Spinoza
(lezione da Diz. di Filosofia Garzatine, pp. 1094-1097 + Filosofia 2, Ed. Mursia pp100-101)
Dio e il mondo.
Di contro a Cartesio (e alle successive impostazioni critiche, da Locke a Kant, che muoveranno dal
problema preliminare delle possibilità e dei limiti della conoscenza umana), Spinoza rifiuta che si
ponga un problema del metodo del conoscere, preliminare rispetto al conoscere in atto. Come la luce
in contrasto con le tenebre, altrettanto la verità si manifesta da se stessa in contrasto col falso: è indice, o
norma, tanto di sé quanto del falso. Di siffatta concezione della verità è testimonianza la conoscenza
matematica: allorché si ha una conoscenza chiara e distinta, si è immediatamente consapevoli della sua
verità e non è possibile alcun dubbio. Per raggiungere la verità anche in filosofia, basta quindi tener
fermo il criterio dell’evidenza, liberandosi dai pregiudizi indotti dai sensi, dall’immaginazione e dal
linguaggio, oltre che dalle credenze tradizionali. Conformemente a questa concezione, Spinoza può
muovere direttamente da Dio, anziché dagli enti del mondo o dal soggetto umano, prendendo a
fondamento la definizione del concetto di «sostanza». Tutta l’Ethica (che espone un intero sistema di
filosofia, comprendendo anche la metafisica, la teoria della conoscenza e la psicologia) è infatti costruita
«more geometrico», sul modello euclideo: definizioni, assiomi, proposizioni (teoremi) con le relative
dimostrazioni, corollari e scolii. La sostanza, dunque, si definisce come ciò che è in sé (non inerisce
in altro) e si concepisce per sé, anziché in base ad altro; e da questa sola definizione Spinoza deduce
tutte le caratteristiche della sostanza: esistenza necessaria (coincidenza di essenza ed esistenza), eternità,
infinità, unicità e indivisibilità. L’unicità della sostanza è affermata tanto contro la pluralità delle
sostanze create riconosciuta dai filosofi cristiani, quanto contro la distinzione cartesiana di due generi di
sostanze, quelle spirituali e quelle materiali. Per Spinoza, pensiero ed estensione sono invece due
«attributi» dell’unica sostanza (gli unici che noi uomini conosciamo, fra gli infiniti che dobbiamo
riconoscere alla sostanza in ragione della sua infinità); e le cose del mondo, corpi e anime, sono solo
«modi», o determinazioni particolari di questi attributi, e quindi ineriscono nella sostanza stessa. Gli
enti finiti non hanno sostanzialità, appunto perché non hanno in se stessi la ragione del loro essere,
ma derivano da altro; mentre la sostanza, o Dio, è «causa di se stessa», oltre che causa degli enti finiti,
perché altrimenti deriverebbe anch’essa da altro, non sarebbe cioè in sé e concepibile solo per sé, in
contrasto con la definizione menzionata.
La sostanza è pensata da Spinoza come essenzialmente attiva: Dio è potenza e produttività infinita.
Ma la sua attività non è una libera creazione, bensì una causalità necessaria e immanente: tutto
proviene da Dio con la medesima necessità con cui la conclusione di un teorema matematico deriva
dalle premesse, e tutto è in lui e per lui, senza alcuna autonomia anche soltanto parziale. Immaginare
che Dio sia dotato di intelletto e volontà, che prima conosca il possibile e si ponga dei finì e poi decida
liberamente quanto realizzare fuori di sé, è grossolano antropomorfismo, che proietta in Dio d’illusoria convinzione degli uomini d’esser dotati del libero arbitrio. La causalità di Dio, al pari di quella che
si riscontra nel mondo fra i modi finiti, è solo efficiente: anche il finalismo è un’illusione
antropomorfica, che non spiega alcunché (è «asilo dell’ignoranza»), come mostrano la matematica, la
quale non conosce finì ma solo connessioni necessarie, e la nuova scienza della natura, che è
meccanicistica. A differenza che nell’uomo, tuttavia, in Dio la necessità coincide con la libertà, se
per libero s’intende ciò che è determinato ad agire non da altro, ma solo dalla necessità della propria
natura. Il pregiudizio della creazione e della trascendenza di Dio rispetto al mondo è sono per
l’impossibilità di spiegare altrimenti come da un essere concepito come solo spirituale provenga anche
la materia. Invece, dall’assioma che una causa non può essere eterogenea rispetto all’effetto, deriva che
Dio è caratterizzato anche dall’attributo dell’estensione, o corporeità; e così la difficoltà è tolta.
Attribuire l’estensione a Dio non dà poi luogo ad alcuna nuova difficoltà, una volta che la si pensi come
infinita e omogenea, non composta né divisibile in parti: quelle che ci appaiono come parti della
materia, o corpi distinti, sono solo «modi» dell’estensione infinita.
I modi infiniti. Ogni attributo della sostanza è infinito ed eterno, in quanto esprime la sostanza
infinita ed eterna; ma ognuno di essi la esprime solo nel suo genere (il pensiero come pensiero,
l’estensione come estensione, e così via); mentre la sostanza, appunto in quanto è espressa da infiniti
attributi, o costituita dalla totalità di essi, è infinitamente infinita. Tra un attributo e un altro (e quindi
fra i modi finiti appartenenti ad attributi rispettivamente diversi) non c’è causalità reciproca, bensì
soltanto un rapporto di corrispondenza, pur nella reciproca indipendenza, garantito dal fatto che sono
tutti espressioni della medesima sostanza. Quanto al rapporto fra gli attributi e i modi finiti, per
attenuare lo iato fra infinitezza e finitezza, eternità e tempo (o «durata»), Spinoza introduce dei
«modi infiniti» e eterni, con funzione mediatrice: rispetto all’attributo dell’estensione, il modo
infinito è il movimento (e la quiete), che dà forma a tutto l’universo materiale; rispetto all’attributo
del pensiero, è l’intelletto infinito, che è la totalità delle menti finite. Questa dottrina, piuttosto oscura,
mostra tuttavia come il panteismo di Spinoza non significhi un’immediata e semplicistica identificazione di Dio con ogni e qualsiasi cosa del mondo. È vero che ogni cosa è in Dio; ma Dio è distinto da
esse appunto come l’infinità dalla finitezza, l’eternità dalla durata, e la necessità libera dalla necessità
determinata estrinsecamente. Per esprimere questa differenza, Spinoza ricorre alla distinzione
scolastica fra la «natura naturans» e la «natura naturata» (la differenza passa tra Dio e i suoi
attributi, da una parte, e i modi, infiniti e finiti, dall’altra). La formula «Deus sive natura» va quindi
intesa come riferita alla natura naturante, anche se la derivazione da questa della natura naturata è
necessaria e costituisce una realizzazione di Dio stesso attraverso l’esplicazione della sua attività. Ogni
modo finito è così determinato da altro a esistere e a operare, in un duplice senso: all’interno della
natura naturata, si ha la serie infinita della causalità reciproca fra i modi finiti (una serie diversa in
corrispondenza di ogni diverso attributo della sostanza, senza interferenze fra di esse); ma si ha anche la
causalità complessiva della natura naturante rispetto ai modi finiti, attraverso quelli infiniti (da questo
angolo visuale anche i modi finiti vengono considerati «sub specie aeternitatis», in quanto appunto
necessarie esplicazioni di Dio). In entrambe le prospettive, l’orizzonte è quello della totalità; mentre è
inadeguata la considerazione isolata d’una singola cosa finita o d’un singolo evento, che li fa apparire
come contingenti, tali cioè che potrebbero pur non essere. Nell’orizzonte della totalità, invece, la
contingenza si rivela come un’illusione, determinata dai limiti della nostra conoscenza: consideriamo
contingente l’esistenza o l’agire di una cosa, quando ignoriamo le cause per cui esiste o agisce. Data la
necessità con cui ogni cosa procede da Dio e la connessione necessaria fra di esse, se una sola venisse
meno, verrebbe meno il tutto e Dio stesso. Così, tutto il possibile si realizza, ché altrimenti Dio non
sarebbe potenza assoluta, se qualcosa potesse realizzarsi e tuttavia non si realizzasse; e tutto ciò ch’è
reale è nel contempo anche necessario. Negando la contingenza, Spinoza rifiuta quindi la distinzione
fra le modalità del possibile, del reale e del necessario; e contro questa conclusione si rivolteranno i
pensatori successivi, come Malebranche e Leibniz, individuandovi il centro del pensiero di Spinoza.
L’immaginazione e le passioni. Una cosa singola esprime in un determinato modo la potenza di
Dio, ed è caratterizzata essenzialmente dalla tendenza attiva (conatus, o «sforzo») a perseverare nel
proprio essere (nient’altro sono, nell’uomo, gli appetiti, i desideri e le volizioni). Questo sforzo è
favorito o contrastato dall’azione delle altre cose, tutte caratterizzate dalla medesima tendenza, sicché
ognuna subisce effetti, positivi e negativi, dal rapporto con le altre. Negli individui umani, l’avvertire
tali effetti, provocati dalle cose e dagli altri uomini, dà luogo alle «passioni»; e di queste quelle fondamentali sono infatti la gioia e la tristezza, determinate rispettivamente dall’incremento o dalla
diminuzione del proprio grado d’essere e di potere. Tutte le altre passioni ne derivano attraverso
combinazioni e specificazioni dovute alle varie circostanze. All’analisi di esse (amore e odio, paura e
speranza, orgoglio e umiltà, invidia, gelosia ecc.) Spinoza dedica la terza parte dell’Ethica, rivelando
grande finezza di penetrazione psicologica. In generale le passioni sono idee confuse che l’anima
subisce nella misura in cui non si eleva alla conoscenza razionale. L’anima umana, o mente, è parte
dell’intelletto infinito ed etemo, determinata nella sua individualità dall’essere, anzitutto, «idea del
corpo» (di quel corpo a cui volgarmente si dice che l’anima è unita). Non che il corpo possa mai causare
un’idea (o viceversa), data l’indipendenza reciproca degli attributi della sostanza; ma, data la
corrispondenza o parallelismo fra essi («l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e
alla connessione delle cose»), a ogni affezione del corpo corrisponde l’idea di essa. Ne consegue che
l’idea che costituisce la mente umana è in realtà composta di molte idee, che corrispondono alle diverse
affezioni che il corpo subisce dagli altri corpi. La conoscenza che si ha in tal modo è però del tutto
priva di oggettività, in quanto è conoscenza degli altri corpi solo per gli effetti che essi hanno sul
nostro; è composta di «immagini» percepite attualmente o, attraverso le tracce lasciate dall’esperienza,
rievocate per memoria e associazioni mentali), ossia di idee confuse e incomplete, deformate dalla
prospettiva soggettiva. Nessuna idea è propriamente falsa, ma quelle sensibili sono «inadeguate»,
appunto perché parziali, e così danno luogo alle passioni. Queste sono del tutto naturali, rientrando
nella connessione necessaria della natura naturata: non devono essere deprecate come vizi o peccati, che
non si danno in natura, ma considerate con lo stesso atteggiamento con cui i geometri considerano le
linee, le superfici e i solidi. Nè serve appellarsi alla ragione o alla volontà, contro di esse: una passione
non può infatti venir contrastata se non da un’altra passione più forte, e la volontà non è che un nome
astratto per designare le nostre volizioni, sempre determinate e particolari. L’illusione della
libertà del volere sorge dal fatto che siamo coscienti dei nostri desideri, ma normalmente
ignoriamo le cause di essi: analogamente, anche una pietra che cade, se fosse cosciente del proprio
movimento e nel contempo lo desiderasse, si crederebbe libera.1
Anche le nozioni del bene e del male, dell’ordine e del disordine, sono solo immaginazioni, al pari di quelle del bello e del brutto,
determinate dalla particolarità del punto di vista rispetto al quale si giudicano cose ed eventi, a seconda che ci piacciano o dispiacciano, ma
prive di obiettività in rapporto alla totalità del mondo, che è quel che è per necessità. Le medesime cose infatti sono piacevoli per alcuni e
spiacevoli per altri o indifferenti per altri ancora. I giudizi di valore richiedono il confronto delle cose reali con dei modelli ideali astratti, di
come esse dovrebbero essere, a seconda delle nostre preferenze; ma le nozioni astratte, e così tutti i concetti universali, non hanno alcuna
1
La ragione e la virtù. Il potere della mente umana varia assai da individuo a individuo; e non è
limitato al livello dell’immaginazione. Al di sopra, c’è il livello della ragione, che è la conoscenza
filosofica delle leggi della natura e della necessità di essa, tale che comprende ogni singola cosa nella
connessione con tutte le altre e nella loro derivazione da Dio; pertanto è il livello delle idee «adeguate».
Superiore alla ragione è solo un grado ulteriore della conoscenza, intuitivo anziché discorsivo, che
Spinoza presenta con accenti mistici: è l’unificazione dell’intelletto umano con quello infinito ed eterno,
«amore intellettuale di Dio», che porta al di sopra dell’individualità e del tempo, beatitudine riservata al
saggio. Alla differenza fra l’immaginazione e la ragione corrisponde la differenza fra le passioni,
che la mente subisce, e l’attività della mente. Delle passioni si è schiavi, mentre la ragione dà all’uomo
l’unica libertà che non sia immaginaria, che non è arbitrio, ma, al contrario, riconoscimento della
necessità naturale stessa e serena accettazione di essa. È qui evidente la ripresa della morale stoica, da
parte di Spinoza; e il suo intellettualismo etico: la virtù è tutt’uno con la razionalità e questa coincide
con la liberazione dalle passioni. Tuttavia, anche per suggestione di Hobbes, Spinoza non presenta
affatto la virtù come astratto dovere, nè come ascetismo: la virtù è essenzialmente potenza e non
consiste in altro che nella illuminata ricerca del proprio utile. L’uomo virtuoso è quello dotato di attività
e di forza in misura maggiore di chi rimane succube delle passioni; e raggiunge il proprio utile in quanto
conosce in che esso consista veramente, di contro agli inganni in cui cade chi si affidi alla conoscenza
per immagini. La virtù è la realizzazione più sicura dell’impulso fondamentale
all’autoconservazione e al potenziamento del proprio essere2. Un uomo è tanto migliore di altri
quanto più agisce secondo la ragione; ma quel che ognuno è e fa non dipende dalla sua scelta, bensì
dalla sua natura individuale e dal complesso della natura. Da parte di tutti gli avversari
tradizionalisti si vedrà qui una distruzione dell’idea della responsabilità morale; e Spinoza la professa
esplicitamente (in alcune lettere): per la medesima necessità per cui un triangolo ha tre angoli e non è un
cerchio, un uomo è malato e un altro è vizioso; e dal punto di vista razionale non ha senso lamentarsene
o rimproverarsene. Le pene comminate dalla società hanno la loro giustificazione nel principio
dell’utilità comune; non sono da intendere come retribuzione rispetto al male fatto, ma solo come
esigenze di difesa sociale: l’azione di condannare un uomo non è diversa dall’azione di sopprimere un
animale rabbioso, che da nessuno viene ritenuto responsabile. Quanto alle pene e ai premi immaginati
dalle religioni in una vita ultraterrena, sono anch’essi pregiudizi che non resistono alla ragione. Essi
portano a concepire indegnamente Dio, quale legislatore e giudice, sul modello dei sovrani terreni, come
se desiderasse alcunché da parte degli uomini e questi potessero agire in un modo o in un altro; e a
concepire indegnamente anche la virtù, come se essa non avesse in se stessa il proprio premio (e
l’abbandono alle passioni la propria pena in se stesso), ma fosse da seguire per obbedienza a una autorità
esterna e per una speranza mercenaria di compenso estrinseco. Con questa ripresa della concezione
stoica della virtù, nel quadro della critica della superstizione religiosa, Spinoza contribuisce
potentemente alla moderna affermazione dell’autonomia della morale.
----------------------------Religione e politica
Non resta dunque molto spazio per la religione. Aderire a una chiesa o a una setta è indegno per
chi pensa correttamente: l’essenza della religione non consiste nella verità o nella falsità dei suoi dogmi (la verità, infatti, non
è garantita dalla fede, ma dalla filosofia che è tendenza razionale alla conoscenza intuitiva di Dio-natura), ma nei frutti
d’amore al prossimo che essa genera o meno. La religione deve educare all’obbedienza e istillare negli uomini un sentimento
di benevolenza verso il prossimo, correggendo le naturali tendenze egoistiche dell’uomo. Pur togliendo a qualsiasi religione
«positiva » il carattere di verità (esistono dogmi pii ma non esistono dogmi veri), Spinoza riconosce un ruolo particolare alla
figura del Cristo: egli non è un profeta qualunque poiché « è la bocca stessa di Dio in quanto intese secondo verità la rivelazione, ossia ne ebbe intelligenza ». Il rispetto per la figura del Cristo è dunque fondato sul fatto che in Lui l’Idea della
realtà si è manifestata con maggiore chiarezza: pur non essendo il Salvatore, può essere preso come modello di una
conoscenza compiuta e quindi di una vita etica realizzata.
La teoria spinoziana dello Stato parte dal presupposto, comune a quello di Hobbes, che gli uomini siano « nemici per
natura ». in quanto vorrebbero avere un « diritto assoluto » su tutto. D’altra parte questo desiderio di potenza mette in
pericolo il diritto naturale alla sopravvivenza individuale: per questo, gli uomini si sono associati (patto sociale) in vista
della comune utilità. Tuttavia, diversamente dalla visione hobbesiana che non poneva limiti all’autorità del sovrano, alla
quale venivano sacrificati anche molti diritti naturali dei sudditi, per Spinoza lo stato ha potere solo fin quando garantisce
la libertà dei singoli, nei limiti necessari ad assicurare la tranquillità e la sicurezza della collettività: il fine del patto sociale
è, dunque, anzitutto la libertà.
Siamo di fronte a una prima affermazione dello stato di diritto, pur all’interno di un
«
sistema metafisico » di impronta
ancora deterministica
realtà e sono solo enti, non di ragione, ma di immaginazione, favoriti dai termini generali dì cui abbondano le lingue. In tal modo Spinoza
afferma un intransigente nominalismo.
2
La filosofia non è meditazione sulla morte, ma incremento della vita; il saggio è l’uomo libero dalla paura della morte (anche perché non
partecipa alle superstizioni del volgo), e in genere da tutti i sentimenti deprimenti, che sono poi quelli che portano anche ai contrasti fra gli
uomini. Non tutte le passioni si equivalgono, infatti, dal punto di vista della ragione: di per sé la gioia è senz’altro positiva, mentre la
tristezza è sempre negativa. È per questo che il saggio non risponde all’odio con l’odio, e non cede all’ira, sapendo che tutto avviene per
necessità, ma neppure cede alla compassione, sapendo che niente garantisce che le azioni ispirate da questa passione vadano davvero a
vantaggio del prossimo. Altrettanto negativo è il giudizio della ragione sull’umiltà, il pentimento, il timore e così via. Non si tratta,
naturalmente, di giudizi moralistici, che s’accompagnino a deplorazioni o propongano agli uomini quel che essi dovrebbero fare, sebbene
inevitabilmente talora anche Spinoza sembri esprimersi in questo modo; ma si tratta della illustrazione del grado più alto di forza e
intelligenza che si trovi fra gli uomini.