Il quarto libro della Metafisica, detto più correttamente Libro gamma ( è uno dei testi decisivi del pensiero aristotelico e più in generale della filosofia occidentale: viene data una definizione di metafisica, poi una di essere, in seguito viene affrontato il tema degli "assiomi" e, infine, viene preso in esame il "principio di non contraddizione" mediante la confutazione () di coloro che lo negano. Ma procediamo con ordine: in apertura del quarto libro, troviamo scritto che "c’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale". Tale è, appunto, la metafisica ( ricordiamo, però che Aristotele non usa il termine in nessuna delle sue opere): il suo oggetto di indagine è "l’essere in quanto essere", ossia l’intero della realtà, e condurre una tale investigazione significa trovare le cause che lo giustificano. Dove sta la differenza tra la scienza dell’essere in quanto essere ( quella che successivamente sarà chiamata metafisica) e le altre scienze? Nel fatto che, mentre queste ultime sono conoscenze di una "parte" della realtà (sono cioè conoscenze settoriali e parziali della realtà), la metafisica abbraccia con la sua indagine l’intera realtà, nel tentativo di cogliere non le singole parti e i singoli aspetti, ma i "principi supremi". In connessione col concetto di "essere", Aristotele studia quello di "uno", giacché quest’ultimo è convertibile in quello di essere ("ens et unum convertuntur" diranno i commentatori medioevali): ne consegue che il metafisico dovrà anche studiare i concetti di "diverso", di "identico", di "simile", e di tutti gli altri che sono connessi a quello di uno. Prendendo le mosse dall’essere come intero compatto, come totalità dell’essere, lo Stagirita espone il principio di non contraddizione nella sua formulazione più completa e per certi versi definitiva: ma, ancor prima, fa un excursus sui "settori" particolari dell’essere, ossia su quelle porzioni di realtà che vengono prese in esame dalle singole scienze. Chi esercita le varie scienze fa uso di principi e di assunti valenti per singoli ambiti della realtà, ma, accanto ad essi, si avvale di "assiomi" validi per l’intero ambito dell’essere ("essi sono propri dell’essere in quanto essere", 1005 a). Ma se essi sono comuni all’intera realtà, quale scienza dovrà occuparsene? La filosofia prima o Scienza dell’essere in quanto essere (ovvero quella che chiamiamo Metafisica), dice Aristotele, poiché è l’unica ad avere come campo d’indagine l’intero essere, tanto più che le altre scienze fanno uso di tali assiomi ma non dicono nulla su di essi (proprio perché essi non ineriscono ad un ristretto ambito di realtà). Al contrario, la metafisica non solo fa uso di essi, ma di essi si occupa in maniera sistematica. Ma, in concreto, quali sono questi assiomi universalmente validi? Il principale di essi è il "principio di non contraddizione", che può essere formulato in una miriade di modi, e Aristotele così esprime: "è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto". Di tutti gli assiomi, questo è il più saldo, giacchè nessuno si sognerebbe di sostenere che una stessa cosa sia e non sia (ad es. "A è A e non-A"); ma il principio di non contraddizione è al contempo legge dell’essere, legge del pensiero e legge del linguaggio ( valore ontologico, logico e linguistico-semantico del principio): è infatti impossibile sia che la stessa cosa appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, sia pensare che la medesima cosa sia e non sia, e pensare è sempre un dire. Vi è dunque una profonda corrispondenza tra pensato e reale: del resto, essendo il principio di non contraddizione un principio valido per l’essere in quanto essere, è naturale ch’esso valga anche per la struttura mentale dell’uomo, la quale rientra a pieno titolo nell’essere. In tempi più recenti, Kant prenderà in un certo senso le mosse dall’identità aristotelica di pensato e reale ricorrendo alle "dodici categorie", valide per la mente umana ma anche per la realtà (sarà anzi la stessa mente umana ad impiegarle per leggere la realtà, modificando soggetivisticamente l’idea di corrispondenza presente in Aristotele). Il principio di non contraddizione è il più valido di tutti ed è anzi quello da cui tutti gli altri derivano: esso sta alla base di ogni possibilità di ragionamento e di dimostrazione; in quanto è il "principio primo" da cui derivano tutti gli altri, esso è indimostrato e indimostrabile, ma deve necessariamente essere ammesso (a meno che non si voglia prolungare all’infinito la ricerca di un principio); qualora qualcuno, intestardito, voglia provare a dimostrarlo, si troverà inevitabilmente a far uso di esso nella sua dimostrazione! Il che è evidentemente assurdo. Da ciò si può evincere come tutti, intuitivamente, sappiamo cosa esso sia e ce ne serviamo abitualmente. Eppure ci sono stati filosofi che l’hanno respinto, negandogli ogni validità argomentativa: ad avviso di costoro, è possibile affermare che una stessa cosa può essere e non essere e, conseguentemente, pensare che una stessa cosa può essere e non essere. Contro questi avversari, non si può esibire una dimostrazione del principio di non contraddizione, giacché – come abbiamo detto – esso è indimostrato in quanto fondamento di ogni dimostrazione; si può tuttavia percorrere una strada alternativa e vincente: quella dell’ ossia della prova negativa per confutazione dell’avversario, mettendo in evidenza come il discorso del negatore del principio di non contraddizione non riesca nemmeno a costituirsi, giacché, per costituirsi, dovrebbe fare ricorso allo stesso principio di non contraddizione. Non appena l’avversario apre bocca, infatti, dice qualcosa e se a questo qualcosa annette un senso, allora dice qualcosa di determinato che, proprio perché determinato, non potrà essere la sua negazione. In fin dei conti, chi nega il principio di contraddizione (e Aristotele ha soprattutto in mente i sofisti, primi fra tutti Gorgia e Protagora), per essere coerente, dovrebbe star zitto e non pensare: il che equivarrebbe a regredire allo stadio di vegetale. D’accordo anche in questo con il maestro Platone, lo Stagirita respinge senza mezzi termini le tesi dei sofisti e di eraclito: alla tesi anti-protagorea "se è tutto vero, allora è vero anche che esiste il falso e che ciò che dice Protagora è menzogna" e a quella anti-gorgiana "se tutto è falso, allora anche ciò che dice Gorgia lo è", egli ne affianca ora una nuova: il sofista, negatore del principio di non contraddizione, non appena apre bocca sconfessa già le proprie posizioni. Aristotele non si accontenta della dimostrazione a favore del principio di non contraddizione anzi esposta e ne squaderna un’altra: nel suo significato più forte, l’essere è sostanza, dove per "sostanza" (dobbiamo intendere tutto ciò che esiste di per sé; negare il principio di non contraddizione vuol dire, come sappiamo, negare l’essere in generale; ma vorrà anche dire negare l’essere nel significato di sostanza. Sicché l’essenza di "uomo" sarà anche essenza di "nonuomo": ma, negando la sostanza, tutto si riduce ad "accidente", dove per accidente dobbiamo intendere tutto ciò che esiste nella misura in cui inerisce ad una sostanza (il rosso, il caldo, ecc, sono accidenti perché esistono in riferimento ad una sostanza: una casa rossa, un libro rosso, ecc); se dunque togliamo la sostanza dovrebbe restare solo l’accidente, ma quest’ultimo, per esistere, ha sempre bisogno di una sostanza a cui inerire, cosicché – venuta meno la sostanza – cadrà anche l’accidente e, con esso, tutto l’essere. Molti pensatori, seguendo il procedere di Eraclito, hanno negato il principio di non contraddizione facendo leva sulla contraddittorietà del reale, sul suo fluire incessante e sulla sua assenza di stabilità: partendo da queste considerazioni, essi hanno universalizzato la questione, arrivando a sostenere l’instabilità dell’intero essere. Ma Aristotele avverte: "dovremo dimostrare che esiste una realtà immobile e dovremo convincerli di questo". Tale tema verrà ripreso e sviluppato nel XII Libro della Metafisica con la dimostrazione ( o meglio, l’insieme di dimostrazioni) circa l’esistenza del Motore Immobile che è divino. Per cui la Metafisica assume anche, inevitabilmente il significato di teologia filosofica