oggetti». In
questo modo il capitale, senza averne l’intenzione, riduce a un minimo il
lavoro umano, il dispendio di energia, e pone «una condizione della sua
emancipazione»67.
Ciò che è evidente è l’aspirazione del modo di produzione del
capitale al plusvalore relativo, non già prolungando la durata della
prestazione del lavoro (plusvalore assoluto) ma ribassando il prezzo
della forza lavoro e del traffico sociale.
Il capitale aumenta il tempo di lavoro eccedente con il ricorso a tutti i
mezzi dell’arte e della scienza, perché la sua ricchezza consiste
66
67
Ivi, pp. 710-711.
Ivi, p. 713.
38
Capitolo primo
direttamente nell’appropriazione di tempo di lavoro eccedente; «giacché
il suo scopo è direttamente il valore, e non il valore d’uso». Così facendo
«esso è, [ … ] senza volerlo, strumento di creazione delle possibilità di
tempo sociale disponibile», strumento «per la riduzione del tempo di
lavoro dell’intera società ad un minimo decrescente, sì da rendere il
tempo di tutti libero per lo sviluppo personale»68.
L’appropriazione di pluslavoro assoluto, per quanto importante e
indispensabile sia stata e continui ad essere per il capitale, non
caratterizza affatto l’essenza del modo di produzione capitalistico; che
risiede invece nel costante rivoluzionamento delle condizioni tecniche e
sociali del processo lavorativo allo scopo di estendere il dominio del
pluslavoro relativo69. Non dunque nel pluslavoro assoluto ma nel
pluslavoro relativo si rivela immediatamente il carattere industriale e
peculiarmente storico del modo di produzione basato sul capitale. Ed è
in questo senso che il capitale è produttivo, in quanto come forza
costrittiva agente sul lavoro salariato innalza la produttività del lavoro
per creare plusvalore relativo, ed è proprio dalla ricerca di quest’ultimo
che nasce l’impulso crescente allo sviluppo delle forze produttive
materiali.
Sebbene il tutto avvenga «attraverso la divisione del lavoro, che già
trasforma sempre più in operazioni meccaniche le operazioni degli
operai, cosicché a un certo punto il meccanismo può prendere il suo
posto». Il «modo di lavoro determinato qui si presenta dunque
direttamente trasferito dall’operaio al capitale nella forma della
macchina, e in seguito a questa trasposizione la capacità lavorativa
dell’operaio si presenta svalutata»70.
Pertanto
nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza
reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro
impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di
lavoro, la quale a sua volta – questa poderosa efficacia – non sta in alcun
rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma
Ivi, p. 720.
Ciò che dalla parte del capitale si presenta come plusvalore, dalla parte
dell’operaio appare esattamente come pluslavoro al di sopra del suo bisogno
operaio, al di sopra cioè del suo bisogno immediato per la conservazione della
propria vitalità.
70 Ivi, p. 716.
68
69
L’educazione e l’individuo sociale
39
dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della
tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. [ … ]. La
ricchezza reale si manifesta piuttosto – e ciò viene messo in luce dalla grande
industria – nella straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il
suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a
pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia. Il
lavoro non si presenta più tanto come incluso nel processo produttivo, in
quanto è piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei confronti
del processo produttivo stesso [ … ]. Non è più l’operaio ad inserire l’oggetto
naturale modificato come termine medio tra sé e l’oggetto; egli inserisce invece
il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo
tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al
processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione
modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo
che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la
sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua
esistenza di corpo sociale – in breve lo sviluppo dell’individuo sociale, che si
presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza.
Nonostante l’eccessiva enfasi posta sul sapere incorporato nei
macchinari, quindi di conseguenza sul lavoro tecnico e scientifico, il
passaggio descritto richiama il presente, il regno del lavoro immateriale,
dove l’unità temporale del lavoro, in quanto misura fondamentale del
valore, viene meno, ma dove lo sfruttamento acquista una dimensione
più vasta e profonda. Il nuovo paradigma, fondandosi sulla
elaborazione di idee, immagini, saperi, comunicazione e cooperazione,
scuote la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. La
valorizzazione si struttura sulle competenze di apprendimento e di
trasferimento delle conoscenze e delle informazioni acquisite, fuori e
dentro l’azienda, nell’ ambito dello specifico contesto produttivo. Ed è a
tale scopo che il capitale tenta di imbrigliare la totalità della vita nelle
spire dell’estorsione del valore, la cui origine risiede nel potenziamento
della cooperazione, della condivisione subalterna, della comunicazione,
in sostanza nell’intelligenza collettiva piegata all’interesse dell’impresa.
Per Marx il
furto di tempo di lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si
presenta come base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla
grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di
essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di
40
Capitolo primo
esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la
misura del valore d’uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la
condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non – lavoro dei
pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali
della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e
il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma
della miseria e dell’antagonismo. Il libero sviluppo delle individualità, e
dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro
eccedente, ma in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della
società, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli
individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti 71.
È l’abbozzo, venato dall’attesa della catastrofe sociale, di una nuova
condizione esistenziale e sociale, risultato di uno sviluppo storico dal
quale Marx si attendeva che i «capitalisti, come funzionari del processo
che accelera la produzione sociale e con ciò lo sviluppo del processo
produttivo», diventassero «superflui nella stessa misura in cui ne»
godevano «l’usufrutto per procura della società». Sarebbe successo a
loro «come ai signori feudali, i cui diritti si sono trasformati, nella stessa
misura in cui i loro servizi diventavano superflui, in antiquati e inutili
privilegi, così affrettandone il tramonto»72.
La tendenza storica che Marx rileva è appunto caratterizzata da una
diminuzione della funzione produttiva e da un accrescimento della
padronanza proprietaria. Ciò delinea i termini di una transizione storica;
le funzioni produttive si trasferiscono agli individui sociali, quelle
proprietarie restano concentrate nelle vecchie classi la cui funzione
storica decresce. È così che lo sviluppo delle forze produttive trova un
limite nei rapporti sociali di produzione; tale sviluppo, quello «delle
forze produttive materiali [ … ] a un certo punto sopprime il capitale
stesso», ma lo sviluppo di cui parla Marx «è uno sviluppo delle forze
della classe operaia»73.
La funzione storica del capitale è compiuta quando
lo sviluppo delle forze produttive del lavoro – che il capitale nella sua illimitata
brama di arricchimento e nelle condizioni in cui esso soltanto può realizzarlo,
Ivi, pp. 716 – 718.
K. MARX, Storia delle teorie economiche, Milano, Newton Compton, 1974, vol. 3,
p. 200.
73 ID., Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 532.
71
72
L’educazione e l’individuo sociale
41
spinge avanti a colpi di frusta – è giunto a un punto tale che da un lato il
possesso e la conservazione della ricchezza generale richiedono un tempo di
lavoro inferiore per l’intera società, e dall’altro la società lavoratrice assume un
atteggiamento scientifico verso il processo della sua progressiva e sempre più
ricca riproduzione; e quindi ha cessato di esistere il lavoro che l’uomo in essa
svolge mentre può farlo svolgere alle cose in vece sua.
Nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza
il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali e in tal
modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità
ricca che è universale nella produzione quanto lo è nel suo consumo, di
una individualità «il cui lavoro perciò non si presenta nemmeno più
come lavoro, ma come pieno dispiegarsi dell’attività stessa», di un’attività nella quale «la necessità naturale nella sua forma immediata è
scomparsa; al bisogno naturale è infatti subentrato un bisogno generato
storicamente».
Dunque «il capitale è produttivo; è cioè un rapporto
essenziale per lo sviluppo delle forze produttive sociali. Esso cessa di
essere tale solo quando lo sviluppo di queste forze produttive trova un
limite nel capitale stesso [corsivo è nostro]»74, «la forza produttiva
principale» è «l’uomo stesso»75.
Il capitale nella sua inevitabile corsa all’appropriazione pone limiti
crescenti allo sviluppo dell’individuo sociale, il cui accrescimento
dipende sempre più dalla rottura dei sistemi di appropriazione privata
dei prodotti dell’intelligenza collettiva; il comunismo marxiano,
pertanto, si va specificando come lo spazio e il tempo del libero sviluppo
dell’individualità sociale.
Solo allora la
misura della ricchezza [sarà data] non più dal tempo di lavoro, ma dal tempo
disponibile. Il tempo di lavoro come misura della ricchezza pone la ricchezza stessa
fondata sulla povertà e il tempo disponibile che esiste nella e in virtù dell’antitesi
con il tempo di lavoro eccedente, ovvero tutto il tempo di un individuo è posto
come tempo di lavoro, e l’individuo è perciò degradato a puro operaio,
sussunto sotto il lavoro76
Ivi, pp. 277 – 278.
Ivi, p. 391.
76 Ivi, p. 721.
74
75
42
Capitolo primo
Il «risparmio di tempo di lavoro», nella prospettiva marxiana, non
deve tradursi in «appropriazione di tempo di lavoro eccedente»77 ma
nell’«aumento di tempo libero, ossia del tempo per il pieno sviluppo
dell’individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima forza
produttiva del lavoro».
In sostanza il tempo libero – sia quando è tempo di ozio e sia quando
è tempo per le attività più elevate – trasforma «naturalmente il suo
possessore in un altro soggetto», che proprio come altro soggetto entra
poi nel processo di produzione immediato. Se lo si considera «rispetto
all’uomo in divenire, questo processo è disciplina, e al tempo stesso è
esercizio, scienza sperimentale, scienza materialmente creativa e
materializzatasi se lo si considera rispetto all’uomo divenuto, nel cui
cervello esiste il sapere accumulato della società».
Riemerge così la onnilateralità quale fine di una nuova formazione
umana che non potrà che essere il risultato del realizzarsi della
negazione dell’esistente che, come «il sistema dell’economia borghese»,
di cui «la sua negazione […] è il risultato ultimo», si sviluppa «passo a
passo» e trova i suoi fondamenti storici nelle stesse dinamiche che
regolano il movimento del capitale, dinamiche sociali e conflittuali.
L’industria moderna - scrive Marx nel Capitale -, non considerando e
non trattando mai come definitiva la forma esistente di un processo di
produzione, sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della
produzione, le funzioni dei lavoratori e le combinazioni sociali del
processo lavorativo. Essa pertanto rivoluziona con costanza la divisione
del lavoro nella sua forma capitalistica con immani conseguenze sociali.
La
grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della
variazione dei lavori e quindi della maggiore versatilità possibile dell’operaio
come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze
alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte.
Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che
è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il
variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta
dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo
parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo
totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di
attività che si danno il cambio l’uno con l’altro
77
Ivi, p. 720.
L’educazione e l’individuo sociale
43
Segno rilevante di questo processo di sovvertimento spontaneo della
base tecnica è dato per Marx, come abbiamo già sottolineato, dallo
sviluppo «delle “écoles d’enseignement professionnel”», nelle quali i figli
degli operai ricevono i primi rudimenti in tecnologia e nell’uso pratico
dei vari strumenti di produzione. Se poi la legislazione sulle fabbriche,
prima concessione strappata dopo grandi lotte al capitale, non unisce al
lavoro di fabbrica l’istruzione elementare, «la inevitabile conquista del
potere politico da parte della classe operaia riuscirà senz’altro a
introdurre nelle scuole degli operai l’istruzione tecnologica teorica e
pratica».
Senza dubbio «la forma capitalistica della produzione e la situazione
economica degli operai che le corrisponde» sono «diametralmente
antitetiche a questi fermenti rivoluzionari e alla loro meta, che è
l’abolizione della vecchia divisione del lavoro». Tuttavia lo svolgimento delle
contraddizioni presenti nella forma storica della produzione capitalistica
è «l’unica via storica per la sua dissoluzione e […] e trasformazione»78.
Il «capitale», riprendendo i Grundrisse, «opera nel senso della propria
dissoluzione»79, è, malgré lui, strumento di creazione della «possibilità
di sviluppo universale dell’individuo»80, possibilità la cui traduzione in
evento storico è affidata allo «sviluppo della classe operaia», alla sua
capacità di avviare e portare a compimento la sua autovalorizzazione
politica e culturale, di appropriazione delle forze produttive; sebbene
«l’inevitabile conquista del potere politico» e l’affermato crollo della
«produzione basata sul valore di scambio»81rendano evidente l’irrisolto
rapporto con l’hegelismo
L’onnilateralità, cioè il pervenire storico dell’uomo ad una totalità di
capacità produttive e insieme a una totalità di capacità di consumo o
godimenti spirituali, oltre che materiali, da cui il lavoratore è stato
escluso in seguito alla divisione del lavoro82, trova i presupposti in un
movimento storico di cui Marx disvela le dinamiche prodotte dagli
antagonismi di classe che le governano.
D’altronde Marx, come abbiamo cercato di sottolineare, con la critica
all’economia politica studia l’anatomia della società, cioè i modi di
K. MARX, Il Capitale, in M. A. MANACORDA, cit., pp. 130-131.
ID., Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 711.
80 Ivi, p. 530.
81 Ivi, p. 718.
82 M. A. MANACORDA, op. cit., p. 241.
78
79
44
Capitolo primo
organizzare il lavoro, tanto le strutture materiali di produzione (che
nella loro materialità sono comunque anch’esse un prodotto “spirituale”
dell’ingegno umano), quanto i rapporti che gli uomini stabiliscono tra
loro nella sfera produttiva. Di ciò si serve per capire gli sviluppi
contraddittori della storia umana, attraverso quali vie gli uomini si sono
scissi in classi e attraverso quali vie sarà possibile superare la parzialità e
la unilateralità che caratterizza l’odierna condizione, per approdare ad
una umanità capace di attività vitali superiori.
Ecco che, a quest’ultimo proposito, il capitale, in forza della sua
rincorsa all’aumento della forza produttiva del lavoro, accresce il tempo
di lavoro eccedente dalla massa con il ricorso a tutti i mezzi dell’arte e
della scienza e, senza volerlo, diventa strumento di creazione delle
possibilità di tempo sociale disponibile, della riduzione del tempo di
lavoro dell’intera società a un minimo decrescente, così da rendere il
tempo di tutti libero per lo sviluppo personale.
Inoltre, nel corso dello stesso sviluppo del modo di produzione
capitalistico, il lavoro vivo viene incalzato e travolto dal variare delle
tecnologie, cioè da una scienza operativa, da lui separata, ma che muta
incessantemente le sue condizioni di lavoro e richiede una crescente
versatilità, ecco che allora la prospettiva dell’onnilateralità si configura
in forma più determinata e concreta.
Questi in estrema sintesi i presupposti materiali di una possibile
trasformazione che non può prescindere per materializzarsi da percorsi
formativi e autoformativi, un’ipotesi di mutamento sociale che
assumendo le forme più radicali della democrazia si propone di
rappresentare una cesura storica difficilmente riconducibile alla
tradizione liberale di cui pure Marx eredita e fa suoi gli elementi più
vitali.
Suffragio universale, revocabilità degli eletti, gratuità, universalità e
laicità dell’istruzione, libertà di ricerca, amputazione degli «organi
puramente repressivi del vecchio potere governativo», sono parte degli
elementi costitutivi la Comune, quale «forma politica finalmente
scoperta» che avrebbe potuto «svellere le basi economiche su cui riposa»
il «dominio di classe» e consentire il realizzarsi del «lavoro libero e
associato»83. Si tratta di una radicale trasformazione sociale che
pretende, la si condivida o no, di essere una netta rottura con il passato e
le sue culture, orientata alla costituzione di un sistema di relazioni
sociali non più fondato sul valore di scambio ma sul valore d’uso, sulla
83
K. MARX, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 81-86.
L’educazione e l’individuo sociale
45
fine del lavoro salariato e sul libero sviluppo dell’individuo sociale, ed è
questa la prospettiva che rende ragione della distanza che separa il
pensiero liberale e liberaldemocratico da quello marxiano.
Parte seconda
COMUNICAZIONE E PROCESSI FORMATIVI
Antonio Labriola, la politica come opera pedagogica
Premessa
Il testo che segue raccoglie, nella sua relativa immediatezza, quanto
esposto dall’autore nel corso della discussione dei titoli e soprattutto
durante la prova didattica prevista per la valutazione comparativa a
professore universitario di ruolo per il settore scientifico disciplinare di
Pedagogia Generale e Sociale.
Premetto che la discussione dei titoli ha riguardato i rapporti tra
lavoro e processi formativi, nonché la pedagogia nell’ambito della
filosofia della prassi; mentre la lezione ha assunto ad oggetto la politica
considerata da Antonio Labriola in termini di opera pedagogica.
Va precisato che durante la prova didattica il candidato ha usato una
formulazione linguistica e concettuale attenta agli ipotizzati livelli
culturali degli interlocutori e che per facilitare l’ascolto ha fatto ricorso
alla proiezione di materiale strutturato per termini chiave, per frasi e
periodi topici, posti in relazione logica e cronologica, come è
documentato in appendice allo scritto.
L’articolo non ha assolutamente la pretesa di rappresentare un
qualche modello di didattica universitaria ma vuole essere solo un
contributo sull’attualità/inattualità di un classico della pedagogia; in più
una riflessione su ciò che può precedere e accompagnare un corso di
lezioni, indicando accorgimenti e procedure utili a una didattica della
ricerca in ambito universitario, che faccia dell’esercizio filologico
un’occasione per accrescere quel bagaglio di competenze che verrà
richiamato nel corso della trattazione.
A scuola con i «nipoti e pronipoti» del «papuano».
Per chi da anni si occupa di Antonio Labriola, insieme ad
americanismo, fordismo e postfordismo, di tanto in tanto capita di
chiedersi quale interesse può ancora suscitare il «maestro perpetuo» di
Cassino.
La domanda, poi, acquista particolare rilievo se la stessa persona
divide il suo tempo tra lo studio e l’insegnamento nella scuola
secondaria superiore; parlando anche di Antonio Labriola, quando il
programma di storia lo consente, quando l’attenzione cade sui problemi
dell’Italia del secondo Ottocento: la questione meridionale,
52
Capitolo primo
l’analfabetismo, la scuola popolare, il socialismo, il cattolicesimo sociale,
l’Italia delle «consorterie politiche». Momenti che offrono all’insegnante
- ricercatore l’opportuni-tà di ricostruire, sebbene fugacemente,
l’immagine di un testimone critico e partecipe del suo tempo.
Così anche le dinamiche economiche globali, i movimenti dei
migranti, i nuovi diritti di cittadinanza, per lo più negati, sono
l’occasione per ricordare che tra «un secolo e l’altro» va rintracciata non
poca parte delle origini del presente, ma anche della nostra
incomprensione per l’altro che è dopo in noi, nelle nostre recenti vicende
nazionali. Nel dolore e nelle speranze dei tanti che tra l’800 e il ‘900 e
per gran parte del secolo scorso, sono stati trascinati sulle rotte solcate
da piroscafi stracolmi di quell’umanità sofferente che a volte, non
diversamente da oggi, trovava pace in fondo ai mari e agli oceani.
Labriola sente il dramma che si raccoglie sui moli del porto
partenopeo, come di altri porti italiani, ma si limita a quella parte di
umanità, l’altra, quella di Cuore di tenebra, non è obbiettivamente pronta
per «nuovi doveri», solo percorrendo i sentieri già battuti dall’Occidente
sarà, forse, un giorno in grado di cogliere il senso della storia.
Non è poi così estraneo Labriola a ragazzi che si dividono tra chi non
comprende o addirittura rifiuta i movimenti umani in atto e chi ne coglie
profondamente la portata perché ne è parte e inizia a chiedere rispetto
per sé e per la sua storia.
Così il Cassinate scopre tensioni che si muovono e agiscono
sotterraneamente in una classe di un istituto professionale di provincia,
ma diventa anche una delicata leva per favorire la comprensione, tra
presente e passato, di vicende che vanno colte nella loro complessa
globalità, facendo dell’insegnamento «attività ordinata, rivolta a
produrre attività»84.
Allora se il tema riguarda i risvolti pedagogici ed educativi delle
riflessioni e delle azioni politiche perché non fare del Labriola l’oggetto
della prova didattica prevista per la valutazione comparativa di cui
sopra?
84 A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, Utet,
1981, p. 259.
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
53
Labriola tra Marx, Gramsci e la Toyota.
Ma come in ogni prova comparativa, la lezione è preceduta dalla
discussione dei titoli scientifici, non proprio semplice da condurre,
soprattutto quando la ricerca si è snodata tra educazione, politica,
organizzazione e divisione del lavoro; quando i temi si aggrovigliano ed
è necessario sciogliere i nodi scientifici e didattici.
La discussione segue le linee pedagogiche della filosofia della prassi,
di cui il candidato si è occupato nel quadro più complessivo della
riflessione degli autori studiati (Marx, Labriola e Gramsci), senza
trascurare gli interlocutori critici: Sorel, Pareto, Croce, Weber e Dewey. Il
tutto per individuare possibili ipotesi e percorsi di indagine almeno in
parte inediti. Mentre gli ultimi studi del candidato spostano l’attenzione
dei commissari sul concetto di «onnilateralità», sui termini di una
formazione che consenta il libero sviluppo (artistico, scientifico,
culturale) delle individualità sociali, da rintracciare, anche tra le maglie
delle critica dell’economia politica, per cogliere i possibili esiti del lavoro
vivo, incalzato e travolto dal variare dell’apparato tecnico-organizzativo
che porta «con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità
dell’operaio in tutti i sensi». Quella «versatilità»85 riconfermata dai
recenti studi sull’organizzazione del lavoro, dal toyotismo quale
paradigma di una forma lavoro che chiama in produzione esperienze,
conoscenze, abilità e competenze acquisite dentro e fuori processi di
insegnamento/apprendimento formalizzati, nell’ambito delle più ampie
relazioni sociali.
La catena parlante chiede in particolare la capacità di apprendere ad
apprendere in ragione dell’incessante procedere dell’innovazione e per
le pressanti sollecitazioni al miglioramento continuo. All’esigenza
obiettiva si accompagna la pretesa di elaborare «tipi nuovi di umanità»86,
plasmati dalla logica d’impresa; un’istanza ritagliata sul breve periodo a
cui è utile rispondere, proprio in ragione di tale natura, con processi
formativi in grado di temperare le esigenze della realtà storico produttiva con la crescita di una formazione critica in grado di far
avanzare i livelli di civiltà. Lo sconfinamento dei parametri economici e
aziendalistici oltre gli ambiti della produzione, tentare di ricondurre
l’insieme della articolazioni sociali e culturali dentro le regole
K. MARX, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 534.
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura
di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1566.
85
86
54
Capitolo primo
dell’economia e dell’utile riduce l’insieme delle relazioni umane a valori
di scambio, minando la coesione sociale e morale su cui si regge ogni
forma di vita associata. D’altronde la logica che governa l’impresa non è
indifferente solo alle «possibilità economiche per i nostri nipoti», per
usare il titolo di un breve testo di John Maynard Keynes87, ma anche a
quegli ambiti affettivi e relazionali che alimentano la prassi umana.
Si tratta, forse, di ragionare intorno a quell’idea gramsciana di
«conformismo dinamico» che è tale proprio perché a partire dalla
«“collettivizzazione” del tipo sociale» tende ad un più elevato sviluppo
morale e intellettuale88. Nell’ambito, anche, di una scuola unitaria e
attiva, al cui culmine collocare la scuola creativa, la trasmissione dei
«valori fondamentali dell’“umanesimo”, l’autodosciplina intellettuale e
l’autonomia morale»; una scuola in grado di operare in direzione
«dell’apprendimento dei metodi creativi nella scienza e nella vita»89,
dove «l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo
e autonomo del discente»90.
Una scuola che non può essere subalterna alle logiche mercantili ma
non per questo separata dall’evoluzione dei processi produttivi, proprio
perché si tratta di formare soggetti in grado di controllarli.
L’educazione e la formazione vanno assunti a spazi di ritorno e di
riflessione, di un insegnamento incentrato sull’esperienza, sulla ricerca,
più sul sapere come che sul sapere che; sulla capacità di problematizzare,
raccogliere, selezionare, analizzare materiali produrre giudizi. Questo il
senso dell’attenzione riservata dal candidato ad un insegnamento
strutturato sui linguaggi, sulle regole e sulle procedure della ricerca
storica; ragionando, nei limiti consentiti dalle specifiche situazioni di
insegnamento/apprendimento, sull’attendibilità delle fonti. Nella stessa
direzione va l’uso didattico della recensione in ambito universitario, che
acquista valore indagativo nella misura in cui oltre a restituire i
contenuti va ipotizzando nuovi itinerari di ricerca.
Un punto di vista maturato tra teoria pedagogica e didattica: da un
lato il Labriola di Dell’insegnamento della storia e non solo, il Gramsci che
definisce la «filologia […] l’espressione metodologica dell’importanza
che i fatti particolari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile
J. M. KEYNES, Possibilità economiche per i nostri nipoti, seguito da G. Rossi,
Possibilità economiche per i nostri nipoti?, Milano, Adelphi, 2009.
88 Cfr. A. GRAMSCI, op. cit. p. 1537.
89 Ivi, pp. 1536-1537.
90 Ivi, pp. 1537-1538.
87
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
55
“individualità”»91, e il Dewey della Logica come teoria dell’indagine;
dall’altro i percorsi intrapresi tanto nella scuola media superiore quanto
nei laboratori e nei seminari promossi dal Corso di Laurea in Pedagogia
e Scienze dell’educazione e della formazione della Facoltà di Filosofia
dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza».
L’apprendimento precede sempre l’insegnamento.
Successiva alla discussione dei titoli la prova didattica, che si apre con
l’esposizione di alcune annotazioni di carattere didattico-metodologico,
ai fini non solo della conoscenza della materia trattata ma anche per
contribuire all’acquisizione di quelle abilità e competenze indispensabili
alla maturazione culturale e critica degli studenti.
Ebbene se «l’apprendimento precede sempre e necessariamente
l’insegnamento efficace», occorre «non solo tener conto accuratamente del
già “spontaneamente” acquisito, ma occorre concedere altresì il massimo
spazio possibile a che anche le nuove acquisizioni specificatamente
orientate abbiano carattere di ricca e flessibile progettualità
autogratificante »92.
Sulla base di tale premessa pedagogica, individuato il pubblico di
riferimento, studenti del corso di laurea magistrale di Scienze
dell’educazione e della formazione, precisato che si tratta di una lezione
introduttiva al corso e raccolte le prime informazioni sulla carriera
universitaria di ciascun frequentante, gli studenti vengono invitati a
redigere, al più presto, un curriculum personale, sia in forma elencativa
che esplicativa; da cui risultino, tra l’altro, la storia culturale e scolastica
precedente l’Università, la vicenda e le prospettive universitarie, gli
interessi e il tempo libero, le attività lavorative passate, presenti e
(prevedibilmente) future, eventuali temi di interesse pedagogico, notizie
sulle esperienze didattiche e di ricerca.
Un insieme di informazioni che accompagnate da spazi di confronto e
di discussione possono rappresentare un’occasione per rilevare,
registrare interessi, quindi sollecitare in direzione di attività di ricerca
individuali e di gruppo, in ragione, in quest’ultimo caso, della
complessità del tema assunto a oggetto di indagine.
Ivi, p. 1429.
A. VISALBERGHI, Insegnare ed apprendere. Un approccio evolutivo, Firenze, La
Nuova Italia Editrice, 1988, p. 15
91
92
56
Capitolo primo
Ma il curriculum può diventare anche uno strumento di
autovalutazione per il docente se è aggiornato nel corso dell’attività e se
va, via via, registrando il maturare di nuovi interessi, se contiene, mano
mano che il corso va avanti, critiche e suggerimenti sull’andamento delle
lezioni e sulla preparazione all’esame93.
A seguire, l’obiettivo di ordine generale: favorire il passaggio dai
livelli di sapere propri della laurea triennale a quelli specifici della
laurea magistrale in Scienze dell’educazione e della formazione. Ciò
potenziando le capacità in ordine alla lettura, interpretazione,
rielaborazione e produzione dei testi secondo le regole proprie della
comunicazione scientifica. Si richiederanno pertanto la produzione di
schede, recensioni riguardanti testi dell’autore esaminato, sull’autore e
sul contesto; d’altronde «la didattica non è quell’attività che produce un
nudo effetto di cosa fissa; ma quella attività che generi altra attività»94.
Gli studenti dovranno quindi conoscere la materia, produrre testi
della tipologia sopra indicata e secondo le regole proprie della scrittura
scientifica, da potenziare anche durante gli incontri individuali e di
gruppo con il docente nelle ore di ricevimento. Saranno inoltre valutati
in relazione alla conoscenza dei temi trattati, alle capacità comunicative
e relazionali espresse, alla padronanza delle procedure di ricerca e alla
presenza, nell’ambito dei prodotti realizzati, di eventuali elementi di
originalità. Ma il docente non potrà trascurare la presenza, da registrare,
dello studente a lezione; il livello di partecipazione, rilevabile dagli
interventi e dalla loro funzionalità al corso, dall’impegno espresso nella
costituzione e nello svolgimento di eventuali gruppi di studio, dalle
aperture interdisciplinari95.
Antonio Labriola, la politica come opera pedagogica
Si passa quindi alla materia del corso, Antonio Labriola, la politica come
opera pedagogica, precisando immediatamente i temi che verranno
trattati:
Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Cari studenti faccio blog… magari insegno. Per una
didattica della pedagogia generale 2006-2007, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2006, pp.
7-8.
94 A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, con Introduzione di E. Garin,
Bari, Laterza, 19692, p. 280.
95 Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, op. cit., pp. 11-12.
93
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
57
il Labriola riformatore, impegnato sul terreno culturale,
scolastico, universitario nonché sociale e politico;
- il pedagogista e «maestro perpetuo»;
- l’educazione come “accomodazione sociale”.
In questa prima lezione si tratta solo di tracciare un quadro
dell’impegno e dei propositi del Cassinate, allo stesso tempo di indicare
direzioni di indagine da organizzare in una fase immediatamente
successiva e in relazione agli interessi e alle esperienze di studio dei
frequentanti il corso.
-
Il Labriola riformatore
Iniziando a trattare il primo punto il docente indica i temi
fondamentali del giovanile impegno giornalistico del Labriola: la scuola
e la lotta all’analfabetismo che andava accompagnata al miglioramento
delle condizioni di vita delle masse contadine. Quindi la libertà di
insegnamento, l’educazione tecnica, la formazione degli insegnanti, le
strutture materiali e gli edifici. Senza trascurare il problema della
formazione di una nuova classe dirigente. Aspetti centrali della più
generale questione della modernizzazione dell’Italia e del Mezzogiorno,
ben presenti ad intellettuali meridionali come Bertrando e Silvio
Spaventa, Pasquale Villari, in una fase storica segnata prima dal
brigantaggio e poi dai timori suscitati dalla Comune di Parigi.
Per quanto riguarda specificatamente l’Italia, l’arretratezza della
struttura economico-produttiva e l’indole «tranquilla e casalinga dei
nostri operai», scrive Labriola, la tengono al riparo da eventuali moti
rivoluzionari.
In ogni caso spetta alla borghesia colta il compito di farsi tramite,
presso i lavoratori, della diffusione dell’ «utile consiglio», della «savia
ammonizione», del «concetto esatto e corretto», di proporsi «seriamente
l’educazione degli operai» prima che altri la precedano per questa via96.
A questo punto della lezione il docente fornisce alcune prime
indicazioni di ricerca che potrebbero riguardare lo scambio di opinioni,
sugli argomenti sopra trattati, tra Antonio Labriola, Silvio Spaventa e
Pasquale Villari, attraverso lo spoglio del Carteggio97, curato dal
96
Cfr. A. LABRIOLA, L’educazione degli operai, in ID., Scritti pedagogici, cit., pp. 157-
158.
97 A. LABRIOLA, Carteggio, vol I, II, III, IV, V, a cura di S. Miccolis, Napoli,
Bibliopolis, 2000 – 2006.
58
Capitolo primo
compianto Stefano Miccolis, e l’esame delle pagine del Villari, La scuola
e la questione sociale in Italia98.
Sul finire degli anni Settanta Labriola, chiamato a dirigere, per conto
del Ministero della Pubblica Istruzione, il Museo d’Istruzione e
d’educazione, svolge indagini sul piano statistico e comparativo
riguardanti gli ordinamenti scolastici di paesi come la Germania,
l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, il Belgio e l’Olanda, prestando
particolare attenzione alla scuola popolare.
I risultati delle ricerche, pubblicati tra il 1880 e il 1881, offrono
materiale al Labriola per intervenire sullo stato della scuola elementare,
della secondaria, dell’università, sul ruolo delle ispezioni, sulla
formazione dei maestri, sullo stato giuridico del personale della scuola,
sull’obbligo scolastico.
Particolarmente rilevante a quest’ultimo proposito è la Conferenza
tenuta il 22 gennaio 1888, Della scuola popolare, dove denuncia l’elevato
tasso di analfabetismo presente in Italia, le resistenze politiche e culturali
opposte alla realizzazione di una scuola popolare degna di tale nome, la
condizione morale dei maestri sottoposti alle «ingerenze degli
amministratori locali». Un insieme di problemi che, per Labriola, non
sono risolvibili semplicemente con il passaggio della scuola popolare dai
comuni alla diretta amministrazione del ministero, ma, in primo luogo,
attraverso una riforma democratica dell’ente locale, dove la scuola
popolare possa esplicare la sua missione. Sebbene tocchi poi allo Stato,
non solo fare le leggi e i regolamenti obbligatori per tutti, ma preparare i
maestri in appositi istituti suoi, e di assicurare loro un congruo
stipendio. Allo Stato, inoltre, il compito di vigilare sull’attuazione
dell’obbligo99.
Fondamentale
rimane
la
questione
dell’autonomia
e
dell’indipendenza dei maestri come della loro formazione:
il vero maestro è quello che esce da apposito educatorio, e che assodato
abbia la sua preparazione con gli studi, entri dapprima nella scuola a titolo di
tirocinante, e poi che sotto questo titolo abbia data buona prova di sé, acquista
P. VILLARI, Lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Le
Monnier, Firenze 1878.
98
99 Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS (cura di), Antonio Labriola e la sua Università, Roma,
Aracne, 2005.
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
59
grado formale e perfetto di insegnante, con tutte le garanzie di un pubblico
ufficiale100.
La lettura in aula del testo può dare modo di individuare temi su cui
gli studenti possono decidere di soffermarsi: il caso Scialoja ad esempio,
la proposta del Labriola di portare la scuola popolare a otto anni101 e
l’accoglienza ad essa riservata dal movimento democratico e socialista
tra la fine dell’800 e il primo decennio del ‘900. Inoltre, intorno
all’innalzamento dell’obbligo scolastico avanzato dal Cassinate gli
studenti potrebbero ricostruire i termini del dibattito che si svolse sulla
scuola, sulle sue finalità e sulla sua organizzazione nell’età giolittiana.
Anche il tema della formazione iniziale dei docenti è tra le questioni
che stanno più a cuore al Labriola, ed è a tale proposito che avanza la
proposta per i laureandi di Lettere di svolgere obbligatoriamente un
esame di pedagogia. Poi, in ordine alla formazione in servizio degli
insegnanti è rilevante l’opera svolta come direttore del Museo di
Istruzione e di Educazione dal 1877 al 1891, anno della soppressione
dell’istituzione ad opera dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione
Pasquale Villari.
Per quanto poi riguarda l’Università la proposta più rilevante
interessa proprio la facoltà di filosofia, Tesi sulla laurea in filosofia, esposta
in occasione del primo Congresso dei professori di tale disciplina,
tenutosi a Milano nel 1887. La filosofia non deve essere «un
completamento obbligatorio della storia e della filologia, ma un
completamento, invece, facoltativo di qualunque cultura speciale: storica,
giuridica, matematica, fisica o che altro siasi. Alla filosofia ci si deve
poter arrivare didatticamente per qualunque via, come per qualunque
via ci arrivarono sempre i veri pensatori»102.
Per quanto poi riguarda la libertà di ricerca e di insegnamento nel
discorso del 14 novembre 1896 dichiara che «non c’è modo di stabilire
limiti preconcetti […] allo sviluppo dell’attività scientifica», ma i
professori «non devono confondere l’attività loro con quella
dell’apostolato, del propagandista, dell’agitatore»103.
A. LABRIOLA, Della scuola popolare, in ID., Scritti pedagogici, cit. p. 517.
Cfr. A. LABRIOLA, Lezioni di pedagogia, in Id., Scritti pedagogici, cit. p. 556.
102 N. SICILIANI DE CUMIS, Filosofia e università. Da Labriola a Vailati 1882-1902,
Torino, Utet, 2005, pp. 20-21.
103 A. LABRIOLA, L’Università e la libertà della scienza, in ID., Scritti pedagogici, cit.
p.610.
100
101
60
Capitolo primo
D’altronde la «scienza è lavoro» e l’«Italia ha bisogno di progredire
materialmente, moralmente, intellettualmente»104. Sia però ben chiaro
«Noi non siamo qui ad usurpare le parti di direttori della civiltà, e di
iniziatori della storia». «Anche noi professori […] siam vissuti dalla
storia; che è la sola e reale signora di noi tutti»105.
Affermazioni, queste ultime, che sembrano rendere ragione al Croce
quando afferma che il «materialismo storico [gli] si dimostrò
doppiamente fallace e come materialismo e come concezione del corso
storico secondo un disegno predeterminato, variante della hegeliana
filosofia della storia»106.
Il «il socialismo italiano» Labriola lo aveva inteso «come un mezzo:
1) per sviluppare il senso politico delle moltitudini; 2) per educare quella
parte di operai che sono educabili alla organizzazione di classe; 3) per
opporre alle varie camorre che si chiamano partiti una forte compagine
popolare; 4) per costringere i rappresentanti del governo alle riforme
economiche utili per tutti»107.
La famosa lettera a Villari, su cui torneremo successivamente, spiega
gran parte delle ragioni dell’adesione del Labriola al socialismo, una
scelta di campo che vuole essere netta come di fatto dichiara ad Ettore
Socci108, presidente del Circolo radicale di Roma, e che si porta dietro
gran parte dell’opera pedagogica precedente.
Il pedagogista e il « maestro perpetuo»
Se c’è un elemento che segna una continuità tra la pedagogia che
segna una continuità tra la pedagogia del Labriola professore e del
Labriola militante politico va rintracciato nel ruolo che la ricerca è
chiamata a svolgere in campo educativo nel richiamo alla maieutica
socratica, al suggerire, al sollecitare più che trasmettere nozioni e
contenuti.
Ivi, p. 615.
Ivi, p. 604.
106 B. CROCE, Come nacque e morì il marxismo teorico in Italia (1895- 1900). Da lettere e
ricordi personali, in ID., Materialismo storico ed economia marxista, Bari, Laterza, 1968, p.
275.
107 A. LABRIOLA, Carteggio V 1899- 1904, cit. p. 178
108 ID.,
Proletariato e radicale, in Id., Scritti politici 1886-1904, a cura di V.
Gerratana, Bari, Editori Laterza, 1970, pp. 218-224.
104
105
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
61
Da questo punto di vista la prima opera da richiamare è il saggio del
1871, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele. Un
Socrate che per Labriola con le sue domande sollecita la ricerca,
l’ampliamento dell’indagine; un’esigenza di ricerca che «non ammette
risultati improvvisati o impost[i] semplicemente di autorità»109. La
ricerca non è mai esaurita, la «vita diventa ricerca»110. Un Socrate
pertanto che educa educandosi; l’incertezza che produce negli altri è la
sua incertezza, ed in questo modo realizza conoscenza per se e per gli
altri.
Socrate spinge l’interlocutore a cercare la verità in se stesso; il
Socrate-Labriola, nell’ambito della relazione che si stabiliscono tra gli
uomini; un’indagine che per il Socrate-Labriola socialista diventa
collettiva e affonda nei rapporti sociali di produzione.
Ma Socrate è anche colui che suggerisce al Cassinate, ormai
comunista critico, di affidare agli intellettuali il compito di sollecitatori e
critici sul piano teorico, rigorosi censori sul piano morale; maestri che la
democrazia sociale non esclude, diversamente dai capi nel senso
giacobino della parola111.
Il «nostro maestro Socrate» quindi; e quando «l’ozio» sarà
«ragionevolmente cresciuto per tutti, darà a tutti, con le condizioni della
libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la paresse […] farà spuntare ad
ogni angolo di strada dei perditempo di genio che, come il [pedagogo
ateniese] saranno operosissimi di operosità non messa a mercede»112
Un secondo fondamentale passaggio è dato da Dell’insegnamento della
storia (1871), il più herbartiano dei saggi del Labriola, un’opera che
affida alla didattica il compito «per mezzo dell’istruzione [di] suscitare
l’interesse immediato, multiforme e concentrato per le cose del mondo
esteriore e interiore»113.
Come nel 1876 anche nei Saggi la didattica «non è attività che
produca nudo effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è
quell’attività che generi altra attività». In più, ritornando allo scritto del
1871, insegnando «noi riconosciamo, come nocciolo primo di ogni
ID., Il Socrate e altri scritti, in ID., Scritti pedagogici, cit., p. 115.
Ivi, p. 120.
111 Cfr. A. LABRIOLA, Carteggio III 1890- 1895, cit. p. 33.
112 ID., La concezione materialistica della storia, cit. p. 179.
113 A. LABRIOLA, Dell’insegnamento della storia, in ID., Scritti pedagogici, cit. p. 262.
109
110
62
Capitolo primo
filosofare sia sempre il socratismo; ossia la virtuosità generativa dei
concetti»114.
Ciò che qualifica l’insegnamento della storia quale suscitatore di
interesse è il portare «l’attenzione dell’educando nel bel mezzo del
lavoro sociale»115, indirizzando la riflessione sulla quotidianità, sull’arte,
sulla cultura tecnica, nonché sulla sfera giuridico-statale, come parte del
più generale lavorio sociale. Rilevante è il rapporto che Labriola
stabilisce tra storia e geografia, «perché s’ingeneri nello spirito una piena
intuizione della plastica del suolo, come di campo a cui l’uomo viene
sovrimponendo i prodotti dell’operosità sua»116; è il «terreno artificiale»117
di cui scriverà nei Saggi.
Sul piano didattico-metodologico il Cassinate non esclude il ricorso
all’analogia presente/passato118, per quanto tale procedura presenti non
poche difficoltà, tanto nel rilevarle quanto per effetto dei pregiudizi di
varia natura; ma il «processo di narrazione» può avere anche carattere
«ascendente» o «regressivo», il che consente con «cotesta esposizione a
linee ascendente, o regressiva [di] giungere fino al cominciamento
dell’età moderna, cioè fino alla scoperta dell’America, alla rinascenza
letteraria ed artistica del Quattrocento, alla riforma religiosa e alla
costituzione delle grandi monarchie»119.
Ma tutto l’insegnamento, per quanto è possibile, va svolto ricorrendo
alle fonti della ricostruzione storica, che comprendono tra l’altro la lirica,
l’oratoria, la stessa storiografia e filosofia, «che pur largamente accolsero
nello spirito loro gli elementi vivi della civiltà»120..
Un insegnamento incentrato sulla ricerca, ricerca che sul piano
specificatamente storiografico è incessante ed è con tale realtà che gli
educatori sono chiamati a misurarsi121; i «maestri» tutti, anche coloro che
tali vogliono essere per il movimento operaio e che non possono ridurre
il marxismo a «onniscienza»122
Convinzioni che vengono confermate poi in L’Università e la libertà
della scienza, dove rivolgendosi agli studenti, afferma il diritto di questi
ID., La concezione materialistica della storia, cit. p. 280.
Cfr. ID., Dell’insegnamento della storia, in ID., Scritti pedagogici, cit. p. 277.
116 Ivi, p. 290.
114
115
117
ID., La concezione materialistica della storia, cit. p. 75.
Cfr. ID., Dell’insegnamento della storia, in Id., Scritti pedagogici, cit. p. 275.
119 Ivi, p. 315.
120 Ivi, p. 293.
121 Cfr. ivi, p. 291- 294.
122 A. LABRIOLA, Carteggio IV 1896 - 1898, cit. p. 641.
118
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
63
ultimi di partecipare alla discussione scientifica, di diventare «cooperatori
nostri in questo lavoro […] sotto l’insegna di quella libera e
spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un
tempo»123.
Ebbene, se l’Università è spazio di cooperazione perché non
rintracciare nei Saggi i luoghi dove il concetto è ripreso esplicitamente e
implicitamente insieme alla categoria di lavoro? Suddividendo la lettura
dei tre saggi tra più studenti, al fine di coglierne la complessità del
termine, il significato e la fonte a cui il Labriola attinge; evidente per lo
studioso ma non per lo studente.
L’educazione come “accomodazione sociale”.
L’università, pertanto, come luogo di libera e partecipata ricerca,
come il socialismo è ricerca collettiva di una nuova dimensione sociale e
culturale.
Ed è anche alla luce di tale concezione del socialismo che vanno
considerate le obiezioni che muove nel 1891 a Turati che non riguardano
il gradualismo, la messa in atto di una qualche strategia politica
riformista che tenga conto dell’arretratezza italiana, ma l’eclettismo della
direzione politico-culturale turatiana, tanto nel partito quanto nella
rivista. Per Labriola va prodotta un’esposizione “netta” della dottrina e
ogni iniziativa va sottoposta alle assemblee operaie; si tratta, tra l’altro,
dei presupposti educativi alla democrazia sociale, ed è ciò che può
consentire al movimento operaio di conseguire quella autonomia
culturale e politica necessaria anche per eventuali accordi con le frange
più avanzate della borghesia.
Se il riformismo turatiano non sembra porsi la questione della
formazione di un gruppo dirigente operaio, tale esigenza emerge dalle
preoccupazioni del Labriola, rintracciabile nella funzione che attribuisce
agli intellettuali («maestri» ma non «capi») che, in parte, chiarisce il suo
antigiacobinismo ma soprattutto l’impegno educativo teso alla conquista
dell’ autonomia culturale e politica del movimento operaio e socialista.
L’Italia infatti non sconta solo l’arretratezza economica e sociale ma
anche quella culturale e per la parte politica Labriola sottolinea
l’inconsistenza di una cultura specificatamente socialista. Ed è con i
Saggi che si propone di avviare il lavoro necessario a colmare tale
123 A. LABRIOLA, L’Università e la libertà della scienza, in ID., Scritti pedagogici, cit.,
pp. 615 – 616.
64
Capitolo primo
lacuna, testi preceduti ed accompagnati da lezioni incentrate sul
materialismo storico e svolte nei corsi universitari.
« Bisogna scriver libri per istruire quelli che vogliono farla da
maestri»124 tenendo conto delle urgenze politiche – culturali a cui fare
fronte.
A questo punto del discorso il docente potrebbe sollecitare gli
studenti ad esaminare un gruppo di lettere che consentono di cogliere
elementi utili a ricostruire il contesto, la storia esterna dei Saggi, i
propositi politico-pedagogici125 dell’autore
Riprendendo il filo del ragionamento appena interrotto, in presenza
di un movimento socialista ancora affetto da bakuninismo è necessario
chiarire che il comunismo non fabbrica le rivoluzioni, non può essere
ridotto ad un movimento insurrezionalista, ma, anche attraverso
l’educazione, il socialismo deve essere il risultato dell’azione degli stessi
proletari, di una prassi sì ma in realtà solo partecipe del processo storico.
D’altronde è la «società tutta intera [che] in un momento del suo
processo generale scopre la causa del suo fatale andare»126 e «la
coscienza teorica del socialismo sta oggi, come prima, e come sarà
sempre, nella intelligenza della sua necessità storica»127.
Se le «idee non cascano dal cielo»128, se non saltano «fuori […] a guisa
d’immediati
effetti
automatici»
dalla
«sottostante
struttura
129
economica» , allora, certo, si tratta di intendere la storia «tutta
integralmente»130; ma la « praxis» rimane una partecipazione al «fare
delle cose» e alla «parte sana e verace del movimento socialistico
[soprattutto nella specifica situazione italiana] non è dato per ora dalle
124ID.,
Carteggio III 1890-1895, cit., p. 228.
Potrebbero essere esaminate, ad esempio, le lettere ad Engels del 21 febbraio
1891, del 21 maggio 1892, del 3 agosto 1892, del 2 settembre 1892, del 30 maggio
1895; a Benedetto Croce del 5 maggio 1895, del 16 maggio 1895, del 16 febbraio 1896,
del marzo 1896, del 23 aprile 1896, dell’11 settembre 1896, del 12 aprile 1897; a
Richard Fischer del 12 novembre 1893; a Victor Alder del 6 gennaio 1894 e del 18
agosto 1896 ; a Luise Kautsky del 10 marzo 1894; a Wilhelm Ellenbogen del 7 giugno
1986; a Luise e Karl Kautsky del 3 luglio 1896; a Romeo Soldi del 31 agosto 1986; a
Kautsky del 10 settembre 1896 e ad Eduard Bernstein del 24 settembre 1896 (Cfr. A.
Labriola, Carteggio, III – IV, cit.)
126 A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, cit., p. 27
127 Ivi, p. 15.
128 Ivi, p. 97
129 Ivi, pp. 94-95
130 Ivi, p. 70.
125
Antonio Labriola e la politica come opera pedagogica
65
circostanze altro ufficio da quello in fuori di preparare la educazione
democratica del popolo minuto»131, educazione ridotta ad
«accomodazione sociale»132 .
È la rinuncia ad educare in un quadro che vede l’elaborazione
filosofica e pedagogica del Cassinate irretita nelle maglie della dialettica
hegeliana, in una concezione epigenitica della storia che vede
il
movimento reale come succedersi di neoformazione ma secondo una
sequenza necessaria. Di conseguenza «più larghi si fanno i confini del
mondo borghese, più popoli vi entrano, abbandonando e sorpassando le
forme inferiori di produzione, ed ecco che più precise e sicure
divengono le aspettative del comunismo»133. Compito assegnato ai
«popoli attivi» ma la cui pedagogia vale solo per i «nipoti e pronipoti»
mentre per il «papuano», metafora dei popoli colonizzati, l’unica
«pedagogia del caso» è farlo «schiavo». È così che la «storia [si
conferma] signora di noi tutti».
Un modo, denuncia Gramsci, di pensare meccanico e retrivo, una
rinuncia ad educare, mentre per l’intellettuale sardo la pedagogia va
assunta a elemento costitutivo la «riforma [morale e intellettuale] dei
tempi moderni»134. Chiamata a «sollevare continuamente nuovi strati di
massa ad una vita culturale superiore»135, a facilitare e promuovere «lo
sviluppo dal basso in alto», a elevare «il livello di cultura nazionale popolare»136, a tradurre quantità in qualità e viceversa. Una pedagogia
ritmata dalla III Tesi su Feuerbach, che deve svolgersi secondo le
coordinate
della
«riduzione
reciproca»,
un'attività
di
insegnamento/apprendimento da cui l’educatore risulta a sua volta
educato. Un «rapporto attivo, di relazioni reciproche» che rende ogni
«maestro [ ... ] sempre scolaro e ogni scolaro maestro», il che riguarda
l’insieme delle relazioni da stabilire tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti137. Ma soprattutto
tra quelli che Labriola chiamava «popoli attivi» e «popoli passivi»138,
intendendo per attivi coloro che «posero le premesse e dettero la prima
potente avviata alla pressante espansione e gara veramente
Ivi, p. 27.
Ivi, p. 136.
133 Ivi, p. 55
134 Ivi, p. 1292.
135 Ivi, p. 1863.
136 Ivi, p. 821.
131
132
137
Cfr. ivi, pp. 1331-1332.
138 A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, cit., p. 324
66
Capitolo primo
mondiale»139. Ma sono gli ultimi citati a segnare sempre più in
profondità le vicende storiche più recenti, che di fatto richiedono un
sistema più avanzato e, per molti aspetti, inedito di relazioni sociali e
culturali, alimentato dall’intrecciarsi di culture diverse, dal confronto tra
una pluralità di percorsi di vita. È questo che più di ogni altra cosa dà
senso al rapporto tra «scuola e vita», tra scuola e realtà sociale, non
identificabile semplicemente nel sistema delle imprese quando la
ricchezza collettiva dipende sempre di più dallo sviluppo delle
individualità sociali, dal bagaglio di saperi e competenze ma soprattutto
da quell’insieme di relazioni umane che ne sono il presupposto.
139
Ivi, p. 348
Antonio Labriola, la politica come opera pedagogica
TEMI TRATTATI
1) Il Labriola riformatore, impegnato sul terreno culturale, scolastico,
universitario nonché sociale e politico;
2) Il pedagogista e «maestro perpetuo»
3) L’educazione come “accomodazione sociale”.
1) Il Labriola riformatore
-
La lotta all’analfabetismo, la questione sociale e la scuola popolare.
-
L’ordinamento della scuola popolare in diversi paesi (1881).
-
Della scuola popolare (1888).
La scuola popolare come «necessario […] complemento della
democrazia».
Una scuola popolare «dovrebbe durare otto anni» (A. Labriola,
Lezioni di pedagogia, 1888-1889).
-
La «preparazione dei maestri».
«Facciamo che il comune non sia più una congrega, o quissimile di
corporazioni di pochi eletti da pochissimi elettori, anzi diventi e
sia vera rappresentanza degli intrecci sociali della collettività degli
abitanti»
-
La Tesi sulla laurea in filosofia (1887)
La filosofia non deve essere «un completamento obbligatorio della
storia e della filologia [ …]. Alla filosofia ci si deve poter arrivare
68
Capitolo secondo
didatticamente per qualunque via, come per qualunque via ci
arrivarono i veri filosofi».
-
L’Università e la libertà della scienza (1896)
«Non c’è modo di stabilire limiti preconcetti […] allo sviluppo
dell’attività scientifica», ma i professori «non devono confondere
l’attività loro con quella dell’apostolato, del propagandista
dell’agitatore».
«La scienza è lavoro» e l’«Italia ha bisogno di progredire
materialmente, moralmente, intellettualmente»,
«Noi non siamo qui ad usurpare le parti di direttori della civiltà, e
di iniziatori della storia». «Anche noi professori […] siam vissuti
dalla storia; che è la sola e reale signora di noi tutti».
Il «socialismo italiano» Labriola lo intese «come un mezzo: 1) per
sviluppare il senso politico delle moltitudini; 2) per educare quella
parte di operai che sono educabili alla organizzazione di classe; 3)
per opporre alle varie camorre che si chiamano partiti una forte
compagine popolare; 4) per costringere i rappresentanti del
governo alle riforme economiche utili per tutti»
(Lettera a Pasquale Villari del 13 novembre 1900).
Quanto sopra spiega l’adesione al socialismo che si porta dietro
gran parte dell’ opera pedagogica precedente.
2) La pedagogia del Labriola
₋ La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele
(1871) ovvero «Il nostro maestro Socrate » (20 aprile 1897)
₋ Dell’insegnamento della storia
«Per mezzo dell’istruzione suscitare l’interesse immediato,
multiforme e concentrato per le cose del mondo esteriore e
interiore» (1876).
Antonio Labriola, la politica come opera pedagogica
69
«La didattica non è quell’attività, che produca un nudo effetto di
cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella attività, che generi
altra attività» (15 settembre 1897).
È necessario portare «l’attenzione dell’educando nel bel mezzo del
lavorio sociale».
Il metodo «ascendente o regressivo».
La «notizia […] attinta direttamente dalla coscienza degli uomini
che furono principali autori e spettatori degli avvenimenti».
₋ L’Università e la libertà della scienza:
Gli studenti «cooperatori nostri in questo lavoro che è il più
gradito e nobile che capiti ad un uomo di esercitare
ordinatamente».
3) L’educazione come «accomodazione sociale».
₋
Il socialismo come ricerca collettiva che richiede in primo
luogo la conoscenza dei fondamenti della dottrina, un comune
sentire politico-culturale.
₋
Il rapporto con Turati: il partito e la «Critica e sociale».
₋
«Scriver libri per quelli che la voglion fare da maestri» (lettera
ad Engels del 3 agosto 1892)
₋
In memoria del Manifesti dei Comunisti (1895)
₋
«La società tutta intera […] in un momento del suo processo
generale scopre la causa del suo fatale andare».
Del materialismo storico. Delucidazione preliminare (1896).
70
Capitolo secondo
«Le idee non cascano dal cielo» ma non saltano «fuori […] a
guisa d’immediati effetti automatici» dalla «sottostante
struttura economica».
«Si tratta di intendere integralmente la storia».
₋
Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898)
La « praxis» come partecipazione al «fare delle cose»
«Alla parte sana e verace del movimento socialistico […] non è
dato per ora dalle circostanze altro ufficio da quello in fuori di
preparare la educazione democratica del popolo minuto»
L’educazione come «accomodazione sociale» .
₋
La concezione epigenetica della storia e l’educazione dei
popoli colonizzati: ovvero «l’educazione del papuano».
Le idee non cascano dal cielo
Le «idee non cascano dal cielo», è quanto Labriola afferma in una
pagina del secondo saggio, Del materialismo storico. Delucidazione
preliminare: le idee, infatti,
come ogni altro prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze, in
tale precisa maturità dei tempi, per l’azione di determinati bisogni, e pei
reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione, e col ritrovamento di tali e tali
altri strumenti di prova, che sono come gl’ strumenti della produzione ed
elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali,
ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro.
Spostare quelle e questo ossia, le idee ed il pensiero, dalle condizioni e
dall’ambito di loro proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il
significato140.
Per ciò che concerne poi l’educazione, la definizione è netta:
«l’educazione nel lato senso della parola» è «accomodazione sociale, può
modificare sì, entro certi limiti»141.
C’è una pedagogia , direi individualistica e soggettiva, la quale, supposte le
condizioni generiche della perfettibilità umana, costruisce delle regole astratte,
per mezzo delle quali gli uomini, che sono in via di formazione, sarebbero
condotti ad essere forti coraggiosi, veritieri, giusti, benevoli, e così via per tutta
la distesa delle virtù cardinali e secondarie. Ma può essa la pedagogia
soggettiva, costruire da sé il terreno sociale sul quale tutte coteste belle cose
avrebbero a realizzarsi? Se lo costruisce, essa disegna semplicemente un’utopia.
Perché davvero il genere umano, nel rigido corso del suo divenire, non ebbe
mai tempo e modo di andare a scuola da Platone o da Owen, da Pestalozzi o da
Herbart. Anzi ha fatto come gli è stato forza di fare. Gli uomini, che presi in
astratto son tutti educabili e perfettibili, si son perfezionati ed educati sempre
quel tanto, e nella misura che essi potevano, date le condizioni di vita in cui è
stato loro necessità di svolgersi. Se mai, questo è appunto il caso in cui la parola
ambiente non è metafora, e l’uso del termine accomodazione non è un traslato.
La morale effettiva ci si presenta sempre come qualcosa di condizionato e di
140 A. LABRIOLA, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, in ID., La
concezione materialistica della storia, cit., p. 98.
141 Ivi, p. 136.
72
Capitolo terzo
limitato, che la fantasia ha cercato poi di superare, o escogitando le utopie, o
creando un soprannaturale pedagogo, o una miracolosa redenzione142.
Quindi le condizioni in cui gli uomini si formano «son date dal
circostanziato ambiente sociale»,
l’uomo sviluppa, ossia produce se stesso, non come ente genericamente fornito
di certi attributi, che si ripetono o si svolgono secondo un ritmo razionale; ma
produce e sviluppa se stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza
ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche
determinate correnti di idee, di opinioni, di credenze, di fantasia, di
aspettazioni, di massime143.
Allo stesso tempo però, prendendo con chiarezza le distanze da ogni
economicismo, il Cassinate precisa che
Solo l’amore del paradosso, inseparabile sempre dallo zelo degli
appassionati divulgatori di una dottrina nuova, può aver indotto alcuni nella
credenza che tanto a scrivere la storia bastasse di mettere in evidenza il solo
momento economico (spesso non accertato ancora, e spesso non accertabile
affatto), per poi buttar giù tutto il resto come inutile fardello, di cui gli uomini
si fossero caricati a capriccio, come accessorio, insomma, o come semplice
bagattella o a dirittura come non ente.
La storia, al contrario, «bisogna intenderla tutta integralmente, […] in
essa nocciolo e scorza fanno uno», d’altronde
Nella nostra dottrina non si tratta già di ritradurre in categorie economiche
tutte le complicate manifestazioni della storia, ma si tratta solo di dispiegare in
ultima istanza (Engels) ogni fatto storico per via della sottostante struttura
economica (Marx): la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e
composizione144.
Insomma
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 130.
144 Ivi, pp. 69-70.
142
143
Le idee non cascano dal cielo
73
Per noi sta, cioè, indiscusso il principio, che non le forme della coscienza
determinano l’essere dell’uomo, ma il modo d’essere appunto determina la
coscienza (Marx). Ma queste forme di coscienza, come son determinate dalle
condizioni di vita, sono anch’esse la storia 145.
Il rapporto struttura – sovrastrutture si presenta in tutta la sua
complessità e reciprocità, ma la storia ha le sue regole e i suoi vincoli a
cui non possiamo sottrarci per semplice volontà, la storia è «signora di
noi uomini tutti»146, afferma nella prolusione del 1896, L’Università e la
libertà della scienza.
Una visione dei processi storici che si spiega alla luce della lunga
citazione tratta dalla Prefazione del 1859 di Carlo Marx a Per la critica
dell’economia politica e riprodotta nel primo saggio labrioliano, In
memoria del Manifesto dei Comunisti (1895).
I rapporti giuridici e le forme politiche dello stato non possono intendersi, né
per se stessi, né per mezzo del così detto sviluppo generale dello spirito umano;
ma anzi hanno radice nei rapporti materiali della vita, [ …] Nella produzione
sociale [pertanto] gli uomini entran fra loro in rapporti determinati, necessari ed
indipendenti dal loro arbitrio, cioè in rapporti di produzione, i quali
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di
produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della
società, ossia la base reale, su la quale si eleva una soprastruzione politica e
giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza.
La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi e
soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la
coscienza degli uomini che determina il suo essere, ma è l’incontro del suo
essere sociale che determina la sua coscienza.
Per quanto poi riguarda il «trapasso»,
A un determinato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della
società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti di produzione
(cioè coi rapporti della proprietà, il che è l’equivalente giuridico di tale
espressione), dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’eran mosse. Questi
rapporti della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive, si
Ivi, p. 72
A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, Utet,
1981, p. 604.
145
146
74
Capitolo terzo
convertono in loro impedimenti. E allora subentra un’epoca di rivoluzione
sociale.
Ma una
formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi rapporti di
produzione non subentrano, se prima le condizioni materiali di loro esistenza
non siano state covate nel seno della società che è in essere. Per ciò l’umanità
non si propone se non quei problemi che essa può risolvere; perché, a
considerare le cose dappresso, si vede, che i problemi non sorgono, se non
quando le condizioni materiali per la loro soluzione ci son già , o si trovano per
lo meno in atto di sviluppo147.
La ricerca collettiva
In questa visione del mondo incentrata su una storia come «il fatto
dell’uomo»148 che non cede però «all’arbitrio soggettivo, che annunci
una correzione, proclami una riforma, o formuli un progetto» 149 ,
all’educazione politica, formale e istituzionale, l’herbartiano Labriola
affida un ruolo centrale.
Rivolgendosi al Turati in una lettera del 21 aprile 1890, nel tempo
della loro breve collaborazione, afferma che
Non si deve […] mai rinunziare alla discussione di nessun atto politico o
provvedimento politico, che implichi interesse sociale, perché giova che i
borghesi si persuadano che noi siamo l’embrione del futuro partito socialista, e
perché i proletari si abituino a questo sentimento, che se la democrazia sociale
esclude i capi, nel senso giacobino della parola, non esclude i maestri. Anzi!150
Gli intellettuali maestri quindi, ma consapevoli che il marxismo non
può «essere la visione intellettuale di un gran piano o disegno, ma […]
ID., In memoria del Manifesto dei Comunisti, in Id., La concezione materialistica
della storia, cit. pp. 29- 30
148 ID., Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, in op. cit. p. 76.
149 ID., In memoria del Manifesto dei Comunisti, in op. cit. p. 30.
150 ID., Carteggio III 1890 – 1895, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003, p.
33.
147
Le idee non cascano dal cielo
75
un metodo di ricerca e di concezione»151, un «filo conduttore per leggere la
storia e inserire nel “multiforme intreccio di accidenti e di incidenze”
della vicenda italiana l’avvento di una “società senza antitesi di
classe”»152. Un socialismo quindi non utopistico ma, come scrive nella
conclusione dell’ultima lettera a Sorel, del 1897, impegnato «di continuo
a misurare le resistenze del mondo effettuale, e a studiar di continuo il
terreno, sul quale ci è imposto di aprirci la non facile né morbida via»153.
Anche per questo si mantenne fedele al convincimento, comunicato al
Turati sempre nel 21 aprile del 1890, che il
partito operaio si deve venir costituendo per l’azione spontanea dei lavoratori
messi in opposizione col capitalismo dalle stesse condizioni di fatto, e dalla
propaganda condotta con oculatezza. Noi socialisti, dirò così, teorici possiamo
offrire le armi più generali e comuni, ma non possiamo e non dobbiamo turbare
il movimento operaio con proposte anticipate, premature, astratte 154.
Il socialismo è concepito come conquista del sapere, come uno sforzo
comune, come un colloquio continuo, ecco che il suggerire più che dire,
l’aver suscitato idee piuttosto che sistemato dottrine, l’aver insegnato a
pensare piuttosto che inculcato pensieri è ciò che caratterizza la
pedagogia e la didattica dell’autore dei Saggi155; un’idea di insegnamento
che trae esempio proprio dal maestro della maieutica.
All’intellettuale quindi il compito di partecipare ad una indagine che
deve acquistare i caratteri di impresa comune, intendendo il socialismo
nei termini di abolizione del «salariato», di «associazione che non
produce merci», non di «stato, anzi [nel] suo opposto, ossia il reggimento
tecnico e pedagogico della convivenza umana, il selfgovernment del
lavoro»156.
151 A. LABRIOLA, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, in
ID., La
concezione materialistica della storia, cit., p. 85.
152 E. GARIN, A scuola con Socrate. Una ricerca di Nicola Siciliani de Cumis, Firenze,
La Nuova Italia, 1993, p. 75.
153 A. LABRIOLA, Discorrendo di socialismo e di filosofia, in ID., La concezione
materialistica della storia, cit., p. 285.
154 A. LABRIOLA, Carteggio III 1890 – 1895, cit., p. 33.
155 Cfr. V. ORSOMARSO, Il progresso intellettuale di massa, con una Presentazione di
N. Siciliani de Cumis, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, p. 43.
156 A. LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei comunisti, ID., La concezione
materialistica della storia, cit., p. 37.
76
Capitolo terzo
Ma il Labriola è personalità complessa e la sua elaborazione mostra i
limiti che, dopo tutto sono propri del primo socialismo, che per le
condizioni in cui opera non può darsi «altro ufficio da quello in fuori di
preparare la educazione democratica del popolo minuto»157.
In questa prospettiva va la lettera a Pasquale Villari del 13 novembre
1900.
Non mi sono mai sognato che il socialismo italiano fosse leva per
rovesciare il mondo capitalistico. A ciò non crede nessuno nel mondo civile, e
soprattutto non ci credono i socialisti di altri paesi. Io ho inteso sempre il
socialismo italiano come un mezzo: 1) per sviluppare il senso politico delle
moltitudini; 2) per educare quella parte di operai che sono educabili alla
organizzazione di classe; 3) per opporre alle varie camorre che si chiamano
partiti una forte compagine popolare; 4) per costringere i rappresentanti del
governo alle riforme economiche utili per tutti. Il resto della propaganda
socialista, nel senso specifico della parola, non può avere effetto pratico quanto
all'Italia che per le generazioni di là da venire158.
L'insufficienza del socialismo italiano è prodotto della debolezza del
capitalismo nostrano, pertanto solo il pieno sviluppo della premessa
capitalistica può dare ragione della trasformazione dei rapporti sociali di
produzione.
Da qui, per quanto riguarda sempre il presente, il mettere l'accento
sui problemi dell'educazione e della formazione ideologica e politica
delle masse, che deve chiarire, agli stessi lavoratori, la situazione e
favorirne quindi la partecipazione al moto storico, «al fare delle cose»159.
Il Labriola parla della
necessità di premere sul governo liberale su l'opinione pubblica, sul parlamento
[...] per arrivare a ciò che in altri paesi chiamasi politica sociale, [...], ad ottenere
delle leggi che diano stabilità di diritto di riunione, di sciopero, di resistenza, e
carattere di permanenza a quelle nuove istituzioni spontanee che sono le Leghe,
le Camere del lavoro, ecc.160.
A. LABRIOLA, Discorrendo di socialismo e di filosofia, in ID., La concezione
materialistica della storia, cit., p. 285.
158 ID., Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Bari, Laterza, 1970, pp. 463-464.
159 A. LABRIOLA, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p. 233.
160 ID., Scritti politici, cit., p. 482.
157
Le idee non cascano dal cielo
77
Ampliare la sfera delle garanzie sociali, rafforzare e rendere duraturi i
luoghi di autodeterminazione e quindi di formazione e autoformazione
politica dei lavoratori è quanto Labriola va affermando; ma allo stesso
tempo, e la lettera al Villari lo testimonia, manca l'indicazione di una
prospettiva politica in grado di assumere la soluzione dei problemi vitali
e decisivi del paese, da quelli di una nuova politica internazionale a
quelli del Mezzogiorno, di una riforma agraria, e così via.
«Come fareste a educare moralmente un papuano?»
Ma i limiti del pensiero labrioliano non riguardano solo una
considerazione dell’agire politico, nelle condizioni date, circoscritto
all’«educazione democratica del popolo minuto» ma soprattutto
l’assunzione del colonialismo ad un passaggio ineludibile ai fini del
pieno dispiegarsi dello sviluppo delle forze produttive capitalistiche,
quale presupposto della costruzione socialista.
Per quanto riguarda l’«educazione del papuano», la testimonianza è
di Benedetto Croce, conviene intanto farlo schiavo, «e questa sarebbe la
pedagogia del caso, salvo a vedere se ai nipoti e ai pronipoti si potrà
cominciare ad applicare qualcosa della pedagogia nostra»161.
Una affermazione che rende evidente una pedagogia fortemente
condizionata dall’incrinarsi del rapporto tra libertà e necessità a favore
di quest’ultima. D’altra parte, a proposito di colonialismo, Labriola nel
1890 in una lettera al deputato Alfredo Baccarini162 sollecitava tutti
coloro che si erano opposti all’impresa del Mar Rosso, a discutere a cose
fatte del modo di ordinare la colonia.
Teniamo la terra a titolo di proprietà di Stato, ed aspettiamo, studiando. Si
faccia di creare un sistema di coltivazione, o diretta o sussidiata. Proviamo le
forme della partecipazione o della Cooperativa.
B. CROCE, Conversioni critiche, Serie I e II, 4 edizione, vol. II, Bari, Laterza,
1950, pp. 60-61.
162 La lettera è del 24 febbraio 1890 e venne pubblicata sul foglio fiorentino Il
Risveglio, del 9 marzo 1890; il testo in questione insieme alle obiezioni di Turati e alla
replica di Labriola (apparse, con il titolo La questione sociale e la Colonia Eritrea, in
Cuore e Critica, 16 aprile 1890) è compresa sotto il titolo cumulativo Un esperimento di
socialismo Pratico? In A. LABRIOLA, Scritti politici. 1886 – 1904, a cura di V. Gerratana,
Bari, Laterza, 1970, pp. 199- 208, nonché in A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, a
cura di F. Sbarberi, vol. I, Torino, Einaudi, 1973, pp. 107-115.
161
78
Capitolo terzo
Il caso è vergine non precipitiamo.
Questa terra non offre imbarazzi di tradizione e di diritti acquisiti:
occasione ottima per un esperimento di socialismo pratico […].
Affrettiamo in tutti i modi i passi; perché non ci capiti come nel secolo
decimosesto, quando, date le armi del nostro ingegno e dell’umanismo al
mondo civile, noi cademmo proprio al sorgere della nuova Europa 163.
Ancora, nel 1897,
Non brontolino i socialisti: anzi mettano sicuro piede sulla terra ferma della
politica. Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale, e la Tripolitania è a ciò
indicatissima. Pensino che duecentomila proletari all’anno emigrano dall’Italia,
senza indirizzo e senza difese, e ricordino che non ci può essere progresso nel
proletariato, là dove la borghesia è incapace di progredire.
L’Italia nella «concatenazione economico-politica del mondo civile
attuale», «con condizione relativamente passiva […] in tutti gli anni
anteriori al 1870, nei quali le altre nazioni direttive posero le premesse e
dettero la prima potente avviata alla presente espansione e gara […]
mondiale»164, «non può volontariamente sequestrarsi dalla storia, dopo che
per secoli ne era stata messa fuori dai fati»165.
L’intervista apparsa sul «Giornale d’Italia» del 13 aprile 1902, rende
espliciti i limiti del Labriola, che non riesce ad elaborare un concreto e
autonomo percorso politico, arrivando ad affidare la soluzione del
problema dell’emigrazione alla conquista della Tripolitania; per il
Cassinate la «nostra impresa sarà vera, se oltre a portare in Tripolitania
soldati e funzionari, appaltatori e monopolisti, noi troveremo la via e il
modo di trasportarci i lavoratori».
Perché questo accada è necessario che
il capitale ivi importato ed impiegato metta a disposizione dei lavoratori un
salario sufficiente. I nostri contadini del Mezzogiorno che, spopolando interi
paesi corrono negli Stati Uniti, seguono la legge fatale del più alto salario, e per
quanto la Tripolitania non sia l’Eritrea, certo ci vorrà molta abilità, molto saper
fare, molti aiuti, molti incoraggiamenti, molte concessioni per spingere in massa
A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit. pp. 109-110.
A. LABRIOLA Da un secolo all’altro, ID., La concezione materialistica della storia, cit.,
p. 348.
165 ID., Sulla questione di Tripoli, in Id. Scritti filosofici e politici, cit., p. 959.
163
164
Le idee non cascano dal cielo
79
i nostri emigranti a rivolgersi verso la Tripolitania: il che vorrebbe dire che essi
non sarebbero più emigranti, una volta che andrebbero a popolare una nuova
patria166.
Una posizione che soccorre e sostiene le pesanti obiezioni gramsciane
alla pedagogia del Labriola: sebbene quest’ultimo debba «essere rimesso
in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico [del
problema della filosofia della praxis]» debba «predominare»167, la
risposta in merito all’educazione del papuano rende evidente il modo di
pensare «piuttosto meccanico e retrivo» del Labriola.
Così nelle Conversazioni Critiche (Serie Seconda), pp. 60 – 61: “Come fareste a
educare moralmente un papuano?” domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al
prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando contro
l’efficacia della Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana ed
hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo;
e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e
pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”.
Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla
questione coloniale (Libia) verso il 1903168 e riportata nel volume degli Scritti
vari di filosofia e politica. E’ da avvicinare al modo di pensare del Gentile per ciò
che riguarda l’insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare che si tratti di
uno pseudo – storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto
vicino al più volgare evoluzionismo. Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertando
Spaventa a proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla
(cioè nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e
pensano tutta la vita (degli altri) come una culla. Mi pare che storicamente il
problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale
che è giunto ad un grado superiore di civiltà non possa (quindi debba)
«accelerare» il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più
arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova
esperienza.
Ivi, p. 964.
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura
di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 309.
168 In realtà, come avverte Valentino Gerratana,
l’intervista sulla questione
coloniale, citata a memoria da Gramsci, è quella del 1902, come da noi sopra
riportato (A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 2815)
166
167
80
Capitolo terzo
Ebbene, continua Gramsci,
quando gli inglesi arruolano reclute tra popoli primitivi, che non hanno mai
visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute all’impiego dell’arco,
del boomerang, della cerbottana, ma proprio le istruiscono al maneggio del
fucile, sebbene le norme di istruzione siano necessariamente adatte alla
«mentalità» di quel determinato popolo primitivo.
Pertanto alla luce di tale argomentazione, il
modo di pensare implicito nella risposta dal Labriola non pare […] dialettico e
progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello «pedagogico religioso» del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la
«religione è buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase primitiva del
pensiero cui corrisponde la religione ecc. ) cioè la rinunzia (tendenziosa) a
educare il popolo […]. Che nelle scuole elementari sia necessaria una
esposizione «dogmatica» delle nozioni scientifiche o sia necessaria una
«mitologia» non significa che il dogma debba essere quello religioso e la
mitologia quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale
arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per l’essere
educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù […]. C’è
una coercizione di tipo militare anche per il lavoro 169, che si può applicare anche
alla classe dominante, e che non è «schiavitù», ma l’espressione adeguata della
Pedagogia moderna rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensì
immaturo, ma è tale vicino ad elementi già maturi, mentre la schiavitù
organicamente è l’espressione di condizioni universalmente immature). Lo
Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i
«sofismi» storicistici delle classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una
concezione ben più progressiva e dialettica che non il Labriola e il Gentile 170.
169 Gramsci allude agli esperimenti di «Esercito del lavoro» realizzati nei primi
anni della Russia sovietica, verso la fine della guerra civile e del periodo del
«comunismo di guerra»
170 A. GRAMSCI, op. cit. pp. 1366 – 1368. Su alcuni aspetti del rapporto, per
analogia e differenza, tra Labriola e Bertrando Spaventa si veda di N. SICILIANI DE
CUMIS, Il “tecnico” e “l’educativo” da Spaventa a Labriola, in «Scuola e città», 31 marzo
1996, pp. 99- 111. Per quanto poi concerne un itinerario di ricerca relativo al
Gramsci critico del Gentile, si rimanda al saggio dello stesso studioso, Prime note per
una ricerca didattica su Gramsci, Gentile, l’educazione, in G. SPADAFORA (a cura di ),
Giovanni Gentile, Roma, Armando Editore, 1997, pp. 565-580.
Le idee non cascano dal cielo
81
Bertrando Spaventa in Principii di etica aveva dichiarato che «“la culla
non è la vita”»; per Gramsci un «esempio tipico della culla che diventa
tutta la vita è offerto dal protezionismo doganale, che è sempre
propugnato e giustificato come “culla” ma tende a diventare culla
eterna »
Sebbene sia evidente il riferimento alla formazione intellettuale e
morale della borghesia italiana, la nota richiama il tema gramsciano di
una alternativa pedagogica storicamente fondata.
Hegel aveva affermato che la servitù è la culla della libertà. Per Hegel, come
per Machiavelli, il “principato nuovo” (cioè il periodo dittatoriale che
caratterizza gli inizi di ogni nuovo Stato) e la connessa servitù sono giustificati
solo come educazione e disciplina dell’uomo non ancora libero. Però B.
Spaventa (Principi di etica, Appendice, Napoli, 1904) commenta
opportunamente: «ma la culla non è la vita . Alcuni ci vorrebbero sempre in
culla» 171
Il «conformismo meccanico» e il «conformismo dinamico»
E’ anche il tema del conformismo o meglio dei due conformismi: un
«conformismo meccanico» che «rinunzia [...] a educare»172 ad un autonomo sviluppo, a cui si contrappone un «conformismo dinamico» che non
solo adatta l'individuo all'ambiente ma lo educa a dominarlo173.
Il «conformismo - scrive Gramsci - è sempre esistito» e «significa [...]
niente altro che “socialità”»174, e assumendo di fatto la questione della
costruzione del socialismo Gramsci precisa che il compito
educativo e formativo dello Stato […] ha sempre il fine di creare nuovi e più alti
tipi di civiltà, di adeguare la “civiltà” e la moralità delle più vaste masse
popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di
produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità.
Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e
Ivi, p. 1378.
Ivi, pp. 1366-1367.
173 Cfr. M.A. MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci, Roma, Armando
Editore, 1970, p. 379.
174 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 1720.
171
172
82
Capitolo terzo
come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la
collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione?175
E ancora, «Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia
pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è
veramente difficile e arduo»176. Se ciò è possibile il «nuovo mondo in
gestazione»177non può che «sorgere dal basso», in modo che tutti i
soggetti interessati partecipino «ad un fatto storico radicale che investe
tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente dinanzi alle
proprie responsabilità»178; ad un’azione «dall’alto» va affiancato il
«metodo della libertà ma non inteso in senso liberale»179.
La nota citata fa riferimento al periodo risorgimentale e alla classe
dirigente del tempo che impedì «sistematicamente che un tal fenomeno
avvenisse»180 nell’epoca considerata, ma è su questa questione di metodo
che si gioca la costruzione del socialismo perché sia possibile «creare un
“conformismo”, un uomo collettivo senza scatenare una certa misura di
fanatismo, senza creare dei “tabù”, criticamente insomma, come
coscienza di necessità liberamente accettata perché “praticamente”
riconosciuta tale»181.
Mutare quindi «la natura dell’uomo», quale «insieme dei rapporti
sociali che determinano una coscienza storicamente definita»182, fare
«“libertà” di ciò che è necessario». A tale fine però «occorre riconoscere
una necessità “obiettiva”, cioè che sia obbiettiva precipuamente per il
gruppo in parola. Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di
produzione, ad un determinato tipo di civiltà economica»183; «il punto di
riferimento per il nuovo mondo in gestazione» è «il mondo della
produzione, il lavoro»184.
Ebbene, l’americanismo e il fordismo non sono che parte, la più
avanzata, della «storia dell'industrialismo», che « è sempre stata (e lo
Ivi, pp. 1565-1566.
Ivi, p. 1720.
177 Ivi, p. 862. Con questa espressione Gramsci fa riferimento tanto allo stato
sovietico quanto al movimento rivoluzionario internazionale.
178 Ivi, p. 815.
179 Ibidem
180 Ivi, p. 816.
181 Ivi, p. 1834.
182 Ivi, p. 1874.
183 Ivi, p. 1875.
184 Ivi, p. 862.
175
176
Le idee non cascano dal cielo
83
diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta
contro l’elemento “animalità” dell'uomo, un processo ininterrotto», di
«soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a
sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più
complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello
sviluppo dell’industrialismo»185.
La nuova organizzazione produttiva e sociale è solo la fase più
avanzata di un processo iniziato con lo stesso industrialismo, fase più
«intensa» e «brutale» delle precedenti, ma è anche il terreno più
avanzato di scontro, infatti gli industriali americani hanno «capito che
“gorilla ammaestrato” è una frase, che l’operaio, rimane “purtroppo”
uomo». Non solo, ma una volta che ha superato «la crisi di adattamento
e non è stato eliminato», il non avere soddisfazioni immediate dal lavoro
e il comprendere «che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può
portare a un corso di pensieri poco conformisti»186. Tale preoccupazione
è all’origine di una serie di attività educative rivolte a fare dell’azienda il
centro psicologico della vita operaia; ma le iniziative puritane degli
industriali americani tipo Ford non si preoccupano dell'«umanità» e
della «spiritualità» del lavoro, che viene schiacciata nel processo di
razionalizzazione della produzione, hanno come unico interesse quello
di conservare, fuori dal lavoro, «un certo equilibrio psico-fisico che
impedisca il collasso psico-fisico del lavoratore, spremuto dal nuovo
metodo di produzione».
A questo punto di particolare intensificazione dell’industrialismo
Gramsci dichiara nettamente il rifiuto di ogni critica romantica; la sfida
va portata là dove si manifesta il punto più alto dello sviluppo
capitalistico, iniziando ad individuarne le contraddizioni su cui operare.
Ed allora sottolinea come l’equilibrio psico-fisico a cui mirano gli
industriali del tipo di Ford non possa essere «che puramente esteriore e
meccanico». I risultati finora ottenuti, seppure di incontestabile valore
pratico «sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati
una “seconda natura”». Un mutamento effettivo nei comportamenti e
nei costumi non può avvenire per «coercizione brutale, cioè attraverso il
dominio di un gruppo sociale su tutte le forze produttive della
società»187 ma potrà diventare «interiore se esso sarà proposto dal
Ivi, pp. 2160-2161.
A. GRAMSCI, Quadeni del carcere, cit., p.2171.
187 Ivi, p. 2161.
185
186
84
Capitolo terzo
lavoratore stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di
società con mezzi appropriati e originali»188.
Pertanto la tendenza di Leone Davidovi, relativamente alla «volontà
di dare la supremazia nella vita nazionale, all’industria e ai metodi
industriali», risultava «troppo “risoluta”» nell’«accelerare, con mezzi
coercitivi esteriori, la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare
i costumi alle necessità del lavoro».
Le preoccupazioni di Davidovi «erano giuste, ma le soluzioni
pratiche erano profondamente errate»; con riferimento soprattutto alla
specifica situazione sovietica189, il
principio della coercizione, diretta e indiretta, nell’ordinamento della
produzione e del lavoro è giusto […] ma la forma che esso aveva assunto era
errata: il modello militare era diventato un pregiudizio funesto e gli eserciti del
lavoro fallirono190.
Sebbene i nuovi metodi di lavoro siano indissolubili da un
determinato modo di vivere, di pensare e di sentire, e sebbene ciò renda
giusto, in determinate situazioni storiche, il principio della coercizione
diretta e indiretta nell'ordinamento della produzione, tale «tendenza»
non può essere prevalente. L’esserlo diventata, e l’esperienza sovietica
era lì a testimoniarlo, ha prodotto «necessariamente […] una forma di
bonapartismo, quindi la necessità inesorabile di stroncarla» 191.
La prospettiva gramsciana è tutta da ricercare in un «sistema di vita
“originale” e non di marca americana, per far diventare “libertà” ciò che
oggi è “necessità”». Un compito che spetta a «quelli che stanno creando
Ivi, pp. 2165-2166.
Gramsci sembra che, per fare i conti con gli indirizzi politici di Stalin, scelga,
«di misurarsi con le analisi e le linee strategiche di Trockij. Il programma di Stalin,
fin dal 1924, si era caratterizzato per la priorità assegnata all’industrializzazione
dell’Urss. Sebbene la sua ascesa si verificasse nel quadro della Nep, che Stalin non
contestava, l’industrializzazione fu la parola d’ordine con cui egli costruì il consenso
alla propria affermazione. Polemizzare con Trockij, quindi, offriva a Gramsci
l’occasione di confutare i fondamenti delle scelte di Stalin» (G. VACCA, Con Gramsci,
Roma, Carocci, 1999, p. 224).
190 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 2164.
191 Ibidem. Cesarismo o bonapartismo, «formula polemica – ideologica e non
canone di interpretazione storica», allude al modello istituzionale che ha preso
corpo dall’immedesimazione del partito con lo Stato (Cfr. G. VACCA, op. cit. p.215).
188
189
Le idee non cascano dal cielo
85
per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo
nuovo ordine»192.
Un percorso che la storia «italiana prima del ’22» dimostrava
possibile, in quanto proprio il movimento dei consigli si era fatto
portatore delle «nuove e più moderne esigenze industriali»193.
Per Gramsci, come dicevamo, il confronto con la nuova fase di sviluppo della razionalizzazione produttiva è ineludibile in quanto parte più
avanzata di un movimento teso ad accrescere la produttività sociale del
lavoro. La questione è quella della riappropriazione, facendo leva su
quella soggettività operaia che è il limite della nuova organizzazione del
lavoro e più in generale del modo di produzione capitalistico. A tale
scopo si impone la rottura del nesso che lega le «esigenze dello sviluppo
tecnico con gli interessi della classe dominante», un’unità che è «solo
una fase storica dello sviluppo industriale» che pertanto «deve essere»
concepita «come transitoria [ ... ], l’esigenza tecnica può essere pensata
concretamente separata dagli interessi della classe dominante, non solo
ma unita con gli interessi della classe ancora subalterna». A tale scopo è
funzionale il nuovo tipo di intellettuale, una figura che deve diffondersi
tramite l’insieme dell'apparato educativo e scolastico.
A quest’ultimo proposito il lavoro è assunto ancora a motivo centrale
di una nuova visione del mondo, ma non qualsiasi lavoro; l’educazione
tecnica, «strettamente legata al lavoro industriale», deve costituire la
base del nuovo tipo di intellettuale194.
Un'idea di formazione che non può riguardare ristretti gruppi
dirigenti, ma che deve guidare il progresso intellettuale di massa, un
processo educativo volto a rendere, uomo - massa o uomo collettivo,
individuo sociale dotato di un certo grado di maturità e capacità di
creazione intellettuale e pratica.
192
Ivi, p. 2178.
Ivi, p. 2156. «In realtà le maestranze italiane, né come individui singoli né
come sindacati, né attivamente né passivamente, non si sono mai opposte alle
innovazioni tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del
lavoro, all’introduzione di automatismi più perfetti e di più perfette
organizzazioni tecniche del complesso aziendale. […]. Un’analisi accurata della
storia italiana prima del ’22 e anche prima del ’26, che […] sappia cogliere i
motivi profondi del movimento operaio, deve giungere alla conclusione
obbiettiva che proprio gli operai sono stati i portatori delle nuove e più
moderne esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente».
194 Ivi, p. 1551.
193
86
Capitolo terzo
Per quanto poi riguarda la scuola quest'ultima deve proporsi di
conseguire «un certo grado di maturità e capacità», di «creazione
intellettuale e pratica e di autonomia nell'orientamento e
nell'iniziativa»195. Però Gramsci avverte che in questo campo va
rivendicato «con una certa energia il dovere delle generazioni adulte,
cioè dello Stato, di “conformare” le nuove generazioni [...]. La scuola
creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a
disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di
“conformismo” che si può chiamare “dinamico”», che è tale proprio
perché a partire dalla «“collettivizzazione” del tipo sociale» tende ad un
più elevato sviluppo morale e intellettuale dei soggetti in formazione196,
alla piena realizzazione della tendenza democratica, di una «persona
capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige»197.
E’ evidente come le note gramsciane sollevino alcuni fondamentali
quesiti che riguardano il principio educativo che deve orientare l’attività
di insegnamento e apprendimento, la concreta strategia di articolazione
del conformismo dinamico, il rapporto didattica – ricerca, i termini in
cui realizzare il rapporto scuola - formazione superiore – lavoro –
mercato del lavoro.
Questioni tutte, oggi, da riconsiderare alla luce dai mutamenti
prodotti dalla chiamata in produzione del sapere diffuso, dall’incalzare
di un modo di produzione strutturato sul general intellect.
Ivi, p. 1534.
Ivi, p. 1537.
197 Ivi,
p. 1547. «La tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo
significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino”
può diventare “governante” e che la società lo pone, sia pure “astrattamente”, nelle
condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far
coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei
governanti), assicurando ad ogni governato l’apprendimento gratuito della capacità
e della preparazione tecnica generale necessaria».
195
196
L’alternativa gramsciana
Tra le note dei Quaderni che consentono di cogliere la radicale critica
che Antonio Gramsci esercita nei confronti della cultura politica e
pedagogica italiana tra Ottocento e Novecento c’è, senza alcun dubbio,
la più volte discussa educazione del papuano. Un passaggio in cui, come
abbiamo già sottolineato, la risposta del Cassinate198, di cui il prigioniero
del fascismo aveva apprezzato l’impegno a liberare la filosofia della
praxis da ogni sostegno filosofico esterno, è avvicinata al modo di
pensare del Gentile, alla filosofia su cui poggia la più fascista delle
riforme del regime.
A tal proposito il tema gramsciano di una alternativa pedagogica
storicamente fondata che «sta a significare, nuovo, “altro”» tanto da
Gentile199 quanto da Croce; il primo «meno ipocritamente [del secondo],
e più conseguentemente, ha rimesso l’insegnamento della religione nelle
scuole elementari […] e ha giustificato il suo atto con la concezione
hegeliana della religione come filosofia dell’infanzia dell’umanità».
Benché della scuola elementare se ne fosse occupato Giuseppe
Lombardo Radice, Giovanni Gentile vi aveva lasciato il suo segno.
Questa scuola doveva essere per lui «“religiosa e poetica, legata alle
forme venerande delle credenze religiose ma aperta e pronta alle
suggestioni e ispirazioni della poesia e dell’arte”». È facile riconoscere
gli echi del «sistema» filosofico gentiliano, con la sua serie arte religione - filosofia, meccanicamente trasferita dalla vita dello «Spirito»
alle età dell’uomo: la scuola elementare, scuola del fanciullo (ma perciò
scuola del popolo, cioè dei molti che non ne avranno altra), è la scuola
che si ispira all’arte e alla religione, nella presunzione appunto di un
«“Come fareste a educare moralmente un papuano?” domandò uno di noi
scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia,
obiettando contro l’efficacia della Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con
vichiana ed hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei
schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e
pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”».
198
Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Prime note per una ricerca didattica su Gramsci,
Gentile e l'educazione, in G. SPADAFORA (a cura di), Giovanni Gentile, cit., pp.
565-580.
199
88
Capitolo quarto
«popolo-fanciullo», al quale non può essere dato di elevarsi al pensiero
filosofico200.
Gentile «nel volume sul “Modernismo”, si dice sulle tracce di
Schopenhauer, che la religione è la filosofia della moltitudine, mentre la
filosofia è la religione degli uomini più eletti, cioè dei grandi
intellettuali»201.
Su questo terreno non c’è grande distanza tra Gentile e Benedetto
Croce, anzi «il programma scolastico del Croce, caduto per vicende
parlamentari del governo Giolitti 1920 – 21 […] rispetto alla religione»
non sembra a Gramsci «molto diverso da quello che fu il programma
Gentile»202.
Cfr. M. A. MANACORDA, Momenti di storia della pedagogia, Torino, Loescher,
1977, p. 169. La scuola del Gentile, precisa Manacorda nelle stesse pagine, fu
una scuola assai scarsamente preoccupata di espandersi alla totalità degli
individui, era «differenziata precocemente in canali diversi per i diversi gruppi
sociali, priva per i molti di ogni possibilità di sbocchi ulteriori di studio,
centrata sulla formazione settoriale e ristretta per i futuri produttori, sulla
cultura umanistica per i futuri governanti» (ivi, pp. 167 – 168). Le scuole
secondarie vanno quindi separate, disposte «in una netta gerarchia, che dalla
scuola privilegiata, il ginnasio-liceo classico, scende via via fino alla scuola
senza cultura e senza sbocchi». D’altronde «“non tutte le scuole devono
preparare ad altre scuole”, al proletariato si darà dunque una scuola senza
sbocco, la scuola complementare triennale, così denominata perché complemento
(e chiusura) della scuola elementare. Essa risulta dallo smembramento della
vecchia scuola professionale, il cui deprecabile ibridismo didattico era nel fatto
di esser “costretta a servire due padroni”, essendo insieme fine a se stessa e
preparazione all’istituto tecnico» (ivi, p.173). Accanto alle scuole complementari
sorgono le altre scuole: l’istituto tecnico, l’istituto magistrale, il liceo femminile,
il liceo scientifico, il liceo classico, ciascuna separata dall’altra per tutti i sette o
otto anni della sua durata. Una architettura che si propone di «ribadire e
cristallizzare la divisione sociale, dal momento che ogni ceto ha la sua scuola e
che si evita come il peggiore dei mali la “sovraproduzione intellettuale”» (ivi, p.
176).
200
201
202
Ivi, p. 1490.
Ivi, p. 1295.
L’alternativa gramsciana
89
Per una nuova riforma intellettuale e morale
La «cultura moderna», infatti, «specialmente idealistica, non riesce ad
elaborare una cultura popolare, non riesce a dare un contenuto morale e
scientifico ai propri programmi scolastici, che rimangono schemi astratti
e teorici; essa rimane la cultura di una ristretta aristocrazia intellettuale».
Esempio classico e precedente alla modernità
è indubbiamente quello del Rinascimento in Italia e della riforma nei paesi
protestanti. Nel volume Storia dell’età barocca in Italia, […], il Croce scrive: «il
movimento della Rinascita era rimasto aristocratico […] e nella stessa Italia, che
ne fu madre e nutrice, non uscì dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo,
non divenne costume o “pregiudizio”, ossia collettiva persuasione e fede. La
Riforma, invece, ebbe bensì questa efficacia di penetrazione popolare, ma la
pagò con un ritardo del suo intrinseco sviluppo, con la lenta e più volte
interrotta maturazione del suo germe vitale»203.
Il liberalismo ha riprodotto un «Rinascimento angustamente ristretto
a pochi gruppi intellettuali»204 ma per «un largo gruppo di intellettuali
italiani ed europei» la filosofia di Croce,
specialmente nelle sue manifestazioni meno sistematiche […], è stata una vera e
propria riforma intellettuale e morale di tipo «Rinascimento». «Vivere senza
religione» (e s’intende senza confessione religiosa) è stato il succo che il Sorel ha
tratto dalla lettura del Croce […]. Ma Croce non è «andato verso il popolo», non
è voluto diventare un elemento «nazionale» (come non lo sono stati gli uomini
del Rinascimento, a differenza dei luterani e dei calvinisti), non ha voluto creare
una schiera di discepoli che […] potessero popolarizzare la sua filosofia,
tentando di farla diventare un elemento educativo fin dalle scuole elementari (e
quindi educativo per il semplice operaio e contadino, cioè per il semplice uomo
del popolo).
«Forse ciò era impossibile», continua Gramsci nella stessa nota, «ma
valeva la pena che fosse tentato e il non averlo tentato ha pure un
significato». In realtà c’è nell’affermazione crociana che non si possa
«“togliere la religione all’uomo del popolo, senza subito sostituirla con
qualcosa che soddisfi le stesse esigenze per cui la religione è nata e
ancora permane”», la riproposizione del «vecchio principio che la
203
204
Ivi, p. 1858.
Ivi, p. 1293.
90
Capitolo quarto
religione è necessaria per il popolo»; quello stesso principio tradotto
pedagogicamente dal Gentile205.
Croce di fronte alla «diffusione della filosofia della praxis», che è
«una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale ciò che
il liberalismo non è riuscito a compiere che per ristretti ceti della
popolazione», assume la posizione di Erasmo («“dove appare Lutero,
muore la cultura”»), dell’uomo del Rinascimento verso la Riforma
protestante con la differenza che Croce rivive una posizione «che
storicamente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso (e i suoi
scolari: cfr. il volume del De Ruggiero su Rinascimento e Riforma ) ha
contribuito a dimostrare falsa e reazionaria» 206.
Alla filosofia della praxis assunta a «grande riforma dei tempi
moderni»207 il compito quindi di «sollevare continuamente nuovi strati
di massa ad una vita culturale superiore»208. Facilitare e promuovere «lo
sviluppo dal basso in alto», elevare
«il livello di cultura
nazionale-popolare», che rende «possibile una selezione di "cime
intellettuali" su più vasta area»209, di «costituire il proprio gruppo di
intellettuali indipendenti»210 che sono organici alle masse «nella misura
in cui elaborano e rendono coerenti i principi e i problemi che [le]
masse» pongono «con la loro attività pratica costituendo così un blocco
culturale e sociale».
Nella costruzione di una nuova civiltà un ruolo essenziale è giocato
tanto dalla formazione dei gruppi dirigenti quanto delle masse, per
Gramsci si tratta è vero di lavorare alla «elaborazione di una élite, ma
questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi
masse», le «due attività sono in realtà una sola attività» il che «rende
difficile il problema»211 e richiede una vasta e complessa trama educativa
e autoeducativa, un processo che deve svolgersi secondo le coordinate
della «riduzione reciproca», di un'attività pedagogica da cui l’educatore
risulta a sua volta educato.
L’elemento «“spontaneo”» non va trascurato ma va «educato [ ...]
indirizzato, [ ...] purificato» da tutto ciò che è estraneo», «per renderlo
omogeneo, ma in modo, vivente, storicamente efficiente con la teoria
Ivi, p. 1294-1295.
ivi, p. 1293.
207 Ivi, p. 1292.
208 Ivi, p. 1863.
209 Ivi, p. 821.
210 Ivi, p. 1858.
211 Ivi, p. 892.
205
206
L’alternativa gramsciana
91
moderna». In sostanza ai «movimenti così detti “spontanei”» è necessario dare «una direzione consapevole», per «elevarli ad un piano
superiore inserendoli nella politica».
Va stabilita però 1'«unità» tra «spontaneità» e «direzione
consapevole»; tra i «sentimenti “spontanei” delle masse» e le teoria
moderna non può esserci opposizione, «tra di essi c'è differenza
quantitativa, di grado, non di qualità: deve essere possibile una
“riduzione”, per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e
viceversa»212.
Un punto di vista che Gramsci conferma nell'esame del rapporto tra
maestro e scolaro secondo l’impostazione moderna «della dottrina e
della pratica pedagogica». Un «rapporto attivo, di relazioni reciproche»
che rende ogni «maestro[ ... ] sempre scolaro e ogni scolaro maestro», il
che riguarda l’insieme delle relazioni da stabilire tra ceti intellettuali e
non intellettuali, tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti213.
Sono i termini di un processo politico e formativo in cui si esprime
il proposito di realizzare una radicale «tendenza democratica» e che non
può non strutturarsi su concrete premesse materiali, anche da qui la
necessità di misurasi con la nuova fase di sviluppo della
razionalizzazione produttiva, in quanto parte più avanzata di un
movimento teso ad accrescere la produttività sociale del lavoro.
Quale il punto di riferimento per un nuovo mondo in gestazione? Il mondo
della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni
analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere:
la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo
rendimento dell’apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle
nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le
contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo
“conformismo” dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina,
cioè di libertà anche individuale214.
La questione che Gramsci pone è quella della riappropriazione,
facendo leva sulla soggettività operaia che è il limite della nuova
organizzazione del lavoro e più in generale del modo di produzione
Ivi, pp. 328-331.
Ivi, pp. 1331-1332.
214 Ivi, p. 863.
212
213
92
Capitolo quarto
capitalistico. A tale scopo si impone la rottura del nesso che lega le
«esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe
dominante», un’unita che è «solo una fase storica dello sviluppo
industriale» che pertanto «deve essere» concepita «come transitoria [ ... ],
l’esigenza tecnica può essere pensata concretamente separata dagli
interessi della classe dominante, non solo ma unita con gli interessi della
classe ancora subalterna». A tale scopo, come abbiamo già precisato, è
funzionale un nuovo tipo di intellettuale, una figura che deve
diffondersi tramite l’insieme dell'apparato educativo e scolastico,
chiamato ad assumere il lavoro a motivo centrale di una nuova visione
del mondo, ma non qualsiasi lavoro. Infatti l’educazione tecnica,
«strettamente legata al lavoro industriale», deve costituire la base del
nuovo tipo di intellettuale, che «dalla tecnica-lavoro giunge alla
tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si
rimane
“specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista +
215
politico)» .
Un’idea di formazione che trova tracce visibili nella pedagogia dei
«fondatori della filosofia della praxis»: «educazione e fabbricazione»,
scrive Engels nel Principi del comunismo. La produzione collettiva per
Engels come per Marx non può essere effettuata da chi non può che
esplicare una sola delle sue facoltà a detrimento delle altre, da chi è
diventato «un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede
soltanto un’operazione manuale estremamente semplice, monotona,
facilissima da imparare»216. L’istruzione a cui pensa Engels nei Principi
dovrà mettere in grado i giovani di dominare tutto il sistema della
produzione, di esercitare tutti i rami della produzione, di passare
successivamente da un ramo dell’industria all’altro, secondo le esigenze
della società o proprie inclinazioni; verrà così tolto il carattere di
unilateralità a cui «l’odierna divisione del lavoro condanna tutti» .
Nel Manifesto, tra le misure che il proletariato dovrà prendere,
quando assumerà il ruolo di classe dominante, l’istituzione di una
«Istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini. Abolizione del lavoro
infantile nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione fra
istruzione e produzione materiale ecc.». Sono alcune delle misure che
Ivi, p. 1551.
Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, traduzione e introduzione di
Domenico Losurdo, Bari, Laterza, 1999, p. 15.
215
216
L’alternativa gramsciana
93
dovrànno consentire il passaggio ad una produzione concentrata nelle
mani degli individui associati217.
L’unione dell’istruzione con il lavoro produttivo è ripresa e
approfondita nelle Istruzioni ai delegati del Comitato provvisorio
londinese al I Congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori
a Ginevra. L’argomento è quello dell’istruzione da intendersi come
formazione spirituale, fisica e politecnica, che trasmetta cioè «i
fondamenti scientifici generali di tutti i processi di produzione»218.
Temi ampiamente ripresi da Lenin, ma mentre per Marx, come
emerge da alcune pagine dei Grundrisse, la rottura rivoluzionaria si
colloca ai livelli più alti dello sviluppo capitalistico, gran parte del
pensiero rivoluzionario del Novecento si è posto necessariamente il
problema della creazione dei presupposti materiali per la transizione al
socialismo; oltre ai temi leniniani relativi all’uso sovietico del taylorismo,
diventano particolarmente eloquenti della complessità con cui si misura
il comunismo novecentesco le pagine gramsciane sull’americanismo,
questione con cui Gramsci si confronta fin dai tempi de «L’Ordine
Nuovo» e su cui ritorna nei Quaderni219.
L’americanismo di marca non americana
Il ciclo delle lotte operaie del primo dopoguerra sembrava rendere
evidente come la classe dominante non possedesse più un ceto di
imprenditori capace di governare la produzione industriale; «gli imprenditori» si erano «pervertiti con la speculazione bancaria» e «perduto
la capacità di organizzare e di amministrare le grandi masse d'officina».
La classe operaia, quantunque non avesse l’esperienza, la «maturità»
politica e tecnica della classe dominante tuttavia riusciva «meglio della
classe borghese a gestire la produzione». Il capitalismo sembrava
rappresentare «disorganizzazione, rovina, disordini in permanenza».
Non esisteva, secondo il giovane Gramsci, per le forze produttive altra
via di scampo che «nell'organizzazione autonoma della classe operaia
sia nel dominio dell’industria che nel dominio dello Stato»220.
Ivi, p. 37.
M. A. MANACORDA (a cura di ), Il marxismo e l’educazione. Marx, Engels , Lenin,
Roma, Armando Armando Editore. 1964, p. 84.
219 Cfr. V. ORSOMARSO, Il progresso intellettuale di massa, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2007, pp. 185-215.
220 A. GRAMSCI, Socialismo e fascismo, Torino, Einaudi, 1967, p. 542.
217
218
94
Capitolo quarto
È la necessità della rivoluzione, che scaturisce dal carattere
catastrofico che la crisi sembrava aver assunto. Una concezione crollista
del tutto specifica, non viziata da economicismo ma che si precisa per
l’essere, la crisi, risultato di una incoercibile volontà di potenza operaia
che la guerra aveva rafforzato, accelerando così l’avvenire221.
La separazione tra funzione dirigente e proprietà, propria della fase
monopolistica, evidenzia l'inessenzialità storica del capitalista, quindi la
contraddizione che mina l'intero sistema, tra socialità della produzione e
appropriazione privata del prodotto sociale.
La «classe proprietaria del capitale si è allontanata dal lavoro e dalla
produzione [ ... ], ha perduto la coscienza della sua primitiva unità»222.
Mentre la «classe operaia ha acquistato un altissimo grado di autonomia
nel campo della produzione»223, si è liberata dalla «suggestione del
“capo”» e dallo «spirito servile di gerarchia»224.
La formidabile concentrazione operaia ha posto fine «al regno della
concorrenza nel mercato della forza - lavoro [ ... ]. La libertà del
capitalista viene limitata e circoscritta», la crisi è data dal sottrarsi
dell'operaio al comando del capitalista e la soluzione non può che consistere nell’espulsione di quest'ultimo dalla fabbrica e nella conquista
proletaria dello Stato, ai fini di una trasformazione che doveva acquisire
i caratteri di un moto di estensione della razionalità della fabbrica
all'insieme della cooperazione sociale e produttiva.
Come nell'officina l’operaio subisce continuamente esami che lo portano
innanzi o lo respingono indietro se perde le sue capacità, così i comunisti
tendono ad applicare questo concetto a tutte le forme di attività sia manuale che
intellettuale225.
221
Cfr. A. GRAMSCI, La città futura, a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi, 1992,
p. 28.
ID., L’Ordine Nuovo, 1919- 1920, cit., p. 325.
Ivi, p. 416.
224 Ivi, p. 535.
225 Ivi, A. GRAMSCI, Socialismo e fascismo, cit. p. 524. Affermazioni che ritornano
successivamente, infatti per conseguire il fine sopra indicato è necessario che «la
disciplina del lavoro, la puntualità, la precisione, ecc. ecc.» vengano considerati
dalla classe operaia «come cosa propria, come qualità e caratteristica che non sono
più legate allo sfruttamento di una classe su di un’altra, ma allo stesso esercizio del
potere di una classe operaia emancipata» (A. GRAMSCI, La costruzione del Partito
comunista, Torino, Einaudi, 1971, p. 328).
222
223
L’alternativa gramsciana
95
Negli scritti dell'Ordine Nuovo, prima e seconda serie, la prospettiva
di un governo operaio, della fabbrica si saldava, come dicevamo, alla
convinzione che la borghesia capitalistica non fosse in grado di
riacquistare il proprio ruolo dirigente nella sfera produttiva. Nei Quaderni lo scenario risulta decisamente mutato; le vicende storiche
precedenti il carcere, la sconfitta della rivoluzione nei paesi
capitalisticamente avanzati, le difficoltà di costruzione del socialismo in
Unione Sovietica, la reazione fascista in Italia, hanno fatto giustizia di
ogni automatismo sociale e l’americanismo e il fordismo «risultano dalla
necessità immanente [all’economia capitalista] di giungere all'organizzazione di una economia programmata», di passare «dal vecchio
individualismo economico all’economia programmatica»226.
Siamo ormai ben lontani dalla incapacità del capitalismo di
governare e sviluppare ulteriormente le forze produttive, nonostante le
contraddizioni e le resistenze presenti nel vecchio continente227.
Inoltre, il metodo Ford a Gramsci pare «razionale» 228, cioè «deve generalizzarsi», perciò diventa «necessario un processo lungo, cui avvenga un
mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle
abitudini individuali e ciò che non può avvenire con la sola
“coercizione”». La questione di fondo per Gramsci è quella di
individuare un percorso che possa consentire un nuovo e inedito
«conformismo», una nuova e più elevata « “socialità” », «conformismo
significa [ …] niente altro che “socialità”»229.
Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato
aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che
condividono uno stesso modo di pensare e operare. Si è conformista di un
qualche conformismo, si è sempre uomini – massa o uomini – collettivi230.
Assumendo di fatto la questione della costruzione del socialismo
Gramsci precisa che il compito
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 2139.
Ivi, p. 2141.
228 Per Gramsci esiste in proposito un criterio oggettivo di giudizio. Deve essere
considerato progressivo e quindi «razionale» qualsiasi mutamento «del modo di
essere e di vivere» capace di promuovere lo sviluppo delle forze produttive sociali.
229 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 1719.
230 Ivi, p. 1376.
226
227
96
Capitolo quarto
educativo e formativo dello Stato […] ha sempre il fine di creare nuovi e più alti
tipi di civiltà, di adeguare la “civiltà” e la moralità delle più vaste masse
popolari alle necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di
produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità.
Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell’uomo collettivo e
come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la
collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione?231
E ancora, «Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia
pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è
veramente difficile e arduo»232. Se ciò è possibile il «nuovo mondo in
gestazione»233 non può che «sorgere dal basso», in modo che tutti i
soggetti interessati partecipino «ad un fatto storico radicale che investe
tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente dinanzi alle
proprie responsabilità»234; ad un’azione «dall’alto» va affiancato il
«metodo della libertà ma non inteso in senso liberale»235.
L’ultima nota citata fa riferimento al periodo risorgimentale e alla
classe dirigente del tempo che impedì «sistematicamente che un tal
fenomeno avvenisse»236 nell’epoca considerata, ma è su questa questione
di metodo che si gioca la costruzione del socialismo perché sia possibile
«creare un “conformismo”, un uomo collettivo senza scatenare una certa
misura di fanatismo, senza creare dei “tabù”, criticamente insomma,
come coscienza di necessità liberamente accettata perché “praticamente”
riconosciuta tale»237.
Mutare quindi «la natura dell’uomo», quale «insieme dei rapporti
sociali che determinano una coscienza storicamente definita»238, fare «
“libertà” di ciò che è necessario». A tale fine però «occorre riconoscere
una necessità “obiettiva”, cioè che sia obbiettiva precipuamente per il
gruppo in parola. Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di
produzione, ad un determinato tipo di civiltà economica»239.
Ivi, pp. 1565- 1566.
Ivi, p. 1720.
233 Ivi, p.862. Con questa espressione Gramsci fa riferimento tanto allo stato
sovietico quanto al movimento rivoluzionario internazionale.
234 Ivi, p. 815.
235 Ibidem.
236 Ivi, p. 816.
237 Ivi, p. 1834.
238 Ivi, p. 1874.
239 Ivi, p. 1875.
231
232
L’alternativa gramsciana
97
Ebbene, l’americanismo e il fordismo non sono che parte, la più
avanzata, della «storia dell'industrialismo», che « è sempre stata (e lo
diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta
contro l’elemento “animalità” dell'uomo, un processo ininterrotto», di
«soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a
sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più
complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello
sviluppo dell’industrialismo»240.
La nuova organizzazione produttiva e sociale è solo la fase più
avanzata di un processo iniziato con lo stesso industrialismo, fase più
«intensa» e «brutale» delle precedenti, ma è anche il terreno più
avanzato di scontro.
Pertanto il confronto con la nuova fase di sviluppo della
razionalizzazione produttiva è ineludibile in quanto parte più avanzata
di un movimento teso ad accrescere la produttività sociale del lavoro. La
questione è quella della riappropriazione, da questo punto di vista la
critica ad una certa pedagogia democratico - progressista nei Quaderni,
ma lo era stata già precedentemente, è netta: ai «movimenti culturali di
“andata verso il popolo” […] mancava […] ogni organicità sia di
pensiero filosofico, sia di saldezza organizzativa e di centralizzazione
culturale; si aveva l’impressione che rassomigliassero ai primi contatti
tra mercanti inglesi e negri dell’Africa: si dava merce di paccottiglia per
avere pepite d’oro»241.
Quando invece risultava indispensabile una educazione all’altezza
dei compiti spettanti al movimento operaio, a chi è chiamato a «trovare
il sistema di vita “originale” e non di marca americana, per far diventare
“libertà” ciò che oggi è “necessità”»242, in sostanza a gettare le basi di
una civiltà nuova.
Un proposito di tale complessità a cui non può certo contribuire «la
generica educazione delle masse»243 di Henri De Man. L’atteggiamento
dell’autore di Au dela du marxisme244 è
Ivi, pp. 2160 – 2161.
Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, pp. 1381 - 82.
242 Ivi, p. 2179.
243 Ivi, p. 1504.
244 Cfr. H. DE MAN, Il superamento del marxismo, a cura di Alessandro Schiavi, 2
voll., Bari, Laterza, 1929.
240
241
98
Capitolo quarto
quello “scientista” : egli si china verso il popolo non per comprenderlo
disinteressatamente ma per “teorizzare” i suoi sentimenti, per costruire schemi
pseudo-scientifici; non per mettersi all’unisono ed estrarre principi giuridico –
educativi, ma come lo zoologo osserva un mondo di insetti, come Maeterlinck
osserva le api e le termiti.
Il De Man ha la pretesa pedantesca di porre in luce e in primo piano i così
detti “valori psicologici ed etici” del movimento operaio; ma può ciò significare,
come pretende il De Man una confutazione perentoria e radicale della filosofia
della prassi? Ciò sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande
maggioranza degli uomini è ancora alla fase tolemaica, significhi confutare le
dottrine copernicane, o che il folclore debba sostituire la scienza. La filosofia
della praxis sostiene che gli uomini acquistano coscienza della loro posizione
sociale sul terreno delle ideologie; ha forse escluso il popolo da questo modo di
prendere coscienza di sé? Ma è osservazione ovvia che il mondo delle ideologie
è (nel complesso) più arretrato che non i rapporti tecnici di produzione: un
negro appena giunto dall’Africa può diventare un dipendente Ford, pur
mantenendosi per molto tempo un feticista e pur rimanendo persuaso che
l’antropofagia sia un modo di nutrirsi normale e giustificato. Il De Man, fatta
un’inchiesta in proposito, quali conclusioni ne potrebbe trarre? Che la filosofia
della praxis debba studiare oggettivamente ciò che gli uomini pensano di sé e
degli altri in proposito è fuori dubbio, ma deve supinamente accettare come
eterno questo modo di pensare? Non sarebbe
questo il peggiore dei
meccanicismi e dei fatalismi? Compito di ogni iniziativa storica è di modificare
le fasi culturali precedenti, di rendere omogenea la cultura a un livello
superiore del precedente ecc. In realtà la filosofia della prassi ha sempre
lavorato in quel terreno che il De Man crede di aver scoperto, ma vi ha lavorato
per innovare, non per conservare supinamente245.
La critica coinvolge anche Bucharin che Gramsci considera, al pari di
De Man, portatore di una concezione della formazione dei lavoratori
che può ostacolare la costruzione di una nuova civiltà. Per l’autore dei
Quaderni, nella concezione buchariniana delle scienza sociale i rapporti
tra gli uomini vengono intesi come «conformi a legge indipendente dalla
volontà dei soggetti» in maniera tale che la passività delle masse viene
addirittura presupposta e cristallizzata.
Quando invece compito della filosofia della prassi è innalzare,
elevare la cultura popolare, operare in direzione di quel «progresso
intellettuale di massa» che consente ad ognuno di elaborare la propria
245
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit. p. 1501.
L’alternativa gramsciana
99
concezione del mondo consapevolmente e criticamente, di «partecipare
attivamente alla produzione della storia del mondo»246.
Tendenza democratica e processi educativi
Da questo punto di vista scuole, università, accademie, luoghi di
lavoro, partiti e sindacati andrebbero assunti a luoghi di formazione –
autoformazione247, dove si dovrebbe affermare un nuovo principio e un
nuovo rapporto educativo, nella prospettiva di un nuovo indirizzo
sociale che può essere rintracciato nell’ «unità del lavoro manuale e
intellettuale»248.
L’inizio di un nuovo rapporto tra lavoro industriale e intellettuale
trova il suo presupposto nella «scuola unitaria», scuola unica «iniziale di
cultura generale, umanistica, formativa, che contemperi giustamente lo
sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente,
Ivi, p. 1376.
A proposito del partito, il rapporto da stabilire è di riduzione reciproca tra
spontaneità e direzione consapevole, «ossia della “disciplina” [che] è appunto la
azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non
semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa. Si presenta una
questione teorica fondamentale, a questo proposito: la teoria moderna po’ essere in
opposizione con i sentimenti “spontanei” delle masse? (“spontanei” nel senso che
non dovuti a un’attività creatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già
consapevole, ma formatosi attraverso l’esperienza illuminata dal “senso comune”
cioè dalla concezione popolare del mondo, quello che molto pedestremente si
chiama “istinto” e non è anch’esso che un’acquisizione storica primitiva ed
elementare). Non può essere in opposizione: tra di essi c’è differenza “quantitativa”,
di grado, non di qualità: deve essere possibile una “riduzione”, per così dire,
reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa ». E’ necessario non
rinunciare a dare «una direzione consapevole» ai «movimenti cosí detti
“spontanei”», «ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica»;
«l’elemento di “spontaneità”» va «educato, […] indirizzato, […] purificato da tutto
ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente,
storicamente efficiente, con la teoria moderna» (ivi, pp. 330 – 331). Sono i termini,
storicamente dati, in cui si esprime la pedagogia politica gramsciana, ma il processo
non è unidirezionale bensì di «“riduzione” per così dire, reciproca », si tratta di
«contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto» .. Ciò che rende possibile
il centralismo burocratico è la passività delle masse, «le manifestazioni morbose di
centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità
nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche» (ivi, p.1634).
248 Ivi, p. 1637.
246
247
100
Capitolo quarto
industrialmente) e lo sviluppo della capacità di lavoro intellettuale»249.
Su questa base si stabiliscono nuovi rapporti «tra lavoro intellettuale e
lavoro industriale non solo nella scuola, ma in tutta la vita sociale. Il
principio unitario si rifletterà perciò in tutti gli organismi di cultura,
trasformandoli e dando loro un nuovo contenuto»250.
Una relazione tra istruzione e lavoro, che Gramsci stabilisce
nell’ambito di una ipotesi di costruzione del socialismo così come
definibile nelle concrete condizioni storiche del Novecento, nella
prospettiva di un’educazione che consenta alle «classi strumentali e
subordinate» di assumere « un ruolo dirigente nella società, come
complesso e non come singoli individui»251.
Ma se per Marx la condizione della riappropriazione è data ed è
finalizzata alla «riduzione del tempo di lavoro a un minimo» ( il capitale
«malgré lui, è strumento di creazione della possibilità di tempo sociale
disponibile, della riduzione del tempo di lavoro per l’intera società a un
minimo decrescente si da rendere il tempo di tutti libero per lo sviluppo
personale»252 ) il silenzio di Gramsci, intorno a tale questione, sembra
essere indicativo del persistere di una cultura produttivistica di matrice
soreliana e di cui 1'ordinovismo era stato anche espressione.
In ogni caso la formazione di una nuova soggettività richiede un
articolato sistema di istruzione ed educazione permanente, tale da
consentire il «contemperamento armonioso di tutte le facoltà intellettuali
e pratiche»; perché l’uomo moderno possa essere
una sintesi di quelli che vengono ipostatizzati come caratteri nazionali:
l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando per così
dire, l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci
diventando uomo – massa o uomo collettivo pur mantenendo la sua forte
personalità e originalità individuale253.
Ivi, p. 1531.
Ivi, p. 1538.
251 Ivi, p. 1183.
252 K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»),
vol. I, a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, p. 720.
253 A. GRAMSCI, Lettere dal carcere.1926 – 1937, vol. II, a cura di A. A. Santucci,
Palermo, Sellerio editore, 1996, p. 601.
249
250
L’alternativa gramsciana
101
Ciò che si rende necessaria è quindi «un tipo di scuola che educhi le
classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente nella società come
complesso e non come singoli individui»254.
La «tendenza democratica» si realizza appieno quando la società
pone ogni cittadino nelle condizioni generali di poter diventare
governante; assicurando «a ogni governato l’apprendimento gratuito
della capacità e della preparazione tecnica generale necessaria al fine».
Mentre il tipo di scuola che si va sviluppando, quella gentiliana, tende a
«restringere la base del ceto governante tecnicamente preparato»,
favorendo, visto tra l’altro le condizioni politiche date, il ritorno «alle
divisioni di “ordini” giuridicamente fissati e cristallizzati più che al
superamento delle divisioni in gruppi»255.
Far coincidere governanti e governati, che poi coincide con il
riassorbimento dello Stato nella società civile, è invece la ragione
politicamente fondante l’impianto pedagogico e scolastico gramsciano.
Alla tendenza a ridurre ad un piccolo numero le scuole
«disinteressate» per consentire l’accesso ad una élite di uomini e donne,
e al crescente diffondersi delle scuole professionali specializzate, in cui il
destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminate, Gramsci
contrappone la scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica («in
senso largo e non solo nel senso tradizionale»), formativa «che temperi
giustamente lo sviluppo della capacita di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro
intellettuale»256 ; che abbia quale obiettivo quello di «immettere
nell'attività sociale i giovani dopo averli portati a un certo grado di
maturità e capacità, alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia
nell’orientarnento e nell'iniziativa»257.
A tale fine bisogna procedere dall’insegnamento «quasi puramente
dogmatico», che «tende a disciplinare, quindi anche a livellare», fino a
«ottenere una certa specie di “conformismo […] dinamico”», e
raggiungere la «fase creativa o di lavoro autonomo e indipendente [ ...]
in cui l’autodisciplina intellettuale e la autonomia morale è teoricamente
illimitata»258.
ID., Quaderni del carcere, cit., p. 1183.
Ivi, pp. 1547-1548.
256 Ivi, p. 1531.
257 Ivi, p. 1534.
258 Ivi, p. 1536. Ciò che Gramsci ipotizza è un percorso profondamente unitario e
di massa, basato su una scuola elementare ridotta altre o quattro anni e una scuola
media estesa a tutti per altri sei anni. Il grado elementare doveva assicurare non
254
255
102
Capitolo quarto
Conformismo dinamico dicevamo, tale perchè interessato alla
costituzione di una nuova soggettività umana, un percorso che implica
per Gramsci un adeguarnento plastico, al presente, nella prospettiva del
suo superamento. A partire proprio da nuovi rapporti da stabilire «tra
lavoro intellettuale e industriale non solo nella scuola ma in tutta la vita
sociale. Il principio unitario si rifletterà perciò in tutti gli organismi di
cultura, trasformandoli e dando loro, nuovo contenuto».
Alle università e alle accademie sarà attribuita una nuova funzione;
nell’ambito del realizzarsi di nuovi rapporti tra vita e cultura, tra lavoro
intellettuale e lavoro industriale, le accademie «dovrebbero diventare
l’organizzazione culturale (di sistemazione, espansione e creazione
intellettuale)» di coloro che dopo la scuola unitaria passeranno al lavoro,
luogo di incontro tra questi ultimi e il mondo universitario. Gramsci
pensa all'unificazione delle diverse strutture culturali esistenti,
solo le prime conoscenze strumentali dell’istruzione (leggere scrivere far di conto,
geografie e storia) ma anche le prime nozioni dei diritti e dei doveri dello Stato e
della società, come elementi primordiali di una nuova concezione del mondo che
entra in lotta contro le concezioni date dai diversi ambienti sociali tradizionali, cioè
le concezioni che si possono chiamare folkoristiche. Il problema didattico da
risolvere è quello di temperare e fecondare l’indirizzo dogmatico che non può non
essere proprio di questi primi anni (Cfr. ivi, p. 1535). Il resto della scuola unitaria,
concepito in sei anni avrebbe dovuto affrontare da una parte lo iato troppo forte fra
scuola e vita, dall’altra parte la necessità di creare nuovi rapporti fra lavoro
intellettuale e mondo della produzione. Per quanto riguarda il primo punto è
indispensabile passare «dall’insegnamento quasi pienamente dogmatico in cui la
memoria ha una gran parte [ …] alla fase creativa o di lavoro autonomo e
indipendente; dalla scuola con disciplina dello studio imposta e controllata
autoritariamente si passa ad una fase di studio e di lavoro professionale in cui
l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale è teoricamente illimitata».
L’ultimo tratto nella scuola unitaria doveva essere concepito e organizzato «come
fase decisiva in cui tende a creare i valori fondamentali dell’umanesimo,
l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per la ulteriore
specializzazione sia essa di carattere scientifico (studi universitari) sia di carattere
immediatamente pratico – produttivo (industria, burocrazia, organizzazione degli
scambi). Lo studio e l’apprendimento dei metodi creativi nella scienza e nella vita
deve cominciare in quest’ultima fase della scuola o non essere più monopolio
dell’università o essere lasciato al caso della vita pratica, questa fase della vita
scolastica deve contribuire a sviluppare l’elemento della responsabilità autonoma
degli individui, essere una scuola creativa» (Ivi, pp. 1536 – 1537).
L’alternativa gramsciana
103
«integrando il lavoro accademico, tradizionale, [ ... ], con attività collegate alla vita collettiva, al mondo della produzione e del lavoro»259.
Gramsci ipotizza una complessa e articolata organizzazione culturale
e scolastica che non solo dovrebbe favorire l’avanzata delle «capacità
individuali della massa popolare» ma soprattutto un governo dal basso
di ogni procedura tecnica e organizzativa di razionalizzazione delle
attività produttive e, più in generale, della formazione dei processi
decisionali attinenti alla sfera pubblica.
Gramsci è senza dubbio «l’anti-Gentile», manifesta l’opposizione più
radicale ad un modello scolastico ispirato alla ternaria stratificazione
sociale prevista e auspicata dall’idealismo gentiliano. Potrebbe essere
altrimenti interessato com’è a porre anche in relazione alla produzione e
al lavoro il fatto educativo, per elevare ogni individuo al più alto livello
di consapevolezza critica e di capacità produttiva raggiunto
dall’umanità nella sua storia? Quando ciò che conta è la formazione di
un uomo collettivo attuale alla sua epoca?
D'altra parte il ruolo della scuola unica, quello delle accademie e delle
università, la ricerca del nuovo principio educativo, il nuovo
intellettualismo, in prospettiva di massa e diffuso, la promozione del
«principio pedagogico-didattico della “storia della scienza e della tecnica
come base della educazione formativa-storica nella nuova scuola”»260
sono tutti elementi di un itinerario educativo interessato alla
costituzione di soggetti capaci di autogoverno.
Sembra cosi ritornare tanta parte dell’esperienza ordinovista e dei
propositi presenti nella cultura pedagogica sovietica261 e a cui il dirigente
A. GRAMSCI, op. cit., p. 1538.
Ivi, p. 516.
261 A proposito del rapporto possibile tra Gramsci e la pedagogia sovietica può
essere utile porre a confronto le note del carcere e alcuni dei termini in cui Anton
Makarenko aderisce al programma del potere sovietico. «Per noi - scrive nel Poema
pedagogico – non si tratta va di “correggere” un uomo, ma di educarlo in modo
nuovo, poiché diventasse non solo un membro non pericoloso della società, ma
perché fosse in grado di concorrere all’edificazione della nostra nuova epoca» (A. S.
MAKARENKO, Poema pedagogico, a cura di N. Siciliani de Cumis, con la collaborazione
di F. Craba, A. Hupalo, E. Konovalenko, O. Leskova, E. Mattia, B. Paternò, A.
Rybčenko, M. Ugarova, e degli studenti dei corsi di Pedagogia generale I
nell’Università di Roma “La Sapienza” 1992-2009, Roma, l’albatros, 2009, p. 189). Un
uomo nuovo da «formare con […] con metodi nuovi», ricorrendo pertanto ad una
«pedagogia della “lotta” o del “rischio”» (N. SICILIANI DE CUMIS, I bambini di
Makarenko, Pisa, Edizioni ETS, 2002, p. 89) per la maturazione di uno «spirito
259
260
104
Capitolo quarto
collettivo» (A. MAKARENKO, op. cit. p. 31). Un itinerario che avrebbe dovuto
riguardare la formazione ex novo dei rieducandi, «quanto quella degli stessi
educatori/rieducatori, anch’essi rieducabili e rieducati alla luce della novità
dell’esperienza comune» (N. SICILIANI DE CUMIS, I bambini di Makarenko, cit. p. 69); un
percorso particolarmente accidentato che non nega «spazio alla creatività», all’
«autoorganizzazione» e all’«autodisciplina»; ed è così che il collettivo si organizza
in assemblea generale, reparti di lavoro e reparti misti, questi ultimi rappresentano
per Makarenko «la più importante scoperta del [ … ] collettivo in tutti i suoi tredici
anni di vita» (A. MAKARENKO, op. cit. p. 174), luogo di sperimentazione di forme di
rotazione orizzontale e verticale del lavoro, professionale e politica. Un risultato che
richiede, utilizzando un termine – chiave gramsciano, un nuovo conformismo, una
nuova tradizione, nonché l’acquisizione delle primarie abitudini di lavoro e di vita.
E’la lotta, tra l’altro nelle terribili condizioni degli anni successivi all’Ottobre del
1917, per l’uomo attuale alla sua epoca, ed esclude ogni visione metafisica della
persona umana, ogni considerazione dell’educazione come «sgomitolamento» di un
filo preesistente, quando invece l’uomo è tutta una formazione storica; «ogni
generazione - scrive successivamente Gramsci nei Quaderni - educa la nuova
generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle
funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura per dominarla e creare
“l’uomo attuale alla sua epoca”» (A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit. p. 114).
Invece, scrive Makarenko, «sulla vetta dell’ “Olimpo” pedagogico [rivoluzionario]
qualsiasi tecnica pedagogica nel campo dell’educazione sociale veniva considerata
un’eresia. In “cielo” il ragazzo veniva visto come un’essenza piena di uno speciale
gas per il quale non erano ancora riusciti ad escogitare un nome. In fin dei conti non
si trattava altro che della vecchia anima con la quale si erano dati da fare ai loro
tempi già gli apostoli. Si poneva come ipotesi di lavoro che quel gas avesse la
capacità di autosvilupparsi, a condizione che non lo si disturbasse». Bisognava
«guardarsi bene dal disturbare la natura …», dal cui spontaneo svolgersi sarebbe
scaturita una personalità rinnovata. Mentre per Makarenko la leniniana «
“disciplina cosciente”» implicava «consapevolezza della sua necessità, utilità e
importanza di classe» (A. MAKARENKO, op. cit. p. 487). Disciplina che nella concreta
antipedagogia di Makarenko diventa auto - disciplina, dovere liberamente scelto dal
collettivo; d’altronde la «legge» che prescrive che «ogni cosa piacevole o spiacevole,
facile o difficile» venga distribuita «a tutti i reparti a turno secondo la numerazione»
era stata escogitata dagli stessi rieducandi (cfr. ivi, p. 494). Un obiettivo quindi,
quello dell’auto – disciplina, che va conseguito e che non può essere il risultato di
una qualche evoluzione iscritta nella natura umana. Non diversamente da
Makarenko anche per Gramsci si tratta di «ottenere» attraverso l’azione pedagogica,
«una certa specie di “conformismo” che si può chiamare dinamico», che è tale
proprio perché a partire dalla « “collettivizzazione” del tipo sociale» tende ad un
più elevato sviluppo morale e intellettuale dei soggetti in formazione (Cfr. A.
GRAMSCI, op. cit. p. 1537). Critica all’innatismo e conformismo dinamico sono i
L’alternativa gramsciana
105
rivoluzionario non intende rinunciare neanche di fronte alle
drammatiche difficoltà e alle potenti resistenze che la storia riserva e di
cui l’autore dei Quaderni è decisamente consapevole. Consapevole
inoltre del venir meno di ogni sicurezza storica, questo è il punto
centrale, è ciò che permette a Gramsci di ricollocare e sviluppare anche
la sua pedagogia nell’ambito di un tentativo di ricostruzione della
filosofia della praxis liberata da qualsiasi esito garantito, non ultimo da
quel considerare la rivoluzione quale risultato di un movimento
necessariamente in atto, sebbene per l’inalienabile volontà umana.
termini che consentono di impiantare il raffronto tra Makarenko e Gramsci, di
individuare elementi di una comune atmosfera culturale, nonché l’influenza che il
dibattito pedagogico sovietico esercita sul rivoluzionario italiano (Cfr. V.
ORSOMARSO, Il progresso intellettuale di massa, con Presentazione di N. Siciliani de
Cumis, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 129-158.).
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci,
con uno sguardo al presente.
Proprio nel momento in cui va inverandosi, al di fuori di ogni
finalismo di natura hegeliana e di oggettivismo di matrice positivistica,
il passaggio ad un’organizzazione sociale e della produzione fondata sul
general intellect, cioè sull’assunzione della cooperazione dei saperi a
«pilastro» dello sviluppo, nel nostro paese si cerca di chiudere il
confronto sui sistemi di istruzione e formazione con il ritorno ad una
scuoletta dai tratti ottocenteschi, allineata, moderata e a cui vengono
tolti spazi di autonomia.
Un riproposizione senza dubbio anacronistica che sollecita, dal punto
di vista storico-educativo, la rivisitazione di alcuni passaggi del dibattito
sulla scuola proprio tra ‘800 e ‘900, tenendo ben presenti le distanze che
separano quella importante fase storica dal presente.
Pertanto è di qualche utilità ritornare sugli interventi del Labriola per
una scuola popolare degna di tale nome, per una università quale luogo
di ricerca partecipata, sebbene l’azione di quest’ultima rimanga
circoscritta alla formazione di ristretti gruppi dirigenti. Evidenziando
allo stesso tempo i limiti della posizione politica e dell’azione in campo
educativo e scolastico dell’insieme della cultura socialista, compresa
quella del Labriola, a cui Gramsci si propone di rispondere ipotizzando
un’organizzazione scolastica capace, alla luce delle trasformazioni
industriali del secolo scorso, di contemperare il lavoro industriale e il
lavoro intellettuale nella prospettiva di un esercizio del controllo sociale
tanto nella sfera politico-culturale quanto in quella economicoproduttiva, colte nel loro articolato intreccio.
Della scuola popolare
Antonio Labriola, allora, che fin dagli anni Settanta pone al centro
della sua attività giornalistica la scuola e la lotta all’analfabetismo che
andava accompagnata al miglioramento delle condizioni di vita delle
masse contadine. Inoltre la libertà di insegnamento, l’educazione tecnica,
la formazione degli insegnanti, le strutture materiali e gli edifici, senza
trascurare il problema della formazione di una nuova classe dirigente.
Aspetti centrali della più generale questione della modernizzazione
dell’Italia e del Mezzogiorno.
108
Capitolo quinto
Ma le indagini, svolte sul finire degli anni Settanta e pubblicate tra
1880 e il 1881, riguardanti gli ordinamenti scolastici e in particolare la
scuola popolare di paesi come la Germania, l’Inghilterra, la Francia, gli
Stati Uniti, il Belgio e l’Olanda, ad offrire materiale di particolare pregio
al Labriola per intervenire sullo stato della scuola elementare, della
secondaria, dell’università, sul ruolo delle ispezioni, sulla formazione
dei maestri, sullo stato giuridico del personale della scuola, sull’obbligo
scolastico262.
In merito particolare rilievo assume la Conferenza tenuta il 22
gennaio 1888, Della scuola popolare, dove denuncia l’elevato tasso di
analfabetismo presente in Italia, le resistenze politiche e culturali
opposte alla realizzazione di una scuola popolare degna di tale nome.
È il caso della proposta di Antonio Scialoja (1874), in realtà si tratta
del disegno di legge Scialoja - Correnti che prevedeva la totale gratuità
dell’istruzione elementare per gli indigenti, l’adeguamento del numero
delle scuole al numero reale degli obbligati, una tassa di famiglia mirata
alla creazione di un Fondo integrativo speciale per l’incremento
dell’istruzione; inoltre la norma concedeva ai Comuni la libertà di
abolire l’insegnamento catechistico263.
Questo progetto, scrive Labriola, incontrò un’opposizione
fierissima, non perché fosse parso, come pare a me, per molti rispetti male
imbastito, e non perché si temesse, che ne sortisse effetto sproporzionato
all’aspettazione del proponente, ma perché enunciava due principi allora come
ora poco accetti alla minoranza che ha preso possesso dello Stato, e
dell’ignoranza delle moltitudini sente bisogno per mantenersi in seggio. I due
principi erano l’obbligo di frequenza scolastica per ogni classe di cittadini entro
i termini di quella che noi chiamiamo elementare, e l’esclusione
dell’insegnamento religioso dalle materie d’obbligo, per sostituirvi un qualcosa,
che a me come filosofo pare davvero indeterminato assai, ma che praticamente
può essere di grande efficacia, cioè dire la “morale civile” 264.
Per Labriola «il principio e il fondamento della scuola» risiede nel
concetto di «cultura» che non ostacola l’intima religiosità dell’animo» che
Su tali questioni ed altre cfr. N. SICILIANI DE CUMIS (a cura di), Antonio Labriola
e la sua Università, Roma, Aracne, 205.
263 Cfr. N. D’AMICO, Storia e storie della scuola italiana. Dalle origini ai giorni nostri,
con Prefazione di Giuseppe Tognon, Bologna, Zanichelli, 2010, p. 103.
264 A. LABRIOLA, Della scuola popolare, in op. cit., p. 505.
262
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
109
nulla ha che fare «coi sistemi teologici imposti per forma di ortodossia
né con l’autorità del sacerdozio».
Cultura e libertà non sono aliene «da alcuno dei moti vivi e veraci
dell’animo umano, e fra questi dalla religione», pericolosa «alla civiltà
solo quando, aggiogata al carro trionfale di una Chiesa dommatica e
strapotente, cerchi nello Stato mano forte ad atti di oppressione e di
violenza»265.
Esemplare è l’opera di Gladstone, «uomo religioso e liberalissimo»266,
che escluse l’insegnamento religioso dalla «scuola d’obbligo […]
rimanendo limitata agli elementi più generali e comuni di cultura».
D’altronde, in questo specifico caso, l’«abolizione del privilegio della
Chiesa di Stato» per Labriola è il «naturale completamento della
eguaglianza dei diritti nei dissidenti e nei cattolici»267.
La scuola popolare non può essere né una chiesa né un luogo di
esercizio politico, magari di carattere anticlericale268; certo non c’è «modo
di stabilire limiti preconcetti» all’insegnamento e alla ricerca, ma maestri
e professori «non devono confondere l’attività loro con quella
dell’apostolato, del propagandista, dell’agitatore»269.
Ritornando alla legge presentata da Scialoja, il Cassinate scrive che fu
combattuta «con molta insidia e fina arte […]. Parve a molti che
l’istruzione obbligatoria concepita a qual modo fosse sovversiva delle
ragioni di esistenza dello Stato». In realtà per Labriola era facile cogliere
in quelle posizioni la preoccupazione, venendo meno parte
considerevole del lavoro minorile, per una crescita delle retribuzioni
operaie; in più, «rendere più difficile e lunga la preparazione del
lavoratore», avrebbe «dato modo e ragione» a quest’ultimo «di chiedere
un salario maggiore»270.
Così si giunse all’approvazione della legge Coppino, con le «due
classi d’obbligo che prescrive» e con il «minuscolo risultato di insegnare
la materialità del leggere e scrivere». Un risultato di scarsa rilevanza
considerato che i cittadini una volta «assolto l’obbligo della scuola
elementarissima […] se non provvederanno altrimenti alla cultura loro,
avran tempo […] di ridiventare analfabeti!»271.
A ciò si aggiunge la condizione materiale e morale dei maestri,
sottoposti alle «ingerenze degli amministratori locali»; questione che
Ivi, pp. 523-524.
Ivi, p. 523.
267 Ivi, p. 521.
268 Cfr. A. LABRIOLA, Lezioni di pedagogia, in Id., Scritti pedagogici, cit. p. 535.
269 ID., L’Università e la liberta della scienza, in op. cit. p. 610.
270 ID., Della scuola popolare, in Id., Scritti pedagogici, cit. p. 506
271 Ivi, pp. 507-508.
265
266
110
Capitolo quinto
difficilmente avrebbe potuto trovare soluzione nel passaggio dei maestri
«alla diretta amministrazione dello Stato». D’altra parte non si può
negare «che sia materia di governo locale» tutto quello che ricade, «per
ragioni di vigilanza e di responsabilità, o per ragioni di spesa, e per gli
oneri che da questa spesa derivino», sulla stessa comunità municipale272.
Si tratta di dare un diverso ordine all’ente locale «perché risponda per
democratico assetto ai fini popolari della scuola». Il problema di fondo
risiede in una effettiva riforma del comune che «diventi e sia una vera
rappresentanza degli interessi sociali della collettività», attraverso un
sindaco che assuma la funzione di «un vero e proprio presidente di un
corpo rappresentativo», attraverso la sostituzione degli «autocratici
assessori» con «commissioni responsabili»273.
Un tal governo è quello in cui «non solo i cittadini eleggono i
rappresentanti loro, ma quello in cui questi rappresentanti stessi sono
regolati per legge nell’esercizio del potere, e vincolati da precise
responsabilità».
Una posizione, nella sostanza, ripresa, sull’ «Avanti!» del 10 febbraio
1910, da Gaetano Salvemini, per il quale non si tratta di avocare «la
scuola delle classi dominanti allo Stato, ma i comuni dalle classi
dominanti alla classe lavoratrice per mezzo del suffragio universale»274;
la democrazia «deve consistere nel chiamare la maggior quantità di
cittadini alla gestione diretta dei pubblici poteri, fra i quali, primissimo,
la scuola»275.
In «cotesto governo locale - scrive ancora Labriola - il maestro, non
che trovarvi posto, vi troverà largo campo di morale influenza» e la
scuola popolare potrà esplicare la sua missione276. Sebbene tocchi poi
allo Stato, non solo fare le leggi e i regolamenti obbligatori per tutti, ma
preparare i maestri in appositi istituti suoi, e di assicurare loro un
congruo stipendio. Allo Stato, inoltre, il compito di vigilare
sull’attuazione dell’obbligo277e sulla formazione dei maestri:
il vero maestro è quello che esce da apposito educatorio, e che assodato abbia la
sua preparazione con gli studi, entri dapprima nella scuola a titolo di
Cfr. ivi, p. 513.
Ivi, p. 514.
274 G. SALVEMINI, Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano,
Feltrinelli, 1966, p. 188.
275 Ivi, p. 190.
276 Cfr. A. LABRIOLA, Della scuola popolare, cit., p. 515.
277 Cfr. ivi, p. 516.
272
273
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
111
tirocinante, e poi che sotto questo titolo abbia data buona prova di sé, acquista
grado formale e perfetto di insegnante, con tutte le garanzie di un pubblico
ufficiale278.
Se il tema della formazione iniziale dei docenti è tra le questioni che
stanno più a cuore al Labriola, tant’è che avanza la proposta per i
laureandi di Lettere di svolgere obbligatoriamente un esame di
pedagogia, per quanto riguarda la formazione in servizio degli
insegnanti è rilevante l’opera svolta come direttore del Museo di
Istruzione e di Educazione dal 1877 al 1891279.
Mentre per l’Università la proposta più rilevante interessa proprio la
facoltà di filosofia, Tesi sulla laurea in filosofia, esposta in occasione del
primo Congresso dei professori di tale disciplina, tenutosi a Milano nel
1887.
La filosofia non deve essere
un completamento obbligatorio della storia e della filologia, ma un completamento,
invece, facoltativo di qualunque cultura speciale: storica, giuridica, matematica,
fisica o che altro siasi. Alla filosofia ci si deve poter arrivare didatticamente per
qualunque via, come per qualunque via ci arrivarono sempre i veri pensatori. Io
perciò propongo, che la laurea in filosofia si conferisca agli studenti di
qualunque Facoltà, compresa la letteraria, i quali, frequentato che abbiano entro
il quadriennio di obbligo certi corsi filosofici da determinare, si espongano a
Ivi, p. 517.
Il museo nasce come Mostra permanente degli strumenti scolastici e didattici,
finalizzata a promuovere l’istruzione pubblica e a individuare e realizzare i mezzi
per migliorarla e, infine offrire materiali utili per la comparazione con i sistemi di
istruzione di altri paesi (Cfr. A. SANZO, Appunti e spunti di ricerca per una Tesi di
dottorato sul Museo di Istruzione e di Educazione. Con particolare riferimento al periodo
della direzione di Antonio Labriola, in N. SICILIANI DE CUMIS (a cura di), Antonio
Labriola e la sua Università, cit. , pp. 493-494). Sono due gli strumenti di cui il Museo
dispone per la formazione degli insegnanti: una “biblioteca circolante” che
consentiva agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie più lontane dai centri
urbani di aggiornarsi e le “conferenze pedagogiche”. A tale proposito vanno
richiamate quelle svolte dal Labriola a Venezia, pubblicate da G. BRAMATO e D.
SECONDO, Antonio Labriola a Venezia nel 1880, in «Albatros», aprile-giugno 2008, n. 2,
pp.108- 137. In tale ambito di attività rientra la stessa Conferenza tenuta il 22
gennaio 1888, Della scuola popolare.
278
279
112
Capitolo quinto
sostenere una tesi scritta di argomento generale quanto all’obbiettivo ed al
metodo, ma fondata sempre sopra una determinata cultura speciale 280.
È così che la filosofia assunta a completamento di qualunque corso di
studi universitari, sollecita alla comprensione delle ragioni sociali e
morali del proprio operare specialistico.
L’adesione al movimento socialista non fece venire meno le
convinzioni fino ad allora espresse e il discorso tenuto il 14 novembre
1896, L’università e la libertà della scienza, ne rappresenta la sintesi più
efficace.
Il «socialismo italiano» Labriola lo aveva inteso come strumento di
formazione di un gruppo dirigente operaio, di crescita democratica delle
masse popolari, come leva per la modernizzazione del paese281. In
questo quadro il «diritto alla coltura», che deve «fornire tutti delle più
elementari conoscenze e delle più generali attitudini mediante la scuola
schiettamente popolare», che dovrebbe «durare otto anni»282 e mettere
«tutti indistintamente in contatto dei primissimi elementi del sapere, e
faccia lecito a ciascuno di salire tanto quanto porti la capacità sua»283. Un
scuola popolare da considerarsi «distinta da qualunque altra maniera di
scuole, perché non riceva la norma del suo programma e del suo
indirizzo dal bisogno di coordinamento ai gradi di una cultura
superiore»284.
Un’ipotesi che non mette in discussione l’impianto complessivo della
legge Casati ma è interessata ad ottenere «la condizione primissima
della scuola elementare»285.
Una posizione, quella intorno alla scuola popolare «distinta da
qualunque altra maniera di scuole», che sembra ritornare, nel 1909, in
alcune pagine del Salvemini che in merito all’articolazione delle scuole
medie, a proposito della scuola media unica inferiore senza latino, e in
relazione alla composizione sociale della popolazione italiana, sosteneva
una «scuola popolare» avente fine in se stessa e «con indirizzo
N. SICILIANI DE CUMIS, Filosofia e università. Da Labriola a Vailati 1882-1902,
Torino, Utet, 2005, pp. 20-21.
281 A. LABRIOLA, Carteggio V 1899- 1904, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis,
2006, p. 178.
282 ID., Lezioni di pedagogia, in op. cit., p. 556.
283 ID., Del socialismo, in ID., Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Bari, Laterza,
1970, p. 181.
284 ID., Della scuola popolare, cit., p. 507.
285 ID., L’università e la liberta della scienza, cit., p. 596.
280
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
113
prevalentemente e intensamente pratico» per coloro che non potevano
proseguire gli studi oltre i 13 e 14 anni. Una scuola popolare potenziata
quindi, tra «una scuola di media cultura» e una «di alta cultura»286.
Nell’ambito del movimento socialista è la «Critica sociale» che segue i
lavori della Commissione reale istituita dal ministro Leonardo Bianchi
nel 1905, ma i socialisti per lungo tempo non fecero loro la proposta di
unificazione delle scuole medie inferiori, poiché ciò avrebbe
danneggiato gli adolescenti meno abbienti che non sarebbero stati in
grado di competere con i coetanei provenienti dalle classi più agiate,
pertanto i percorsi andavano tenuti distinti.
Soltanto dopo la prima guerra mondiale si fa strada la tesi, sostenuta
da Rodolfo Mondolfo, di una scuola media inferiore unica senza latino
ma distinta in un indirizzo umanistico e professionale287. Un proposito
distante da quella scuola unica del lavoro di cui si discuteva sulle pagine
dell’ «Ordine nuovo» settimanale e che si proponeva in relazione al
governo dal basso dei mutamenti dell’organizzazione del lavoro
industriale.
Gramsci tra americanismo e postfordismo.
È nei Quaderni del carcere che ilex-direttore dell’ «Ordine nuovo»
riprende il tema dell’organizzazione della scuola e del principio
educativo in relazione alla nuova fase dell’«industrialismo».
Si profila la prospettiva di un nuovo rapporto tra lavoro
manuale e intellettuale, anzi, tra «lavoro intellettuale e
industriale», il che implica altra scuola e altro principio educativo;
G. SALVEMINI, op. cit. p. 649. «Sono necessari […] nella società moderna tre tipi
di scuole medie, che vanno tenute indipendenti più che sia possibile. Una scuola
popolare per gli alunni che non possono proseguire gli studi al di là dei 13 o 14
anni, avente fine in se stessa, con indirizzo prevalentemente e intensamente pratico
e utilitaristico. Una scuola di media cultura, per gli alunni, che hanno bisogno di
dedicarsi prima dei 20 anni ad occupazioni immediatamente lucrative, costituita da
un primo periodo preparatorio e da un ultimo periodo di studi professionali
specializzati aventi fine in se stessi. Una scuola di alta cultura, per gli alunni che
possono rimanere improduttivi fino ai 22 o 24 anni e sono perciò destinati agli studi
universitari, la quale sia diretta a selezionare le classi superiori e prepararle ai più
elevati uffici mediante una rigida disciplina intellettuale e morale».
287 Cfr. T. TOMASI, Istruzione popolare e scuola laica nel socialismo riformista, in ID. et
alii, Scuola e società nel socialismo riformista (1891-1926), Firenze, Sansoni, 1982, pp. 2525.
286
114
Capitolo quinto
un ripensamento radicale dei sistemi di istruzione e formazione.
Alla crescente diffusione di scuole professionali specializzate, in cui il
destino dell’allievo e la sua futura attività erano predeterminate, e alla
«scuola “disinteressata” (non immediatamente interessata)», riservata ad
una «piccola élite», Gramsci, come abbiamo evidenziato, contrappone
«la scuola unica288 iniziale di cultura generale, umanistica, formativa, che
contemperi giustamente lo sviluppo delle capacità di lavorare
manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle
capacità del lavoro intellettuale289. Da questo tipo di scuola unica,
attraverso esperienze ripetute di orientamento professionale si passerà a
una delle scuole specializzate o al lavoro produttivo290».
Scuola unitaria o di formazione umanistica (inteso questo termine di
umanesimo in senso largo e non solo nel senso tradizionale) o di cultura
generale, [che] dovrebbe proporsi di immettere nell’attività sociale i giovani
dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità alla creazione
intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa291.
A tale scopo
nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase
decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell’«umanesimo»,
l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore
specializzazione sia essa di carattere scientifico (studi universitari) sia di
carattere
immediatamente
pratico-produttivo
(industria,
burocrazia,
organizzazione degli scambi, ecc.). Lo studio e l’apprendimento dei metodi
creativi nella scienza e nella vita deve cominciare in questa ultima fase della
«Scuola unica, manuale e intellettuale» (ivi, p. 1542).
A tale proposito Gramsci sottolinea come nelle nuove scuole progressiste
europee «il lavoro manuale si accompagna col lavoro intellettuale e sebbene non ci
sia nessuna relazione diretta tra i due, pure l’alunno impara ad applicare le sue
cognizioni e sviluppa le sue capacità pratiche. (Questo esempio mostra come sia
necessario definire esattamente il concetto di scuola unitaria in cui il lavoro e la
teoria sono strettamente riuniti: l’accostamento meccanico delle due attività può
essere uno snobismo. […]. Molte di queste scuola moderne sono di stile snobistico
che non ha niente che vedere - altro che superficialmente - colla questione di creare
un tipo di scuola che educhi le classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente
nella società, come complesso e non come singoli individui) (ivi, p. 1183)».
290 Ivi, p. 1531.
291 Ivi, p. 1534.
288
289
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
115
scuola e non essere più monopolio dell’Università o essere lasciato al caso della
vita pratica292.
Nella fase iniziale della scuola unitaria si tende a disciplinare, «quindi
a livellare», a ottenere un «“conformismo dinamico”», tale perché
attraverso «i rapporti specificatamente “scolastici” […] le nuove
generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le
esperienze e i valori storicamente necessari “maturando” e sviluppando
una propria personalità storicamente e culturalmente superiore»293.
Si tratta di stabilire un atteggiamento critico rispetto ai livelli di
socialità e di civiltà conseguiti che pertanto non possono essere
semplicemente acquisiti.
In una nota successiva Gramsci scrive che è necessario favorire la
critica «della propria concezione del mondo» per «renderla unitaria e
coerente e innalzarla fino al punto in cui è giunto il pensiero mondiale
più progredito». Ma anche
criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni
consolidate nella filosofia popolare […]. L’inizio di una elaborazione critica è
[…] un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi
che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio di
inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario294.
In questo senso muove la fase finale della scuola unitaria, quella
«creativa», il cui fine si precisa nel condurre «il giovinetto fino alla soglia
della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona
capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige»295. È
alla luce di tale indicazione che va stabilito un nuovo rapporto tra scuola
e vita, tra scuola e realtà storico-sociale.
In sintesi la
scuola creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a
disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di
“conformismo” che si può chiamare “dinamico”; nella fase creativa, sul
fondamento raggiunto della “collettivizzazione” del tipo sociale, si tende ad
Ivi, pp. 1536-1537.
Ivi p. 1531.
294 Ivi, p. 1719.
295 Ivi, p. 1547.
292
293
116
Capitolo quinto
espandere la personalità, diventa autonoma e responsabile, ma con una
coscienza morale e sociale solida e omogenea.
Con l’espressione «scuola creativa» Gramsci intende «una fase e un
metodo di ricerca e di conoscenza»; espressione con cui indica una fase
nel corso della quale
l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo
del discente, e in cui il maestro esercita una funzione di guida […] . Scoprire da
se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità è creazione, anche se la
verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è
entrati nella fase della maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità
nuove. Perciò in questa fase l’attività scolastica fondamentale si svolgerà nei
seminari, nelle biblioteche, nei laboratori sperimentali; in essa si raccoglieranno
le indicazioni organiche per l’orientamento professionale 296.
L’educazione quindi come lotta per «creare l’uomo “attuale” alla sua
epoca», il che richiede una presa di distanza dallo «spirito ginevrino»297,
Ivi, pp. 1537-1538. Nuove funzioni sono chiamate a svolgere l’Università e le
Accademie, queste ultime, in una «nuova situazione di rapporti tra vita e
cultura, tra lavoro intellettuale e industriale […], dovranno diventare
l’organizzazione culturale (di sistemazione, espansione e creazione intellettuale)
di quegli elementi che dopo la scuola unitaria passeranno al lavoro
professionale». Un «terreno di incontro tra essi e gli universitari. Gli elementi
sociali impiegati nel lavoro professionale non devono cadere nella passività
intellettuale, ma devono avere a loro disposizione (per iniziativa collettiva e
non di singoli, come funzione sociale organica riconosciuta di pubblica
necessità ed utilità) istituti specializzati in tutte le branche di ricerca e di lavoro
scientifico». Anche a tale scopo accademie, istituti di cultura, circoli filologici
ecc., dovranno integrare il lavoro accademico, tradizionale al mondo della
produzione e del lavoro. Più in generale si tratta di un articolato sistema
formativo e autoformativo culturale e tecnico in grado di consentire
l’assunzione dal basso dei problemi di organizzazione e razionalizzazione del
lavoro. Ciò che Gramsci va ipotizzando è una rete di istituzioni e organismi
educativi posti in relazione tra loro e con i centri universitari, per «selezionare e
fare avanzare le capacità individuali della massa popolare» (ivi, p. 1539).
297 Ivi, p. 114. Sebbene Gramsci respinga l’innatismo, tuttavia della concezione
“spontaneistica” e “libertaria” roussoiana dà un giudizio storico che ne consente in
un certo modo un recupero, ma anche di coglierne la contraddittorietà. Rappresenta
296
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
117
da quel programma dell’“Olimpo” pedagogico che si presentava agli
occhi di Makarenko «come una sorta di miscela […] fatta di terminologia
rivoluzionaria e di tolstoismo», nonché di «pezzi di anarchismo»;
fondata sulla capacità dell’anima […] di autosvilupparsi» nella direzione
dell’«uomo nuovo» collettivizzato298. Quando il fine enunciato, per il
romanziere e pedagogista ucraino, richiedeva una «tecnica pedagogica»
da formulare gradualmente, da sperimentare sul campo, percorrendo Le
strade accidentate della pedagogia299.
Per l’autore sardo «l’uomo è tutta una formazione storica», «non
esiste una astratta “natura umana” fissa immutabile […] ma […] la
natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente
determinati»300, quindi di specifici rapporti pedagogici.
Concepire l’educazione come «sgomitolamento di un filo
preesistente» è una rinuncia ad educare, è il completo abbandono del
fanciullo alle pressioni oggettivamente esercitate dall’ambiente.
Si tratta di un «conformismo» che, accompagnato dall’aggettivo
«meccanico», rappresenta «un adagiarsi nel già esistente»301, magari nei
suoi aspetti meno evoluti.
La spontaneità non va negata ma posta in relazione al concetto di
«riduzione consapevole», da risolvere in termini di «“riduzione” per
un progresso in quanto «reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici
gesuiti», ma oggi questa concezione è altrettanto superata quanto quella dei gesuiti,
«ovvero […] si è formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici
e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del
Lombardo-Radice). La “spontaneità” è una di queste involuzioni: si immagina quasi
che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a
sgomitolare». Pertanto all’innatismo Gramsci contrappone una interpretazione
storicistica della formazione dell’uomo e l’educazione è assunta a «una lotta contro
gli istinti […], un lotta contro la natura per dominarla e creare l’uomo “attuale” alla
sua epoca» (ivi, p. 114).
298 Cfr. A. S. MAKARENKO, Poema pedagogico, a cura di N. Siciliani de Cumis, con la
collaborazione di F. Craba, A. Hupalo, E. Konovalenko, O. Leskova, E. Mattia, B.
Paternò, A. Rybčenko, M. Ugarova, e degli studenti dei corsi di Pedagogia generale
I nell’Università di Roma “La Sapienza” 1992-2009, Roma, l’albatros, 2009, p. 486 .
299 Si tratta del tredicesimo capitolo dell’opera,un testo di particolare rilevanza
pedagogica e tradotto per la prima volta, insieme all’undicesimo capitolo, Battaglia
al lago Rakitno,da Nicola Siciliani de Cumis.
300 A. GRAMSCI, op. cit. pp. 598-599.
301 Ivi, p. 1721, inoltre cfr. ID., Lettere dal carcere 1931-1937, vol I, a cura di A.A.
SANTUCCI, Palermo, Sellerio editore, 1996, pp. 301-302.
118
Capitolo quinto
così dire reciproca e non di opposizione»302. Il rapporto «tra maestro e
scolaro» è un «rapporto attivo, di relazioni reciproche»303, ma non per
questo l’educatore deve rinunciare a dare direzione al processo di
insegnamento-apprendimento, così come, nel cogliere le esigenze e i
bisogni del soggetto in formazione, viene educato allo svolgimento della
propria funzione dirigente.
La III tesi su Feuerbach acquista così un profondo significato
pedagogico e richiede di percorrere il terreno della sperimentazione
politico-educativa.
D’altronde l’avvento della scuola unitaria, come dicevamo, richiama
nuovi «rapporti tra vita e cultura, tra lavoro intellettuale e industriale»,
pertanto l’integrazione del lavoro accademico con il mondo del lavoro e
della produzione304.
Così la filosofia della prassi si articola in una moderna riforma morale
e intellettuale, in cui si concretizza un «nuovo intellettualismo»,
incentrato, in conformità «allo sviluppo delle forme reali della vita»,
sull’«educazione tecnica»; capace di giungere dalla «tecnica - lavoro […]
alla tecnica -scienza e alla concezione umanistica storica», perché non
ceda ai puri specialismi ma assuma una funzione politica e dirigente305.
Un intellettualismo tendenzialmente di massa se «la scuola unica» è
«di cultura generale, umanistica, formativa» e si propone di
contemperare «lo sviluppo delle capacità di lavorare manualmente
(tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro
intellettuale»306.
È su questa base che l’«esigenza tecnica può essere pensata
concretamente separata dagli interessi della classe ancora dominante,
non solo ma unita con gli interessi della classe ancora subalterna»307.
Gramsci traccia il percorso di una ricomposizione di lavoro manuale
e intellettuale, formula i termini di un pensiero critico che si pone sul
terreno più avanzato dello sviluppo industriale, ipotizzando un
processo di modernizzazione tecnico e culturale costitutivo un «nuovo
ordine», la cui costruzione va affidata a coloro che «per imposizione» ne
stanno creando «le basi materiali»308.
Ivi, p. 331.
Ivi p. 1331.
304 Cfr. ivi, pp. 1538-1539.
305 Cfr. ivi, p. 1551.
306 A. GRAMSCI, op. cit. p. 1531.
307 Ivi, p. 1138.
308 Ivi, p. 2179.
302
303
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
119
Un «nuovo mondo in gestazione» che pone «il massimo utilitarismo»
alla «base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e
dei principi da diffondere», che propone la «vita collettiva e intellettuale
[…] organizzata per il massimo di rendimento dell’apparato
produttivo»309.
Un utilitarismo insito nel concetto di «società dei produttori», di
matrice soreliana, ma socialmente e storicamente necessario ai fini del
«progresso intellettuale di massa», della realizzazione di una dialettica
quantità/qualità. Infatti, «ogni balzo verso una nuova “ampiezza” e
complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento
analogo della massa dei semplici, che si innalza verso livelli superiori di
cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza con punte
individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato
degli intellettuali specializzati»310. Tutto ciò, evidentemente, non può
prescindere, date le concrete condizioni materiali della fase, dal
potenziamento dell’apparato produttivo, dal pieno sviluppo delle forze
produttive.
Una prospettiva radicalmente diversa da quella che oggi nutre
l’utilitarismo trionfante e che si traduce in una totalizzante logica
mercantile, nella riduzione a quest’ultima di ogni ambito culturale e
relazionale.
Tutto ciò mentre si pongono le premesse materiali e culturali per una
società della conoscenza che richiama un’altra idea di sviluppo e, inoltre,
per essere tale richiede un elevato livello di democrazia partecipativa;
possibile anche sulla base di una riarticolazione del principio educativo
gramsciano, di una padronanza diffusa dei fondamenti tecnicoscientifici dei processi di lavoro da porre in relazione alle dinamiche
storico-sociali, il tutto nel quadro di una ridistribuzione delle economie
di lavoro.
Tempo liberato dal lavoro salariato, da riempire di formazione e
autoformazione, di attività per il pieno sviluppo delle individualità
sociali, sviluppo che, parafrasando i Grundrisse, reagisce come massima
forza produttiva del lavoro311.
Proposizioni da porre, gramscianamente, in relazione ai mutamenti
tecnico-organizzativi che percorrono i processi produttivi, al ruolo che le
Ivi, p. 863.
Ivi, p. 1386.
311 Cfr. K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, a cura di
G. Backhaus, vol. I, Torino, Einaudi, 1976, p. 725.
309
310
120
Capitolo quinto
conoscenze e i saperi sociali vanno assumendo, costituendo il
fondamento della valorizzazione.
Pur non venendo meno la materialità, il lavoro cognitivo va
trasformando tutte le forme di produzione: informatizzazione e
automazione tendono ad omogeneizzare i processi di lavoro, anche dove
vanno emergendo delle differenziazioni, nel campo delle attività di
innovazione, sono identificabili conoscenze/abilità comuni a molti ruoli
emergenti.
In questo quadro diventano centrali attitudini quali il saper rilevare e
risolvere problemi, individuare, selezionare e gestire fonti di
informazione, contestualizzare fenomeni ed eventi, apprendere dal
contesto, avere una visione sistematica dei processi in cui si opera,
comunicare con linguaggi appropriati e con codici diversi, lavorare in
gruppo e operare per obiettivi e progetti, riflettere sulla propria sfera
esperienziale e rielaborare il proprio agire.
Ma ai fini di un inserimento di soggetti capaci di un adattamento
critico è necessario porre al centro del processo formativo, prima di ogni
competenza tecnico-professionale, la conoscenza del proprio tempo e del
proprio contesto, la comprensione del carattere globale e processuale
delle trasformazioni, l’assunzione di una dimensione storica in cui
collocare, per interpretare e affrontare, le dinamiche tecnico-sociali.
Sul piano della didattica, per favorire lo sviluppo di una capacità di
auto-apprendimento e di confronto critico con i mutamenti sociali e
produttivi, acquista particolare rilievo operare in termini di ricerca ai
fini di un apprendimento conseguito per «sforzo spontaneo e
autonomo» che dimostri il «possesso del metodo»312. Una modalità che
dovrebbe investire ogni percorso di sapere e tradursi in un tempo di
riflessione, di apprendimento, di conquista di una cultura storico-critica.
Quindi una rete formativa e autoformativa che se non può non essere
posta in relazione alla realtà sociale e produttiva va sottratta alla mera
“razionalità economica”, che per sua natura tende a ricondurre tutta
l’attività umana, quindi anche le capacità relazionali, estetiche e
cognitive, a funzioni strumentali della produzione. Escludendo così ogni
forma di «spreco», quella «coscienza eccedente» non rispondente ai
criteri di mercato ma in grado di potenziare la libertà dei soggetti, le
facoltà di autonomia e autorganizzazione da cui dipende lo sviluppo
dell’intelligenza individuale e collettiva.
312
A. GRAMSCI, op. cit., p. 1537.
La scuola come problema: da Labriola a Gramsci, con uno sguardo al presente
121
La recensione, tra scienza e didattica.
Antonio Labriola a «La Sapienza»
Il testo curato da Nicola Siciliani de Cumis con la collaborazione di
Alessandro Sanzo e Domenico Scalzo, Antonio Labriola e «La Sapienza».
Tra testi, contesti, pretesti 2005 – 2006, Edizioni Nuova Cultura, Roma,
2007, raccoglie quasi tutto quello che è stato scritto
e detto
pubblicamente nella forma, in qualche modo, di recensione a margine
della mostra documentaria del marzo – maggio 2005 su Antonio
Labriola e la sua Università. Il gusto della filosofia e sul relativo e
voluminoso catalogo313, curato sempre da Siciliani de Cumis e di cui
abbiamo già dato conto in altra sede314.
Fa parte integrante del volume un DVD contenente tre filmati: il
primo, con gli “atti” dell’inaugurazione della mostra documentaria
sopra menzionata; il secondo, con una fiction di Corrado Veneziano, dal
titolo Antonio Labriola, il Gusto della Filosofia; il terzo filmato è ad
opera di Domenico Scalzo, su Antonio Labriola e la sua Università. Testi
e contesti.
Ciò che ne risulta, come precisa Siciliani nella premessa, è un volume
a più voci, monotematico e a suo modo “enciclopedico”, si tratta inoltre
del primo titolo di una collana di documenti su carta e/o su supporti
informatici sempre riferibili a Labriola e alla sua Università. Nuove
aggregazioni documentarie, in volume e in DVD, a cui stanno lavorando
Giordana Szpumar, relativamente alle Carte Labriola dell’Università
degli studi di Roma «La Sapienza», Maria Pia Musso, che cura le Carte
Labriola nell’Archivio Centrale dello Stato, Alessandro Sanzo, Antonio
Labriola e il Museo d’Istruzione e di Educazione, Daniela Tirabusi, che
si occupa del «Laboratorio Labriola» e le sue tesi di laurea, nonché
dell’Immagine di Labriola e «La Sapienza», mentre ad Antonio Labriola
e «La Sapienza» in Google si interessa Luigi Gregori.
Pertanto Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti
2005 – 2006 è solo parte di un percorso di ricerca che Siciliani, con i suoi
collaboratori e tra questi gli stessi studenti della cattedra di Pedagogia
generale, conduce da tempo e che si propone di mettere a disposizione
dei ricercatori nuovo materiale di studio sul Cassinate, inerente tanto
N. SICILIANI DE CUMIS (a cura di), Antonio Labriola e la sua Università, Roma,
Aracne, 2005
314 V. ORSOMARSO, Labriola, la filosofia, l’università e altro, in «Ora locale», aprilegiugno 2005, p. 8
313
124
Capitolo settimo
all’attività politica quanto a quella di professore universitario nonché
«maestro»: seguendo Labriola nella quotidianità dell’insegnamento, nei
suoi rapporti con gli studenti, con i colleghi, negli interventi in Consiglio
di Facoltà, nei concorsi universitari, nell’attività di divulgatore e
organizzatore culturale.
Ritornando al testo di cui ci stiamo occupando, va ribadito che si
tratta di un libro che raccoglie recensioni al catalogo a cui sopra si fa
riferimento, pertanto «una sorta di catalogo sul catalogo; ovvero un
documento storico, a parte obiecti, relativamente al medesimo tema di
Labriola alla “Sapienza”. Una sorta di antologia di letture in media
res»315, utile a spiegare, a integrare, a correggere quanto è stato realizzato
e si continua a fare, a sollecitare ulteriori indagini, nella piena
consapevolezza della provvisorietà dei risultati raggiunti.
La recensione quindi, sulle cui peculiarità letterarie, sulla cui
complessa e articolata tipologia e funzione si sofferma Siciliani in Il
«punto di vista» del recensore tra storiografia ed educazione, un saggio posto
in appendice al volume e che ha il merito di chiarire il valore scientifico
e didattico del libro316.
Venendo agli interventi raccolti nel testo, questi risultano di
differente natura filologica e di diversa consistenza critica; realizzati ora
da studiosi di Labriola, ora da studenti della «Sapienza» nel corso della
normale preparazione dell’esame o della redazione dell’elaborato scritto
o della tesi di laurea. La recensione, in quest’ultimo caso, acquista il
carattere di evento didattico e scientifico caratterizzante il processo di
apprendimento e insegnamento, a metà strada tra didattica e ricerca.
Recensioni di conseguenza che variano dal contributo di un certo
impegno alla scheda di lettura, dall’apporto scientifico originale, alla
testimonianza; dall’intervento di natura divulgativa, alla grafica d’arte,
dall’esercizio di ricerca per un esame, al capitolo di un elaborato scritto
di laurea.
Quindi recensioni informative, recensioni – didattiche, recensioni
innovative, critiche, recensioni come stroncature; interventi di natura
N. SICILIANI DE CUMIS (a cura di) con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo,
Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti 2005 – 2006, Edizioni
Nuova Cultura, Roma, 2007, p. XIII.
316 L’appendice comprende inoltre di N. SICILIANI DE CUMIS, Poe, Labriola, tre
mamozii e il Rodimčik di Makarenko; dello stesso autore e R. BAGNATO, Antonio
Labriola, tra quadri e lettere.
315
La recensione tra scienza e didattica
125
divulgativa, apporti originali e critici, di radicale opposizione e di
confutazione delle argomentazioni testuali esaminate.
Ad esempio, le note informative di Roberto Sandrucci, Vincenzo
Gabriele, Graziella Falconi, Girolamo de Liguori, Norberto Galli,
Emiliano Macinai, Francesca Rizzo; i contributi di Marco Maria Olivetti,
Giacomo Cives, Franco Ferrarotti, Remo Fornaca, Tullio Gregory, Mario
Alighiero Manacorda, Marco Antonio D’Arcangeli, Alessandro Sanzo,
Maria Pia Musso e di altri; la stroncatura di Stefano Miccolis. Ancora,
l’elaborato scritto per l’esame di Pedagogia generale I di Claudia Pinci
(Le parole di Labriola e quelle di Makarenko) e Daniela Secondo ( La stele e lo
stile di Antonio Labriola); testi che hanno il merito di restituire i tratti di
un campo di indagine su Labriola in via di ipotesi nuovo. Lavori che
rendono evidenti i termini di un insegnamento finalizzato alla
padronanza del genere letterario in questione quale elemento di
sollecitazione alla ricerca; espressione di una pedagogia che ripropone
nell’università di massa, nonostante le difficoltà, il programma di
Giorgio Pasquali, cioè la messa in atto dell’effettiva trasparenza di un
«metodo» che, facendosi «abito», mostri pubblicamente, con gli
eventuali pregi e difetti, le prove (vuoi nel senso di tentativo, vuoi nel
senso di attestazione e dimostrazione) della «perspicacia cresciuta
dall’esercizio»; e, dunque, la tendenza a scoprire e a far scoprire «[ agli]
scolari» una «qualche cosa […] e fosse pure una minima cosa»317.
L’Università quindi come un luogo di ricerca e di didattica della
ricerca, ma non con un’utenza interna funzionalmente ristretta e con
poche possibilità di scambio con l’esterno; al contrario, il futuro
dell’istituzione si gioca sulla capacità di sapersi riposizionare in un
contesto che vede l’affermarsi di una domanda di istruzione e
formazione superiore a livello di massa e che richiede il superamento da
parte dell’Università di ogni autoreferenzialità.
È necessario pertanto fare fronte «alla sistematica incompiutezza del
sistema: e cioè al mancato riconoscimento dell’imprescindibile rilevanza
scientifica e politico – culturale, sia della didattica sia della ricerca»,
operare nella direzione dell’«attivazione» del «mantenimento» e della
«crescita del percorso binario»318 ricerca - didattica. Di un equilibrio tra
N. SICILIANI DE CUMIS, Cari studenti faccio blog… magari insegno. Per una
didattica della Pedagogia generale 2006-2007, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2006, p.
XXI.
318 Ivi, pp. XXXV-XXXVI.
317
126
Capitolo settimo
didattica e ricerca che può essere stabilito nel momento in cui la
didattica acquista i caratteri appunto del fare ricerca.
Socrate, non «filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo anzi [ … ]
ψυχαγωγός»
Una pratica che richiama proprio il Socrate del Labriola, il Socrate
che fa dell’aporia la leva del processo conoscitivo, poiché insieme ad
essa sorge il bisogno del vero sapere, ma l’abito mentale acquisito, la
convinzione «di sapere cosa sia il giusto, il santo, l’utile, il bello»
richiede che «l’interrogazione si moltiplichi, e divenga tante domande,
per quante sono le rappresentazioni addotte a chiarire e ad esemplificare
il concetto che si cerca». Ciò conduce ad una nuova esigenza, porta con
sé un allargamento dell’indagine e un apparente allontanarsi dalla
«quistione primieramente proposta. Il dialogo si impiglia in molte e
svariate
difficoltà;
una
certa
inquitezza
s’impadronisce
dell’interlocutore; il risultato diviene, incerto, e si è quasi ad un passo
dall’eristica ed antilogistica dei Sofisti». Come ad accrescere le difficoltà,
Socrate confessa la propria ignoranza; e, nella piena coscienza della
altrui presunzione ed insufficienza, manifesta uno dei tratti più notevoli
della sua natura: l’ironia. Il filosofo, «infatti, non può, in quelle
condizioni in cui s’è messo, non confessare la propria ignoranza, perché
il suo sapere è pura esigenza, o, meglio consiste solamente nella
coscienza dell’attuale incertezza». Quello, che egli cerca, deve ancora
trovarlo; né basta che l’abbia ottenuto una volta, perché lo formuli in
una maniera generale e «lo tenga in serbo per mostrarlo a quando a
quando». «Il motivo dialogico, che è il solo movente della questione»,
varia secondo le occasioni, e porta l’indagine sopra oggetti ed argomenti
sempre diversi; «sicché si tratta sempre di eccitare nuovamente il
bisogno dell’aporia, perché questa invogli alla ricerca e fissi
implicitamente la natura del processo»319
D’altronde «l’esigenza della ricerca non ammette risultati
improvvisati o imposti semplicemente dall’autorità»320. La ricerca non è
mai esaurita321, la «vita diventa ricerca»322 per un Socrate considerato
A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, a cura N. Siciliani de Cumis, Torino, Utet, 1981,
pp. 110-111.
320 Ivi, p. 115.
321 Cfr. ivi, p. 122
322 Ivi, p. 120
319
La recensione tra scienza e didattica
127
«Non […] filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo anzi [ … ]
ψυχαγωγός»323.
Una direzione di pensiero su cui poggia l’antiscolasticismo del
Cassinate che per ottenere una qualche efficace traduzione didattica
necessita di fare leva sull’«interesse», quale «movenza interiore in cui il
conoscere e l’operare sono ancora implicati l’uno all’altro»324, chiamato
ad orientare «la scelta e l’uso delle materie didattiche»325; a favorire il
conseguimento del fine proprio della didattica, «cioè a dire che si debba
per mezzo dell’istruzione suscitare l’interesse immediato, multiforme e
concentrato per le cose del mondo interiore ed esteriore». Ma non
essendoci «istruzione, per elementarissima che siasi, la quale non […]
trovi già in qualche maniera preformato l’animo dell’educando [ …] è
chiaro che l’azione didattica debba principalmente consistere nel
precisare, nel correggere, nell’allargare e nel completare così l’esperienza
come la simpatia», «la partecipazione simpatetica», quale condivisione
«spirituale» di eventi «che sien capaci di muovere il sentimento» 326.
Ebbene, la storia che «importa d’insegnare» non consiste «nella
disposizione metodica dei fatti e delle date né è da considerare quale
ordinamento sistematico delle cause generatrici degli avvenimenti
umani». Essa consiste nel «completamento dell’esperienza attuale con la
narrazione dei fatti che la precedettero e la prepararono, deve arricchire
l’immagine del variato spettacolo delle cose umane presenti con la
esposizione delle assenti e delle passate, deve presentare all’animo il
vivo dei rapporti sociali fuori dalle fluttuazioni dell’empirismo
giornaliero»327.
Insomma attraverso la storia «portare l’attenzione dell’educando nel
bel mezzo del lavorio sociale»328. Quindi la storia dei «costumi», del «rito
e del culto», delle «leggi», delle «istituzioni», dello «stato»329;
l’insegnamento storico in connessione con la geografia, consente
all’educando di acquisire «una piena intuizione della plastica del suolo,
come di campo a cui l’uomo viene faticosamente sovraimponendo i
prodotti dell’operosità sua»330. In rapporto con l’antropologia e
Ivi, p. 117
A. LABRIOLA, Dell’insegnamento della storia, in op. cit., pp. 260-261.
325 Ivi, p. 260.
326 Ivi, p. 262- 263.
327 Ivi, p. 266.
328 Ivi, p. 278.
329 Cfr. ivi, p. 278.
330 Ivi, p. 290.
323
324
128
Capitolo settimo
l’etnologia si possono «indicare tutte le esteriori differenze del corpo,
degli abiti, dei costumi, delle lingue, delle religioni, che occorrono a far
viva la rappresentazione delle naturali disposizioni e delle peculiari
condizioni sociali dei diversi popoli». Tutto questo senza tralasciare le
diverse forme di espressione estetica e «il grado di cultura tecnica cui si
sia giunti nelle diverse epoche della vita storica»
Si delinea, fin dal 1876, un insegnamento della storia chiamato a
misurarsi con la quotidianità, con la cultura materiale e immateriale,
con le vicende giuridiche e statuali dei popoli.
Ma è un errore credere che l’insegnamento della storia possa essere
ridotto alla spiegazione e alla lettura dei manuali e dei trattati compilati
«da mediocri collettori ed ordinatori di notizie». Testi che «quando sien
fatti con sufficiente discernimento della successione cronologica e del
sincronismo», servono tutto al più a dare «come in prospetto generale
una certa riconnessione agli avvenimenti, che siano stati studiati ad uno
ad uno, e che poi si voglia percorrere tutti in linee ascendenti e
discendenti, ora in linee parallele». I «trattati generali» vanno usati con
molta cautela poiché «per la uniformità del loro colorito, per la
monotonia della lingua, e per la schematica del loro ordinamento, in
luogo di promuovere deprimono gl’interessi dell’intelletto e della
simpatia.». La notizia storica va attinta «direttamente dalla coscienza di
quegli uomini che furono principali autori e spettatori degli
avvenimenti».Usare quanto «più si possa gli autori originali» e quando
ciò non sia possibile è bene ricorrere a «quei libri almeno che furon
composti col preciso intento di dare all’esposizione una forma
congeniale a quella dei grandi scrittori». Un espediente che va
abbandonato tutte le volte che sarà possibile «tener lo studio della storia
in più stretta relazione con quello delle discipline filologiche, che dan
mezzo di giungere alla interpretazione dei documenti».
È un’evidente indicazione ad operare nella direzione di una didattica
della ricerca, per l’acquisizione «di uno spirito di critica e di esame»,
inoltre fondata anche sulla consapevolezza dell’educatore, quindi
dell’educando, di come la ricerca «nel campo delle cose umane» sia
«incessante cosicché di giorno in giorno […] si trovano nuovi rapporti e
si chiariscono fatti speciali e nessi causali»331.
Una proposta pedagogica che nel complesso si propone
socraticamente di sollecitare più che insegnare, di suscitare l’interesse
per il dibattito, per la ricerca, che non ha «in mira di ottenere […] il nudo
331
Ivi, pp. 291-294.
La recensione tra scienza e didattica
129
effetto dell’imitazione, ma di promuovere i principi interiori della retta
scelta e della retta operazione. Attività ordinata, rivolta a produrre
attività, ecco il preciso assunto del campo educativo» 332. Anche per tale
motivo «occorre che la scuola non appartenga a nessuna setta, né sociale,
né religiosa. Il governo deve dare alla scuola il carattere di tutela
morale»333.
Filosofia e università
I luoghi dell’educazione quindi come sedi di libero confronto, una
convinzione che ha profonde radici in quello stesso antiscolasticismo che
presiede la proposta del Labriola in merito alla laurea in filosofia334.
La tesi venne esposta per grandi linee nella lettera del 12 luglio 1887
al Direttore della «Tribuna»; nel testo Labriola critica il concetto espresso
dalla legge allora vigente, secondo cui «non c’è che una sola via per
diventare filosofi; quella cioè degli studi filologici», quando invece la
filosofia non deve essere « un completamento obbligatorio della storia e
della filologia, ma un complemento, invece, facoltativo di qualunque
cultura speciale: storica, giuridica, matematica, fisica o che altro siasi.
Alla filosofia ci si deve potere arrivare didatticamente per qualunque
via, come per qualunque via ci arrivaron sempre i veri pensatori»335. Un
percorso formativo che si propone di sfuggire a «due pregiudizi
egualmente perniciosi alla cultura: il volgare tradizionalismo e lo
specialismo esasperato»336.
Sulla proposta, «un po’ostica alla prima», il Labriola ritorna nella
relazione al convegno di Milano del settembre 1887, questa volta
articolandola in termini interlocutori ma precisi, propri di chi ha
conoscenza ed esperienza di ordinamenti scolastici e universitari.
Rafforzato nelle sue convinzioni dai lunghi articoli di giornale in cui le
questioni, toccate dallo stesso Labriola nella lettera alla «Tribuna», erano
state «ampiamente svolte con efficace sussidio di ottimi argomenti e
Ivi, p. 259.
A. LABRIOLA, Scritti pedagogici, cit., p. 537.
334 Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Filosofia e università. Da Labriola a Vailati 1882 – 1902,
con Prefazione di E. Garin, Torino, Utet, 2005; la prima edizione risale al 1975
(Urbino, Argalia, collana «Studi filosofici» diretta da Leo Lugarini, Pasquale
Salvucci, Livio Sichirillo)
335 Ivi, pp. 20-21.
336 Ivi, p. 107.
332
333
130
Capitolo settimo
prove», così come dalle «molte lettere private» di studiosi prodighi di
«suggerimenti e consigli». Da tali «suggerimenti e consigli risultano [ …]
le proposte formulate più innanzi» dal Cassinate, che oramai considera
proprie «di tutti gli egregi colleghi, coi quali» ha «tenuto una viva
corrispondenza per ben due mesi»337 .
Quanto Labriola va proponendo poggia su una riflessione
decisamente complessa maturata nel tempo e che si approfondirà negli
anni successivi. L’insegnamento viene visto con nettezza come
strumento essenziale per la formazione dell’uomo e la trasformazione
della società; mentre nell’università, come scrive Garin nella prefazione,
Labriola «individuò anche il punto in cui il sapere, la scienza, si innesta
nel processo storico dell’umanità».
Tutto ciò lo indusse a riflettere «sul rapporto fra le varie discipline, e
fra le varie Facoltà, e a proporsi a un tempo i problemi generali della
filosofia e i temi specifici dell’organizzazione dell’insegnamento
superiore». Da qui la questione del significato e del compito della
filosofia nella problematica moderna, e il nesso fra le discipline
filosofiche da un lato, e, dall’altro, tra la filosofia
le scienze della natura, le scienze matematiche, e le scienze – se tali siano –
morali, storiche e “umane” in genere. Il che, poi, significa mettere in
discussione, attraverso l’ordinamento universitario, tutta una secolare
tradizione di cultura, che in Italia è venuta saldando filosofia e filologia,
assegnando a questa una posizione privilegiata per l’accesso alla filosofia, e
predeterminando come unica valida una concezione “retorica” del filosofare 338.
Il senso del ragionamento del Cassinate è incentrato su un’idea di
filosofia «aperta alla virtuale filosoficità del non-filosofico e
commutabile nella storicità dell’azione riformatrice universitaria. [ …].
Un hegelismo – scrive Siciliani nell’Introduzione -, che se com’è noto
risente della curvatura dello hebartismo e dell’influenza positiva dei
circostanti positivismi, viene tuttavia a confermarsi refrattario così ad
ogni scolastica hegeliana come a qualsiasi sistema-prigione di stampo
hebartiano»339.
La filosofia del Labriola si conferma, anche in questa proposta
didattica, come profondamente caratterizzata dal quel rifiuto del
Ivi, p. 104.
Ivi, IX-X.
339 Ivi, p. XVII.
337
338
La recensione tra scienza e didattica
131
sistema e che le consente di misurarsi con il nuovo che va emergendo
nella realtà e che va tradotto, con le dovute accortezze, pedagogicamente
e politicamente. Operando quindi, nello specifico caso, nella direzione
della trasformazione delle fondamenta dell’istituzione universitaria e di
conseguenza «dei modi di intendere la società e i suoi valori, l’educazione e
i suoi strumenti, i contenuti e i metodi d’insegnamento, la definizione e l’
organizzazione della cultura»340 .
Il «filo conduttore» dei Saggi
Lo stesso marxismo non poteva «essere la visione intellettuale di un
gran piano o disegno, ma […] un metodo di ricerca e di concezione»341,
un «filo conduttore per leggere la storia e inserire nel “multiforme
intreccio di accidenti e di incidenze” della vicenda italiana l’avvento di
una “società senza antitesi di classe”»342. Un socialismo quindi non
utopistico ma, come scrive nella conclusione dell’ultima lettera a Sorel,
del 1897, impegnato «di continuo a misurare le resistenze del mondo
effettuale, e a studiar di continuo il terreno, sul quale ci è imposto di
aprirci la non facile né morbida via»343. Anche per questo si mantenne
fedele al convincimento, comunicato al Turati il 21 aprile del 1890, che se
i socialisti «teorici» possono «offrire [ai lavoratori] le armi più generali e
comuni» ma non devono «turbare il movimento proletario con proposte
anticipate, premature, astratte», anche se non «si deve […] mai
rinunciare alla discussione di nessun atto o provvedimento politico, che
implichi un interesse sociale»344.
Il socialismo è concepito come conquista del sapere, come uno sforzo
comune, come un colloquio continuo e il marxismo è il filo conduttore
per affrontare razionalmente la realtà, per misurare la validità degli
strumenti concettuali nel confronto con le cose. Quindi, nella prospettiva
del «trapasso», il tempo liberato dal lavoro salariato doveva diventare
occasione di libera e disinteressata ricerca
Ivi, p. XVIII.
A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, intr. di E. Garin, Bari,
Laterza, 1969, p. 85.
342 E. GARIN, A scuola con Socrate. Una ricerca di Nicola Siciliani de Cumis, Firenze,
La Nuova Italia, 1993, p. 75.
343 A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, cit., p. 285.
344 ID., Carteggio III 1890 – 1895, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003, p.
33.
340
341
132
Capitolo settimo
Nella società dell’avvenire - scriveva a Sorel nell’aprile del 1897 – nella quale
l’ozio, ragionevolmente cresciuto per tutti, darà a tutti, con le condizioni della
libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la paresse – la felicissima trovata del
nostro Lafargue – farà spuntare ad ogni angolo di strada dei perditempo di
genio che, come il nostro maestro Socrate, saranno operosissimi di operosità
non messa a mercede.345
Il confronto e la ricerca diventano fattori caratterizzanti il nuovo
sistema di relazioni sociali e Socrate quindi prototipo dell’uomo nuovo,
in quanto maestro del dialogo e dell’indagine; è il Socrate dei Saggi, ma
è pur sempre il pensatore dialogico a cui il Cassinate si andrà sempre
ispirando, affidando la propria «verve maieutica», oltre che alla sua
caratteristica oralità, ad un imponente epistolario pubblico e privato e ad
una notevole quantità di conferenze, dibattiti, interventi giornalistici,
prolusioni, prefazioni, interviste, conversazioni, dichiarazioni346.
«Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate […], e sono sempre un
po’ socratico nella mia vocazione », così scriveva ad Engels il 9
novembre 1891347; difatti Labriola esercitò sempre volentieri la sua
maieutica con familiari e scolari, operai, sartine, tipografi, poeti
dialettali, preti, insegnanti e personalità intellettuali di ogni genere,
amici e nemici, circoli culturali, redazioni di riviste e giornali,
organizzazioni sociali, partiti politici.
Ecco che il suggerire più che dire, l’aver suscitato idee piuttosto che
sistemato dottrine, l’aver insegnato a pensare piuttosto che inculcato
pensieri è ciò che caratterizza la pedagogia e la didattica dell’autore dei
Saggi348; un’idea di insegnamento che trae esempio proprio dal maestro
della maieutica.
All’intellettuale quindi il compito di partecipare, con gli strumenti
che gli sono propri, ad una indagine che deve acquistare i caratteri di
impresa comune.
345
ID., La concezione materialistica della storia, cit., pp. 178-179.
Cfr. N. SICILIANI DE CUMIS, Il principio “dialogico” in Antonio Labriola, in I.
KAJON E N. SICILIANI DE CUMIS (a cura di), Homo homini magister. Educazione e
politica nel pensiero dialogico del Novecento, Lithos, Roma, 2006, p. 25.
347 A. LABRIOLA, Carteggio III 1890 – 1895, cit., p. 183.
348 Cfr. V. ORSOMARSO, Il progresso intellettuale di massa, con una Presentazione di
N. Siciliani de Cumis, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 43.
346
La recensione tra scienza e didattica
133
Il socialismo è per Labriola una ricerca collettiva a cui l’intellettuale è
chiamato a partecipare nei modi e con gli strumenti che gli sono propri,
in primo luogo attraverso un’attività pedagogica che si precisa negli
stessi termini del suo impegno di professore universitario.
Nei molti anni che ho speso nell’insegnare, io fui sempre persuaso del gran
danno che si fa alle menti giovanili, quando invece d’immergerle, con
opportuna e pieghevole arte, in una determinata provincia della realtà, perché
osservando, comparando e sperimentando arrivino alle formule, agli schemi,
alle definizioni, si comincia dall’usar subito di queste ultime, come se fossero i
prototipi delle cose esistenti. Insomma la definizione da cui s’incomincia è
vuota, mentre è solo piena quella cui s’arrivi, geneticamente. Nell’insegnare si
vede quanto il definire sia cosa pericolosa […]. La didattica non è quella attività,
che produca un nudo effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella
attività, che generi altra attività. Insegnando noi riconosciamo, come il nocciolo
primo di ogni filosofare è sempre il Socratismo; ossia la virtuosità generativa dei
concetti 349.
Tanto il socialismo quanto la ricerca universitaria si basano sul
principio della libertà e della partecipazione, un’asserzione resa
possibile da alcune affermazioni che chiudono il discorso del 14
novembre 1896 su L’Università e la libertà della scienza. Un testo le cui
intuizioni pedagogiche, i cui ideali universitari risultano traducibili «in
una chiara proposta di politica culturale, in precisi itinerari di ricerca, in
concreti propositi educativi»350. In più nel discorso romano sono
rinvenibili motivi che si intrecciano con quelli presenti nei Saggi
pubblicati tra il 1895 e il 1897351.
Ebbene, rivolgendosi agli studenti, afferma il diritto di questi ultimi
di partecipare alla discussione scientifica nel corso degli stessi
insegnamenti.
Il discutere è condizione dell’apprendere; e la critica è la condizione d’ogni
progresso. Ma per discutere, occorre d’aver già imparato. La scienza è lavoro, e il
lavoro non è improvvisazione.[…]. Ma saremo, per fermo, più orgogliosi, se
A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, cit. p. 280
N. SICILIANI DE CUMIS, Rileggendo “L’Università e la libertà della scienza” di
Antonio Labriola, in ID. (a cura di), Antonio Labriola e la sua Università, cit., p. 399.
351 In memoria del Manifesto è stato pubblicato nel 1895, Delucidazione Preliminare
del Materialismo Storico nel 1896 e Discorrendo di Socialismo e di Filosofia nel 1897.
349
350
134
Capitolo settimo
associando voi all’opera nostra la vostra intelligente docilità, ci permetterete di
chiamarvi cooperatori nostri in questo lavoro, che è il più gradito e nobile che
capiti ad uomo di esercitare ordinatamente, anzi commilitoni sotto l’insegna di
quella libera e spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere
ad un tempo352.
Il recensire
La ricerca quindi è il motivo di fondo della didattica labrioliana, e
nell'ambito della ricerca e dell'indagine rientra proprio l’atto del
recensire che all’origine vuol dire affrontare un’opera nuova, con
giudizio sul suo valore e pregio, esaminare, considerare con attenzione,
a fondo e nondimeno raccontare, narrare, passare in rassegna secondo
qualche cronologia; «quindi in vario modo storicizzare, educare il senso
storico, da un determinato punto di vista».
C'è una doppia funzione del recensire: quella del
comunicare e cioè trasmettere socialmente informazioni bibliografiche, divulgare
contenuti di ricerca, mediare una cultura finalizzata tra chi scrive e chi legge; e
quella del criticare, ovverosia dell'esaminare diligentemente e prontamente, del
controllare, integrare e correggere i frutti di un'indagine, e quindi
dell'interferire attivamente in essa facendo sì che altri, quanti più «altri» è
possibile, siano messi in grado di intervenire a loro volta non passivamente ma
intelligentemente, con “cognizione di causa"353
È evidente la dimensione formativa del recensire, che risiede
soprattutto nel problematizzare i dati acquisiti e nell'ipotizzare nuove
direzioni di indagine.
La recensione resta senza dubbio un genere letterario tecnicamente
caratterizzato, «ma si specifica operativamente come attività congiunta
di didattica e di ricerca, intesa a produrre effetti didattici e ricercativi e
teorici ulteriori»354.
A. LABRIOLA, L’Università e la libertà della scienza, in ID., Scritti pedagogici, cit.,
pp. 615-616.
353 N. SICILIANI DE CUMIS, Il “punto di vista” del recensore tra storiografia e educazione,
in ID., Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti 2005 – 2006, cit., p.
331.
354 Ivi, p. 333.
352
La recensione tra scienza e didattica
135
Ma se è vero, per dirla con il Dewey di Logica, teoria dell'indagine,
che nel narrare, nel descrivere un fatto in effetti «riviviamo una storia, riscriviamo la storia», allora abbiamo bisogno del maggior sforzo possibile
di trasparenza ideologica. Di dichiarata consapevolezza di ciò che
condiziona il nostro agire storico-critico, nonché di chi sono gli autori; a
ciò è necessario far seguire il dove e il quando, lo spazio e il tempo in cui
si situa il prodotto comunicativo preso in esame; per cogliere le
differenze tra il contesto dell’opera e dell’autore su cui ci soffermiamo e
il nostro contesto, quello del lettore, del potenziale ricercatore.
È un esercizio mentale atto alla costruzione di abiti storicamente
nuovi che consentono di «ricollocarsi ex-tralocalizzandosi», di superare
chiusure e unilateralità, di porre domande a culture diverse, di scoprire
nuovi aspetti della propria e altrui cultura, nonché nuove profondità di
senso.
Quindi il tema dei contenuti, de il che cosa, della materia
specifica e delle sue storiche ripartizioni in settori.
Ma la recensione che in via di ipotesi più serve, scrivendo di storia in
un’ottica pedagogica ovvero insegnando/apprendendo in qualche modo
il mestiere dello storico, già a scuola (dalle elementari all'università, ed
ovviamente cambiando le cose che sono da cambiare ai vari livelli d'età e
di acculturazione), la recensione che più importa, è quella che restituisce
i contenuti di un testo e contemporaneamente introduce problemi:
quella cioè che funge da tratto - di - unione tra le indagini compiute, da un
autore di una certa opera e di cui si dà conto da qualche punto di osservazione,
e le indagini che si stimolano nei lettori il più possibile funzionalmente ad una
ulteriorità orientata, tendenzialmente finalizzata a produrre nuove conoscenze
di merito ed un ampliamento della pratica recensiva355.
In questo senso la recensione può essere essa stessa ricerca storica di
prima mano, esemplificazione minima di indagine storiografica, veicolo
dunque di abiti critici e sollecitazione ad ulteriori studi.
Strumento per suscitare nuovi interessi, occasione per avviare un
percorso di accertamento di quanto recensito, motivo di ulteriori
indagini, per strutturare l’insegnamento storico sui termini propri della
ricerca storica a partire dalle parole, dalla specifica terminologia storica,
dalla definizione, dal termine che indica il fatto assunto a oggetto di
indagine.
355
Ivi, pp. 335-336.
136
Capitolo settimo
La recensione quale procedura didattica rappresenta l'occasione
motivante per l’acquisizione delle peculiarità della comunicazione
storica, di ciò che ne fa un prodotto linguistico di particolare
complessità. Si tratta per lo studente – recensore, di sapersi orientare tra
argomenti centrali, di sostegno ed esemplificazioni, tra confronti fra fatti
e fenomeni, tra rapporti di causa e conseguenza, tra interpretazioni,
generalizzazioni e valutazioni, e così via. Inoltre, e la cosa è di
particolare rilievo, si va acquisendo la consapevolezza di come spesso i
concetti assumano nell'ambito del discorso storico valenze significative
particolari, in relazione al contesto in cui vengono a collocarsi.
Il tutto nutrito dalla consapevolezza che ogni sistemazione
storiografica non può non risultare provvisoria, ogni giudizio va sempre
visto nel suo tempo, nella sua limitatezza e contingenza; esso va sempre e
comunque datato.
Educare quindi, anche attraverso l’esercizio del recensire,
all’accertamento del termine e del fatto che esprime; rilevare del linguaggio, delle parole l’essere veicolo di ideologie e cultura, esaminare la
parola per il fatto che esprime, valutare i mezzi del procedimento storico
ricostruttivo, individuare il pubblico e le finalità della ricostruzione
storica. Il tutto considerando il fatto che il giudizio storico non può
considerarsi, come d’altronde nessuna specie di giudizio e di indagine,
puramente teorico; l’esperienza e la prassi che ne derivano non solo
sono essenzialmente educative ma anche intrinsecamente politiche.
Se la storiografia consiste nel cercare risposte a situazioni
problematiche è anche vero che le ipotesi formulate in direzione della
risoluzione dei quesiti posti, nonché gli stessi quesiti, si collocano
sempre in un determinato quadro politico e sociale che alimenta sempre
la direzione e la prospettiva della stessa ricerca.
Da qui la consapevolezza che ogni sistemazione storica non può non
risultare provvisoria, ogni giudizio, ogni fatto storico va sempre visto
nel suo tempo, nella sua limitatezza e contingenza; esso va sempre e
comunque datato, su questa base l’importanza tecnica e politica del
rigenerarsi della storia attraverso scoperte di nuovi dati, mediante
verifiche particolari e contestuali anche dei fatti «accertati».
Quindi il recensire, l’educare al recensire come possibile esercizio al
pensiero critico, ad una filologia capace di accertare e precisare i fatti
«nella loro inconfondibile “individualità”»356; in più, vogliamo ribadirlo,
356 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura
di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, p. 1429.
La recensione tra scienza e didattica
137
pratica educativa e formativa che non si propone di conseguire la
semplice, ma non certo trascurabile, capacità di restituire i contenuti di
un testo, ma, individuandone le tracce, di prospettare nuovi sentieri di
ricerca.
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
di Nicola Siciliani de Cumis
1. Nell’opera di Antonio Gramsci, tra gli altri luoghi sullo stesso
argomento357, ve ne sono alcuni dei Quaderni del carcere, che possono
forse essere subito utili ad identificare i termini della questione: il
«punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione. Il punto di
vista, cioè, come documento di in–formazione: considerato proprio il
fatto che, tra gli altri significati tradizionali del documentare (da docere)
c’è anche quello dell’informare e dell’insegnare («per lo più pratico,

Pubblicato in «Storiografia», a. I, n. 1, 1997, pp. 23-39 (numero monografico su
La recensione. Origini, splendori e declino della critica storiografica, a cura di M.
Mastrogregori, Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997).
Questo studio si colloca nel quadro di una serie di interventi sullo stesso tema, che
da un lato hanno comportato e comportano una pratica continuativa del recensire (è
dal 1961 che lo scrivente recensisce libri), da un altro lato si spiegano, appunto, sul
terreno del rapporto (in senso stretto ed in senso ampio) storiografico–educativo a
partire dalla concreta esperienza dell’autore. La quale, per riassumere, tenderebbe
metodologicamente a tradurre nel suo specifico e nei suoi limiti l’antico criterio di
Giorgio Pasquali: «Per nulla al mondo io vorrei tolta ai miei scolari la gioia
orgogliosa di aver scoperto, essi per primi, grazie a metodo fattosi abito e a
perspicacia cresciuta dall’esercizio, qualche cosa […] e fosse pure una minima cosa.
È desiderabile, mi pare, che il giovane entri nella vita con la lieta coscienza di essere
stato anch’egli un giorno, anche un giorno solo, un ricercatore, uno scienziato» (G.
PASQUALI, L’università di domani, in Scritti sull’università e sulla scuola, con due
appendici di P. Calamandrei, introduzione di M. Raicich, Firenze, Sansoni, 1978, pp.
48–49; cfr. quindi N. SICILIANI DE CUMIS. Filologia, politica e didattica del buon senso,
Torino, Loescher, 1980, pp. 11 sgg., 76 sgg., 109 sgg., 127 sgg.; ID., Laboratorio
Labriola. Ricerca, didattica, formazione, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1994, pp. 7
sgg., 85 sgg., 231 sgg.).
357 Cfr. anzitutto A. GRAMSCI, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto
Gramsci, a cura di V. GERRATANA, Torino, Einaudi, 1975, pp. 33, 348–349, 975–976,
2263–2267 e passim. Ma sono numerosi e varii gli aspetti esaminati da Gramsci
relativamente all’atto tecnico del recensire (da diversi punti di vista storico–critici,
nonché politico–educativi), anche in altra sede prima e dopo il ’26 (soprattutto come
giornalista, e nelle lettere non solo dal carcere). E, alla luce dei suoi modi di vedere
stessi, potrebbe forse essere sostenuta l’ipotesi di tutta un’opera tendenzialmente
riconducibile alla sostanza di una recensione (contenuto e forma), come attività
imprescindibile, radicalmente «storiografica» ed elementarmente «educativa».
Senza contare che essenziale è, per l’antipedagogico Gramsci, la stroncatura critica
come momento “alto” del recensire.
140
Capitolo settimo
morale, ma talora anche intellettuale, teorico, speculativo»), del
consigliare, dell’istruire, dell’ammaestrare, dell’ammonire, del fungere
da esempio, da modello, e perfino da «contenuto dell’insegnamento»358.
E ben sapendo che recensione, l’atto del recensire, all’origine vuol
dire anzitutto affrontare «un’opera nuova, con giudizio sul suo valore e
pregio», «esaminare, considerare con attenzione», «a fondo», e
nondimeno «raccontare, narrare», passare in rassegna secondo una
qualche cronologia359: e quindi in vario modo storicizzare, educare il
senso storico, da un determinato punto di vista; espressione,
quest’ultima, che pur rinvia alla questione del vedere come strettamente
connessa alla storia, già sul piano etimologico; ed insieme alla questione
della cronaca, dell’informazione formativa360.
Scrive pertanto Gramsci (all’inizio degli anni Trenta)361:
Riviste–tipo. Le recensioni. Ho accennato a diversi tipi di recensione,
ponendomi dal punto di vista delle esigenze culturali di un pubblico ben
determinato e di un movimento culturale, anch’esso ben determinato, che si
vorrebbe suscitare: quindi recensioni «riassuntive» per i libri che si pensa non
potranno essere letti e recensioni–critiche per i libri che si ritiene necessario indicare
alla lettura, ma non così, senz’altro, ma dopo averne fissato i limiti e indicato le deficienze parziali ecc. Questa seconda forma è la più importante e scientificamente
degna e deve essere concepita come una collaborazione del recensente al tema
trattato dal libro recensito. Quindi necessita di recensori specializzati e lotta contro
l’estemporaneità e la genericità dei giudizi critici.
Ed in un altro testo (precedente, ma rimesso in bella copia nel ’34),
Gramsci chiarisce:
Recensioni di libri. Due tipi di recensione. Un tipo critico–informativo: si
suppone che il lettore medio non possa leggere il libro dato, ma che sia utile per lui
358 Cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, vol. VI (DAH–DUU),
Torino, UTET, 1966, pp. 894–896 (con attenzione anche alla parte storico–antologica,
relativa alle definizioni dei termini (Documentare, Documentazione, Documento
ecc.).
359 Cfr. M. CORTELAZZO – P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. 4
(O–R), Bologna, Zanichelli, 1985, p. 1041 (con significativa bibliografia).
360 Cfr. ID., Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. 5 (S–Z), Bologna,
Zanichelli, 1988, pp. 1278–1279; e N. Siciliani de Cumis, L’educazione di uno storico,
Pian di San Bartolo (Firenze, Manzuoli), 1989, pp. IX e 1–3, e pp. 165–197; ma già in
precedenza, Id., Filologia, politica e didattica del buon senso, cit., pp. 130–134.
361 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 976.
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
141
conoscere il contenuto e le conclusioni. Un tipo storico–critico: si suppone che il
lettore debba leggere il libro dato e quindi esso non viene semplicemente riassunto,
ma si svolgono criticamente le obiezioni che si possono muovere, si pone l’accento
sulle parti più interessanti, si svolge qualche parte che vi è sacrificata ecc. Questo
secondo tipo di recensione è più adatto per le riviste di grado superiore362.
In altre parole, ed in relazione al tema che qui interessa, c’è secondo
Gramsci una doppia funzione del recensire: quella del comunicare, e
cioè trasmettere socialmente informazioni bibliografiche, divulgare
contenuti di ricerca, mediare una cultura finalizzata tra chi scrive e chi
legge; e quella del criticare, ovverosia dell’esaminare diligentemente e
prontamente, del controllare, integrare e correggere i frutti di
un’indagine, e quindi dell’interferire attivamente in essa facendo sì che
altri, quanti più «altri» è possibile, siano messi in grado di intervenirvi a
loro volta non passivamente ma intelligentemente, con “cognizione di
causa”. Il motivo storiografico lo intravedi quindi nel riferimento
esplicito al punto di vista, alla determinatezza della situazione,
all'assumere–riassumere in un «qui» ed in un «ora» certi e non certi altri
elementi per un giudizio (storico) ecc. Mentre è evidente la dimensione
formativa, educativa dell’atto in cui consiste (tra un «prima», un
«durante» e un «dopo») la recensione: che è o dovrebbe essere domanda
ed offerta (trasmissione e produzione) di cultura generale e di sapere
specifico; è o dovrebbe essere un farsi dialogico, magari dialettico, della
relazione «a tre» autore–recensore–pubblico dei lettori: che è o dovrebbe
essere incentivo, valorizzazione procedurale, promozione effettiva di
interessi, di immaginazione creativa, di competenza maggiore. E non è
tutto.
Gramsci infatti non si limita al ragionamento sulla recensione in
quanto tale, come attività critico–informativa speciale e per così dire
separata dall’insieme del lavoro intellettuale caratterizzante le «riviste»,
intese quali sedi tecniche, laboratori del «vedere» e del ri–vedere, tra
formazioni e trasformazioni storico–educative del «punto di vista».
Ipotizza prammaticamente invece, allo stesso riguardo, un preciso
intervento didattico, effettivamente specializzato ma aperto ed esteso,
nel senso appunto della maggiore ampiezza possibile dell’utenza del
recensire e dei suoi feed back, tra «quantità» e «qualità». Non a caso
quindi, ancora nel quadro della sua riflessione sulle recensioni,
aggiunge363:
362
363
Cfr. pp. 2266–2267 (e cfr. p. 33).
Ivi, p. 975 (e dunque 976).
142
Capitolo settimo
Il servizio di informazione critica, per un pubblico di mediocre cultura o che
si inizia alla vita culturale, di tutte le pubblicazioni sul gruppo di argomenti che
più lo possono interessare, è un servizio d’obbligo […]. Le recensioni non
devono essere casuali e saltuarie, ma sistematiche, e non possono non essere
accompagnate da «rassegne riassuntive» retrospettive sugli argomenti più
essenziali.
E ancora:
Una rivista, come un giornale, come un libro, come qualsiasi altro modo
di espressione didattica che sia predisposto avendo di mira una determinata
media di lettori, ascoltatori ecc., di pubblico, non può accontentare tutti nella
stessa misura, essere ugualmente utile a tutti ecc.: l’importante è che sia uno
stimolo per tutti, poiché nessuna pubblicazione può sostituire il cervello
pensante o determinare ex novo interessi intellettuali e scientifici dove esiste
solo interesse per le chiacchiere da caffè o si pensa che si vive per divertirsi e
passarsela buona.
Ciononostante, conviene predisporre gli strumenti «didattici» del
caso; e, sulla base di quanto detto sulle recensioni e sul resto (sullo stesso
«rapporto governanti–governati», sulla «democrazia politica» ecc.),
concludere:
Queste osservazioni e note sulle riviste–tipo e su altri motivi di tecnica
giornalistica potranno essere raccolte e organizzate insieme col titolo:
Manualetto di tecnica giornalistica…
Dalla soggettività del recensire, quindi, ad una tendenziale obiettività
della funzione recensiva. Dal fatto scientifico, l’altro fatto educativo: da
«manuale». Da una professionalità vaga, indeterminata, la prospettiva di
una certa regolamentazione e tecnicizzazione dell’o-pera del recensore.
L’etica del leggere e dello scrivere «per gli altri» comporta un salto di
qualità di tutto il processo comunicativo e storico–critico–formativo,
giacché compromette e coinvolge attivamente una quantità qualificabile
di destinatari del servizio. Il «punto di vista» del recensore da
individuare, in un certo senso, si fa collettivo. E del procedimento
pedagogico in fieri si dà storia, può prodursi documento, e cioè una
«prova» (quale che sia) di insegnamento–apprendimento. Tra
storiografia e educazione, la recensione resta sì un genere letterario
tecnicamente caratterizzato; ma si specifica operativamente come attività
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
143
congiunta di didattica e ricerca, intesa a produrre effetti didattici e
ricercativi e teorici ulteriori.
D’altronde. secondo Gramsci: non è la pratica del «recensire
criticamente» (al limite dello «stroncare») la migliore delle teorie in
proposito?
2. Da una siffatta prospettiva, pertanto, il «punto di vista» del
recensore ha una storia, ed è un elemento di primaria importanza nel
processo formativo. È esso stesso, nella sua evidenza o possibile oscurità
o ambiguità, un’educazione, uno stimolo allo «storiografico» (in senso
più o meno tecnico): per il fatto che comporta in qualche modo e misura
una reazione, di resistenza o adattamento, di opposizione o di
accettazione. Di integrazione, sempre. Il lettore di recensioni, cioè,
recensisce a sua volta il recensore: quanto e come, e con quali conseguenze di rilievo critico, rimane però da vedere; se e fino a che punto, e
se con effetti anche educativi, sarà tuttavia da accertare. Sulla base della
propria eventuale esperienza tra storiografia ed educazione,
anzitutto364; ma non solo365. Ed in ogni caso sarà utile rinviare
(autocriticamente) alla concretezza della pratica che ciascuno può avere
in fatto di recensioni: per averne lette e per averne scritte, o fatto
scrivere; e, nondimeno, per averci lavorato didatticamente su, ovvero
per aver tentato di usare l’esercizio del recensire come uno strumento
formativo elementare imprescindibile, in ambito sia scolastico sia universitario366. E in qualsiasi altro ambito esplicitamente o implicitamente
«formativo» (i giornali, le riviste, altro).
Cfr. a titolo di esempio, dello scrivente, Laboratorio Labriola. Ricerca, didattica,
formazione, cit.; e, per un chiarimento recente sul punto di vista di recensore
storiografico–educativo, dello stesso, Per un «Dizionario» di. filosofi contemporanei.
in Studi in onore di Giovanni Mastroianni, «Bollettino filosofico» del
Dipartimento di filosofia dell’Università della Calabria (Filosofîa e politica),
Cosenza, Brenner, 1992, pp. 321–337.
365 Cfr. ancora esemplificativamente E. GARIN, A scuola con Socrate. Una ricerca di
N. Siciliani de Cumis, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1993; ed i tentativi di
applicazione di un metodo a diversi livelli e su differenti contenuti recensivi, nelle
collaborazioni a riviste come «Scuola e Città» o «Cinema Nuovo», ovvero «Rassegna
sovietica» ora «Slavia» (per dire solo di alcune delle esperienze in corso).
366 Cfr. quindi, ancora, il già cit. Filologia, politica e didattica del buon senso, per
l’illustrazione di alcuni casi riusciti di uso didattico della recensione in diversi tipi
di scuola media; e L'educazione di uno storico, cit., da considerare accanto al pur
364
144
Capitolo settimo
Ad esempio, è pur sempre della recensione, del «punto di vista» del
recensore tra storiografia e educazione, che chi scrive adesso in questa
sede ha avuto l'opportunità di discorrere pubblicamente nella forma
seminariale universitaria, e a più riprese, nell’ultimo anno accademico:
vuoi nel caso di un incontro con i Colleghi e i dottorandi del Dottorato
di ricerca in Pedagogia sperimentale, in tema di Cautele storico–critiche
nella ricerca empirica in educazione367; vuoi nell’ambito di una lezione
a più voci per studenti del Corso di laurea in Filosofia della «Sapienza»
romana, che aveva come argomento La recensione didattica368; vuoi
ancora occupandosi individualmente e collettivamente di svariate recensioni, e delle tecniche relative, nel quadro dello svolgimento di due
corsi monografici per gli studenti di Pedagogia della stessa
Università369. Infine (ma ciò esaurisce solo relativamente l’indagine),
non sono mancati precisi riscontri di contesto anche fuori dell’ambito
accademico di cui sopra, che varrà forse la pena di documentare a
parte370.
Può servire, a questo proposito, ripercorrere (si veda la nota che
segue questo articolo) unitariamente l’andamento delle considerazioni
svolte via via nel farsi delle successive occasioni di seminario,
sottolineando preliminarmente la circostanza obiettiva dell’ambiente
istituzionale, che per le sue stesse finalità ha favorito la riflessione sia
personale sia collegiale: e cioè il Dipartimento di ricerche storico–
filosofiche e pedagogiche della Prima università di Roma. Il «punto di
vista» del recensire, e la recensione del «punto di vista» tra storiografia e
educazione, non potevano non risentirne variamente. Di qui, pertanto, il
senso della scelta del tema e dei modi dello svolgimento di esso. Di qui
lo stesso tono autorecensivo, e l’uso della prima persona, con
menzionato Laboratorio Labriola. Ricerca, didattica, formazione, come bilanci provvisori
di una continuità di intenti sul piano anche universitario.
367 In data 17 febbraio 1995, per invito di Aldo Visalberghi coordinatore del
Dottorato «consortile», con sede amministrativa nella Prima università di Roma.
368 Un incontro seminariale, questo, che si rinnova ormai da diversi anni per
iniziativa congiunta di Giacomo Cives (Storia della pedagogia) e di chi scrive, e con la
partecipazione di studenti e laureati di diverse «annualità» e generazioni. Oltre che,
talvolta, di qualche collega «ospite».
369 Per gli studenti di prima annualità, su A. S. MAKARENKO e il Poema pedagogico;
per quelli di seconda annualità su Jean Piaget e l’Epistemologia genetica.
370 Cfr. quindi taluni riscontri, ancora nella forma della recensione, soprattutto
nelle riviste «Slavia», «Cinema Nuovo», «Scuola e Città», nel corso di questi anni
Novanta.
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
145
motivazioni tecniche esplicite, per altro facilmente desumibili dal testo
nella nota e dalle sue propaggini, cronologicamente successive ma
logicamente sincrone.
3. Una data, i «dati»: meglio, l’assunto, gli assunti del recensire
secondo un determinato punto di vista, tra storiografia e educazione. In
altri termini: la recensione che in via di ipotesi più serve, scrivendo di
storia in un’ottica pedagogica ovvero insegnando/apprendendo in
qualche modo il «mestiere dello storico», già a scuola (dalle elementari
all’università, ed ovviamente cambiando le cose che sono da cambiare ai
vari livelli d’età e di acculturazione), la recensione che più importa, è
quella che restituisce i contenuti di un testo e contemporaneamente
introduce problemi: quella, cioè, che funge da tratto–di–unione tra le
indagini compiute, da un autore in una certa opera e
di cui si dà
conto da un qualche punto di osservazione, e le indagini che si
stimolano nei lettori il più possibile funzionalmente ad una ulteriorità
orientata, tendenzialmente finalizzata a produrre nuove conoscenze di
merito ed un ampliamento della pratica recensiva. E ciò, senza altre
limitazioni che quelle derivanti dalla competenza del recensore “in atto” o
“potenziale”: dove, per «competenza», si deve intendere sia la
formazione e l’esplicazione di capacità tecniche (in forza di cultura,
esperienza, sapere specifico), sia la genesi ed il costituirsi originario di
abilità di giudizio (sulla base di propensioni, attitudini, impulsi
dell’intelligenza).
In questo ordine di idee occorre recensire i recensori. E auto–
recensirsi: ed intanto, collocandosi criticamente e autocriticamente nel
bel mezzo del lavorìo individuale e sociale che la recensione come
genere alla sua maniera storiografico comporta, contribuire forse alla
costruzione del documento ed al suo ipotetico successivo produrre
documenti (variamente didattico–storici). Cioè recensioni. Ma da dove
incominciare? Evidentemente, da «punto di vista»: dal punto di vista
che eleggiamo a «nostro» e che, in quanto tale, può essere dichiarato,
spiegato, posto in discussione. Nei suoi elementi e nell’insieme; nelle sue
posizioni di principio, e nelle sue conseguenze, come frutto di riflessioni
pregresse, e come traccia del «nuovo» da studiare in futuro. Di qui, per
l’appunto, il senso del successivo promemoria tra cronaca e storia , tra
«indagini scientifiche» e «senso comune»:
a) Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione ha, in quanto
tale, una storia ed un rilievo educativo che può essere a sua volta storicizzato e,
146
Capitolo settimo
nondimeno. essere oggetto di una azione pedagogico–didattica eventuale. Un
buon inizio di ricerca, tra gli altri possibili: la “scoperta” e l’”uso” del primo dei
recensori, di chi «inventò l'arte della recensione» ovvero dell’«antenato degli
stroncatori», probabilmente — in senso tecnico — il patriarca di Costantinopoli
Fozio, vissuto nel nono secolo dopo Cristo (820 circa – 899 circa): ed autore, tra
l’altro, della Bibliotheca o Myriobiblion, che consiste in una rassegna di 279 opere
di diverso argomento (in parte perdute) da lui lette, riassunte ed esaminate
criticamente (cfr. Fozio, Biblioteca, trad. it. di Claudio Bevegni, a cura di Nigel
Wilson, Milano, Adelphi, 1992, pp. 461). Problema: interferisce o non,
nell’attività del Fozio recensore, il suo punto di vista polemico verso la Santa
Sede, che lo spinse addirittura a convocare un concilio a Costantinopoli e ad accusare di eterodossia la Chiesa occidentale? Nelle lettere d’invito da Fozio
spedite ai patriarchi e ai vescovi delle chiese d’Oriente, oltre che nelle sue
recensioni e negli altri suoi scritti, quale diretta e/o indiretta pedagogia si
esprime? Di che marca è, dunque, il tipo della sua storiografia?
Ed ancora a proposito di lettere, di epistolari, di comunicazioni
interindividuali private e/o pubbliche, fino a che punto ed in che modo in
determinati casi (trattandosi cioè di interlocutori tecnici in un certo campo), tali
testi non sono da considerare proprio l’espressione di un punto di vista, di una
recensione, di un’interferenza dialogica, tra lo storiografico e l'educativo?
b) Segue un’ulteriore approssimazione ai termini del problema, che qui
interessa; ed essa si propone in direzioni d’indagine prospetticamente
ipotizzabili (per somme linee). Di modo che, ai fini della presente ricerca sul
«punto di osservazione» di questo recensore, storico da un lato, educatore
dall’altro, può forse essere utile la seguente scaletta pro–memoria:
La recensione e la sua storia come genere storiografico, ed insieme come
strumento educativo. Autori e testi noti, e da individuare tra «indagini
scientifiche» e «senso comune». Biblio–emerografie. Riviste specializzate. La
terza pagina dei giornali. Dibattiti e polemiche ricorrenti. Zona di confine: la
stroncatura.
L’ideologia del recensore, il suo sistema di valori tra storiografia e
educazione. Competenze ed incompetenze. La tecnica del recensire, ed il
motivo deontologico che variamente vi si connette. Valenze documentative e
pedagogiche.
La «pubblicità» come elemento caratteristico della ulteriorità dell’atto del
recensire. Dialogicità espressa o potenziale. Socialità dello stile di pensiero
(individuale–collettivo) del recensore. Il «pubblico» della recensione, il
«recensire» da parte del pubblico. Antipedagogismo. La recensione
pubblicitaria. La pubblicità recensiva. I risvolti di copertina, le veline per i gior-
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
147
nali, le iniziative editoriali (ai vari livelli) ecc., come occasioni di studio
(storiografico–educativo).
Limiti e possibilità del recensire «pedagogico». Strumenti intermedi: le
schede di lettura, le rassegne critico–bibliografiche, le note problematiche, i
riassunti, le rilevazioni dei temi ricorrenti, le tassonomie concettuali, le
incidenze dei contenuti, la rilevazione di tesi ed ipotesi, l'osservazione di
«indizi» (convergenti e/o divergenti), l’identificazione di ulteriori itinerari
d’indagine nel quadro della materia specifica.
Quantità e qualità del recensire, tra filologia e educazione (autoeducazione).
La recensione più lunga, a ragion veduta, del libro recensito. La recensione
laconica, per brevità calcolata, come «maieutica» del leggere funzionale
(comunque critico–autocritico).
Prefazioni e postfazioni, come propedeutiche del leggere–recensire l'opera
cui si riferiscono. L’educazione del testo, la storicizzazione del contesto.
Informazione e giudizio come pedagogia indiretta. Tra presente, passato e
futuro dell’attività di recensione.
L’intervista e l’auto–intervista come recensione/auto–recensione (al limite,
come auto–stroncatura). Gli errata corrige come motivo, tra l’altro,
educativo/autoeducativo (al limite, come test di attenzione e di correttezza nel
leggere). Il diario culturale di autori e lettori, come l’intervista/auto–intervista.
La recensione e la compravendita del prodotto cui si riferisce. Recensioni e
best–seller (libri come patate? film come dentifrici?). Le «ragioni» e i «torti» del
mercato. Un’occasione educativa, il «vederci chiaro». Motivi storico–storiografici ed etico–politici, oltreché pedagogici, di un siffatto, esplicativo «punto di
vista». Recensione del «recensore–imbonitore», recensione delle «recensioni a
pagamento», recensione della «recensione di scambio» ecc.
Gli attributi del recensore (nel significato sia soggettivo sia oggettivo del
genitivo). Aggettivi di valore e di disvalore. Identificazione del lessico di chi
recensisce, in rapporto al lessico presumibile del destinatario della recensione.
Funzione tecnica ed insieme pedagogica di eventuali neologismi.
Il «metodo» e il «merito» del recensire. La recensione come discorso
indiretto sul metodo («i canoni del recensore»), e come intervento critico di
merito («di che si tratta»). All’origine di un’educazione non diretta
(«antipedagogica»). Responsabilità del recensore, responsabilità del lettore di
recensioni. Un’ipote-tica crescita di competenze, a livello sia formale che di
contenuto, e sul terreno sia soggettivo che oggettivo.
La recensione come mediazione pedagogica. Le pagine culturali dei quotidiani
e dei rotocalchi, e le riviste specializzate, tra «cultura di massa» e «alta cultura».
Tra trasmissione culturale, e produzione culturale «di base». La recensione
come momento amplificatore, procedurale, dell’indagine, tra stabilizzazione di
148
Capitolo settimo
competenze e promozione di capacità tecniche, ovvero di cultura generale.
Temi e problemi di una «filosofia» della recensione.
La traduzione come (in un certo senso) recensione. «Tradurre è un po'
tradire». Recensire le traduzioni in funzione esplicitamente educativa, nell’insegnamento/apprendimento (non solo) della lingua straniera, e (anche e
soprattutto) dei meccanismi inter/trans–culturali specifici. Storicità, e dunque
storicizzazione di ciascun prodotto di traduzione. Un’educazione.
Il recensir di nuovo la stessa «cosa», da un diverso «punto di vista». La
ripetizione–strumento educativo, in rapporto con l’irripetibile–obiettivo
storiografico (Gramsci). Nessi storico–educativi di testi e contesti, di contesti e
pretesti di ricerca nuova, ulteriore. Quot capita, tot… recensiones.
Rapidità e lentezza strumentale, funzionale, del recensire. La recensione
come acquisizione di mobilità intellettuale, di flessibilità critica. I «corsi di
lettura rapida», in relazione con l’attenzione costitutiva del recensire. Tempi
storico–cronologici e diacronico–metastorici. Educazione e diseducazione della
mente. Crescita della capacità di scelta, potenziamento di motivazioni e
costruzione di interessi (tra utilità e disinteresse).
Recensire le recensioni, recensire le stroncature, stroncare le recensioni,
stroncare le stroncature. Dibattiti ricorrenti, continuità della polemica:
documentazione in corso di chiarezza e confusione di idee, un’ipotesi educativa
a partire dalla querelle nei suoi termini storici, come segno dei tempi
(storiograficamente ricostruibili).
Rubriche di recensioni nei periodici (quotidiani, settimanali, quindicinali,
mensili. bimestrali, trimestrali, quadrimestrali, semestrali, annuali ecc.).
Stabilizzazione e occasionalità del posto–recensione. La «cattedra» del
recensore. Interventi critici ed educativi a breve, media e lunga scadenza.
Identificazione di un ipotetico (prevedibile) feed back.
Straordinarietà del recensire. La recensione «anomala». L’umorismo come
«recensione». Recensire «senza leggere» l’oggetto di recensione. La recensione
«preventiva» e quella «tardiva» (a ragion veduta). La recensione «spettacolo».
Recensioni e «avvisi di garanzia». Le «manette» del recensore. La «pena di
morte» come «recensione». La recensione che «arriva dall’aldilà».
La recensione visiva. La cine–recensione. La video–recensione. La recensione
a fumetti. Comics e recensioni. Strips librarie. La recensione in vignetta, la
vignetta come recensione («una recensione tutta da ridere»).
Sciocchezzaio del recensore. Il «Re Censore», «Catone, il recensore». Un
«catechismo» per recensori. Recensioni «a naso». L’«auto–critica» (nel senso di
una critica–automobile) ecc.
La recensione didattica. Il «gioco» della critica. Concorsi di scrittura
recensiva nella scuola. Studenti recensori. Il recensito in classe, gli studenti «in
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
149
giuria». Morte e trasfigurazione della recensione e del suo «punto di vista», tra
storiografia e educazione, didattica e autodidattica, «Non–transitività» del
verbo (transitivo) educare.
Il recensito che recensisce il recensore. Il lettore capace di recensire in
concorrenza con il recensore. Funzione ad hoc delle rubriche delle «lettere al
direttore» (in giornali, e riviste specializzate). Il lettore «storico» e «educatore»,
tra «indagini scientifiche» e «senso comune». Critica della passività del recepire
(leggere, vedere, ascoltare). Prospettive ulteriori del «punto di vista», tra
storiografia e educazione.
c) Discorso a parte, benché organicamente connesso alla recensione,
meriterebbe, anche in questo quadro, la stroncatura371.
La stroncatura. Ricerca necessaria. E l’indagine non potrà per prudenza, che
incominciare con il considerare l’ipotesi descritta da Edgar Allan Poe, nelle Regole di
critica letteraria (ora in Scritti ritrovati, a cura di F. Mei, con sette disegni di F. Clerici,
Brescia, Shakespeare and Company, 1984, pp. 164–165), allo scopo di accertare
subito il senso e i limiti della «cosa». Lo humour nero di Poe si colora, qui, di ben
altre tinte:
«[…] Lasciate che lo spirito del libro in se stesso prenda cura di sé, o che sia
oggetto d’attenzione di qualche mano più competente, e per parte vostra procedete
ad enumerare gli errori verbali: ogni libro ne contiene abbastanza per farlo
condannare, se dovesse essere giudicato solo in base ad essi. Sarà veramente un
caso raro se non troverete una dozzina di proposizioni e anche più usate in modo
poco corretto, o se non riuscirete a pizzicare una congiunzione o due piuttosto
superflua. Quando avrete finito lo spoglio […] ci saranno errori tipografici in
abbondanza su cui appuntare l’attenzione; dopodiché se la vostra recensione è
ancora difettosa per lunghezza o non è ancora abbastanza cattiva, avete […] il titolo,
il tipo dei caratteri, il taglio del volume, la rilegatura e l’editore a cui fare ricorso.
Ogni errore scoperto in un libro aiuta a ostacolare la sua vendita e risponde al fine
precipuo della critica letteraria, che è quello di mettere il critico, e non l’autore
recensito, in una posizione di vantaggio […].
La miglior linea di condotta è di giudicare un libro non per quello che è
effettivamente e che vuol essere, ma per quello che non è e che l’autore non ha mai
inteso che fosse; in base a questo, pronunciare ma condanna irrevocabile. Con
questo sistema costringete l’autore stesso a riconoscere la verità della vostra critica;
e di fronte a coloro che si affidano a voi per farsi la loro opinione, sarete considerato
un recensore profondo, splendido e brillante. Di tutti i vari modi di recensire un
libro, questo offre il più ampio margine di estro, perché non vi costringe a limitarvi
all’opera in esame, ma vi permette di citare liberamente dall’ultimo libro che avete
letto. Se il libro da cui citate, dovesse trattare un argomento diverso da quello che
state recensendo, vi servirà a far apparire l’autore molto ridicolo mostrando quanto
egli sia diverso da qualcun altro […].
371
150
Capitolo settimo
4. Proprio Gramsci del resto, tutto Gramsci, quello dei Quaderni del
carcere e quell’altro che precede (nonostante i necessari distinguo), è un
invito alla riflessione sull’argomento nelle sue articolazioni pedagogico–
antipedagogiche, didattiche–antididattiche, nel senso appunto della
ricerca: e quindi della recensione come indagine innovativa, perspicua,
segno di vitalità intellettuale e morale, produttiva a sua volta di nuova
vita tecnico–etica, e storico–politica.
Né è un caso che l’antica convinzione marxiana sull’educazione, che
«le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso
deve essere educato» (K. Marx, 3a Tesi su Feuerbach, 1845), rispunti nella
sostanza in Gramsci: coniugandosi poi variamente all’idea di una
quotidianità formativa, pedagogica, didattica, da riconoscere e da far
valere nella complessità delle situazioni di insegnamento–
apprendimento. La recensione, a questo livello, è strumento educativo
elementare, essenziale: e si ripropone metodologicamente come leva
della crescita della volontà e dell’intelligenza individuale e sociale (e
quindi di massa). Le «armi della critica», innanzi tutto. Le riviste, i
giornali, sedi privilegiate, accanto ai libri, alla scuola, alle altre
intermediazioni istituzionali della trasmissione e della produzione di
cultura, di sapere, di competenza, all’incrocio di quantità e qualità
(Gramsci vi insiste).
La recensione, in questo senso, può essere essa stessa ricerca storica
di prima mano, esemplificazione minima di indagine storiografica;
veicolo, dunque, di abiti critici ed autocritici in sviluppo. Il recensire
altro non è, in un’ottica siffatta, che una presa d’atto della realtà nel suo
prodursi quotidiano, problematico, non prevedibile e nondimeno da
padroneggiare razionalmente. L’atteggiamento del recensore dovrà
allora essere senza meno attivo, frontale, alternativo a ragion veduta,
oppositivo se serve, nell’interesse dell’oggetto medesimo di recensione:
e integrativo, correttivo, modificativo ben oltre l’esistente, in funzione di
un’ulteriorità recensiva in formazione, tanto se si guarda all’intervento
Niente è più facile che far apparire ridicola un’altra persona, ma non è sempre
facile al tempo stesso riuscire a non apparire tali. Perciò, si deve esser sempre molto
cauti, nel fare a pezzi un autore, a non infliggere delle ferite a se stessi. In una
recensione, lo scopo principale è di far sì che il recensore, non il recensito, appaia in
una posizione di vantaggio. Il critico perciò deve spulciare tutte le notizie e le idee
brillanti che può, dal libro che sta recensendo, e sporgerle qua e là nel suo articolo,
senza rivelare la fonte della loro origine. Il più grande sforzo che deve prefiggersi
un recensore è di mettere se stesso tra il pubblico e l’autore, cosicché l’autore viene
perso completamente di vista quando l’articolo arriva alla fine».
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
151
del recensore, quanto al carattere della «cosa» (come già si diceva più
sopra) recensita o recensibile. A cominciare appunto dalla sua relazione
con la quotidianità e dai suoi «documenti» giornalieri: al limite dal
«giornale in classe» come strumento storiografico–educativo in senso
stretto e in senso lato), metodologicamente eletto a rappresentare i
termini per così dire «sperimentali» del rapporto, da un certo «punto di
vista». E cioè, ancora, dal punto di vista di chi scrive qui queste note, per
come è venuto storicamente e pedagogicamente strutturandosi fin dal
principio nel farsi di una circoscritta esperienza di insegnante–
ricercatore, tra «filologia, politica e didattica del buon senso». Così
riassumibile, relativamente a ciò che qui interessa, alla recensione,
appunto, come genere storiografico nella sua valenza educativa «di
base»:
L’ipotesi unitaria […] consiste nel tentativo di combinare operativamente
assieme, e di far convergere nella dimensione di un’unica didattica
(dell’italiano, della storia, della pedagogia, ecc.), due esigenze distinte: e cioè
l’uso del quotidiano come strumento di formazione etico–politica; e, con lo
stesso mezzo, ricerca storica di prima mano, in classe.
Al di là delle pur importanti «variazioni sul tema» e delle acquisizioni
concrete sul terreno linguistico, documentativo, storico–pedagogico; e al di là
delle ulteriori «possibilità di sviluppo» del metodo «filologico» nelle diverse
classi e nei differenti tipi o livelli di scuola, il giornale, tra cronaca e storia,
consente di conseguire subito, a certe condizioni, risultati considerevoli in fatto
di apprendimento–insegnamento, di profitto, di verifica del prodotto ottenuto.
L’intelligenza critica dei problemi attuali attraverso un’indagine sulla
quotidianità–trascorsa e ormai fattasi storia, può permettere infatti questo di
particolare: che gli scolari–ricercatori acquistino il senso di una articolata e
ampia prospettiva di giudizio, mantenendo nel loro approccio al passato il
vantaggio, il gusto dell’immediatezza e talvolta dell’«urgenza» del problema
esaminato e dei suoi termini. D’altra parte, l’interesse, l’attenzione riservata nel
corso del normale svolgimento dei «programmi» a qualcuno dei più notevoli
episodi dell’at-tualità–presente, mediante gli stimoli alla ricerca che possono
provenire da antiche cronache e comunque da documentazioni giornalistiche, è
un modo abbastanza perspicuo per accertare proceduralmente la vitalità degli
stessi programmi e per utilizzarne o rettificarne l’indirizzo, sotto la spinta di
una realtà in sviluppo. Ed è appunto qui che prende corpo e consistenza
durevole l’idea di ricerche originali da parte degli studenti: qui l’idea del
«vantaggio» di una formazione individuale e di gruppo progressiva,
152
Capitolo settimo
sperimentalmente rinnovabile nella duplice ottica del presente e del passato a
concorso, in vista della soluzione di un problema dell’oggi.
Tutto ciò significa, nel farsi concreto di un’educazione, confronto sistematico
di linguaggi, di situazioni, di idee; vuol dire approssimazione razionale alle
questioni e abbinamento controllato, per somiglianza e per differenza di
circostanze problematiche antiche e recenti sul piano di una selezionata
«contemporaneità». Da questo punto di vista, l’uso in classe di sepolte
effemeridi e di giornali dimenticati, in parallelo e a confronto con le gazzette
quotidiane ancora fresche di stampa (la hegeliana «preghiera del mattino»)
può comportare qualche vantaggio didattico, che val la pena di rilevare.
A parte il non sottovalutabile esercizio collaborativo di studenti e
insegnante per verificare quotidianamente o almeno periodicamente il ritmo
del proprio passo con quello del mondo, ciò che più conta è la possibilità e la
continuità dell’accertamento, nel contesto sociale soggettivo che è la classe, delle
«accelerazioni» e dei «ritardi» dei processi sociali oggettivi in corso, alla luce di una
crescita globale di interessi individuali e di gruppo. Il che comporta di fatto il
superamento, anche, di certe barriere linguistiche; l’acquisto di una più
elevata consapevolezza storica e politica; e quindi una maggiore padronanza
critica di sé e della propria cultura, dall’interno di un determinato ma non
immodificabile contesto civile ed esistenziale.
In tal senso, a seconda dell’argomento, a seconda del problema, le
esperienze ora riferite vanno viste come i momenti trainanti di una azione
scolastica complessiva. Esse sembrano pertanto essere servite anzitutto a
recuperare e a non dissipare energie, ad aggregare e a chiarire, nelle varie
classi, i compiti e i ruoli di ciascuno. Hanno anche contribuito, in qualche
caso, a saldare positivamente, una volta evitata la contrapposizione, un
curricolo scolastico «normale» con un curricolo scolastico «straordinario»,
«parallelo». ecc. E, a proposito, va detto almeno questo: che le ricerche di cui
si discorre hanno avuto quasi sempre la capacità di sollecitare negli studenti
— nel caso che non fossero stati già questi ultimi a prendere l’iniziativa e a
stimolare essi stessi l’insegnante — una maggiore adesione, un’attenzione
più critica, consapevole e «necessaria», ai programmi previsti dagli
ordinamenti: e ciò, paradossalmente, proprio nel momento in cui le stesse
ricerche venivano presentate (in un certo senso lo erano anche) come
qualcosa di «alternativo». Acquistando i ragazzi fiducia nelle loro capacità
di ricercatori e ottenendo da sé la certezza di svolgere un’attività
intelligente, impegnativa e «seria» oltre che autogratificante, essi hanno
finito con lo scegliere più che col subire o con l’accettare ciò che, in un primo
tempo avevano rifiutato. Il che vale in particolare per certi argomenti del
programma o per alcuni libri di testo. Quando anche sia capitato di
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
153
verificare la inadeguatezza degli uni e degli altri, rispetto agli interessi sia
maturati in classe sia sviluppati fuori dalla scuola, il lavoro integrativo «tra
cronaca e storia» per l’intervento attivo di studenti e insegnante — ma gli
uni e l’altro solidali nella realizzazione dell’unico fine ricercativo — ha
consentito in effetti di riempire qualche «vuoto», di colmare lacune, di
superare fratture: a cominciare da quella più grave ed evidente, tra la «vita»
e la «scuola», la cultura e il libro […].
Tale «il punto di vista», esplicitamente tecnico, e storico–biografico,
del recensore; ed il presupposto stesso della interferenza procedurale
ipotetica, tra l’attività storiografica e quella educativa. A scuola e fuori
della scuola. Nell’università, certamente, e fuori dell’università.
Recensendo libri, e riflettendo in vario modo attorno alla pratica del
recensire. E leggendo e documentando, per quanto possibile, il
ripresentarsi periodico, tra cronaca e storia, dei termini della «quistione»
(nell’accezione gramsciana della parola). Del recensire e dei suoi
«momenti» e «moventi», come diceva Antonio Labriola discorrendo del
«mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica», ed insieme «la
nostra capacità di intendere il presente […] i fatti politici attuali» (nel
1900). Ed ora, prendendo le mosse da questo occasionale scambio di idee
(estate 1995) tra recensori della recensione e della sua funzione vuoi
storiografica, vuoi educativa, nell’ottica di un ipotetico punto di vista
dialogico:
a) Bruno Pierozzi: Vorrei sollecitare a questo punto una riflessione su l’opportunità di dedicare uno spazio (ad esempio la domenica) ad una rubrica che
recensisca libri e pubblicazioni. La rubrica a mio avviso non dovrebbe però
limitarsi alla recensione delle sole novità editoriali, ma svolgere anche un’opera
dì divulgazione di testi oggi «oscurati» dalla cultura nuovistica. […] Si avverte
oggi con prepotenza l’esigenza di mantenere viva la «memoria storica» […].
Non mi illudo che questo compito impervio possa essere esaurito da una
rubrica dedicata ai libri e alla pubblicistica politica, ma sono fermamente
convinto che possa essere uno strumento di grande utilità per orientare, per
invogliare alla lettura e ad ulteriori approfondimenti.
b) Vitaliano Stabilini: Non si può non essere d’accordo con Bruno Pierozzi,
per il rilievo dato all’idea di una rubrica di recensioni di libri, con particolare
attenzione alla tradizione dei classici del marxismo. Personalmente, se la proposta
prendesse quota, vorrei collaborarvi. E comincerei, proprio. da Antonio
Gramsci e dalla sua teoria (per così dire) della recensione. La sintetizzo con le
sue parole stesse: «Ho accennato a diversi tipi di recensione, ponendomi dal
154
Capitolo settimo
punto di vista delle esigenze culturali di un pubblico ben determinato, che si
vorrebbe suscitare: quindi recensioni «riassuntive», per i libri che si pensa non
potranno essere letti e recensioni critiche per i libri che si ritiene necessario
indicare alla lettura, ma non così, senz’altro, ma dopo averne fissato i limiti e
indicato le deficienze parziali, ecc. Questa seconda forma è la più importante e
scientificamente degna e deve essere concepita come una collaborazione del recensente al tema trattato dal libro recensito. Quindi la necessità di recensori
specializzati e lotta contro l’estemporaneità e la genericità dei giudizi critici».
Che Gramsci! E noi? […] risulterebbe una scelta pedagogicamente essenziale
tentare di ragionarci su e di mettere socialmente in pratica lo schema del
duplice tipo di recensione. Perché non ci proviamo, qui ed ora, fornendo esempi
[…]? Ci riusciremo?
Se ci riusciremo è francamente difficile, difficilissimo dire. Il discorrere
criticamente di recensioni può essere, tuttavia, almeno uno spiraglio
sulla positività dell’intento. E fa parte del «gioco», cioè del lavoro
impegnativo e serio del recensore nella costruzione di un ipotetico
«punto di vista» tra storiografia ed educazione, il tentare di prospettare
soluzioni tecniche, metodiche, in un certo qual modo «pedagogiche»:
benché si sappia senza infingimenti che, se i verbi educare, formare,
insegnare ecc. sono grammaticalmente «transitivi», essi però risultano di
fatto non–transitivi; nel senso che non serve alcun «complemento» perché
l’azione verbale espressa si compia: giacché ogni educazione, formazione, insegnamento che si rispetti, non può che essere in ultima analisi che
un’auto–educazione, un’auto–formazione, un’auto–didattica. Si può
quindi essere pienamente d’accordo con la lezione dei «Maestri», in tal
senso.
Al recensore, spetta sì il compito di una relativa esemplarità
metodologica, in presenza, mai in assenza, del merito delle questioni da lui
trattate; ma un esercizio siffatto è pur sempre imperfetto, incompiuto,
aperto al «nuovo» che esso stesso proceduralmente introduce o almeno
prefigura tra lo «storiografico» e l’«educativo», dal suo «punto di vista».
Ecco perché, già solo alla luce di quanto detto fin qui, c’è una quantità di
altri discorsi non svolti che pur vi si ricollegano e che converrà tentare.
C’è l’obbligo dell’autorecensione. E dunque, in via esemplificativa: va
bene il Gramsci della «recensione»: ma fino a che punto il vero Gramsci,
sul tema, è questo, come si è detto, che ne parla per esplicito e che qui è
stato recensito, e non piuttosto l’altro Gramsci, quello che non ne fa
cenno per esplicito pur mettendo in pratica i suoi criteri di recensore? In
che misura, se abbiamo affrontato un argomento così (il «punto di vista»
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
155
storiografico–educativo del recensore per l’appunto) siamo riusciti ad
essere autocriticamente trasparenti, ed a restituire le «ragioni» della
costruzione della tesi ed il senso delle sue articolazioni? Se la prospettiva
da cui ci si è posti fin qui fosse da ora in avanti un’altra (e le variabili da
considerare sono in realtà numerose e diverse), come ripenseremmo alla
materia delle nostre riflessioni in corso? In che consisterebbero i termini
ideologici di un’autorecensione degli attuali modi di osservazione del
«punto di vista», che vuol essere tratto–di–unione, ovvero di–
disgiunzione tra le attività storiografiche e quelle educative, intanto, di
questo singolo ricercatore, di questo solo insegnante372?
Nota. Cautele storico–critiche nella ricerca empirica in
educazione
E poi, in prospettiva (dal punto di vista di quest’ultima, nell’esercizio della
sua funzione di recensore): il Labriola che recensì libri, probabilmente e con relativa
certezza su «La Cultura» di Ruggero Bonghi (con buonapace dei labriolologi
acribiosi epperò ignoranti), nell’86 sognava davvero «volentieri di Giordano Bruno
nelle logge massoniche». O almeno sognava di sognare di lui colà (nonostante gli
errori di stampa nelle Lettere ad Engels, da correggere, certo). Lo Eugenio Garin
totus recensor di questo straordinario volume in fieri dal titolo Minima paedagogica,
con i suoi scritti educativi «minori» di oltre un sessantennio, è nella recensione come
genere storiografico, nelle schede critiche, nelle note e chiose e postille che fornisce
una chiave metodologica per entrare nel merito dell’opera maggiore. Forse. E
ancora: questo continuo andirivieni dalle biblioteche e dagli archivi storici, non solo
a vantaggio della propria personale ricerca, ma anche nel quadro di un’attività
educativa in corso, è parte essenziale della qualità della concretezza del recensire e
libri e film (e delle recensioni di libri e film). Questa ricorrente diatriba sulla «realtà»
della recensione oggi, e sul suo «dover essere», trova un attimo di respiro, una
boccata di ossigeno, se un autore fa sapere di aver riscritto di pianta un’opera nella
seconda edizione, «alla luce» delle critiche dei suoi recensori. Trovata pubblicitaria
anche questa? Chissà. Però avverti che, tra storiografia ed educazione, le prime
prove di recensione dei critici in erba del «Grinzane Cavour» pubblicate non solo sui
giornali scolastici ma sui quotidiani di massima tiratura, qualcosa sono. Ma può
bastare? No di certo, se volendo in qualche modo partecipare del punto di vista di
Pasquali sullo studente–ricercatore «per un solo giorno» (e della critica gramsciana
della «passività»), non s’inventa e si generalizza la figura dell’insegnante–recensore,
in classe (ad ogni livello di scuola).

Lo stesso titolo della lezione di dottorato di cui sopra, e l’espressione
«ricerca empirica», a dispetto del suo significato occasionale polivalente,
indicano comunque recensione, ed un recensire quantitativamente rilevante di
libri e realtà, idee e fatti. valori e disvalori (tanto educativi quanto storiografici).
372
156
Capitolo settimo
Il chi
Per cautelarmì (se è possibile) dalle ambivalenze, dalle ambiguità
anche, che lo stesso concetto di cautela comporta, spero mi sia consentito
di servirmi di un tono insistitamente problematico–interrogativo, per
così dire da questionario. Ma un simile approccio dovrebbe esserci
tecnicamente congeniale, tra questioni di merito, appunto, e questioni di
metodo: e, quanto a me, non saprei farne a meno (al di là di ogni
espediente retorico), giacché incomincerei immediatamente col
chiedermi una spiegazione tanto dei valori «negativi» della parola
cautela, per giunta al plurale, con i significati di prudenza, circospezione,
precauzione, riserbo, difesa ecc., quanto dei valori semantici «positivi»
del termine: quali accortezza, avvedutezza, ponderazione, furbizia,
riflessione, controllo, ecc. Sì, controllo: e siamo già, evidentemente, su un
terreno peculiare, scientifico, «unificato» alla John Dewey, sperimentale
in senso stretto, ed esperienziato, al livello di precise, circoscritte,
limitatissime prove d’indagine tra storiografia e educazione. Diciamo, la
recensione…
In ogni caso, non saprei uscire dalla mia concreta pratica di
ricercatore. Non posso, cautelativamente, che fare riferimento ad essa e
ai suoi problemi e alle sue tecniche, alla sua ambizione formativa, e
dunque alle sue difficoltà, impossibilità, deficienze, limitazioni oggettive
e soggettive autolimitazioni.
Ecco perché in primo luogo, anche in generale, è al punto di vista di chi
compie una determinata ricerca, che io comincerei col rimandare: chi
sono io che svolgo questa indagine? Chi siamo noi che indaghiamo? Chi,
al singolare e al plurale, chi individualmente e collettivamente, chi
siamo e chi vogliamo essere nel corso di un siffatto studio a valenza
storico–critica ed insieme (in qualche modo e misura) di tipo empirico–
educativo? Chi — infine, o dal principio — sono i «soggetti»
dell’indagine?
La celebre questione etimologica e glottologica della storia come
«istoria», ἱστορία e historia (con quel che precede e segue, sulla radice ἰδ
di όραω, dell’aspirata h, dello spirito aspro e dello spirito dolce ecc.),
come questione non solo filologica, si propone e ripropone come essenziale: se è vero, per dirla ancora con il Dewey di Logica, teoria
dell'indagine, che sempre che noi narriamo e descriviamo un fatto, in
effetti ri–viviamo una storia, ri–scriviamo la storia (e magari la Storia). Di
qui la cautela, il maggior sforzo possibile, di trasparenza ideologica. Chi
cioè, più di tutti, mi condiziona nel mio agire storico–critico? Avendo
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
157
solo una frazione di secondo per pensarci, non avrei dubbi a rispondere.
E risponderei: Antonio Gramsci, il Gramsci di tre luoghi per me
indimenticabili (il primo scoperto al liceo, il secondo come studente
universitario, il terzo a cinquanta anni). Eccoli, nell’ordine cronologicoio-bibliografico:
a) Carissimo Delio, […] Mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto.
Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola.
Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età,
perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti
più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro
in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di
ogni altra cosa. Ma è così?
Ti abbraccio.
Antonio373
b) Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio
inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché
non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle
scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del
negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i
contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per
l’indipendenza nazionale della regione: «Al mare i continentali!» Quante volte
ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che
avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita,
per la lotta, per la classe operaia.
Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile
quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era
possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole
creature umane. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante,
373
A. GRAMSCI, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino, Einaudi,
1965, p. 895. L’edizione su riferita era tuttavia quella parziale , del ’61 nei tipi degli Editori
Riuniti, con prefazione di Luigi Russo (la lettera in questione era a p. 159, e chiudeva la
raccolta); e fu letta contestualmente al volume Lettere ai condannati a morte della
Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli,
Prefazione di E. Enriques Agnoletti, Torino. Einaudi, 1952. Di quest’ultimo libro cfr. quindi
la recensione, nella rubrica «Un libro per voi», a cura di chi scrive in «il Sentiero», periodico
del Liceo «P. Galluppi» di Catanzaro, del 24 novembre 1961 (tra gli altri collaboratori e
recensori, nello stesso numero, Gianni Amelio, Maria Donzelli).
158
Capitolo settimo
non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro
calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario?374
c) Giustificazione delle autobiografie. Una delle giustificazioni può essere
questa: aiutare altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi.
Spesso le autobiografie sono un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia
degna di essere narrata perché «originale», diversa dalle altre, perché la propria
personalità è originale, diversa dalle altre, ecc. L’autobiografia può essere
concepita «politicamente».
Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vite, ma che per un
«caso» essa ha avuto uno sbocco che le altre molte non potevano avere e non
ebbero di fatto. Raccontando si crea questa possibiltà, si suggerisce il processo, si
indica lo sbocco. L’autobiografia sostituisce quindi il «saggio politico» o
«filosofico»: si descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente.
È certo che l’autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la
vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principi
morali dominanti […] solo attraverso l’autobiografia si vede il meccanismo in
atto, nella sua funzione effettuale che molto spesso non corrisponde per nulla
alla legge scritta. Eppure la storia, nelle sue linee generali, si fa sulla legge scritta:
quando poi nascono fatti nuovi che rovesciano la situazione, si pongono delle
domande vane, o per lo meno manca il documento del come si è preparato il
mutamento «molecolarmente», finché è esploso il mutamento […] le
autobiografie […]375.
A. GRAMSCI, 2000 pagine di Gramsci. Volume secondo. Lettere edite e inedite
(1912–1937), a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 32–33
(una lettera a Julca, da Vienna, 6 marzo 1924). Cfr. quindi, in rapporto “dialettico”
con la medesima esperienza di Gramsci le due recensioni di N. SICILIANI DE CUMIS:
di A. VISALBERGHI, Educazione e condizionamento sociale, Bari, Laterza, 1964, su
«Riforma della scuola», maggio 1964, p. 39, e di F. PITIGLIANI, Metodologia della
programmazione. Piano pilota per le scuole secondarie inferiori in Calabria, Roma, Istituto
di rilevazioni statistiche e di ricerca economica, 1964, in «Scuola e Città», aprile
1965, pp. 295–296.
374
A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 1718 e pp. 1723–1724. È questa la
chiave di lettura di una serie di testi individuali e collettivi, prodotti a vari
livelli d’indagine in oltre venticinque anni di insegnamento sia scolastico sia
universitario: ed infine, recensendo il Poema pedagogico di Makarenko come
documento storico–autobiografico a forte valenza educativa; e dunque
«antipedagogico», nei modi spiegati dall’autore stesso.
375
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
159
Il dove
D’altro canto, in quale spazio si situa l’indagine storico–critica,
relativamente al suo uso empirico–educativo? Se c’è un luogo in cui
l’ipote-tica storicizzazione avviene, e c’è un luogo dove si colloca,
distanziandosene la materia oggetto di analisi storica, in che rapporto
stanno le due «sedi» tra lontananza ed avvicinamento nel qui o lì
dell’esperienza formativa, pedagogica? In che misura è ammissibile, e
con quali cautele, nel corso di una sperimentazione sul campo ed in
presenza delle sue proprie tecniche, prescindere con cognizione di causa
dalla effettiva localizzazione di un fatto storico complessivo e
complesso?
In altre parole occorre, dovunque, ricollocarsi extralocalizzandosi (per
adoperare la terminologia di un Bachtin, ma già Gramsci diceva che
bisogna pensare mondialmente): e quindi riuscire ad agire, in quanto storici
ed in quanto educatori, di conseguenza. È una specie di ginnastica della
mente, che comporta costruzione di abiti storicamente nuovi,
interiorizzazioni inedite, tuttavia sempre relative, parziali, rischiose.
Vale tuttavia la pena di osservare «sul campo», però storicizzandola,
un’indicazione metodologicamente innovativa in questo genere
«dialogico»:
Una cultura straniera solo agli occhi di un’altra cultura si rivela più
pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno
anche altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più). Un senso rivela le
sue profondità, dopo essersi incontrato ed essere entrato in rapporto con un
altro senso, straniero: fra di essi comincia una specie di dialogo, che supera la
chiusura e l’unilateralità di questi sensi di queste culture. Noi poniamo alla
cultura straniera nuove domande, quali essa stessa non si poneva, cerchiamo in
essa risposta a queste nostre domande, e la cultura straniera ci risponde,
scoprendo davanti a noi nuovi suoi aspetti, nuove profondità di senso. Senza le
nostre domande (ma certo, domande serie, autentiche) non si può creativamente
capire niente di altro e di straniero. In un tale incontro dialogico di due culture
esse non si fondono e non si confondono, ognuna conserva la sua unità e aperta
interezza, ma esse si arricchiscono reciprocamente 376.
M.M. BACHTIN, Otvet na vapros redakcij «Novago mira» [Risposta a una domanda
della redazione di «Novyj Mir», in «Novyj Mir», n. 11, 1970, p. 240 (trad. it. di G.
MASTROIANNI, Pensatori russi del Novecento, Napoli, L’Officina tipografica, 1993, p. 5).
Cfr. quindi N. SICILIANI DE CUMIS, I filosofi russi e il «Giano bifronte» di Bachtin (Note di
culturologia tra Italia e Russia/URSS/Csi, 4), in «Slavia», aprile-giugno 1994, pp. 42-49.
376
160
Capitolo settimo
Il quando
Non è un caso, d’altra parte, che sia lo stesso menzionato Bachtin a
fornirci lo strumento concettuale di una cautela storico–critica ulteriore,
a proposito del «tempo» (la hora di cui parla Dewey): una cautela
perfettamente trasferibile, a mio avviso, sul piano della ricerca empirica
in educazione. È sufficiente, nella citazione dialogica che segue,
sostituire alla parola «opera» la parola «essere umano», al termine
«autore» il termine «educatore», ai «testi» le «teste» e (perché no?) il
testing — conservando però, in ogni caso, il senso ed il valore dei limiti,
del contesto, della differenza (categoria storico–critica per eccellenza). E
allora:
Il primo problema è capire l’opera così come la capiva l’autore stesso, andare
oltre i limiti della sua comprensione […]. Il secondo problema è l’inserimento
nel nostro contesto (estraneo all’autore).
Si tratta di mantenere la differenza fra due testi.
Non ci sono né la prima, né l'ultima parola e non ci sono confini al contesto
dialogico (esso si perde nello sconfinato passato e nello sconfinato futuro) […].
In ogni momento dello sviluppo del dialogo esistono enormi, illimitate
moltitudini di sensi dimenticati, ma, in determinati momenti dell’ulteriore
sviluppo del dialogo, nel suo corso, essi di nuovo saranno ricordati e
rinasceranno in forma rinnovata (in un nuovo contesto)…377.
Il che cosa
È il grande tema dei contenuti dell’insegnamento/apprendimento (ma
va oltre): il tema, enorme, della materia specifica nel quadro della
«enciclopedia pedagogica» e delle sue storiche ripartizioni in settori
(psicologico, sociologico, metodologico, disciplinare); ed è il tema delle
cautele critiche, che dalla suddetta quadripartizione consegue assieme
ad alcune domande precauzionali, preventive ma basilari, in ordine alla
scelta educativa, che qui ed ora soprattutto interessa. E quindi,
storicamente e pedagogicamente parlando:
1. se le competenze professionali che si richiedono agli insegnanti si
possono schematicamente ridurre alla conoscenza dell’allievo, alla
377 M.M. BACHTIN, in T. TODOROV, Michail Bachtin. Il principio dialogico, trad. it. di
Anna Maria Marietti, Torino, Einaudi, 1990, pp. 150–151.
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
161
conoscenza della società, alla conoscenza dei metodi ed alla conoscenza
della materia dell’insegnare e dell’apprendere, è un fatto che tutti e
quattro i tipi di competenza evolvano storicamente e criticamente: e che,
pertanto, lo sviluppo e il mutamento siano essi stessi parte di un processo
(storico–critico) che appartiene all’esperienza educativa (al limite anche
«sperimentale»);
2. se c’è (come sembra vi sia) un’evidente relazione tra le suddette
competenze dell’educatore ed i settori delle scienze dell’educazione
precedentemente elencati, non sembra essere dubbio che tra la storia e la
critica interna alle singole discipline (o a gruppi di esse) e la storia e la
critica della didattica non può, non deve esserci soluzione di continuità
(ed è per me un’assunzione metodologica “alta”, quanto irrinunciabile);
3. se la “filosofia dell’educazione” o la “pedagogia generale”, e la
“pedagogia sperimentale” o la “pedagogia comparata” costituiscono
“problema” circa il loro posto nell’«enciclopedia pedagogica», sembra
essere proprio la dimensione storico–critica a consentire una corretta,
nuova impostazione e possibile risoluzione della questione (sia teorica
sia empirica): nel senso che, anche al di là delle eventuali
istituzionalizzazioni accademiche (le cattedre, i gruppi concorsuali, i
dottorandi di ricerca ecc.), è la storia e la critica interne ai su indicati
ambiti disciplinari a decidere in ultima analisi delle legittimità o meno
del loro posto tra le scienze dell’educazione;
4. se, per altro, la “pedagogia sperimentale” in specie vuol continuare
ad essere non una scienza particolare, ma un modo soprattutto di
utilizzare diverse scienze dell’educazione al fine di svilupparne altre (le
metodologie didattiche, le tecnologie educative, la “teoria del
curriculum” ecc.), sembra opportuno ipotizzare forse una maggiore
ampiezza dell’ambito dell’influenza di ciò che è «sperimentale» ed al
tempo stesso (cioè storicamente e criticamente) «pedagogico»;
5. se difatti non c’è attività «scientifica» che in qualche maniera non
poggia su ipotesi e controlli di tipo variamente «sperimentali», potrà
servire, probabilmente, anche ai fini educativi cogliere sempre, purché ci
sia, l’elemento esperienziale, empirico, prammatico, e dunque di
sperimentazione, di prova, di avanguardia tecnico–scientifica, di rottura
tra presente, passato e futuro, al di qua e al di là della «storia»;
se finalmente, poi, ciascuna disciplina o scienza che afferisce alla
«enciclopedia pedagogica» ha una sua storia, ha i suoi contenuti
specifici, una sua materialità empirico–educativa (perfino sperimentale,
nei suoi confini tradizionali e nelle sue ibridazioni interdisciplinari
ovvero transdisciplinari ulteriori), allora pare ancora utile agganciare la
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Capitolo settimo
cosiddetta “storia della materia specifica” (con le critiche che essa
competono, tra didattica e ricerca) ad ognuna delle scienze
dell’educazione con o senza patente… Di maggior interesse, anzi, quelle
discipline di statuto epistemologico–educativo in via di formazione, e
dunque più che mai «sperimentali», più che mai pedagogiche nel loro
costituirsi tendenzialmente come «scienza».
Il perché
È il gran tema delle ragioni storiche (soggettive ed oggettive) del
nostro voler e saper essere critici sempre, nella ricerca empirica in
educazione, non meno che in altre attività direttamente o indirettamente
pedagogiche. E vale la pena di sottolineare il doppio valore causale e
finale del «perché»: il motivo della mia ricerca consiste in questo, lo scopo
che mi prefiggo è il seguente… ma è bene non teorizzare oltre: anche
perché le cautele storico–critiche, oltre un certo limite, possono essere
paralizzanti. E dunque, meglio mettersi in gioco… continuare a metterci
in gioco, ciascuno, nella quotidianità del nostro lavoro di ricercatori, nei
limiti delle nostre eventuali competenze, e capacità di traduttori o
ipotetici induttori di competenze leggendo e rileggendo storicamente e
criticamente — poniamo — il Poema pedagogico di Anton Semёnovič
Makarenko — subito avvertiti del fatto, a suo modo empirico ed
educativo, che l’opera, non solo la parola del titolo, recupera e
moltiplica, nella sua chiave, tutti i significati del verbo greco ποιέω e le
sue conseguenze «multilaterali», «politecniche», complesse ed
ipercomplesse, oltre che ricchissime in prospettiva…
Ma perché recensire questo autore, a quale scopo, con quali obiettivi e
finalità, relativamente a ciò che voglio ottenere con la mia disamina per
gli altri o con ali altri, di storiografico ed insieme di educativo? Perché
recensire monograficamente l’opera, un romanzo di educazione, come se
fosse (lo è) un documento storico? Perché collegare di fatto, nel corso di
un lavoro didattico e di ricerca strettamente congiunto ad altre parallele
esperienze di ricerca e didattiche, lo scrivere di storia ed il leggere di
educazione? Che cosa mi propongo di ottenere nell’immediato,
storicizzando il Poema pedagogico, che cosa mettendo in evidenza il
rilievo educativo del mio ipotizzato ragionamento storico–ricostruttivo?
Almeno i seguenti sperabili risultati elementari, da cui dedurre quindi le
Il «punto di vista» del recensore tra storiografia e educazione
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«regole» di una possibile recensione didattica su cui continuare a
discorrere con colleghi e studenti e studiosi378:
a) una comprensione della vicenda narrata dall’autore;
b) una certa sensibilizzazione del gusto per il leggere;
c) una approssimazione a tutt’intera la pedagogia di Makarenko;
d) una collocazione del romanzo nel suo spazio e nel suo tempo;
e) una contestualizzazione del libro in relazione agli altri testi adottati per il
corso;
f) una problematizzazione, tra cronaca e storia (per analogia e per
differenza), dei principali concetti e delle situazioni educative rappresentate nel
romanzo;
g) una qualche attenzione alle fonti esplicite e/o implicite dell’opera;
h) una individuazione degli interessi, in presenza della materia specifica
(specie quella relativa alla problematica degli interessi secondo Makarenko);
i) una prefigurazione di ipotesi di indagini sul romanzo, sull’autore, sui
tempi ecc., «a partire da…»;
l) uno studio iniziale della letteratura critica su Makarenko;
m) un inizio di lettura di corrispondenze makarenkiane con colleghi
pedagogisti, e con taluno degli allievi della colonia «Gor’kij»;
n) una sottolineatura del rapporto personaggi del romanzo/allievi effettivi
(della colonia, della comune) di Makarenko;
o) un approfondimento delle coordinate pedagogiche generali del romanzo,
in rapporto con le vedute estetiche del tempo (Makarenko, il realismo socialista,
il suo lirismo, la sua idea di arte, di bellezza ecc.; ma pure, fuori dell’Ucraina e
dell’URSS, Dewey…);
p) una caratterizzazione delle idee–forza della concezione del mondo
rnakarenkiana, siccome risulta dal romanzo;
r) una spiegazione del concetto di «pedagogia dello scoppio» (anche in
relazione al tema dell’«esplosione» in altri autori, da Ejzenštejn e Vygotskij a
Lotman);
s) una ipotesi sull’idea di «sperimentazione», secondo Makarenko;
t) una lettura dell’interpretazione di Gyorgy Lukács sul Poema pedagogico
come prova di «accumulazione originaria» della pedagogia socialista;
Cfr. intanto su «Slavia», luglio-dicembre 1995, pp. 3 sgg., a cura di chi scrive e
di Beatrice Paternò, i materiali di una recensione individuale–collettiva del Poema
pedagogico, che completano il testo stesso del romanzo makarenkiano, integrandoli
di due capitoli pressoché sconosciuti, e dunque di ulteriori elementi di riflessione e
di interpretazione.
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Capitolo settimo
u) un’attenzione particolare al tipo di umorismo pedagogico dello scrittore
Makarenko;
v) una discussione sui temi: biografia/autobiografia, collettivo, diritto, filosofia,
gioco, morale, politica, prospettiva, quantità/qualità, valutazione, rotazione, scienza,
vita, ecc.
z) un’indicazione di ricerca: il 1934 (e dintorni). Come recensione, anche
questa.
Appendice
* M. P. MUSSO, Norme editoriali per la compilazione di un elaborato scritto, in N.
SICILIANI DE CUMIS, Cari studenti, faccio blog… magari insegno, Roma, Edizioni
Nuova Cultura, 2006, pp. 35-47.
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Appendice
Norme editoriali per la compilazione di un elaborato scritto
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Appendice
Norme editoriali per la compilazione di un elaborato scritto
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