Diritto e stato nei “Saggi sul materialismo storico”

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Diritto e stato nei “Saggi sul materialismo storico”
Luigi Punzo *
La continuità della presenza, sempre più significativa, dei temi giuridici e politici relativi alla
natura e alla funzione dello stato che non viene meno neanche nel passaggio alla fase marxista, è la
testimonianza più chiara dell’importanza che quei temi hanno nella riflessione complessiva sulla
società e sulla storia portata avanti da Labriola. E, d’altra parte, questo rilievo è ben presente in
tutti i Saggi, in particolare nel secondo, Del materialismo storico, dove, come si è potuto vedere, una
particolare attenzione è rivolta da Labriola alla confutazione della «semidottrina» dei fattori storici
i cui elementi di maggiore importanza risultano essere proprio lo stato ed il diritto, come prodotti
di primo grado della struttura economica della società.
A partire da questi presupposti, l’analisi svolta da Labriola sul terreno specifico delle scienze
sociali, quelle appunto rivolte allo studio del diritto e dello stato, può rappresentare uno strumento
particolarmente utile ed efficace per una valutazione del modo di concepire il materialismo storico
che è proprio di Labriola e, attraverso questo, per affrontare alcuni nodi teorici e pratici del
marxismo in generale, quali il rapporto tra struttura e sovrastruttura, il modo di concepire e
applicare il metodo dialettico, il problema della transizione dal capitalismo al comunismo che,
proprio nell’ambito specifico delle problematiche relative alla genesi, allo sviluppo e alla
persistenza o deperimento delle forme storicamente determinate del diritto e dello stato,
sembrerebbero poter trovare una loro più chiara e convincente risposta.
Questo tipo di analisi, proprio per la sua specificità, risulta particolarmente anche utile per
tentare di dare una risposta al dilemma continuità/discontinuità del pensiero di Labriola nel
passaggio dalla fase premarxista a quella marxista. E proprio da questa ultima considerazione
conviene forse partire per affrontare i problemi a cui si è fatto precedentemente riferimento.
Perché, infatti, la continuità dell’interesse per i temi specifici del diritto e dello stato da parte del
filosofo non può nascondere il problema di una diversità anche sostanziale di sensibilità teorica nel
suo pensiero (che si evidenzia nel passaggio da una fase all’altra), né può nascondere la diversa
collocazione che queste forme dell’organizzazione sociale finiscono per assumere nell’ambito del
processo storico complessivo. Non si può infatti non riconoscere la distanza che, almeno ad una
prima lettura, sembrerebbe esistere tra la natura e la funzione del diritto e dello stato quali erano
concepite dal Labriola premarxista — rapporto stretto tra diritto e morale, funzione pedagogica ed
etica dello stato e sua continuità storica — e la loro natura e funzione disvelata, demistificata quale
appare nei Saggi — il diritto ridotto all’economia, lo stato ridotto a necessario complemento di
determinate forme economiche, che ne inficia in definitiva ogni possibilità di considerare diritto e
stato come fattori autonomi della storia, fino a teorizzarne l’estinzione. Forse con una voluta
esagerazione iperbolica, potrebbe a questo punto risultare utile applicare all’evoluzione del
pensiero di Labriola la sua teoria della funzione delle rivoluzioni nel processo storico per tentare di
spiegare il passaggio dalla fase premarxista a quella marxista.
Le rivoluzioni — egli afferma — nel senso più esteso della parola, e poi in quello specifico di rovina di un
ordinamento politico, segnano le vere e proprie date delle epoche storiche. Guardate di lontano, nei loro
elementi, nella loro preparazione e nei loro effetti a lunga scadenza, esse possono parere come i momenti di
una evoluzione costante, a minimi di variazione: ma considerate per sé stesse sono definite e precise
catastrofi; e solo come tali catastrofi hanno carattere di accadimento storico [1].
L’adesione al materialismo storico può essere così intesa come l’evento catastrofico che si è
determinato nell’evoluzione, pur così articolata, del pensiero di Labriola, e può dare una
ragionevole giustificazione del passaggio da una fase all’altra. Va comunque subito osservato che
l’assunzione del nuovo metodo di indagine storica che, proprio a partire dal terreno specifico del
diritto e dello stato, permetteva di cogliere il reale sviluppo della società, era stata una quasi
naturale conseguenza all’interno dell’evoluzione del pensiero di Labriola, in quanto inverava in
una concezione generale della realtà storico-sociale, quell’analisi genetica e quel metodo euristicocomparativo, già precedentemente sperimentati proprio da lui. D’altra parte proprio Labriola
aveva sostenuto, come si è visto precedentemente, che «il socialismo scientifico, per ora idealmente
almeno, ha superato lo stato», e solo in riferimento a questa situazione ideale egli può sostenere che
«Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società [2]», una
definizione questa che sembra riecheggiare le sue precedenti concezioni dello stato come norma,
funzione civilizzatrice. Ma, immediatamente, egli sostiene ancora, che quel superamento
presuppone una piena comprensione di quel concetto, per poter appunto capire fino in fondo sia
come nasce sia anche le ragioni della sua dissoluzione. E ciò significa quindi non negare in maniera
acritica lo stato, la sua funzione, la sua esistenza, come hanno fatto e continuano a fare le scuole
filosofiche, i visionari, gli utopisti e gli anarchici, ma cercare di coglierne le interne contraddizioni
— come ha fatto il socialismo scientifico — che possono determinare la sua estinzione.
Così la catastrofe rivoluzionaria - da Labriola a lungo studiata e approfondita nella forma della
rivoluzione politica moderna per eccellenza, la Rivoluzione francese, ancor prima del passaggio al
marxismo, in riflessioni specifiche come anche in molti corsi universitari (e la Rivoluzione francese
è un modello che Labriola utilizza pienamente nella fase premarxista come in quella marxista) può servire a spiegare ugualmente la coupure epistemologica che si determina tra la prima e la
seconda fase del suo pensiero e, nello stesso tempo, la necessaria continuità, non solo tematica,
relativa, nello specifico, al tema del diritto e dello stato, ma estendibile poi a tutta l’analisi
scientifica della società. Anche perché, come l’evento catastrofico legato alla Rivoluzione francese e
ad ogni fenomeno rivoluzionario, non può essere spiegato senza il riferimento ad una serie
evolutiva di fatti che lo determinano, così il passaggio al marxismo, nel pensiero di Labriola, non
può essere spiegato senza il riferimento alla presenza dei temi, dei problemi e delle possibili
soluzioni già elaborate nel corso della sua ricerca.
Le considerazioni precedenti, che sembrerebbero tutte interne al pensiero di Labriola, in
un’analisi di carattere puramente filosofico, toccano invece un punto fondamentale del dibattito
sul marxismo, che riguarda il problema della transizione al comunismo in cui proprio il tema della
riformabilità o della estinzione delle istituzioni giuridiche e statuali erano al centro della
discussione. Non si vuole qui aprire la riflessione, che risulterebbe necessariamente troppo ampia,
sul revisionismo e sulla posizione di Labriola rispetto ad esso. Vale la pena a questo proposito
ricordare quanto Labriola sosteneva in una lucida pagina [3] di Discorrendo di socialismo e di filosofia,
in polemica con ciò che egli definisce il neo-utopismo del socialismo contemporaneo, a proposito
di chi credeva nel dogma della necessaria evoluzione che avrebbe portato ad un diritto e ad uno
stato migliore, e ciò perché così deve essere «e quasi dimenticano, che cotesto futuro devono pur
produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in cui sono, e per lo sviluppo delle
attitudini loro [4]». E di grande interesse sono, a questo proposito, le sue considerazioni sul ritmo
lento del tempo rispetto alle innovazioni e alla loro previsione, soprattutto: «tenuto conto della
enorme complicazione del mondo attuale, e in tanto allargarsi del capitalismo, ossia della forma
borghese [5]». Nessuna concessione quindi al determinismo evoluzionistico, né, tanto meno ad una
concezione meccanica del processo storico.
Labriola si è fermato spesso a riflettere su questo problema di grande rilevanza teorica. Nella
lettera del 13 giugno 1894 a Friedrich Engels [6], nel contrapporre al metodo dialettico il metodo
genetico, giustifica questa scelta, che non è meramente linguistica ma concettuale, proprio perché
la concezione genetica tiene insieme sia «il contenuto reale delle cose che divengono, come la
virtuosità logico-formale di intenderle per divenienti». In questo modo, egli conclude, «il
darwinismo come la interpretazione materialistica della storia, ed ogni altra spiegazione di cose
che divengono e si formano, pigliano il loro posto». E questa relazione tra darwinismo, concezione
materialistica della storia e teoria epigenetica, ritorna ancora nel terzo saggio, Discorrendo di
socialismo e di filosofia quando egli, a proposito del positivo giudizio che dell’Origine della specie
avevano dato Marx ed Engels, sostiene appunto che: «[…] non potevano non iscorgere un caso
analogo con la concezione epigenetica della storia, che essi avevano in parte definito, in parte
adombrato appena [7]».
Il riferimento al suo metodo storico genetico risulta funzionale non solo a stabilire una sintonia,
se non una diretta continuità, con la sua ricerca precedente, ma soprattutto a ribadire la critica, che
è sua, come pure del metodo del materialismo storico marxiano, nei confronti di ogni
interpretazione della storia meccanica e fatalistica, ovvero idealistica e formale. Nel paragrafo X
del secondo saggio Del materialismo storico, dopo aver concluso la trattazione sul diritto e sullo
stato, prodotti di primo grado della sottostante struttura economica, egli passa ad indagare i prodotti
di secondo grado esordendo con una domanda retorica e piena di sarcasmo: «Per fino, dunque, la
morale, e l’arte, e la religione e la scienza sarebbero prodotti delle condizioni economiche [8]?». In
quella domanda è contenuta implicitamente tutta la critica di Labriola nei confronti di chiunque —
detrattori o addirittura sostenitori del marxismo — concepivano il rapporto tra la struttura
economica e le altre forme dell’organizzazione di una società data come assolutamente
determinato, necessitato logicamente e concretamente.
In effetti Labriola usa poco o affatto il termine sovrastruttura per definire quelli che egli chiama
prodotti di primo e di secondo grado [9]. E anche questa non è una semplice questione linguistica,
ma sottolinea piuttosto, ancora una volta, una esigenza teorica implicita nel concetto di attività
contenuto nel termine produzione. Un passo del paragrafo X del secondo Saggio, Del materialismo
storico, rende chiaro ciò che Labriola vuole intendere:
In altri termini, l’uomo sviluppa, ossia produce se stesso, non come ente genericamente fornito di certi
attributi, che si ripetono o si svolgono secondo un ritmo razionale; ma produce e sviluppa se stesso, come
causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano
anche determinate correnti di idee, di opinioni, di credenze, di fantasie, di aspettazioni, di massime. Di qui
nascono le ideologie di ogni maniera […] [10].
Questa importante riflessione con il richiamo all’attività degli uomini in carne e ossa e il
riferimento alla formazione delle ideologie, sembra ricollegarsi direttamente, ancora una volta, alle
radici della riflessione, soprattutto della Introduzione a “Per la critica dell'economia politica”, che
Labriola conosceva, ma riecheggiano anche le argomentazioni che Marx ed Engels avevano
sviluppato nell’opera, L'ideologia tedesca, che aveva come nucleo centrale proprio questi problemi e
che Labriola non conosceva. Proprio in quell’opera Marx ed Engels avevano escluso ogni rapporto
meccanico tra struttura e sovrastruttura nel dichiarare che: «le circostanze fanno gli uomini non
meno di quanto gli uomini facciano le circostanze [11]», e avevano posto l’accento sul concetto di
attività, in qualche modo prendendo le distanze rispetto ad una sottovalutazione delle
sovrastrutture rispetto alla struttura economica [12]. Il termine struttura in Marx è infatti
comprensivo delle forze produttive, del modo di produzione e dei corrispondenti rapporti sociali e
ciò esclude, proprio in riferimento al termine produzione, la possibilità di una «recezione passiva
di una realtà materiale naturale [13]». Proprio il vecchio materialismo aveva trascurato il lato
dinamico-attivo dell’intervento umano.
In questo senso, allora, l’interpretazione corretta del materialismo storico come l’inveramento
della ricerca realistica della storia e l’insistenza su quella definizione di comunismo critico,
realistico, lontano tanto dal determinismo positivistico come da ogni atteggiamento astrattamente
utopico, riconduce Labriola nell’alveo dell’autentico pensiero di Marx (per non usare ancora una
terminologia, l’ortodossia marxista, ormai superata dalla storia). Questa sua interpretazione del
marxismo è ulteriormente confermata dal modo in cui Labriola sviluppa la sua critica nella
interpretazione del materialismo storico, riflessione che contribuisce peraltro a fare chiarezza nella
discussione su come intendere il marxismo, se come metodo di indagine storica o come filosofia
della storia. Labriola aveva sviluppato una critica radicale nei confronti della filosofia monistica,
culminata in Hegel, che intendeva appunto la storia come sintesi «di un processo unico di tutti gli
accadimenti storici». A tale concezione egli nella Prelezione del 1887, I problemi della filosofia della
storia, aveva contrapposto il pluralismo metodologico del “moto critico del pensiero” che si
esplicita «nelle scienze… che in via positiva studiano i processi specifici della lingua, del diritto,
dell’arte e simili […] [14]».
Labriola è avvertito del pericolo che corre il materialismo storico, stretto tra i due corni di una
visione di filosofia della storia di carattere empirico-deterministica o idealistico-finalistica, e nel
terzo Saggio, Discorrendo di socialismo e di filosofia, ci presenta a questo proposito una significativa
riflessione che risulta esemplare del modo labrioliano di inverare sue precedenti acquisizioni
teoriche nel corpo del materialismo storico.
Se mai occorresse di formulare — sostiene Labriola — non sarebbe fuori di luogo il dire, che la filosofia
implicita al materialismo storico è la tendenza al monismo; - e usa la parola tendenza, accentuandola - Dico
tendenza, e aggiungo tendenza critico-formale. Non si tratta già, insomma, di tornare alla intuizione teosofica e
metafisica della totalità del mondo… [15].
L’argomentazione circostanziata di Labriola a questo proposito è tutta tesa a difendere la
concretezza della ricerca:
Dunque tendenza al monismo, ma al tempo stesso coscienza precisa della specialità della ricerca [16]. […]
Pensare in concreto, e pur poter riflettere in astratto su i dati e su le condizioni della pensabilità. La filosofia
c’è e non c’è [17].
Ed è emblematica a questo proposito l’osservazione ironica che egli, a rafforzare la propria
argomentazione, riporta in nota, in quel punto del Saggio, sulla tesi di un libro di R. Varle il quale
sosterrebbe che la filosofia è giunta alla sua fine. Se si può parlare di qualcosa che ancora resta
valido della ricerca di Labriola può essere utile partire proprio da quella sua ironica notazione. Egli
è stato sempre consapevole dei tempi lunghi del processo storico e per questo ha avuto sempre un
atteggiamento critico, contro ogni ottimismo utopistico, sulla necessaria realizzazione in un tempo
definito della società comunista. E, nello stesso tempo, proprio per questo, non può che essere
contrario ad ogni tipo di visione di fine della storia, polingenetiche o catastrofiche che siano. Ciò
che rimane, appunto, della sua attività di ricerca, è proprio la necessità di continuare a ricercare su
questo rapporto continuamente cangiante, che ha come protagonisti la natura e l’uomo e il cui
sviluppo è il contenuto della storia. E sul piano specifico delle scienze sociali, in cui più
concretamente questo rapporto si concretizza e si problematizza, non è tanto importante allora
arrivare alla conclusione, ad esempio, della estinzione dello stato come forma perenne
nell’organizzazione degli uomini in società, quanto piuttosto continuare a studiare e a ricercare
l’evoluzione di questa funzione sociale fondamentale per poterne cogliere i successivi futuri
sviluppi.
In questa direzione la riflessione di Labriola su quelli che egli chiama i prodotti di primo grado
della sottostante struttura economica, lo stato e il diritto, può suggerire ancora utili prospettive di
ricerca, che contribuiscano a far uscire le teorie e la pratica socialista da quell’ambiguo e spesso
contraddittorio atteggiamento che ha caratterizzato la sua concezione dello stato: o luogo
totalizzante del governo della società degli uomini, o funzione strumentale, assolutamente
transitoria.
* Ciò che segue corrisponde alla parte conclusiva della relazione letta a Cassino (Convegno su
Labriola, 9 ottobre 2004).
[1] II, p. 607. Tutte le note con il solo numero di pagina si riferiscono al testo, a cura di F.
Barberi, Antonio Labriola. Scritti filosofici e politici, 2 voll., Torino, Einaudi, 1976.
[2] II, p. 598.
[3] II, p. 777 e segg.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 778.
[6] Carteggio III 1890 – 1895, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003, p. 441.
[7] II, p. 735.
[8] II, p. 607.
[9] II, p. 605.
[10] II, p. 612.
[11] Marx-Engels, L'Ideologia tedesca, Ed. Riuniti, Roma 1967, p. 30.
[12] Cfr., Marx-Engels, La concezione materialistica della storia, a cura di N. Merker, Introduzione,
Ed. Riuniti, Roma 1998, p. 17.
[13] Ibidem.
[14] I, pp. 23-24.
[15] II, p. 719. Tutte le note con il solo numero di pagina si riferiscono al testo, a cura di F.
Barberi, Antonio Labriola. Scritti filosofici e politici, 2 voll., Einaudi, Torino 1976.
[16] II, p. 721.
[17] II, p. 723.
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