INTRODUZIONE ALLA FISICA MODERNA
a.a. 2007-08
Lezione 4
Simmetrie in Meccanica quantistica
La rivoluzione quantistica
Prima di passare all’argomento delle simmetrie in meccanica quantistica, è opportuno passare in
rassegna quegli eventi, risultati scientifici e formalizzazioni teoriche che hanno portato ad una delle
più grandi, e controverse realizzazioni del pensiero umano: la meccanica quantistica. Il totale
cambiamento del cosidetto paradigma, ossia il sistema di pensiero che definisce e delimita ciò che
chiamiamo realtà, ci permette di parlare di una vera e propria rivoluzione, i cui effetti hanno
travalicato di gran lunga i confini disciplinari della fisica, per arrivare alla filosofia (e la sua
distruzione) e financo alla religione, ossia alla parte più riposta dello spirito umano.
Quando osserviamo la Natura, diamo per scontati due principi fondamentali:
1. Che gli eventi accadano dentro ad uno spazio che in qualche modo li contiene, e ad un
istante dato in un tempo che fluisce uniformemente e indipendentemente.
2. Che il nostro osservare non disturbi gli eventi, o meglio che la perturbazione
dell’osservazione o della misura possa, almeno in linea di principio, essere ridotta fino ad
essere trascurabile, separando così in modo fondamentale l’osservatore dall’osservato.
Ebbene alla fine dell’ottocento ambedue le ipotesi si sono rivelate sbagliate. La prima è stata
invalidata dalla teoria della Relatività (Einstein, 1905 e 1916). Della Relatività non parleremo
più, se non per ricordare, alla fine di questa lezione, che all’inizio dell’Universo probabilmente
Relatività e Meccanica quantistica non erano distinguibili, ma aspetti diversi di un’unica, grande
“teoria del tutto” (Hawking, 1990). La Relatività ha di fatto abolito lo spazio e il tempo come
entità indipendenti dalla materia-energia, che invece li creano e ne determinano le proprietà.
La seconda ipotesi è stata invalidata dalla rivoluzione quantistica. Mi chiederete come mai di
tutto ciò ce ne siamo accorti sono alla fine del XIX secolo, e perché per secoli la fisica classica,
cioè non quantistica e non relativistica, aveva funzionato così bene. Il punto non è il suo
funzionamento, ma la sua assolutezza come teoria. Ossia, le rivoluzioni relativistica e
quantistica manifestano i loro effetti concreti solo per oggetti che viaggiano a velocità vicine a
quella della luce, o masse enormi come quelle delle Galassie per quanto riguarda la relatività,
oppure per i fenomeni che avvengono sulla scala microscopica degli atomi, molecole e ancor più
piccola delle particelle elementari. Anzi in ambedue i casi le nuove teorie prevedono la fisica
classica come caso limite, nell’ambito del quale quest’ultima è perfettamente valida.
Però questo non cambia il fatto che fondamentalmente le certezze della nostra visione del
mondo furono spazzate via da queste rivoluzioni.
Difficilmente nella storia del pensiero umano si possono trovare eventi che abbiano più
radicalmente cambiato la visione del mondo, il rapporto uomo-natura, la nostra collocazione
nella storia.
L’osservatore interagisce sempre con l’osservato, e questa interazione può essere trascurata solo
quando si osservino fenomeni macroscopici, come quelli della nostra vita quotidiana, che
dunque ci appaiono oggettivi, indipendenti da noi che li osserviamo. Questo non è più vero
quando vogliamo osservare, dunque misurare, il mondo dei fenomeni microscopici. In questo
caso, l’interazione non può essere trascurata nemmeno in linea di principio: osservatore e
osservato non sono più, nemmeno concettualmente, indipendenti: la loro interazione modifica in
modo imprevedibile l’evento che dunque potrà avvenire, se ripetuto, con risultati diversi. Questo
porta alla fine del determinismo della fisica classica, e all’introduzione di concetti statistici
anche nei casi che in fisica classica erano in linea di principio perfettamente determinati. Questi
fatti sono il fondamento della rivoluzione quantistica, che ha permesso di capire l’esistenza e
proprietà degli atomi, delle molecole, dei loro aggregati sempre più complessi fino a formare i
materiali che conosciamo e la stessa materia vivente, da una parte, e dall’altra, le particelle
elementari che sono i mattoni fondamentali di cui è costituito tutto l’Universo.
Perché gli scienziati hanno dovuto abbandonare le certezze della fisica classica per imbarcarsi
in un nuovo, avventuroso viaggio? E’ stata la Natura stessa che, osservata con sempre maggiore
attenzione e dettaglio, a un certo punto ha mostrato eventi e fenomeni che non potevano essere
capiti nell’ambito delle teorie conosciute alla fine del secolo XIX. Vediamone alcuni:
1. Le righe di assorbimento e fluorescenza dei gas atomici. La spettroscopia ha rivelato che gli
atomi assorbivano la luce solo a particolari e ben definite energie, e non a tutte le energie
con avrebbe voluto la fisica classica. Un primo modello quantistico per capire le proprietà
ottiche degli atomi fu formulato da Bohr (1910) (il “modello planetario”); funzionava, ma
ancora non si capiva perché.
2. L’esistenza stessa degli atomi. Thompson (1892) dimostrò che gli atomi non erano le palline
di Democrito, ma avevano una struttura interna: contenevano cioè delle particelle cariche
negativamente, gli elettroni, e dato che gli atomi sono elettricamente neutri, dovevano
contenere particelle con carica positiva uguale a quella complessiva degli elettroni.
Rutherford (1910) dimostrò poi che la carica positiva era tutta concentrata in un nucleo,
di dimensioni circa 10000 volte più piccole di quella dell’atomo che risultò essere attorno ad
0.1 nm (1 nanometro = 10-9 metri). Thompson misurò anche il rapporto e/m fra carica e
massa dell’elettrone, e Millikan (1913) determinò la carica dell’elettrone(1.6 10-19
Coulomb). Ebbene, tutto ciò non è possibile nell’ambito della fisica classica. Fu necessario
l’avvento della teoria quantistica vera e propria (Schroedinger, Heisenberg, Dirac (1920-1930)) per
dare una sistemazione definiva al problema degli atomi.
3. Sempre connesso con le proprietà ottiche degli atomi è l’effetto fotoelettrico, le cui proprietà
sono incomprensibili nell’ambito della fisica classica. In particolare classicamente la
quantità e l’energia degli elettroni emessi dal materiale sotto l’azione della radiazione
elettromagnetica dovevano dipendere dall’intensità della radiazione e non dalla sua
frequenza, mentre l’osservazione indicava che se la radiazione non aveva una frequenza che
superava una certa soglia non venivano fuori i fotoelettroni, indipendentemente dall’intensità.
Dell’effetto fotoelettrico dette spiegazione Einstein (1905) basandosi sull’ipotesi di
quantizzazione del campo elettromagnetico di Planck.
4. Planck appunto (1900) per spiegare un altro fenomeno inspiegabile in fisica classica, lo
spettro della radiazione di corpo nero, fu costretto ad ipotizzare che la radiazione potesse
essere scambiata solo un quantità discrete, dette quanti. In questo modo riuscì a spiegare
perché l’intensità spettrale non divergeva all’infinito con l’aumentare della frequenza, come
prevedeva la fisica classica, e a calcolare la formula (di Planck) che con grande precisione
riproduce le caratteristiche spettrali del corpo nero, tanto da essere usata anche come
standard metrologico.
5. La quantizzazione dell’energia permise di spiegare anche un’altra anomalia (rispetto alla
fisica classica): quella dell’andamento del calore specifico dei solidi con la temperatura. Per
la fisica classica, doveva essere costante e proporzionale a R, la costante molare dei gas. I
fatti invece indicavano che questo comportamento (Legge di Dulong e Petit) era il caso
limite delle alte temperature, mentre se la temperatura veniva abbassata verso lo zero
assoluto (-273 °K), il calore specifico andava anch’esso a zero, approssimando un
comportamento di proporzionalità a T3. Questo comportamento fu modellizzato nell’ambito
dell’ipotesi quantistica (questa volta applicata all’energia vibrazionale degli atomi che
costituiscono il materiale) da Einstein (1907) e Debye (1908).
Fermiamo qui questa carrellata sugli esperimenti più importanti che hanno portato alla
rivoluzione quantistica. La descrizione più precisa ed estesa degli effetti e della loro
interpretazione può essere trovata nelle lezioni che riguardano la parte sperimentale del nostro
corso.
I fondamenti della meccanica quantistica
Il principio di indeterminazione ( o di Heisenberg)
La base fisica della rivoluzione quantistica è il Principio di Indeterminazione, formulato da
Heinberg nel 1924. Il principio si basa da una parte sul fatto fisico fondamentale che osservatore
e osservato non sono separabili nemmeno in linea di principio, e dall'altra su alcune
caratteristiche formali delle variabili fisiche della meccanica classica, che valevano anche per le
loro corrispondenti quantistiche. Il Principio asserisce che, per specifiche coppie di variabili
(osservabili) fisiche A e B, che in meccanica classica sono definite come “coniugate”, deve
sempre valere la seguente diseguaglianza:
ΔA · ΔB ≥ ħ
dove ħ = h/2π, h essendo la costante di Planck = 6.63·10-34 Joule secondo. I Δ nella formula
stanno ad indicare la precisione con cui viene misurata (osservata) la grandezza A o B. Si vede
chiaramente che all'aumentare della precisione per una grandezza, diminuisce in parallelo la
precisione per l'altra. O l'una o l'altra in linea di principio possono essere misurate con infinita
precisione, ma al costo di perdere qualsiasi possibilità di conoscere l'altra. Questa parte del
principio traduce matematicamente il problema interazione osservabile-osservatore. L'altro
aspetto del principio è il valore di h, che è così piccolo da rendere trascurabili gli effetti
quantistici quando si passa dal mondo microscopico a quello macroscopico. Alcuni esempi di
variabili coniugate sono: Energia E e tempo t; quantità di moto p e posizione x; momento
angolare J e angolo di rotazione φ.
Le conseguenze pratiche del principio sono grandi e immediate: per esempio, il mostro sacro
della Fisica, il Principio di Conservazione dell'Energia, non ha più valore assoluto. In fatti, per
poter asserire che l'energia si conserva, devo poterla misurare con infinita precisione ad un ben
determinato istante nel tempo; e questo per il Principio di Indeterminazione è impossibile. E'
bene ricordare il significato del Δ che appare nel principio. Il valore della variabile osservata A
fluttua in modo casuale con un'ampiezza caratteristica che è appunto ΔA; essendo la
fluttuazione casuale, i valori positivi rispetto al valor medio sono altrettanto probabili dei valori
negativi, per cui il valor medio è costante nel tempo. Ma questo valore non è quello che viene
osservato, e tanto più piccolo è il tempo a disposizione per fare la misura, tanto più grandi sono
le fluttuazioni, e dunque la probabilità di trovare un valore di E molto lontano, in più o in meno,
dal valor medio.
Stesso discorso per le altre coppie di variabili coniugate; per esempio, dato che p=mv, se misuro
con infinita precisione la velocità di una particella, la sua posizione sarà completamente
indeterminata, ossia la potrò trovare con uguale probabilità ovunque. Come vedremo, questo ha
importantissime conseguenze su come la meccanica quantistica ha permesso di capire le
proprietà degli atomi, molecole etc.
Come si traduce il Principio di Azione nella meccanica quantistica? Fu Feynman,
nell'immediato dopoguerra, a darne l'enunciato. Consideriamo allora tutte le possibili traiettorie
per andare da X1 a X2. Classicamente, il principio ci dice che la particella ne seguirà una, che è
quella che minimizza l'azione. La traduzione quantistica di Feynman si basa sul fatto
fondamentale (principio di indeterminazione), per cui non è possibile conoscere la specifica
traiettoria di una particella. Feynman postulò che la particella le può seguire tutte, ma con
probabilità diverse, connesse con le ampiezze:
Ω( x(t)) = exp[ i A((x(t)) /ħ] ,
dove A è l'azione. Per calcolare come il sistema evolverà, si somma (integra) questa ampiezza su
tutte le traiettorie. La probabilità di arrivare al punto finale è il modulo quadro dell'ampiezza totale.
E' importante notare che la particella non segue solo una traiettoria, e.g. quella più probabile;
invece, le “segue”tutte, ossia, prima di fare la misura per vedere dov'è, la particella è delocalizzata,
proprio come un'onda; ma c'è di più: se io bloccassi in qualche modo qualche possibile traiettoria
virtuale, cambierò il risultato che troverò, anche se la particella in quella traiettoria non ci sarebbe
mai passata. Quando poi faccio la misura della posizione, allora tutte le traiettorie alternative
spariscono. Vedremo fra poco un esempio chiarissimo di questo fatto.
Per ora concludiamo rimarcando che, attraverso la formulazione di Feynman della meccanica
quantistica, arriviamo al principio di azione, che a sua volta ci porta al teorema di Noether, e dunque
alle leggi di conservazione che abbiamo già discusso per la fisica classica.
I dualismi della fisica quantistica: onda-particella, particella-onda
E' ben noto che l'energia elettromagnetica si propaga attraverso onde, nel vuoto, delocalizzate nello
spazio e nel tempo. L'ipotesi di Planck per spiegare lo spettro della radiazione di corpo nero,
l'ipotesi di Einstein per piegare l'effetto fotoelettrico e l'andamento del calore specifico dei solidi,
dimostrano inequivocabilmente che la radiazione in certi casi ha tutte le caratteristiche di una
particella, cioè un'entità che trasporta energia e quantità di moto localizzate nello spazio e nel
tempo.
Viceversa, DeBroglie (1922) suppose che la situazione doveva essere simmetrica, ossia se un'onda
poteva avere simultaneamente anche le caratteristiche di una particella, allora anche una particella
doveva avere le caratteristiche di un'onda, e assegnò alla particella di quantità di moto p una
lunghezza d'onda:
λ=h/p
Un elettrone con un'energia di 1 eV (1.6 10-19 Joule) avrebbe una lunghezza d'onda di de Broglie di
circa 1 nm (10 Angstrom). De Broglie in qualche modo credeva all'esistenza di una vera e propria
“onda” che accompagnava la particella nel suo moto. Fu Heinsenberg che chiarì il significato
profondo dell'ipotesi di de Broglie: col suo principio di indeterminazione, la delocalizzazione
spaziale della particella era naturale: la particella è simultaneamente onda e particella, e manifesta
l'uno o l'altro aspetto a seconda delle osservazioni che si fanno. La natura anche ondulatoria delle
particelle fu poi dimostrata sperimentalmente da Davidson e Germeer (1928), che evidenziarono
l'effetto della diffrazione su un fascetto di elettroni. Da questo esperimento nacque fra l'altro
un'importante tecnologia, quella del microscopio elettronico.
Vediamo ora alcuni esperimenti “virtuali” che dimostrano le asserzioni che abbiamo fatto, e quanto
sia diverso il mondo quantistico rispetto a quello cui i nostri sensi ci hanno abituato.
L'esperimento delle due fenditure (Young)
Nell'esperimento di Young fu dimostratata la natura ondulatoria della luce, evidenziando le frange
di interferenza fra i raggi che traversano l'una o l'altra fenditura. Questo esperimento è diventato un
importante strumento per la dimostrazione della dualità onda-particella in fisica quantistica.
Ma la natura squisitamente quantisitca degli effetti la si dimostra se ora, nell'esperimento di
Young, immaginiamo di ridurre l'intensità dei fotoni o elettroni a tal punto che al massimo una
particella passa attraverso le fenditure per ogni intervallo temporale di misura.
Si vede chiaramente come la proprietà dell'interferenza non sia dovuta alla statistica delle molte
particelle che interferiscono. La singola particella interferisce con se stessa! O meglio, prima di
arrivare alle fenditure, la particella è delocalizzata, ed è in uno stato che è la sovrapposizione di
due stati, che la farebbero passare o dall'una o dall'altra fenditura rispettivamente. E' questo il
punto più fondamentale, e controverso, della fisica quantistica.
Continuando con nostro esperimento ideale, immaginiamo ora di chiudere una delle fenditure
:
Chiudiamo ora l'altra fenditura:
Cosa vedremo?
Esattamente la stessa cosa di quando avevamo chiuso la fenditura S1, ma ovviamente con la
posizione dell'intensità invertita: non c'è interferenza.
Immaginiamo ora di riaprire ambedue le fenditure. Ecco che l'interferenza riappare!
Dunque chiudendo una fenditura, io influenzo il risultato sull'altra: come fanno le particelle che
passano dall'altra a sapere che ho chiuso la prima?? La risposta, come vedremo, è che prima di
passare attraverso le fenditure, la singola particella è simultaneamente in uno stato (quantico) in
cui ambedue i “futuri” sono possibili: è in una sovrapposizione di due stati, uno per il quale
passerebbe dalla fenditura S1, l'altro per la S2. Tutto ciò è describibile solo se la funzione che
descrive lo stato della particella ha le carrateristiche di delocalizzazione di un'onda.
La funzione d'onda
La formalizzazione matematica dei risultati sperimentali descritti, della dualità particella-onda
e, se si vuole, del Principio di Indeterminazione che è alla base di tutto ciò, si ottiene
introducendo la funzione d'onda, una funzione cioè che ci dà la descrizione completa (nel senso
che è la massima possibile) del sistema fisico sotto osservazione. Nella fisica classica, tale
descrizione si aveva conoscendo, ad ogni istante t, la posizione x e la quantità di moto p della
particella, o delle particelle, che costituivano il sistema. Abbiamo visto che questo è impossibile
in fisica quantistica. Abbiamo anche visto che ora dobbiamo introdurre un elemento di caos,
ossia di non predicibilità, nella nostra descrizione del sistema. Abbiamo visto in particolare che
una particella sarà tanto più delocalizzata quanto più la sua quantità di moto è definita. Ma cosa
vuol dire “delocalizzata”? Ovviamente non che le sue dimensioni fisiche aumentano a
dismisura. Vuol dire invece, come abbiamo visto nell'esperimento di Young, che se noi
cerchiamo di misurarne la posizione, una volta la troviamo in un punto, una volta in un altro, e
la distribuzione di queste posizioni sarà tanto più larga quanto più definita è la quantità di moto.
Da questo discende in modo abbastanza (cioè col sapere di poi) naturale introdurre una funzione
che ci dà la probabilità di trovare la particella in un dato punto, se questa è un un dato stato
quantico: nell'esempio che abbiamo fatto per esempio, se ha una data quantità di moto.
Questa funzione si chiama funzione d'onda, e sarà funzione di x e di t, proprio come in fisica
classica lo sarebbe stata la traiettoria della particella:
ψ = ψ(x,t)
Come vedremo più avanti, la ψ è una funzione complessa (nel senso dei numeri complessi), e
dunque non può descrivere una quantità osservabile e misurabile; inoltre non ha alcune proprietà
matematiche che si richiedono per descrivere una probabilità. La più semplice funzione,
connessa con ψ, che abbia le giuste proprietà è il suo modulo quadro
|ψ(x, t)|2 = probabilità di trovare la particella nel punto x al tempo t.
Come vedete, l'interpretazione fisica della funzione d'onda è, appunto, un'interpretazione; ossia
non è desumibile da principi primi. E' stata proposta dalla cosidetta Scuola di Copenhagen
(Bohr, 1928); questa “arbitrarietà” nei fondamenti della meccanica quantistica è stata sempre un
problema, che ha portato molti, malgrado i tantissimi successi della teoria, a ritenerla come una
teoria incompleta; ancora oggi molti fisici dibattono su questo, e sono alla ricerca di una teoria
più generale. Un'altro problema, che la meccanica quantistica condivide, sebbene da punti
diversi, con la Relatività, è che la MQ non rende conto della gravitazione. Dunque la teoria
generale che si cerca sarebbe una vera e propria teoria del tutto, la teoria unificata che descrive il
tutto, dall’origine e struttura dell'Universo su larga scala, alla materia vivente (inclusi noi), alle
più piccole particelle elementari.
Consideriamo ora una particella libera di massa m: questa avrà una velocità v perfettamente
definita e costante nel tempo. Il suo stato quantico sarà allora descritto dal valore della quantità
di moto p, e sarà stazionario, nel senso che non dipende dal tempo. Quale sarà la sua funzione
d'onda? In linea di principio per rispondere a questa domanda dovremo procedere nello stesso
modo della fisica classica, dove, per trovare la traiettoria, dobbiamo risolvere le equazioni di
moto (F=ma....); in MQ la funzione d'onda la troveremo come soluzione di un'equazione,
analoga concettualmente alle equazioni di moto, che viene detta equazione d'onda o equazione
di Scroedinger (Schroedinger, 1923). Anche nel caso dell'equazione di Scroedinger si è
proceduto per analogie e interpretazioni dei dati sperimentali; anche in questo caso il successo è
stato ed è tuttora impressionante. Vedremo dopo come si può giustificare l'equazione di
Scroedinger e la forma matematica che ha assunto. Qui vorremmo, nel più semplice dei casi,
arrivare alla forma della funzione d'onda senza passare per la soluzione dell'equazione d'onda.
Allora, ricordiamo che se la particella ha una quantità di moto perfettamente definita deve essere
delocalizzata su tutto lo spazio, ossia la probabilità di trovarla dovunque è sempre la stessa,
ossia matematicamente è indipendente dalla coordinata x, e ovviamente anche dalla coordinata
temporale. In altre parole, la forma della funzione d'onda deve semplicemente dirci che la
particella da qualche parte esiste. Ora, la funzione matematica più semplice che ha tutte le
caratteristiche giuste è:
ψ (x) = exp(ipx)
Infatti, descrive completamente lo stato quantico dato che c'è p, la quantità di moto che qui
appare come parametro; ha le stesse caratteristiche formali delle funzioni che descrivono onde,
come ad esempio quelle elettromagnetiche. Il suo modulo quadro è uguale a 1, ossia ci dà la
corretta probabilità di trovare la particella da qualche parte (la particella esiste), e è indipendente
da x, ossia la particella è totalmente delocalizzata. Questa è dunque funzione d'onda della
particella libera e, come vedremo, coincide con la soluzione della corrispondente equazione di
Schroedinger.
L'equazione d'onda (Schroedinger)
Per arrivare all’equazione di Schroedinger, o equazione d’onda, cominciamo appunto col richiamare
alcune proprietà di un’onda armonica nell’ambito dell’ipotesi quantistica:
la relazione di de Broglie correla lunghezza d’onda e quantità di moto:  = h/p; questa può
riscriversi come p = ћk, dove k= 2π/λ, dove k è il vettor d’onda. L’ipotesi di Planck e la successiva
elaborazione di Einstein per spiegare l’effetto fotoelettrico portano alla relazione fra frequenza
dell’onda e energia dei suoi quanti: E = ћ, dove ω = 2 πν (per la precisione la frequenza, misurata
in Hertz, è ν, mentre ω viene detta pulsazione nella letteratura italiana; in quella inglese non si fa
distinzione. In ogni caso ω è misurata in radianti/secondo.). Ora, una funzione d’onda ψ(x,t) che
descrive una particella che viaggia con quantità di moto determinata p nella direzione x, e dunque
con posizione totalmente indeterminata, può avere una delle forme armoniche:
cos(kx- ωt), sen(kx- ωt), exp(i(kx- ωt)), exp(-i(kx- ωt))
o una loro combinazione lineare.
Però il problema è più complesso, nel senso che è necessario arrivare a funzioni d’onda che
descrivano la dinamica delle particelle, ovverosia le particelle sotto l’azione di campi di forza.
E’ dunque necessario generalizzare il caso armonico, e per questo bisogna trovare un’opportuna
equazione differenziale che ci permetta di ottenere soluzioni più complesse.
Questa equazione dovrà essere lineare, perché le sue soluzioni devono potersi sovrapporre a
produrre gli effetti di interferenza (Young). L’equazione poi dovrà contenere parametri
fondamentali come ћ, la massa e carica della particella, ma non dovrà contenere le quantità che
descrivono il moto della particella nello specifico, altrimenti non sarà possibile sovrapporre
soluzioni diverse (ossia corrispondenti a valori diversi di questi parametri).
Se osserviamo ora che le derivate rispetto al tempo, nelle possibili funzioni d’onda, equivalgono
spesso a una moltiplicazione per ω, e quelle rispetto allo spazio a una moltiplicazione per k, e
ricordiamo che energia (o frequenza) e vettor d’onda sono correlati da una relazione di dipendenza
quadratica, per es. E ≈ k2, se ne deduce che probabilmente la nostra equazione dovrà contenere una
derivata prima rispetto al tempo, e una derivata seconda rispetto allo spazio. Possiamo allora scrivere:
∂ψ /∂t = γ∂2ψ /∂x2
Se ora sostituiamo in questa equazione come soluzioni di prova quelle funzioni armoniche discusse
precedentemente, troviamo che le prime due non la soddisfano, ma le seconde due si (ma non
simultaneamente). Se usiamo la terza (se vi ricordate, l’avevamo già introdotta in precedenza),
vediamo che questa sarà soluzione se γ = iћ/2m. Si avrà allora:
i ћ ∂ψ /∂t = (-ћ2/2m) ∂2 ψ/∂2x
Questa è una prima espressione dell’equazione di Schroedinger: essa vale per il caso della particella
libera in una dimensione. Generalizzando al caso tridimensionale, si ha:
i ћ ∂ψ /∂t = (-ћ2/2m)
ψ
Se confrontiamo questa equazione con le relazioni quantistiche fra quantità di moto e vettor d’onda
e la relazione classica per la particella libera fra energia e quantità di moto E = p2/2m, vediamo che
l’energia corrisponde all’applicazione dell’operatore differenziale
E  i ћ ∂/∂ t,
e per la quantità di moto si avrà
piћ
se vengono applicati alla funzione d’onda. Il grassetto sta ad indicare la natura vettoriale delle
quantità.
Ci resta ora da trattare il caso generale di una particella soggetta a forze. Si considera subito il caso
di campi di forza che ammettono un potenziale, che sono praticamente tutti quelli di interesse in
meccanica quantistica. Si avrà
F(r,t) = - V(r,t).
Ora l’energia totale sarà data da
E = p2/2m + V(r,t).
E’ naturale ora generalizzare l’equazione precedente per includere l’energia potenziale V:
i ћ ∂ψ /∂t = [(-ћ2/2m)
2
+ V(r,t)]ψ
Questa è finalmente l’equazione di Schroedinger completa, che è l’analogo quantistico delle
equazioni di Newton. Essa permette di calcolare la funzione d’onda del sistema in funzione dello
spazio e del tempo, ossia contiene tutta l’informazione che possiamo avere sul sistema fisico.
Vedremo in seguito un caso importante di soluzione dell’equazione di Schroedinger generale (ossia,
in cui il potenziale dipende dal tempo). Vogliamo qui invece considerare un caso più semplice, ma
molto importante, in cui il potenziale è costante nel tempo.
In questo caso, è utile scrivere la soluzione generale come il prodotto ψ (r,t) = u(r)f(t). Sostituendo
nell’equazione di Schroedinger e dividendo per uf, si ha:
(i ћ /f) df/dt = 1/u [-ћ2/2m)
2
u + V(r)u].
Dato che il primo membro dipende solo da t, e il secondo solo da r, ambedue i membri devono
essere uguali alla stessa quantità costante, che chiameremo (non a caso) E. Integrando l’equazione si
ha:
f(t) = C e –iEt/ ћ, dove C è una costante arbitraria. L’equazione per la funzione u ora diventa:
[(-ћ2/2m)
2
+ V(r)] u(r) = E u(r)
La soluzione formale dell’eq. di schr. è allora:
ψ (r,t) = u(r) e –iEt/ ћ.
Usando l’operatore equivalente all’energia sulla funzione ψ (r,t), si ottiene:
i ћ ∂ψ /∂t = E ψ.
Questa equazione stabilisce il significato della costante E come l’energia. Inoltre, visto che da una
parte c’è l’operatore differenziale, dall’altra c’è la quantità fisica corrispondente, questa è
un’equazione di una particolare classe, detta equazione agli autovalori. In particolare, la soluzione ψ
viene detta autofunzione (dell’energia), e E è il suo (o i suoi) autovalori.
Dato che il modulo quadro di ψ deve essere costante nel tempo, la ψ rappresenta uno stato
stazionario del sistema. In altre parole, il sistema avrà l’energia E e non potrà evolversi nel tempo e
cambiare energia. Ossia, sarà stabile. Vedremo più avanti le importanti conseguenze di questo fatto.
Anche l’equazione per la funzione u è agli autovalori: la u è autofunzione dell’operatore energia
totale [(-ћ2/2m) 2 + V(r)], e anch’essa ha E come autovalore. La soluzione di questa equazione ci
dà la distribuzione spaziale (simmetria…) della funzione d’onda per lo (gli) stato (i) stazionario (i)
di energia E (Ei).
Le simmetrie intrinsecamente quantistiche
Consideriamo la funzione d'onda ψ(x,t) per una particella generica. Come sappiamo, è una
funzione complessa, e quindi sarà caratterizzata da una fase. Ci poniamo la domanda: cosa
succede se moltiplichiamo la ψ(x,t) per un fattore di fase arbitrario?
ψ(x) → exp(iθ)ψ(x)
Chiaramente la funzione trasformata non è la stessa: però dobbiamo ricordarci che la quantità
fisicamente significativa è il modulo quadro, e questo resta invariato sotto l'operazione di
trasformazione:
|ψ (x )|2 = |ψ '(x )|2
A questo punto dovreste ricordarvi tutti i discorsi che avevamo fatto per la simmetria. Siamo
infatti in presenza di una simmetria continua (la fase θ varia con continuità), e dunque, per il
teorema di Noether, dovrà esistere in corrispondenza una quantità conservata. Formalmente
questo tipo di simmetria è denominata U(1). A cosa corrisponde fisicamente? Se la particella è
un elettrone (o comunque possiede una carica elettrica) questa simmetria porta alla
conservazione della carica elettrica, un'altra legge che è stata verificata tantissime volte con
grande precisione.
Ma la simmetria che abbiamo appena descritto è solo un caso particolare di una simmetria molto
più generale, che porta ad una descrizione unificata di tutti i fenomeni fisici della meccanica
quantistica. Immaginate cioè di moltiplicare la funzione d'onda non per una fase arbitriaria, ma
costante, bensì per una fase che è essa stessa funzione del tempo e dello spazio:
ψ(x) → exp(iθ(x,t))ψ(x)
Ebbene, anche in questo caso si ha invarianza! Naturalmente, data la maggiore arbitrarietà della
trasformazione, le quantità che si conservano possono essere diverse, non solo la carica elettrica.
Il risultato di questa traformazione, che porta alla cosidetta invarianza locale di gauge,
coinvolge tutta la fisica, dall'elettromagnetismo, alle interazioni fra le particelle elementari.
La simmetria di scambio
Vogliamo concludere questa parte del Corso, descrivendo un'altra simmetria squisitamente
quantistica, che ha una grande importanza per le proprietà degli atomi e molecole e i materiali
da essi composti, dunque più vicina agli interessi più specifici del nostro corso: la simmetria di
scambio. Questa simmetria si evidenzia quando ci poniamo il seguente problema: come faccio a
distinguere, in un dato sistema fisico, due particelle identiche? Dal punto di vista classico il
problema non si pone: prendete ad esempio due palle da biliardo identiche. Dato che voi potete
ad un dato istante localizzarle con infinita precisione senza rendere totalmente indeterminata la
loro velocità, potete dire una sta qua, l'altra sta là, ad ogni istante. Questo non è possibile in
meccanica quantistica, dove le particelle sono sempre caratterizzate da una delocalizzazione
spaziale, se sono in uno stato quantico ragionevolmente definito.
Consideriamo ad esempio un atomo di elio. Questo consiste di un nucleo (cosituito da un
neutrone e due protoni) e due elettroni. Supponiamo per semplicità che questi ultimi siano
descritti solo dalla loro posizione. La funzione d'onda del sistema sarà allora ψ(x1, x2, t) e il
suo modulo quadro ci darà la probabilità di trovare, al tempo t, un elettrone nella posizione x1, e
uno nella posizione x2. Notare che non abbiamo detto “l'elettrone nella posizione x1 e l'altro
nella x2”. Ora immaginiamo di scambiare i due elettroni: nel nuovo sistema, la funzione d'onda
sarà ψ(x2, x1, t). Abbiamo realmente un nuovo atomo di elio? Per rispondere, guardiamo un pò
meglio agli elettroni, e ci accorgiamo che l'unica cosa che li distinguerebbe è la loro posizione,
cosa però impossibile per il principio di indeterminazione. Questo implica che, essendo
indistinguibili, la nuova funzione d'onda (meglio, il suo modulo quadro) deve dare lo stesso
stato, ossia lo stesso atomo di elio di quella originale. Abbiamo trovato una nuova simmetria,
l'invarianza per lo scambio di particelle identiche.
Si ha dunque
‫׀‬ψ(x1, x2, t) ‫׀‬2 = ‫ ׀‬ψ(x2, x1, t) ‫ ׀‬2 , e anche ψ(x1, x2, t) = ± ψ(x2, x1, t)
Il ± non cambia il risultato per le probabilità, ed è necessario per tener conto delle diverse
tipologie delle particelle in meccanica quantistica. Ad esempio, nel caso degli elettroni varrebbe
il segno -, mentre per altre particelle, come i fotoni, o gli atomi interi, varrebbe il segno +.
Questa differenza è connessa con un'altra caratteristica osservabile delle particelle, che finora
abbiamo trascurato per semplicità, ossia il loro momento angolare intrinseco. Incontreremo
questa quantità, detta anche “spin”, tra breve.
Per brevità descriveremo solo le particelle che portano al segno – per l'operazione di scambio, e
che vengono dette fermioni, dal nome del fisico italiano Enrico Fermi, che ne studiò le
proprietà. I fermioni sono caratterizzati da spin cosidetti seminteri, come ½, 1+ ½ = 3/2 etc.
L'elettrone, l'unica particella di cui ci occuperemo, ha spin ½.
Si può ora enunciare un teorema che si applica ai fermioni:
Non più di una particella può occupare un dato stato quantico: ψ(x2 = x, x1 = x ) = - ψ(x1 = x,
x2 = x ) = 0.
Questo è il cosidetto Principio di Pauli (Pauli, 1928), o anche principio di esclusione, ed è alla
base di tutta la fisica degli atomi e delle molecole.
Consideriamo ad esempio la famosa tabella periodica degli elementi di Mendeleev: perchè gli
elementi hanno questo comportamento ciclico nelle loro proprietà? Perche se si va lungo una
riga, per esempio partendo dal Litio, troviamo un metallo molto reattivo, mentre alla fine del
ciclo troviamo il Neon, un gas inerte?
Tavola periodica degli elementi
La risposta è come vedremo che il litio ha un solo elettrone nell'orbita (stato quantico) più
esterna (a più alta energia relativamenteallo stato fondamentale), mentre il Neon ne ha otto, e
questo completa lo stato, e dunque rende il neon poco reattivo. Ma perchè la periodicità? Perchè
proprio otto? Ossia, quali sono le regole che determinano come gli elettroni di un atomo si
distribuiscono nei vari autostati di energia disponibili?
Dal punto di vista classico, la risposta sarebbe semplice, ancorchè completamente sbagliata.
Tutti gli elettroni sarebbero nello stato a più bassa energia (l'orbita più “vicina” al nucleo). Però
questo ovviamente non spiega la tavola di Mendeleev.
In effetti gli elettroni si distribuiscono in modo da minimizzare l'energia totale, però il principio
di esclusione impedisce a loro di accumularsi nell'orbita più bassa. La simmetria di scambio li
costringe a stare lontani l'uno dall'altro, tanto più quanto più sono numerosi. E' bene qui rilevare
che anche la repulsione coulombiana esiste, ma sulle piccole distanze che caratterizzano la
struttura interna dell'atomo, l'energia connessa con la repulsione di scambio è molto più elevata,
e quindi domina la situazione.
Riconsideriamo allora l'atomo di elio: in questo caso possiamo mettere tutt'e due gli elettroni
nella stessa orbita, se però hanno lo spin in direzioni opposte, e dunque si rispetta il principio
che in una stato quantico definito ci può stare un solo fermione. Questa è una configurazione
stabile, nel senso che non si può aggiungere un altro elettrone. Se infatti lo facciamo, il principio
di esclusione darebbe zero per la corrispondente funzione d'onda; allora, l'elettrone occuperà lo
stato quantico immediatamente successivo. Per cui il Litio che ha appunto tre elettroni, ne avrà
due che occupano lo stato più interno, come l'elio, più il terzo che occupa da solo lo stato
superiore, e si comporta in modo molto simile al singolo elettrone dell'idrogeno. Da cui
possiamo cominciare a vedere l'origine della periodicità.
Man mano che si aumenta il numero atomico, gli elettroni continuano a riempire le orbite
sempre più alte, ripetendo lo schema di orbita completa, poi con un solo elettrone etc., fino alla
prossima orbita completa. Si capisce subito che le proprietà chimiche degli elementi sono
principalmente connesse con la distribuzione degli elettroni nell'orbita più esterna. Questi
vengono chiamati in chimica gli elettroni di valenza. Il Litio ne ha uno, e dunque è monovalente,
il fluoro ne ha uno che manca per riempire l'orbita, ed è anch'esso monovalente: ambedue sono
molto reattivi, e il Litio ha una forte tendenza a perdere il suo elettrone, il fluoro ha una forte
tendenza ad acquisire l'elettrone, in ambedue i casi per arrivare alla configurazione stabile
dell'orbita completa. Potete capire da questo come tutta la chimica degli elementi si possa
costruire sulla simmetria di scambio!
Con questo esempio finale concludiamo la nostra esposizione di quanto sia importante in
Natura, e nelle teorie e metodi che si usano per studiarla, il concetto di simmetria. Si parte dalle
stesse precise simmetrie che dominano e determinano il nostro senso estetico, a quelle più
astratte che agiscono nell'infinitamente grande o infinitamente piccolo. La simmetria non è solo
un importante elemento nel determinare le proprietà della Natura, è anche una guida alla
formulazione di esperimenti e teorie che ci permettono di arrivare alla conoscenza scientifica
della Natura, così come ci guida nelle sensazioni che proviamo guardando un'opera d'arte: in
questo senso, la Simmetria è parte del funzionamento della mente umana, un elemento
universale di unificazione dei processi di pensiero che portano alla conoscenza e alla creazione.