La funzione d`offerta di un prodotto

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La funzione d’offerta di un prodotto
Il comportamento degli imprenditori considerati tutti insieme, ovvero come anche si
dice, in aggregato può essere rappresentato graficamente da una curva d’offerta (una
curva che ha pendenza positiva per dire che al crescere del prezzo di vendita atteso
cresce anche la quantità immessa sul mercato).
La costruzione della funzione d’offerta di un prodotto procede nella teoria della
microeconomia tradizionale assumendo sempre che gli imprenditori che producono ed
offrono beni e servizi abbiano un comportamento razionale.
L’imprenditore razionale produce e vende (offre) la sua merce avendo l’obiettivo di
conseguire il massimo profitto delle vendite.
Il profitto di un’impresa  può essere definito come la differenza tra i ricavi ed i costi. I
ricavi sono dati dal prodotto aritmetico tra prezzo unitario di vendita (p), che è un dato
del mercato, e quantità prodotta o venduta (Q), che è la variabile controllata
dall’imprenditore; mentre i coti di produzione (C) sono quelli che l’imprenditore
sostiene per acquistare lavoro, materie prime, macchinari…. . Più l’imprenditore vorrà
produrre, più alti saranno i suoi costi. I costi di produzione dono una funzione crescente
della quantità che si produce e di offre sul mercato. Perciò l’obiettivo dell’imprenditore
è di massimizzare la funzione di profitto:
max   p  Q  C(Q)
dove l’espressione C(Q) significa che il costo di produzione è funzione della quantità
prodotta.
La condizione del primo ordine per il massimo della funzione di profitto è:
d
dC
 p
0
dQ
dQ
cioè
p
dC
 C ' (Q )
dQ
In altre parole il massimo profitto si ottiene quando la variazione infinitesima del costo
totale di produzione, dovuta ad una variazione infinitesima della quantità prodotta – il
cosiddetto costo marginale di produzione, C’(Q) – uguaglia il prezzo di mercato.
La condizione di secondo ordine per il massimo della funzione di profitto è data da:
d 2
dC ' (Q )

0
2
dQ
dQ
cioè
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dC ' (Q )
0
dQ
Si noti la curva del costo totale parte dal punto A sull’asse delle ordinate (quando la
produzione è zero, l’impresa sostiene comunque
costi fissi, pari al segmento OA) e inizialmente il
costo totale cresce ma ad un saggio via via
minore (la pendenza è decrescente). Ciò significa
che i costi aumentano meno della produzione
giacchè all’inizio si sfruttano meglio le
componenti di costo fisso.
La curva del costo totale presenta poi un punto di
flesso B oltre il quale aumentano più rapidamente
della produzione perché gli impianti sono in via
di saturazione e l’imprenditore dovrà ricorrere a
mezzi di produzione via via meno efficienti
nonché dovrà utilizzare fattori di costo variabile (come il lavoro straordinario degli
operai) sempre più costosi.
La curva del ricavo totale è invece una semiretta che esce dall’origine degli assi:
l’equazione del ricavo totale è infatti R = p Q. La sua derivata prima è il ricavo
marginale, che è una costante, cioè il prezzo. Essendo dato il prezzo, l’imprenditore per
ogni unità di prodotto venduta incassa sempre la stessa cifra: si dice perciò anche che in
media, nonché per ogni unità addizionale prodotta e venduta, il ricavo è pari al prezzo.
Prezzo ovvero ricavo medio e ricavo marginale insomma in concorrenza perfetta
coincidono (qualunque sia il volume di produzione che l’imprenditore immette sul
mercato, il prezzo unitario del prodotto non cambia).
La quantità prodotta che genera il massimo profitto all’imprenditore è quella che
corrisponde all’uguaglianza tra la pendenza della curva del ricavo totale (ricavo
marginale) e la pendenza della curva di costo
totale (cioè costo marginale di produzione).
L’imprenditore massimizza dunque il profitto
quanto sceglie di produrre la quantità in
corrispondenza della quale ricavo marginale e
costo marginale sono uguali.
Se l’uguaglianza tra ricavo marginale (prezzo) e
costo marginale si avesse quando il costo
marginale
decresce
l’imprenditore
massimizzerebbe la perdita, non il profitto.
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Lo stesso risultato si ottiene se ricorriamo ad un’altra rappresentazione grafica che
mostra le curve di costo medio (detto costo unitario) , di costo marginale e di prezzo
della merce. Il costo medio di produzione è dato dal rapporto tra costo totale C t e
quantità prodotta Q. Esso è il costo di una unità di prodotto.
Costo _ medio 
Ct
Q
A sua volta il costo totale si compone dei coti fissi ( C f ) e dei costi variabili ( C v ): i
costi fissi sono supportati per impianti, macchinari, attrezzature che nel breve periodo
sono mezzi di produzione dati per l’imprenditore; i costi variabili sono invece quei costi
(energia, materie) che variano al variare della produzione.
Dalla definizione di costo medio di ha che il costo medio è
C t (C f  C v ) C f C v



Q
Q
Q
Q
per cui aumentando Q il costo medio inizialmente i abbassa e poi i innalza, una volta
sfruttati quei macchinari, impianti, attrezzature produttive fise che siano in buona
efficienza.
Il costo marginale è invece la variazione di costo dovuta ad una variazione infinitesima
nella quantità prodotta, cioè il costo marginale è per definizione
dC
 C ' (Q )
dQ
La relazione che corre tra il costo medio (unitario) e costo marginale si può dedurre dalla
condizione di primo ordine di minimo del costo medio:
C 
 
 Q   C ' Q  C  1  (C '  C )  0
Q
Q
Q
Q2
per cui quando il costo medio è minimo, costo marginale e costo medio coincidono;
quando il costo marginale supera il costo medio, la derivata prima del costo medio, cioè
la sua pendenza, è positiva, vale a dire che il costo medio è crescente; quando il costo
marginale è inferiore al costo medio, la derivata prima del costo medio, cioè la sua
pendenza, è negativa, vale a dire che il costo medio è decrescente.
Si osservi che (VEDI GRAFICO SOTTO), essendo il prezzo di mercato della merce un
dato (quindi ricavo medio e ricavo marginale coincidono), la quantità che
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all’imprenditore conviene produrre (Q E ) è individuata in corrispondenza del punto D,
punto di intersezione tra la retta del ricavo marginale (che è anche il ricavo medio e il
prezzo) e la curva del costo marginale nel tratto crescente di quest’ultima (condizione di
secondo ordine per il massimo di profitto).
E difatti quando produce Q E l’imprenditore guadagna il massimo profitto, che
graficamente è l’area del rettangolo ABCD: il profitto è la differenza tra il ricavo totale
(area del rettangolo OQ E DA, prodotto aritmetico tra quantità e prezzo) e il costo totale
(l’area del rettangolo OQ E CB, prodotto aritmetico tra quantità e costo medio). Se
l’imprenditore producesse meno di Q E egli perderebbe una porzione di profitto; se
producesse di più, il costo della produzione addizionale supererebbe il ricavo
addizionale, per cui egli su quella produzione aggiuntiva subirebbe una perdita.
Inoltre si può dire che per una singola impresa la curva di offerta del prodotto coincide
con la curva del costo marginale nel tratto in cui quest’ultima è crescente.
Poiché siamo in una concorrenza perfetta, se è possibile lucrare questo profitto con
questo prezzo, ci può essere qualcuno che può fare un prezzo più basso e tutti verranno
immediatamente a conoscenza di questo in quanto c’è una informazione perfetta; questa
tendenza ad abbassare il prezzo si ferma quando si arriva a un prezzo uguale al costo di
produzione. Si produrrà la maggior quantità di una merce con il minor prezzo di
mercato.
Oligopolio o monopolio:
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Purtroppo nella realtà ciò non accade per una asimmetria informativa, perché le frontiere
sono chiuse… ; infatti esiste un mercato che è possibile classificarlo in:
MONOPOLIO: Il potere di mercato è di un solo produttore, ed inoltre ha anche il potere
di stabilire il prezzo (esempio Microsoft);
OLIGOPOLIO: Il mercato è diviso tra pochi che se lo contendono (esempio
Telefonini);
Un oligopolio diventa monopolio quando i produttori si coalizzano tra loro e in questo
caso viene messo un cartello fisso cioè quando viene imposto il prezzo e la quantità di
mercato (es. assicurazioni delle auto, il costo del petrolio…).
Quindi il monopolio viene contestato perché stabilisce i prezzi: Bill Gates giustifica il
suo monopolio all’Antitrust dicendo che egli è consapevole di trarre un profitto di
monopolio, ma questi profitti afferma che sono necessari per l’investimento in questo
settore guidato dall’innovazione e così facendo garantisce il maggior livello di
innovazione nella società).
Differenza tra Innovazione e Invenzione:
L’ invenzione una scoperta nuova, un’idea nuova che diventa innovazione quando essa
viene resa disponibile (sta all’interno della grande impresa, infatti negli anni ’30 si
faceva ricerca e sviluppo, si creava un prototipo funzionale e si ci rendeva conto che
poteva essere sperimentato anche fuori della grande industria).
Quindi il monopolio può averlo sono un’azienda che concentra nelle sue mani una
elevata quantità di capitale che viene concentrato su un progetto per avere lo sviluppo di
esso in tempi relativamente brevi.
Il Monopolio:
Il caso limite di potere di mercato è costituito dal monopolio, cioè da quella forma di
mercato in cui agisce una sola impresa la quale monopolizza l’offerta di un bene o
servizio.
Il monopolio si ha quando:
 L’unica impresa operante sul mercato, date le caratteristiche del suo prodotto, non
teme l’ingresso di nuovi concorrenti (ad esempio per l’impossibilità di duplicare
le infrastrutture utilizzate);
 Il prodotto dell’impresa monopolista non ha sostituti stretti, cioè prodotti con
caratteristiche simili offerti da altre imprese alle quali possa rivolgersi
l’acquirente;
Una caratteristica importante per l’impresa monopolista è che essa conosce la domanda
di mercato che essa è in grado di soddisfare completamente poiché equivale alla curva di
offerta.
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Supponiamo che per semplicità la domanda sia una funzione lineare decrescente del
prezzo, sia cioè del tipo:
Q a b p
da cui si ricava la funzione del prezzo o ricavo medio
p  c  d Q
dove c 
a
1
ed
b
b
Il ricavo totale è dato da R  p  Q  c  Q  d  Q 2 e quindi il ricavo marginale da:
R'  c  2  d  Q
vale a dire che nel caso della curva di domanda lineare, la linea del ricavo marginale
presenta una pendenza doppia della linea del ricavo
medio. L’equilibrio dell’impresa monopolista si
determina nel punto in cui il ricavo marginale e il
costo marginale si eguagliano (il punto E nella
figura).
Si osservi che nel caso del monopolio il prezzo
che al monopolista conviene di praticare è
individuato dal punto proiettando l’ordinata da E
sulla retta del ricavo medio, alla quantità ottimale
QE che il monopolista conviene produrre.
Se volessimo confrontare l’equilibrio di monopolio
con l’equilibrio di un ipotetico, alternativo mercato concorrenziale, potremmo dire che
in un mercato di concorrenza perfetta, nel quale la curva di offerta aggregata coincide
con la curva aggregata di costo marginale (nel suo tratto discendente), la posizione di
equilibrio sarebbe individuata dal punto H in figura dove la linea della domanda (del
ricavo medio) dell’intero mercato interseca la curva d’offerta.
In particolare è importante per il monopolista conoscere l’elasticità della domanda
rispetto al prezzo. Infatti se egli aumenta il prezzo di vendita, gli acquirenti reagiscono
riducendo la quantità domandata; se egli riduce il prezzo, la reazione dei consumatori
sarà l’opposta. L’elasticità della domanda misura esattamente la reattività degli
acquirenti a variazioni relative del prezzo. Sappiamo già la relazione che si stabilisce tra
ricavo marginale ed elasticità della domanda rispetto al prezzo. Essendo il prezzo
dipendente dalla quantità che il mercato è disposto ad assorbire, possiamo scrivere
R  p  q  p(q)  q
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dove p(q) significa appunto “prezzo in funzione della quantità domandata”; per cui il
ricavo marginale sarà:
dR
dp
R' 
 pq
dq
dq
e ricordando la formula dell’elasticità della domanda al prezzo:
Q P
:
Q P
questa è la relazione per un bene normale in cui compare il meno perché all’aumentare
del prezzo c’è una diminuzione della domanda.
Se esprimiamo l’elasticità per incrementi infinitesimi:
 d,p  
d,p  
ricaviamo
dQ dP
:
Q P
Q  dp
P

e la sostituisco nel ricavo marginale e ottengo quindi
dQ
 d,p

dp
1 
 p  1 

dQ
 |  d,p | 
In altre parole quando l’elasticità della domanda al prezzo è unitario ( |  d , p | = 1 ) il
ricavo marginale si azzera (raddoppia il prezzo e si dimezza la quantità venduta); se
|  d , p | < 1 si ha un ricavo marginale minore di zero ed infine se |  d , p | > 1 avrò un ricavo
marginale maggiore di zero.
R'  p  Q 
Il mercato del lavoro non concorrenziale
La segmentazione del mercato del lavoro è accresciuta in alcune situazioni come quella
italiana, dalla bassa mobilità professionale e geografica dei lavoratori e degli
imprenditori, dovuta a diverse circostanze come la carenza di infrastrutture e di
abitazioni, l’esistenza di usi e costumi molto differenti da regione a regione, la presenza
in alcune aree di organizzazioni criminali che minacciano la vita e i patrimoni degli
imprenditori, e così via. Il mercato del lavoro in una regione caratterizzata da ampia
disoccupazione, fatta di lavoratori che non si
spostano facilmente in altre regioni, è un mercato
molto
favorevole
all’acquirente,
cioè
all’imprenditore.
Nel caso di una grande impresa che si insediasse
in questa regione, si può parlare di monopolio dal
lato della domanda di lavoro, ovvero di
monopsonio e l’impresa monopsonista è in grado
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di fissare il prezzo del lavoro, cioè il salario a cui intende comprare una unità di lavoro.
Essa fisserà il salario a quel livello in cui le permette di massimizzare i profitti (compra
tanto lavoro che le assicuri l’uguaglianza tra costo marginale del lavoro e prodotto
marginale del lavoro).
Invece in questo grafico viene rappresentato il
caso in cui sul mercato del lavoro anche l’offerta
è monopolizzata. E’ il caso del cosiddetto
monopolio bilaterale (tanto dal lato della
domanda quanto dal lato dell’offerta): l’impresa
(o la coalizione di imprese) controlla la domanda
del lavoro (e perciò il suo prezzo), il sindacato
ne controlla la quantità offerta (quindi il prezzo).
Il sindacato fissa un salario contrattuale medio al
livello wE, in corrispondenza del quale un dato
numero di lavoratori è disposto a lavorare, le
imprese assumono la quantità di lavoro NE in
corrispondenza della quale la produttività
marginale del lavoro (in valore) uguaglia il costo medio e marginale wE, del lavoro. La
linea dell’offerta di lavoro presenta un tratto ascendente: per ottenere che aumenti la
quantità di lavoro offerta oltre quel numero di lavoratori che è disposto a lavorare al
salario contrattuale dato, è necessario che aumenti il salario atteso dai lavoratori.
Si osservi che nel caso di monopolio bilaterale, la fissazione del salario contrattuale può
consentire di ottenere simultaneamente un salario più elevato ed un’occupazione
maggiore rispetto al caso in cui l’impresa abbia mano libera sul mercato del lavoro.
Prezzi fissi e prezzi variabili:
Più frequenti sono invece i casi di imprese semimonopolistiche o, meglio,
oligopolistiche. Queste imprese elaborano strategie complesse di prezzo, di pubblicità, di
investimenti in attività di ricerca e sviluppo. Inoltre, anche quando sul mercato operano
molte piccole imprese, non si può affermare che esse agiscano in concorrenza perfetta le
une con le altre: ad esempio le piccole imprese tentano e spesso riescono a ritagliarsi una
“nicchia di mercato” identificano cioè una particolare clientela a cui offrono i loro
servizi. Analogamente, una piccola o media impresa manifatturiera tenterà di
differenziare i suoi prodotti per occupare un’area di mercato al riparo della concorrenza.
Come le imprese, piccole o grandi che siano, “fanno il prezzo” dei beni e servizi che
offrono, così i lavoratori associati nei sindacati si battono per fissare, nei contratti
collettivi di categoria, il salario e le condizioni di lavoro.
I mercati sono perciò in larga parte caratterizzati da prezzi fissi; il prezzo fisso dei
prodotti si riscontrano nella maggior parte dei casi, tanto per i manufatti quanto per i
servizi: sono i cosiddetti prezzi di listino che vengono diffusi alla clientela. I prezzi di
listino possono essere soggetti a modifiche verso il basso o verso l’alto, in occasione del
lancio di un nuovo prodotto o delle vendite di stagione. Sui prezzi stampati nei listini il
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venditore ha poi un certo margine di discrezione, può praticare degli sconti a seconda del
tipo di cliente (più o meno occasionale), delle modalità di pagamento, ecc.
Si dice che gli imprenditori dell’industria manifatturiera e dei servizi “fanno i prezzi”.
Ma come? Essi partono dall’ipotesi di un certo tasso di utilizzazione normale della
capacità produttiva installata (diciamo un’utilizzazione al 90 % di macchinari, materie
prime, manodopera) e stimano qual è il costo unitario (di un’unità di prodotto) in tale
ipotesi. A tale costo solitamente aggiungono un certo margine di profitto lordo detto
anche mark-up che copre le spese generali, il deprezzamento (ammortamento) dei beni
capitali fissi (macchine, impianti, attrezzature), gli interessi passivi e naturalmente il
margine deve assicurare anche un guadagno netto.
Il prezzo d’offerta solitamente è dato perciò dalla seguente relazione:
W  MP 
p
  (1   )
 Wnormale 
dove W è il monte salari pagato, MP è il valore delle materie prime impiegate, ambedue
misurati in corrispondenza della produzione normale e μ è il margine di guadagno lordo
atteso. L’espressione che sta nella parentesi quadra è detta costo unitario primo. La
quantità che l’impresa produce è determinata dall’intersezione della sua curva di offerta
con la domanda al prodotto della sua clientela. L’imprenditore conosce la curva di
domanda per esperienza, o calcolata da economisti alle sue dipendenze o da consulenti
esterni.
Si noti che l’impresa esibisce una curva d’offerta con
un tratto iniziale decrescente (fino al livello di
utilizzazione ritenuta minima della capacità produttiva)
con un tratto lineare ed infine un tratto crescente come
in figura.
Il tratto decrescente della curva d’offerta dice che
l’impresa è in grado di produrre e di vendere quantità
via via maggiori di prodotto a prezzi via via minori
dato che il costo unitario si abbassa man mano che si
raggiunge un utilizzo crescente, sia pure ancora
modesto, di capacità. Il tratto lineare corrisponde
all’idea che l’imprenditore fissa il prezzo sulla base del
costo unitario primo calcolato in relazione al livello produttivo che egli ritiene normale.
Il tratto crescente della curva di offerta dice che, qualora la produzione superasse quel
livello normale, il costo unitario primo aumenterebbe e quindi aumenterebbe il prezzo di
offerta desiderato. Il costo cresce perché l’impresa, superato il normale utilizzo di
capacità, deve ricorrere a riserve di capacità produttiva (di solito macchine e attrezzature
meno efficienti), a lavoro straordinario (pagato a tariffe salariali maggiorate), offrire
quantità maggiori di Qnormale ma a prezzi crescenti.
Se a seguito di un aumento del reddito degli acquirenti aumenta la domanda (se la linea
della domanda subisce una traslazione in alto a destra), aumenta la produzione e non il
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prezzo; solo quando la domanda sollecita l’offerta a superare il livello normale,
l’imprenditore ritocca il prezzo di vendita, cioè lo innalza. Analogamente se la domanda
si riduce ( traslazione della domanda in basso a sinistra) si riduce la produzione e non il
prezzo.
Insomma i prezzi sono insensibili alle fluttuazioni della domanda, almeno fino a quando
la domanda aumenta o si abbassa in misura ritenuta dagli imprenditori ordinaria, non
eccezionale, tenuto conto delle attrezzature produttive esistenti di efficienza normale.
I rischi connessi ad una politica aggressiva di prezzi sono il rischio di ritorsione da parte
di altre imprese, il rischio che si avvii una gara a ridurre i prezzi, restituendo colpo su
colpo all’avversario, gara al termine della quale molti imprenditori sarebbero costretti a
gettare la spugna e ad uscire dal mercato.
Da ciò si conclude che i prezzi di solito sono vischiosi o rigidi verso il basso, almeno
entro limiti non ampi di fluttuazione della domanda.
La fissazione dei prezza da parte delle imprese che operano su mercati non
perfettamente concorrenziali obbedisce però a strategie più sofisticate: ad esempio
un’impresa di dimensioni medio-grandi bada spesso a fissare un prezzo che non attiri
altre aziende o che non produca gli interventi di regolamentazione (interventi
antimonopolio) da parte del governo. Il prezzo così determinato è detto nel primo caso
prezzo di esclusione (degli entrambi) ed è di solito inferiore al prezzo che assicurerebbe
il massimo profitto.
Grande impresa e piccola impresa
Uno sviluppo interessante della microeconomia è quello che pone al centro dell’analisi i
comportamenti della grande impresa come distinti dai comportamenti della piccola
impresa. Solitamente nella grande impresa si verifica una scissione tra proprietà e
gestione (management): i proprietari sono azionisti ciascuno dei quali detiene una
frazione modesta del capitale sociale, gli amministratori (menagers) sono delegati dagli
azionisti a gestire l’impresa. Tra gli azionisti solo un piccolo nucleo (azionisti di
controllo) stipulano tra loro accordi, intese (il cosiddetto sindacato azionario), è
interessato a controllare direttamente l’operato dei managers a partire
dall’amministratore delegato fino ai suoi più diretti collaboratori.
L’impresa la cui gestione è affidata dai proprietari (azionisti) ad alcuni amministratori di
fiducia (i managers) è detta impresa manageriale.
I managers nelle scelte che compiono devono tener conto dei diversi interessi in gioco.
C’è l’interesse degli azionisti i quali, nella gran parte dei casi, perseguono lo scopo di
ottenere un dividendo nonché lo scopo di veder crescere nel tempo il valore delle loro
azioni: un’impresa ben condotta realizza profitti che in parte sono distribuiti agli
azionisti come dividendo (remunerazione cioè del capitale investimento), in parte sono
accantonati per autofinanziare gli investimenti. Più alti sono i profitti, maggiore sarà il
dividendo.
Accanto all’interesse degli azionisti, si colloca l’interesse dei managers, i quali puntano
a conservare il posto, cioè la loro posizione (di solito ben remunerata con uno stipendio
alto, con benefici accessori).
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I managers sono però orientati a favore l’espansione dell’impresa realizzando
investimenti in ricerca e sviluppo, investimenti innovativi, sono orientati ad acquistare
nuovi mercati, ad accrescere la produzione. Più cresce la dimensione dell’impresa, più
cresce la reputazione dei suoi amministratori e sul mercato della professione
manageriale aumenta il valore della persona che ha favorito l’espansione dell’impresa.
Quel manager ha perciò un’alta probabilità di passare da un posto di lavoro ad un altro,
da un’impresa di dimensioni medie che egli ha contribuito a sviluppare ad un’altra
impresa ancora più grande, dove il suo lavoro sarà più gratificante in tutti i sensi.
La funzione obiettivo dei managers, perciò, è stato osservato, non include soltanto la
massimizzazione del profitto.
Nell’impresa padronale, gestita cioè dal suo proprietario e dai suoi familiari, l’obiettivo
primo è conseguire il massimo profitto. Nell’impresa manageriale l’obiettivo è realizzare
un profitto adeguato, che soddisfi l’interesse degli azionisti al dividendo ed all’aumento
del valore delle azioni, ma l’obiettivo è anche puntare alla crescita dell’impresa.
Ma se trascurassero l’obiettivo dell’innovazione e dell’espansione nel periodo medio –
lungo, i managers porterebbero l’impresa al declino, a soccombere di fronte ai
concorrenti attuali o potenziali.
Gli amministratori di una grande impresa devono inoltre tener conto di altri soggetti che
ruotano dentro e fuori della grande impresa. In primo luogo devono tener conto dei
lavoratori e del sindacato che li rappresenta.
L’interesse dei lavoratori è per una paga alta e crescente nel tempo per condizioni di
lavoro poco gravose, per un impiego stabile, per generosi trattamenti pensionistici e ciò
non coincide strettamente con l’interesse degli azionisti a percepire un buon dividendo,
né con l’interesse dei managers all’innovazione ed alla crescita delle dimensioni
dell’impresa.
In secondo luogo gli amministratori di una grande impresa tengono spesso in
considerazione l’interesse dei fornitori: per ottenere forniture di buona qualità e
puntualmente eseguite, occorre pagare bene e senza ritardi i fornitori.
In terzo luogo i managers avvertono il peso dell’opinione pubblica, di mezzi di
informazione, del ceto politico: l’immagine e la reputazione di una grande impresa
contano molto nei Paesi capitalisti in cui la stampa e la televisione, quando sono libere,
orientano imparzialmente i cittadini ed in cui il ceto politico assume spesso decisioni che
incidono sulla gestione delle imprese.
L’obiettivo è di ottenere un risultato soddisfacente.
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