503.8 30-04-2010 11:46 Pagina 1 LA CONTRADIZION CHE NOL CONSENTE L’allentarsi e in qualche caso il dissolversi dei confini fra i diversi saperi prodotti dalle epistemologie del Novecento, la conseguente nascita di numerose discipline borderline, l’impatto della tecnoscienza sulle forme standardizzate di ordinamento delle scienze: tutto ciò favorisce da tempo le occasioni di dialogo e di collaborazione fra studiosi di provenienza eterogenea. Nel caso di questo libro, filosofi e teorici del diritto, filosofi dell’età moderna e contemporanea, logici matematici, logici formali, giuristi informatici, storici della scienza, filologi e glottologi, hanno dato vita a una raccolta di studi intorno al problema del principio di non contraddizione. Dalla formulazione aristotelica, passando per Hegel, sino alle questioni implicate dal tipo di ragionamento che si vorrebbe applicato dai giudici nella sentenza, questi ed altri temi sono affrontati dai diversi Autori, ognuno dei quali è un esperto riconosciuto nel suo campo. Per tutti, la domanda è: quale spazio ha, oggi, l’utilizzo del principio di non contraddizione? Si tratta solo di una diversa formulazione del principio d’identità, oppure esso detiene un valore logico capace di fondare tutti i tipi di discorso, inclusi quelli non assiomatizzati? Per Dante Alighieri, lo sappiamo, alla «contradizion che nol consente» era sospeso ben più che un giudizio di validità formale: da esso poteva dipendere la salvezza o la dannazione eterna. Federico Puppo (Roma, 1975) è ricercatore di filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, dove insegna informatica giuridica. Ha pubblicato numerosi articoli in miscellanee e riviste scientifiche, principalmente dedicati ai temi dell’epistemologia, della logica e dell’argomentazione giuridica e alla loro applicazione in ambito forense. Per i tipi della FrancoAngeli ha contribuito al volume a cura di Paolo Moro, Etica Informatica Diritto (2008) con un saggio intitolato: Alcune riflessioni sui limiti della c.d. giustizia automatica. L’esempio del decreto penale di condanna. 503.8 F. Puppo LA CONTRADIZION CHE NOL CONSENTE FrancoAngeli Diritto moderno e interpretazione classica 9 LA CONTRADIZION CHE NOL CONSENTE Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione a cura di Federico Puppo Introduzione di Maurizio Manzin contributi di Francesco Berto, Stefano Colloca, Amedeo Giovanni Conte, Marco Cossutta, Stefano Fuselli, Roberto Gusmani, Luca Illetterati, Claudio Luzzati, Mauro Nasti De Vincentis, Corrado Roversi I S B N 978-88-568-2436-0 Filosofia del Diritto € 29,00 (U) 9 788856 824360 FrancoAngeli Diritto moderno e interpretazione classica 9 Diritto moderno e interpretazione classica Collana diretta da Francesco Cavalla Il progetto editoriale, significativamente denominato “Diritto moderno e interpretazione classica”, muove dalla convinzione fondamentale secondo la quale ancor oggi – quando l’esperienza giuridica presenta una moltiplicazione, spesso confusa, di norme, dottrine, posizioni – non sia possibile svolgere una critica autentica all’attività del legislatore e dell’interprete senza ricorrere a quei principi risalenti che hanno costituito la formazione del diritto in Occidente. Sono i principi che concernono la coerenza o la contraddittorietà tra i detti, la ragione deduttiva e dialettica, i limiti della conoscenza e del potere; sono i principi che diciamo classici non già, e non tanto, perché prodotti in una determinata epoca, quanto perché capaci di rivelare la loro attuale efficacia in ogni momento storico e segnatamente in quello presente. Continuando dunque un sapere antico, i testi del “progetto” tenteranno di distinguere “il troppo e il vano” di fronte a nuove tesi e nuovi problemi. In particolare, in alcuni saggi appartenenti alla serie Principî di filosofia forense, si cercherà di dare una versione organica, corredata di opportuni riferimenti culturali, della filosofia che gli attori del processo producono implicitamente nello sforzo di addivenire, attraverso il contraddittorio, a una conclusione vera per tutti. Il secondo volume di questo progetto editoriale è stato pubblicato nella collana di Filosofia: 495.191 Daniele Velo Dalbrenta, Brocardica. Una introduzione allo studio e all’uso dei brocardi Comitato scientifico: Francesco Cavalla (Università di Padova), Amedeo G. Conte (Università di Pavia), Francesco D’Agostino (Università “Tor Vergata” di Roma), Mario Jori (Università degli Studi di Milano), Maurizio Manzin (Università di Trento), Bruno Montanari (Università di Catania), Paolo Moro (Università di Padova, sede di Treviso), Francesca Zanuso (Università di Verona) Il comitato assicura attraverso un processo di peer review la validità scientifica dei volumi pubblicati LA CONTRADIZION CHE NOL CONSENTE Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione a cura di Federico Puppo Introduzione di Maurizio Manzin contributi di Francesco Berto, Stefano Colloca, Amedeo Giovanni Conte, Marco Cossutta, Stefano Fuselli, Roberto Gusmani, Luca Illetterati, Claudio Luzzati, Mauro Nasti De Vincentis, Corrado Roversi FrancoAngeli Il volume è stato pubblicato con il contributo del MIUR nell’ambito del progetto di ricerca interuniversitario di rilevante interesse nazionale PRIN 2006: “L’ordine, la lite, il discorso. Le forme del ragionamento processuale e l’applicazione della retorica nelle cause civili e nel cd. ‘processo telematico’” e con il contributo della Provincia Autonoma di Trento nell’ambito del progetto di ricerca PAT/CRS “Accesso aperto alla conoscenza scientifica e sistema trentino della ricerca: profili giuridici”. Copyright © 2010 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e comunicate sul sito www.francoangeli.it. Indice Per un approccio multidisciplinare allo studio del principio di pag. non contraddizione, di Maurizio Manzin 9 Il principio di non contraddizione e la teoria linguistica di Aristotele, di Roberto Gusmani » 21 Duplex sigillum veri, di Amedeo Giovanni Conte » 63 Forme della contraddizione e sillogistica aristotelica, di Mauro Nasti De Vincentis » 67 Contradictio regula falsi? Intorno alla teoria hegeliana della contraddizione, di Luca Illetterati » 85 Paraconsistenza e dialeteismo, di Francesco Berto » 115 Ragionevoli dubbi: quando non tutte le contraddizioni vengono per nuocere, di Stefano Fuselli » 139 Quattro modi per sopravvivere alle antinomie, di Claudio Luzzati » 163 Note sull’applicazione del principio di non contraddizione nell’ambito dell’esperienza giuridica fra antinomie proprie ed antinomie improprie, di Marco Cossutta » 197 Sulla funzione fondazionale della contraddizione performativa, di Corrado Roversi » 223 Meccanica dell’antinomia, di Stefano Colloca » 253 In Memoriam Roberto Gusmani Novara, 18 ottobre 1935 – Udine, 16 ottobre 2009 Per un approccio multidisciplinare allo studio del principio di non contraddizione Vi era un grande libro foderato di pelle rossa: le ampie pagine erano ormai quasi piene. […] “Ma l’avete quasi finito, signor Frodo!”, esclamò Sam. “Ebbene, devo dire che siete stato costante”. “Io ho finito tutto, Sam”, disse Frodo. “Le ultime pagine sono per te”. (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, tr. it. Milano 198210, pp. 1221s) 0. In questo volume si raccolgono in forma di saggio i contributi discussi nel corso del Seminario di studio che, sotto lo stesso titolo di «La contradizion che nol consente», ha avuto luogo presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche di Trento nei giorni 1 e 2 febbraio dell’anno 20071. In apertura ai lavori del consesso, l’estensore di quest’introduzione prospettò tre quesiti che un immaginario interlocutore, in vena di provocazioni, avrebbe potuto porre agli organizzatori dell’evento, pensato come il primo di una serie di appuntamenti dedicati all’approfondimento del principio di non contraddizione. Primo quesito: perché mai la questione del principio di non contraddizione dovrebbe interessare ai filosofi del diritto e – segnatamente – a coloro fra essi che si raccolgono intorno all’insegnamento di Francesco Cavalla e al Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica? Secondo quesito: con che aspettative erano stati radunati in quella sede – una Facoltà di Giurisprudenza – studiosi provenienti da discipline così eterogenee fra loro, quali filosofi non giuristi, logici, filologi e glottologi, storici della scienza, informatici? Terzo quesito: erano stati considerati i rischi connessi a codesto melting pot di competenze, primo fra i quali la potenziale babele degli statuti epistemici, dei linguaggi e delle metodologie? 1. Il seminario fu il frutto di una concorde collaborazione fra i Dipartimenti giuridici di Padova, Trento e Verona (allora diretti, rispettivamente, dai professori Francesco Cavalla, Luca Nogler e Daniele Corletto) nel quadro di un progetto interuniversitario di ricerca «Prin 2006» cofinanziato dal Ministero dell’Università, e con il concorso del Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica (CERMEG). Lo stesso Rettore dell’Università di Trento, prof. Davide Bassi, volle onorarci della sua presenza inaugurando personalmente i lavori. 10 Maurizio Manzin Immaginando questo libro come un tratto di percorso che alcune persone, provenienti da luoghi diversi e talvolta lontani tra loro, hanno voluto compiere insieme allo scopo di guadagnare una maggior comprensione del principio di non contraddizione, porre queste domande equivale a chiedersi se davvero quelle persone condividano tutte la stessa meta, se possano comprendersi tra loro senza soverchie ambiguità, o se siano piuttosto destinate a litigare durante il viaggio. Le riflessioni che seguono sono in parte ricavate dalla presentazione di quel Seminario, mentre per altra parte derivano dall’aver partecipato alla ricca e stimolante discussione che ne è scaturita, nonché dalla lettura dei saggi che furono in seguito sottoposti dagli Autori per la pubblicazione in questa Collana. 1. Avanti di metter mano a qualche tentativo di risposta per i nostri tre quesiti, non sarà inutile considerare brevemente il luogo dal quale è stata tratta la citazione che ha ispirato il titolo del Seminario di studio e del presente volume. Si tratta della celeberrima terzina dantesca di Inf. c. XVII, vv. 118-120: ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente. Come si vede, il contesto in cui si radica l’espressione è, significativamente, un discorso intorno al pentimento e all’assoluzione, ossia un discorso avente natura teologica e morale. In altre parole, la valenza logica del principio aristotelico di non contraddizione viene richiamata ed esaltata nel quadro di considerazioni deontologiche inerenti la condotta umana, in modo tale che i due livelli – quello logico e quello deontologico – risultano strettamente connessi2. Per spiegare questo nostro convincimento, si osservi la stessa disposizione dei versi. Nella prima parte Dante disegna un sillogismo che, alquan2. Ricordiamo che la frase viene pronunciata dal diavolo e riferita a Guido da Montefeltro, consigliere fraudolento. Questi, confortato da una ‘assoluzione preventiva’ del perfido Bonifacio VIII, suggeriva al pontefice di utilizzare la menzogna e l’infedeltà ai patti per impossessarsi della rocca di Preneste. Così facendo, Guido suggellava una vita di violenza e di astuzie. Ma, alla sua morte, il diavolo trattiene san Francesco dal condurre l’anima del Montefeltro in paradiso, mostrando tutta la contraddittorietà di un ‘pentimento’ viziato dall’assoluzione ante peccatum. Così facendo, il diavolo rivela il suo spirito logico, con il quale – per la meccanica del contrappasso – riesce a predare l’anima di chi per tutta la vita ha distorto la verità, usando la ragione al fine d’ingannare. In sostanza, Guido è dannato da quella stessa ragione della cui apparenza si era servito per le sue cattive azioni. Per un approccio multidisciplinare allo studio del p.n.c. 11 to grossolanamente, potremmo sciogliere in questo modo (considerando il valore logico della doppia negazione): premessa maggiore: c’è assoluzione se, e solo se, c’è pentimento (= se Tizio ‘non vuole più’ l’azione peccaminosa); premessa minore: non c’è pentimento (= Tizio ‘vuole ancora’ quell’azione); conclusione: dunque, non c’è assoluzione. Detto nei termini della logica proposizionale: dove la lettera enunciativa P significhi “C’è assoluzione” e la lettera Q “C’è pentimento”, P se e solo se Q Non si dà il caso che Q \ Non si dà il caso che P Ovvero, in notazione simbolica: P´Q ÿQ \ÿP Nella seconda parte della citazione, dopo aver enunciato l’impossibile coesistenza fra le attività del ‘volere’ / ‘non volere’ in ordine al fine di ‘ottenere l’assoluzione’, Dante richiama la regola utilizzata per giungere a tale conclusione: quella, appunto, della contradizion che nol consente. Sicché, per chiarissima affermazione dell’Alighieri, è una forma di ragionamento governata dalla non contraddizione quella più adatta a ‘consentire’ o ‘non consentire’ una determinata pratica in campo morale o teologico-morale. E questo fatto, per sé solo, basterebbe a fornirci il presupposto per rispondere al primo dei nostri tre quesiti: infatti, la filosofia del diritto è interessata dal principio di non contraddizione, nella misura in cui fra i suoi campi d’indagine rientrano le proposizioni di genere prescrittivo, nonché il rapporto – coerente – fra esse (si badi come tutto questo compaia nella riflessione filosofica occidentale, sia pur in veste poetica, ben prima del «secondo» Wittgenstein e degli Sprachspiele). Tuttavia, ce ne rendiamo conto, quel quesito era effettivamente più articolato; rileggendolo, ci si accorgerà che esso non concerneva soltanto una generica relazione fra logica e diritto (la quale, di per sé, non avrebbe alcun bisogno di giustificazione, bastando quella à la Lapalisse), ma, molto più indiscretamente, chiedeva ragione sul chi e sul come. Il chi, è una scuola di filosofia del diritto nota, forse, a qualcuno per il suo imprinting piuttosto metafisico che logico-analitico, o logico-deontico, o in generale linguistico (indirizzi, questi, inclini ex professo alla dimensione logico-propo- 12 Maurizio Manzin sizionale dell’esperienza giuridica, così intendendo in via preminente la sua componente normativa)3. Il come, è la maniera in cui l’impiego del principio di non contraddizione, epperò la sua posizione nel contesto del ragionamento giuridico, risulta giustificata dalle premesse teoriche – metafisiche, appunto – del pensiero di quella scuola e del Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica che ne è gemmato (il quale, lo ricordiamo, oltre che negli ambiti proprii dell’accademia, opera con le professioni legali nel campo della formazione e della pratica forense: attività apparentemente non proprio vicinissime allo studio della contraddizione logica)4. Per questo motivo, la risposta al primo dei tre quesiti è senz’altro la più impegnativa, e ci costringerà a spendere qualche parola in più. 2. Che cosa si debba intendere per «contraddizione» è splendidamente compendiato nella celebre formula aristotelica di Met. G 3, 1005b 19-205, dalla quale si evince anche il motivo per cui lo Stagirita scorge nella sua «impossibilità» (édÊnaton) la manifestazione di un «principio» (érxÆ) proprio di ogni attività discorrente (lÒgow). E non un principio qualsiasi, ma quello «più saldo» (bebaiotãth), grazie al quale possiamo pensare e dire in modo significante – in modo «vero» (élhy?w). Principio logico, dunque, anzi: il principio logico per eccellenza; ma, verosimilmente, anche principio ontologico. Essere e pensiero, infatti, costituiscono per gran parte della prospettiva classica, ancora ben lontana dal dualismo cartesiano, una solida unità in cui identità e differenza coesistono sin dall’origine6. In buona sostanza, Aristotele sembra cogliere l’essenza di una tradizione risalente agli autori pre-platonici – Parmenide ed Eraclito in primis – per la quale una «necessità» (énãgkh) domina l’essere, vanificando la minaccia di un annientamento assoluto: sia tale necessità intesa come una po3. Abbiamo cercato di tracciare una breve caratterizzazione di questa scuola di filosofia del diritto nel quadro del panorama nazionale in Del contraddittorio come principio e come metodo, ap. M. Manzin e F. Puppo (a c. di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 3-21: 10-12 e, più recentemente, Manzin, La verità retorica del diritto in D. Patterson, Diritto e verità, Giuffrè, Milano, 2010, pp. ix-li: x e s. 4. Per informazioni aggiornate sull’attività del Centro si consulti il sito Internet: <http://www.cermeg.it>. 5. tÚ går aÈtÚ ëma Ípãrxein te ka≈ mØ Ípãrxein édÊnaton t“ aÈt“ ka≈ katå tÚ aÈtÚ. 6. Cfr. F. Cavalla, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Cedam, Padova, 1996, pp. 17-40. Per un approccio multidisciplinare allo studio del p.n.c. 13 tenza che «rinserra» l’essere (Parmenide)7, sia come la relazione (junÒn) fra differenze apparentemente in contrasto (Eraclito)8. Necessariamente, insomma, discorso e mondo (pensiero ed essere) si manifestano secondo un principio di non contraddizione, pena il loro dissolversi nell’insignificanza e nell’ingannevole parvenza delle dÒjai. Si osservi come, secondo questa tradizione, a fondamento di ogni pensabilità e sussistenza stia il «non» che predica la necessaria incoesistenza degli opposti assoluti: segno di una differenza concepita come stigma originario del Principio (érxÆ) che regge il pensiero-essere. Non si tratta, dunque, di un Principio ‘tautologico’ che ripete all’infinito se stesso (unità conchiusa di contemplante-contemplato), secondo una ferrea affermazione dell’identità di sé a sé, quanto piuttosto di una potenza che si esprime differenziandosi senza risparmio, non essendo affatto minacciata dalle differenze (e come potrebbe esserlo? A sua salvaguardia veglia, appunto, la scolta della «non contraddizione», che impedisce ad ogni alterità di rappresentare una negazione assoluta)9. Quanto detto aiuterà a comprendere come, da due contrastanti teorie sul Principio (la teoria ‘identitaria’ e gnostica di un Principio privo d’increspature e la teoria inclusiva della differenza), possano derivare due contrastanti modelli del sapere: quello apodittico, fondato sull’identità pura e semplice, che procede per affermazioni categoriche; e quello dialettico, fondato sulla co-originarietà d’identità e differenza, in cui l’alterità non costituisce una minaccia alla significanza, nella misura in cui non si risolve in una contraddizione assoluta. Benché tali saperi abbiano contesti e finalità peculiari e non del tutto sovrapponibili, in effetti, al sorgere della modernità, essi si sono divaricati, andando il primo a governare la scienza nel senso in cui ancor oggi essa è comunemente intesa, e il secondo destrutturandosi e snaturandosi nelle discipline cosiddette umanistiche (per inciso: condannando così la teoria del diritto a vagare per secoli nella perigliosa terra di mezzo fra i due)10. 7. Parm., Sulla natura, fr. 8 vv. 30-31. 8. Eracl. framm. 14 [A 7] Colli = 22B80 DK. 9. Giusta la precisazione di Plat., Sof., 241 d, per la quale “ciò che non è, in certo senso, è esso pure e ciò che è, a sua volta in certo senso non è” – il famoso “parricidio”, operato da Platone contro il dualismo degli Eleati (qui nella tr. it. di A. Zadro in Plat., Opere, 2, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 223). 10. All’incerta natura della scienza giuridica alle soglie della modernità abbiamo dedicato molte pagine del ns. Il petrarchismo giuridico. Filosofia e logica del diritto agli inizi dell’umanesimo, Cedam, Padova, 1994. 14 Maurizio Manzin A rigore, la contrapposizione fra i due saperi non avrebbe una giustificazione logica: infatti, sia che si argomenti secondo proposizioni formalizzate di natura ipotetica (assiomi), sia che si utilizzino proposizioni vaghe tratte dal contesto discorsivo (loci o tÒpoi), in entrambi i casi risulteranno insignificanti le proposizioni contraddittorie nel loro genere (tanto è insignificante dire che, pòsti gli assiomi della geometria euclidea, la somma degli angoli interni a un triangolo non equivale a 180°, quanto che Socrate è, contemporaneamente, mortale e non mortale). Ma, per un esito connesso al processo di secolarizzazione, è accaduto che il pensiero europeo abbia da un certo momento in poi considerato l’ordine del discorso assiomatico come il paradigma assoluto per ogni altra forma del sapere, producendo quella «deriva identitaria» di cui abbiamo parlato altrove11. Ebbene, secondo Francesco Cavalla e coloro che s’ispirano al suo magistero, solo ritornando alla giusta suddivisione delle competenze fra sapere dialettico e sapere ipotetico-deduttivo (superando così la divaricazione fra i due e l’autoreferenzialità della scienza moderna), sarà possibile conferire alla teoria del diritto quel carattere «orientato alla prassi» – cioè al processo – che le è connaturato12, il quale non fa in alcun modo velo alla sua scientificità, sol che essa non sia costretta ad inseguire i cliché dello scientismo formalista o empirista. Ma, per far questo, occorre preventivamente riconoscere al principio di non contraddizione la sua capacità di significanza in tutti gli ambiti dell’essere-pensiero-discorso, poiché senza la sua opera di profilassi logica non sarebbe possibile organizzare rigorosamente i discorsi che hanno luogo nel 11. La forma assiomatica del sapere non è infatti, per se stessa, espressione di una teoria ‘identitaria’ del Principio. Ma lo diventa nel momento in cui, per una trasformazione di natura ideologica, viene investita di un privilegio esclusivo, che finisce per relegare il sapere della differenza – la dialettica – ad ambiti dell’esperienza ritenuti estranei alla determinazione della verità ‘oggettiva’ (quali la letteratura, la poesia, ecc.). Tale indebita intronazione del sapere assiomatico, che si è manifestata precipuamente nel razionalismo filosofico e nello scientismo, corrisponde a un pensiero fondamentalmente gnostico, per il quale all’irriducibilità razionale del Principio divino corrisponde la ‘mano libera’ dell’individuo sul mondo (totalmente ‘deiettato’ dal Principio e demiurgico) attraverso gli strumenti tecnici offerti dalla scienza (cfr. M. Manzin, Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, FrancoAngeli, Milano, 2008, spc. pp. 143-162). 12. Il carattere di practice theory proprio della scienza giuridica è oggi studiato da numerosi autori, sia nel campo della jurisprudence anglosassone che in quello post-positivistico italiano. Fra i primi ricordiamo Joseph Rouse, Robert Brandom e Gerald Postema (v. in prop. le considerazioni di Dennis Patterson in Diritto e verità, cit., pp. 1-5), fra i secondi specialmente Vittorio Villa, Aldo Schiavello, Damiano Canale, Giorgio Pino, Giovanni Tuzet. Per un approccio multidisciplinare allo studio del p.n.c. 15 (e intorno al) processo; i quali, vista l’impraticabilità di una loro assiomatizzazione, rimarrebbero abbandonati alla dimensione meramente potestativa dell’autorità giudiziale o – peggio – al nichilismo proceduralista13. 3. Per comprendere sino in fondo l’interesse che il tema del principio di non contraddizione riveste per i filosofi del diritto della scuola di Francesco Cavalla e del CERMEG, sarà utile ricordare in estrema sintesi i punti caratterizzanti di quest’insegnamento14: (a) lo studio del diritto (e invero qualsiasi filosofia) non può prescindere dalla connessione soggetto-oggetto. Pretendendosi ‘oggettiva’, infatti, la scienza giuridica si priverebbe di una parte essenziale dell’intero (il soggetto, appunto), commettendo l’errore ben noto di ‘assolutizzare il relativo’ (essendo l’oggetto soltanto una parte dell’intero). Oltretutto, come ormai consolidato nell’epistemologia contemporanea, ‘oggettivo’ non è affatto sinonimo di ‘universale’: né in ambito formale (ogni tentativo di conseguire l’oggettività mediante una sistematizzazione assiomatica è viziato in radice dall’«incompletezza»)15, né in ambito empirico (l’osservatore condiziona inevitabilmente l’esperimento)16. L’interazione soggetto-oggetto nei processi conoscitivi ha, per Cavalla (ma anche, per esempio, nel pensiero di Sergio Cotta), una struttura di tipo esistenziale: essa si sostanzia nell’accoglimento della ‘potenza che costringe’ in ogni discorso (pena la contraddizione) come atto esemplare della libertà soggettiva17. Accettandone la presenza, o, in altri termini, ‘ricordandola’, il soggetto riconosce l’innegabilità sul piano logico – e, dunque, la trascendenza sul piano ontologico – dell’azione del Principio, generatore di differenze e custode di quanto, ‘prima’ di esse, rimane comune (il mistero originario da cui sono tratte senza posa). 13. Su ciò v. il ns. L’ordine infranto. Ambiguità e limiti delle narrazioni formali nel diritto dell’età post-moderna, «Tigor. Rivista di scienze della comunicazione», 1, 2009, pp. 31-41 (ora anche in «Rassegna degli avvocati italiani», 2, 2009, pp. 42-54). Il testo è interamente disponibile in formato .pdf alla URL <http://hdl.handle.net/10077/3188>. 14. Un utile ed esteso compendio si troverà in P. Moro, La via della giustizia. Il fondamento dialettico del processo, Libreria al Segno, Pordenone, 20042. 15. Facciamo qui riferimento in particolare ai teoremi di K. Gödel sull’incompletezza dei sistemi assiomatici. 16. Come p. es. sostenuto da Niels Bohr (la cd. “interpretazione di Copenaghen”). 17. Cfr. Cavalla, Praeter legem agere. Appunti in tema di struttura e fenomenologia dell’atto libero in F. D’Agostino (a c. di), L’indirizzo fenomenologico e strutturale nella filosofia del diritto italiana più recente, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 53-73 e Id., Libertà da, libertà per: ordine e mistero in Aa.Vv., L’insopportabile peso dello stato, Facco, Bergamo, 2000, pp. 216-242. 16 Maurizio Manzin Ecco quindi che il sapere dialettico fondato sul principio di non contraddizione, distinguendo e unendo, opera in modo tale da mostrarsi «omologo»18 all’agire del Principio di ogni cosa, il quale Principio è, appunto, ‘consustanzialmente’ identità e differenza: costitutivo dell’oggetto, del soggetto e della relazione fra i due. Infine, non si può trascurare la banale osservazione che la considerazione del soggetto, nell’esperienza specifica del diritto, non può venir eccepita come “metagiuridica”, essendo il diritto in ogni suo aspetto, anche quello meramente normativo, pur sempre hominum causa constitutum, cioè relativo, benché in modo peculiare, alle relazioni fra i soggetti. (b) Il fulcro di codesto specifico campo dei rapporti intersoggettivi (il diritto) è assai meno la norma giuridica (misterioso oggetto eletto dal panlegalismo giuspositivista a protagonista unico della giurisprudenza e della dottrina) che non il processo, ovvero la controversia giuridica ed il giudizio, che stanno alla prima come il concreto all’astratto: da mihi factum dabo tibi ius, ex facto ius oritur, eccetera. Come, forse, per primo ha visto Giuseppe Capograssi nel secolo scorso – seguito in ciò anche da Enrico Opocher – la predisposizione di enunciati normativi da parte del legislatore origina dall’esigenza di offrire ai giudici strumenti (non esaustivi) per la risoluzione delle controversie, e ai cittadini strumenti (non esaustivi) di cognizione sulla natura illecita di determinate condotte e di previsione dei connessi possibili esiti giurisdizionali19. In parole povere, la norma giuridica non è quel totem immaginato dal positivismo giuridico formalista come l’alfa e l’omega del diritto, ma un elemento concorrente alla formazione logica della decisione: nessuno agisce in giudizio (nessuno si rivolge, per esempio, ad un avvocato) animato dall’intento di venir edotto sul tale o talaltro splendente articolo dei Codici, ma per veder riconosciuta una sua concreta pretesa o disconosciuta la sua presunta colpevolezza circa i fatti che gli sono addebitati. (c) Il processo è la forma rituale atta ad organizzare gli opposti discorsi che si producono nel corso della controversia (attore/convenuto, imputato/pubblica accusa/parte lesa, ricorrente/resistente): una species particolare del genus ‘dialogo’ in cui i diversi lÒgoi sono istituzionalmente destinati all’azione dirimente del giudizio formulato da un soggetto ‘terzo’, total18. Cavalla, La verità dimenticata (cit.), pp. 142-145: 144 (ma v. tutto il Capitolo Primo della Parte Terza). 19. Per questo v. Id., La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Cedam, Padova, 1991. Per un approccio multidisciplinare allo studio del p.n.c. 17 mente estraneo al contendere e dotato di autorità legittima. In ciò la controversia giudiziale si eccettua da altre forme di conflitto verbale, come quelle che hanno luogo nei campi dell’etica, della politica, dell’arte, ecc. (d) Il miglior modello di ragionamento, in ordine alla capacità di organizzare un dialogo fra due oppositori, è quello offerto dalla dialettica di derivazione classica – platonica e aristotelica –, poiché esso ‘funziona’ in tutti gli ambiti in cui non è possibile (né utile) conseguire la prova della coerenza logica (onde sostenere con essa la propria posizione o confutare quella avversaria) a seguito di formalizzazioni linguistiche e assiomatizzazioni. (e) La dialettica classica accerta l’inconfutabilità di una posizione (ovvero la confutabilità di quella avversaria) mediante l’uso elenctico del principio di non contraddizione, senza bisogno di essere sostenuta da alcuna stipulazione previa di premesse sottratte in seguito alla discussione. In definitiva, la dialettica è vista da questa scuola come la sola alternativa rigorosa al sillogismo pratico, ‘imposto’ al ragionamento giudiziale dal «normocentrismo» giuspositivista, ma non realizzabile nella prassi della decisione20. Ciò detto, si consideri esaurita la risposta alla prima delle tre domande: per quale motivo il principio di non contraddizione abbia un ruolo centrale nella riflessione filosofico-giuridica degli studiosi che hanno promosso il Seminario di approfondimento e pubblicato questo volume miscellaneo. 4. La seconda domanda verteva sulle aspettative in base alle quali erano stati invitati in una sede per essi desueta – un dipartimento di studî giuridici – specialisti di discipline accademiche quali la logica matematica, la filosofia moderna e contemporanea, la logica formale, la filologia e la glottologia. La speranza nutrita dagli organizzatori era, invero, proprio quella di favorire un intenso scambio fra esperienze prima facie non facilmente assimilabili, capace di produrre per ciascuno dei partecipanti un bouleversement del suo punto prospettico: far vedere, insomma, l’argomento comune della contraddizione, al logico matematico con gli occhi del giurista, al giurista con gli occhi del filologo, al filologo con quelli del filosofo, e così via secondo le diverse combinazioni possibili. Fra queste combinazioni, non è secondaria quella interna agli stessi filosofi del diritto: creare ancora una volta – e nuovamente a Trento – la possi20. Sul carattere “mitico” del sillogismo giudiziale v. il §3 del ns. L’ordine infranto (cit.). 18 Maurizio Manzin bilità di trattenere in dialogo critico i cultori della filosofia analitica, di quella continentale, della deontica, dell’etica e della biogiuridica, del positivismo giuridico costruttivista, della sociologia del diritto e altri ancora21, è stato certamente uno dei propositi più coltivati. In entrambi i casi (la combinazione fra studiosi di diverse discipline e quella fra filosofi del diritto) gli organizzatori ritenevano di poter offrire un solido terreno d’incontro: soprattutto teorico nel primo caso, e soprattutto pratico nel secondo. Quanto al primo, infatti, pensiero parola forma – i titoli delle tre distinte sessioni del Seminario22 – sono, sì, i campi d’indagine specifici rispettivamente dei filosofi, dei filologi e dei logici invitati alla discussione, ma, allo stesso tempo, essi possono confluire in un unico concetto: quello di lÒgow, inteso come azione che determina i significati nell’esperienza. A volta a volta come linguaggio-pensiero, linguaggio-parola, linguaggio-forma, esso produce discorsi dotati di senso. Senso custodito dal principio di non contraddizione. Quanto al secondo, nonostante le differenti sensibilità esistenti in dottrina circa l’approccio allo studio teorico del diritto, è nostra convinzione che il processo possa costituire per tutti, ancorché secondo pesi e misure variabili, un comune oggetto d’indagine. Comunque la si consideri, l’esperienza processuale è caratterizzata da situazioni e discorsi che interessano, in potenza o in atto, qualsiasi giurista d’accademia; e così, per conseguenza, il problema del rigore (il quale è tutt’uno con quello della certezza) che in essi si può conseguire. Ecco dunque che la questione della coerenza dei discorsi nel (e intorno al) processo – delle parti, del giudice, dei giurisperiti, della comunicazione pubblica – per così dire ‘attrae’ quella del principio di non contraddizione, nella misura in cui esso garantisca tale coerenza. 5. In definitiva, la risposta alla seconda domanda c’introduce già alla terza, e con essa alla conclusione delle nostre riflessioni a mo’ di prologo. Aggruppando i discorsi dei diversi specialisti nel Seminario e in questo volume, 21. Un cammino iniziato con la Quinta Edizione delle Giornate Tridentine di Retorica (nel 2005), che diede spunto alla raccolta di saggi pubblicata nel vol. 2 della Collana del CERMEG «Acta Methodologica» (Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, a c. di M. Manzin e P. Sommaggio, Giuffrè, Milano, 2006) e culminato con l’edizione italiana di D. Patterson, Diritto e verità (cit.), nella stessa Collana (vol. 4, a c. di M. Manzin, Giuffrè, Milano, 2010). 22. Ad ognuna di esse fu assegnata una mattinata o un pomeriggio, e tutte erano seguite da un momento di discussione in cui intervenivano liberamente i partecipanti: relatori e pubblico invitato. Per un approccio multidisciplinare allo studio del p.n.c. 19 son più le cose da temere o quelle d’augurarci? Ciò che più verosimilmente ci attende è una serie di mariages (in senso antiquario), cioè di rappezzature che alterano il valore dell’oggetto originario; ovvero di ‘gemellaggi’ come quello fra l’olio e l’acqua, che si sovrappongono ma non si mescolano; o, invece, di una crogiolatura al fondo della quale, propiziata dal fuoco del ragionamento e della passione per la ricerca, residuerà una sostanza nuova e dotata di proprietà originali rispetto a quelle degli elementi di partenza? In effetti, l’idea di convitare competenze diverse intorno a una questione di comune interesse, risponde a un’esigenza ormai profondamente avvertita in ambito scientifico; un’esigenza resa impreteribile da quella ‘rottura dei confini epistemologici’ prodottasi nella post-modernità sotto la spinta di discipline quali, soprattutto, la fisica e la matematica (con gli studî sul caos e sulla complessità), l’astrofisica (con le teorie sull’origine dell’universo), la biologia (con le scoperte nel campo della genetica), l’informatica (con lo studio dell’intelligenza artificiale). Tutte queste discipline si sono aperte a contributi provenienti da campi tradizionalmente lontani, quali le stesse humanities, dando origine a settori nuovi e inusitati della ricerca scientifica (come, ad esempio, le neuroscienze), in cui s’incrociano contributi – e si coltivano speranze – di natura assai varia. L’effrazione delle reciproche barriere, la costruzione di ‘ponti’ al posto dei ‘muri’, in tanto in quanto corrisponde all’azione collegante (jun⁄n) del Principio23, è in se stessa un bene; ma non va dissociata dall’operazione razionale della dialettica, che incessantemente distingue i contrarî, ne individua il genere comune ed espunge quelli in sé contraddittorî. Come dire: anche la costruzione dei ‘ponti’ impone un’indagine previa – sulla distanza, sull’esistenza di punti d’appoggio consistenti, sui materiali a disposizione e così via – poiché la fattibilità non è sempre scontata. Il che non significa che non si potrà trovare un’«altra via» o «altri porti» per venire «a piaggia» (tanto per restare alla fonte dantesca), apparentemente più tortuosi e meno confortevoli, poiché non sempre è agevole individuare il comune. E se, oggi, potrà sembrare ‘consistente’ una certa condizione o modalità, è possibile che, domani, s’imponga un’altra rotta o un altro veicolo24. L’avven23. Cavalla, La verità dimenticata (cit.), pp. 133ss. 24. Non altro è il significato di «verità istantanea», espressione coniata da Francesco Cavalla per indicare la ‘consistenza’ che si realizza attraverso l’individuazione di (e la relazione coerente fra) luoghi comuni (¶ndoja); tale verità – poiché di questo si tratta – dura per tutto il tempo in cui essi, luoghi comuni e coerenza intrinseca, non patiscono nel flusso dell’esperienza modificazioni tali da poter essere revocati in dubbio (cfr. Cavalla, Retorica giudiziale, logica e verità in Id. [a c. di], Retorica Processo Verità, FrancoAngeli, Milano, 2007, pp. 17-84: 80ss).