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L’USUFRUTTO DI PARTECIPAZIONI SOCIALI IN FUNZIONE DI ASSETS PROTECTION
(da parte di soggetto attualmente privo di creditori e che non ha preordinato
alcuna operazione di futuro indebitamento)
1. L’usufrutto di partecipazioni sociali: considerazioni generali.
L’usufrutto è una originale creazione della giurisprudenza romana del II secolo avanti Cristo, conseguenza
della centralità assunta in quell’ordinamento dalla nozione di proprietà, a sua volta figlia della visione
individualistica propria del diritto e, ancora prima, della società civile romana, che mette al centro
dell’universo l’uomo libero, concepito - in una metamorfosi dal concetto puramente filosofico greco ad un
concetto prettamente politico - non genericamente come individuo singolo, ma specificamente come civis
romanus.
Se il proprietario ha una signoria assoluta sulla cosa oggetto del proprio diritto, idonea ad escludere
perpetuamente qualsiasi terzo da ogni facoltà di possesso o di sfruttamento della cosa stessa, l’usufrutto
nasce, come diritto reale su cosa di proprietà altrui, al fine di mettere in quiescenza le facoltà del
proprietario, che per tale ragione viene definito “nudo”, e permettere ad uno o più terzi, diversi dal
proprietario stesso, di esercitare una signoria sulla cosa piena, nel rispetto della attuale destinazione
economica impressa al bene, ma limitata nel tempo per una durata normalmente coincidente con la vita
del suo titolare.
Nulla di simile è rinvenibile nel diritto greco, così come nel diritto germanico o anglosassone (cfr., per
riferimenti ancora essenziali per un primo efficace inquadramento del diritto di usufrutto dell’ordinamento
italiano, G. PUGLIESE, Usufrutto, uso e abitazione, Torino, 1972, soprattutto p. 1 - 32).
La piena riscoperta della concezione romana del diritto di usufrutto a seguito della rivoluzione francese, e
del processo da questa innescato di superamento dei privilegi feudali (e della proliferazione dei diritti reali
propria di tali società feudali), ha fatto sì che la disciplina positiva di tale diritto all’interno del code civil del
1804, poi del codice civile italiano del 1865, poi ancora del codice civile italiano vigente del 1942, ricalcasse
fedelmente i pilastri della giurisprudenza romana di duemila anni prima, con adattamenti e modificazioni
assolutamente marginali.
Solo scorrendo l’attuale disciplina dell’istituto, posta negli artt. 978 - 1026 c.c., tale impressione appare
netta, sia per i tipi di oggetto che la legge ritiene di disciplinare specificamente (alberi, vigne, semenzai,
miniere, ecc.), sia, ancora di più, per il contenuto del diritto (la facoltà, prevista dall’art. 981 c.c., di godere
in maniera piena ed esclusiva della cosa, sia direttamente, sia tramite terzi facendone propri i frutti ed ogni
altra utilità che la cosa stessa può dare, nel limite, imposto dalla legge, del rispetto della destinazione
economica originariamente impressa dal proprietario, del tutto identica alla facultas utendi et fruendi salva
rerum substantia concepita dal giudice romano).
L’orizzonte storico e culturale ed il nucleo normativo dell’usufrutto sono, alla luce di quanto testé
constatato in merito alle caratteristiche di fondo dell’istituto, molto lontane dal diritto societario attuale, e
dalla nozione stessa di partecipazione sociale.
Oggetto del diritto di usufrutto, negli artt. 978 ss. c.c., sono soltanto le cose materiali (e, cioè, ciò che è
suscettibile di materiale apprensione e di possesso, oltre che di destinazione economica), con l’unica
eccezione del precetto contenuto nell’art. 1000 c.c., che - innovando sul punto il codice civile italiano del
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1865, che non conteneva alcuna disposizione in materia - disciplina “la riscossione di somme che
rappresentano un capitale gravato d’usufrutto”.
Se oggetto dei diritti reali sono (soltanto) “le cose che possono formare oggetto di diritti” (art. 810 c.c., la
prima norma contenuta nel libro III del codice civile italiano vigente), un usufrutto che non ha ad oggetto
“cose” non è in linea di principio teoricamente concepibile.
Anche le somme di denaro di cui all’art. 1000 c.c. sono, in quest’ottica, cose materiali, così come lo è
l’eredità, nei limiti in cui la stessa, ex art. 1010 c.c., può essere concepita come oggetto nel suo complesso
di un diritto di usufrutto.
Per la stessa ragione, si deve aggiungere, dovrebbe essere intesa nella sua materialità, quale insieme di
“cose”, anche l’azienda, che può divenire oggetto di usufrutto ex art. 2561 c.c., così come l’azione di società
per azioni che, già nell’originario testo del codice civile del 1942, l’art. 2352 c.c. enumerava tra le “cose” che
possono essere oggetto di usufrutto, dettando, per tali beni, una specifica disciplina destinata ad
aggiungersi a quella generale di cui agli artt. 978 ss. c.c.
Dato tale quadro normativo, l’impianto ideologico pandettisitico, e comunque rigidamente concettuale e
dottrinario, che ha ispirato per quasi tutto il ventesimo secolo gli interpreti italiani (prima, del codice civile
del 1865; poi, del codice vigente del 1942), ha portato a dubitare, a seguito di dotte dissertazioni teoriche,
avvitate sul rebus più generale dell’ammissibilità o meno di cosiddetti “diritti su diritti”, dell’ammissibilità
stessa dell’usufrutto su beni immateriali, ritenendo la materialità dell’oggetto un requisito imprescindibile
ai fini della possibilità stessa di concepire l’esistenza del diritto (cfr., per una sintesi molto chiara, L.
BIGLIAZZI GERI, Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo e
continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 211 ss.).
I diritti di sfruttamento e di utilizzazione economica temporanea di brevetti o diritti di autore, non a caso
ritenuti dal legislatore del 1942 materia del libro V del codice (oltre che di legislazione speciale) piuttosto
che del libro III, non sarebbero suscettibili - in tale ottica - di essere qualificati come usufrutto in senso
tecnico, così come, sempre in tale ottica, non sarebbe concepibile alcun diritto di usufrutto su quelle
partecipazioni sociali che non sono e non possono essere incorporate in una cartula materiale, quali le
partecipazioni in società di persone di qualsiasi tipo e le partecipazioni in società a responsabilità limitata,
per le quali, non caso, il codice civile del 1942 non conteneva, nella sua originaria stesura, alcuna norma
analoga a quelle contenute nell’art. 2352 c.c. in tema di azioni.
Ulteriore conferma di tale conclusione veniva tratta dalla considerazione che, per i beni immateriali,
sarebbe complicato individuare la modalità operativa del limite del rispetto della destinazione economica
impressa dal proprietario, dal momento che quest’ultima nozione evoca di per sé, in linea con la tradizione
storica, la necessità di un bene materiale.
2. (segue): l’usufrutto sui beni immateriali e le norme ad hoc dettate in tema di usufrutto di azioni e
di quote di srl.
La concezione tradizionale del diritto di usufrutto da ultimo rammentata, tuttavia, si è posta, con lo
sviluppo tecnologico del secondo dopoguerra del secolo scorso e l’evoluzione dell’economia italiana che ne
è conseguita, in irrimediabile contrasto con la realtà.
L’idea originaria che sta alla base dell’elaborazione del diritto di usufrutto compiuta più di duemila anni fa
dalla giurisprudenza romana non ha nella materialità dell’oggetto un sostrato imprescindibile.
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Il cuore dell’idea, infatti, non ruota attorno alla cosa intesa in senso materiale, ma, piuttosto, deve essere
colto nella contrapposizione tra un “titolare” ultimo oggi quiescente, e quindi “nudo”, ed un “titolare”
provvisorio oggi attivo, che ha ogni facoltà di godere direttamente o indirettamente del bene di cui si
tratta.
Se l’idea stessa di godimento diretto presuppone in ultima istanza un rapporto tra un uomo ed una cosa
materiale, la dinamica dei rapporti economici e sociali di società sempre più complesse presuppone la
creazione di patrimoni riguardanti più cose, e, specificamente, più diritti su cose, quali l’eredità, l’azienda, i
diritti di sfruttamento di beni immateriali, il patrimonio di una società o di qualsiasi altro ente.
L’ordinamento giuridico, per regolare efficacemente tale complessità, sceglie: (i) di creare beni di secondo
livello quali le partecipazioni sociali, elevando il patrimonio a persona giuridica, o comunque a soggetto di
diritto; oppure, in maniera sempre più diffusa negli ultimi tempi, (ii) di istituire patrimoni separati,
normalmente destinati dalla legge a perseguire in via esclusiva specifici scopi (si pensi anche alla stessa
azienda o, per taluni istituti giuridici, all’eredità).
Il legally vested interest, o, se si preferisce non mettere da parte la tradizionale impostazione dogmatica dei
sistemi giuridici derivanti dal diritto romano e dalla rivoluzione francese, il diritto soggettivo, non può non
tenere conto di questa complessa realtà sottostante, e, a tale fine, deve ammettere ed impiegare, in
termini sempre più ampi, il concetto strumentale di bene immateriale (comprendendo, per sempre
maggiori fini, le nozioni di avviamento commerciale, di know - how, di software, ecc.).
L’idea romanistica dell’usufrutto, nata in un’altra economia, ha come tratto saliente la contrapposizione
sopra evidenziata, ed è pertanto perfettamente espansibile ad ogni bene immateriale, coincidente in ultima
istanza con la pretesa azionabile giuridicamente (o legally vested interest).
Il fatto che il diritto di usufrutto sia tuttora disciplinato negli artt. 978 ss. c.c., con norme risalenti (sia in
Francia, dove è stato emanato il primo codice civile moderno, sia in Italia o in Germania, dove sono stati
emanati i successivi codici civili) ad una società preindustriale assai più simile a quella degli antichi romani
di duemila anni prima piuttosto che a quella di duecento anni dopo in cui oggi viviamo, non impedisce
all’interprete, sotto pena di perdere una fondamentale risorsa per disciplinare efficacemente gli interessi in
gioco, di riconoscere che dove c’è un bene in senso giuridico, sia questo materiale o immateriale, deve
poterci essere anche un usufrutto in senso tecnico.
L’ammissibilità di un diritto di usufrutto su beni immateriali potrà richiedere un’interpretazione restrittiva
del limite del rispetto della destinazione economica posto dall’art. 981 comma 1 c.c.: infatti, se la rilevanza
di tale limite è espressamente ribadita dall’art. 2561 comma 2 c.c. per l’usufrutto di azienda, ovvero
relativamente ad un oggetto che presenta elementi sia di materialità sia di immaterialità, non sembra che
vi sia alcun ragionevole spazio per difendere l’applicazione del principio anche in caso di usufrutto su beni
immateriali, dal momento che la destinazione economica costituisce necessariamente un collegamento tra
un soggetto ed una cosa e, per tale ragione, non può operare né prescindendo totalmente dalla materialità
(si pensi ad un usufrutto di un credito), né trasferendone la rilevanza dal bene immateriale direttamente
oggetto di usufrutto al patrimonio che tale bene rappresenta (si pensi alla partecipazione sociale, per la
quale parlare di destinazione economica non ha senso, ed all’insieme dei beni materiali che costituiscono il
patrimonio della società, per i quali la destinazione economica ha senso in astratto, ma non in concreto,
non esistendo su tali beni alcun usufrutto).
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La prospettata mutilazione del precetto di cui all’art. 981 comma 1 c.c. non deve tuttavia creare problemi,
dal momento che ogni norma trova applicazione soltanto quando l’oggetto in concreto del diritto ne
consente l’applicazione.
La riforma societaria italiana del 2001 - 2003, per parte sua, si pone senza esitazioni sulla strada da ultimo
delineata, ammettendo espressamente nell’art. 2471 bis c.c., per la prima volta, seppure seguendo
un’indicazione che la dottrina consolidata in materia di srl già da tempo suggeriva (in tema, i due scritti
“classici” nella dottrina giuscommercialistica italiana sono quelli di A. ASQUINI, Usufrutto di quote sociali ed
azioni, in Riv. dir. comm., 1947, p. 12 ss., e di G.M. RIVOLTA, Pegno ed usufrutto di quote di società a
responsabilità limitata, in Riv. dir. comm., 1961, p. 205 ss.), e la stessa prassi negoziale recepiva, che anche
le partecipazioni di società a responsabilità limitata possono essere oggetto, pure nella loro necessaria
immaterialità, di un diritto di usufrutto regolato, per quanto non previsto da tale norma speciale (e dall’art.
2352 c.c. da quest’ultima richiamato), dagli artt. 978 ss. c.c. (in quanto applicabili ratione obiecti).
Rimossa dunque, si ritiene, l’obiezione di fondo, non è necessario che, per ammettere un diritto di
usufrutto in senso tecnico su bene immateriale, vi sia una previsione espressa di legge (come nel caso
dell’art. 2471 bis c.c.), con la conseguenza che nulla osta ad ammettere altresì la possibilità di costituire
diritti di usufrutto sulle partecipazioni di società di persone di qualsiasi tipo o di società cooperative, al pari
di ogni altro ente anche non lucrativo che ammetta una qualsiasi forma di partecipazione (si pensi alle c.d
fondazioni di partecipazione).
3. Le funzioni tradizionalmente svolte dalla costituzione di usufrutto.
La funzione storica del diritto di usufrutto è legata, già nel diritto romano repubblicano, alle future vicende
ereditarie della persona; non a caso ogni diritto di usufrutto che ha come titolare una persona fisica deve
avere come limite massimo ed inderogabile di durata la vita della persona stessa (nel codice civile italiano,
cfr. l’art. 979 comma 1 c.c.).
L’usufrutto è, storicamente, il diritto che tutela la moglie dopo la morte del marito.
La funzione primaria di tale diritto, infatti, era quella di garantire reciprocamente le posizioni patrimoniali
della moglie e dei figli (di sesso maschile) dopo la morte del pater familias, riconoscendo alla prima il pieno
ius utendi et fruendi vita natural durante (salva rerum substantia), ed ai secondi, fin dalla morte del loro
padre, la proprietà di tutti i beni che componevano il patrimonio di quest’ultimo, quiescente nei propri
aspetti di godimento, attiva nei propri aspetti di disposizione, oltre che di verifica del mantenimento della
destinazione economica già impressa dal defunto ed insuscettibile di essere alterata dalla moglie
usufruttuaria senza il consenso di tutti i nudi proprietari.
Il fatto che tale diritto cadesse su beni materiali era, come si è cercato di sottolineare nel precedente
paragrafo, non una necessità giuridica, ma, piuttosto, un mero dato di fatto, pregiuridico, attinente alle
caratteristiche economiche della società del tempo ed al fatto che la ricchezza fosse allora rappresentata in
primo luogo dai fondi rustici, poi dalle case di abitazione e dagli immobili produttivi (cave, miniere ed
opifici), infine dal denaro.
Nessun giureconsulto romano avrebbe dubitato - immagina chi scrive - che la caratteristica peculiare del
diritto fosse l’estensione ad ogni elemento del patrimonio del de cuius, e non la sua limitazione a questo o a
quel bene materiale.
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I duemila anni di successiva storia del diritto di usufrutto prendono le mosse da questa primordiale, ma
assolutamente fondamentale, funzione.
L’ideologia deve fare un passo indietro: come non si è esitato, con il progresso della coscienza sociale, della
possibilità di estendere l’usufrutto anche al marito, mano a mano che la moglie era titolata a possedere
beni in proprietà, ai figli di sesso femminile, ai figli nati fuori dal matrimonio, ecc., così non si deve esitare
ad estendere l’usufrutto, per non tradire la sua originaria funzione, ad ogni utilità o bene che costituisce il
patrimonio della persona.
All’espansione soggettiva è seguita quella oggettiva.
La prospettiva ereditaria, del resto, è solo all’origine dell’istituto; già nel diritto romano il diritto poteva
essere costituito, oltre che (mortis causa) sull’intera eredità o sua quota indivisa, anche (mortis causa a
titolo di legato ed anche, ovviamente, inter vivos) su singoli beni.
La costituzione inter vivos, storicamente, nasce per anticipare le future vicende successorie, garantendo da
subito la definitività degli assetti post mortem, senza esporre i beneficiari all’incertezza dell’esistenza e
della revocabilità del testamento.
L’usufrutto può dunque avere per oggetto singoli beni produttivi, interi complessi di beni, come le aziende
o i beni in società laddove oggetto (diretto) dell’usufrutto sia una partecipazione sociale, o anche l’intero
patrimonio (in quel momento).
Anche nell’attuale contesto storico tale funzione successoria o di preparazione successoria resta la
dimensione caratteristica dell’istituto.
Il ricorso all’usufrutto, in tale ottica, avviene principalmente attraverso la riserva apposta ad una donazione
(eccezionalmente, ad una vendita o ad un’altra alienazione a titolo oneroso, come nel caso del contratto di
rendita vitalizia o di mantenimento, oppure anche ad un atto di destinazione traslativo della proprietà,
come nel caso di dotazione di un trust), anche nelle forme dell’usufrutto successivo (per sé e, dopo di sé,
per il coniuge, o il convivente, o il discendente prossimo rispetto ad un nudo proprietario discendente
remoto).
Il ricorso all’usufrutto, sempre in tale ottica, può avvenire, naturalmente, anche in relazione al
trasferimento di partecipazioni in società di ogni tipo (anche nell’ambito di patti di famiglia ex artt. 768 bis
ss. c.c.), con il chiaro intento di pianificare, e spesso anche di “dosare”, il passaggio generazionale
dell’impresa, o comunque dei beni che compongono il patrimonio sociale.
Al di fuori di tale principale funzione di pianificazione successoria anche anticipata, il diritto di usufrutto
può essere costituito per atto tra vivi anche in funzione di garanzia, sia, nel momento in cui si acquista un
bene, per specifica garanzia del solvens come limite di un’intestazione di beni sotto nome altrui
(discendente, coniuge, convivente, ecc.), sia, seppure meno diffusamente, al di fuori del momento
dell’acquisto del bene di cui si tratta, al fine di garantire il godimento vitalizio di un bene strategico da parte
di una persona che, in assenza del diritto, teme che quel bene non sia più lasciato a sua disposizione da
parte del proprietario (es. genitore anziano rimasto vedovo che vende a terzi la propria residenza familiare
storica e va a vivere, con il consenso di quest’ultimo, in una casa di proprietà di un parente).
Inoltre, il diritto di usufrutto, per restare ad esempi immobiliari, può essere costituito per atto tra vivi,
soprattutto dopo la riforma dell’imposizione patrimoniale degli immobili introdotta nel decreto c.d. Salva
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Italia dal governo Monti, in funzione di ottimizzazione fiscale: si pensi al caso in cui più figli vivano in case
intestate ai propri genitori ed in cui può essere oggi fiscalmente conveniente, oltre che del tutto legittimo, e
prospetticamente strategico donare al figlio che abita la casa stessa un meno impegnativo diritto di
usufrutto temporaneo (es. per la durata di anni cinque), piuttosto che la piena proprietà.
4. L’impiego dell’usufrutto in funzione di assets protection: considerazioni generali.
Tra le funzioni teoricamente assegnabili alla costituzione di un usufrutto vi è anche la funzione di mettere al
riparo i beni su cui l’usufrutto stesso viene costituito da eventuali pretese dei creditori.
Nel presupposto che tale obiettivo sia perseguito, come emerge dal titolo del presente contributo, da parte
di soggetto privo attualmente di creditori e che non ha in quel momento alcuna prospettiva di assunzione
volontaria di debiti, nessuno può dubitare dell’assoluta meritevolezza di tale obiettivo.
In tale ottica, un soggetto che teme, per l’attività svolta o per altre specifiche circostanze anche familiari, di
potere incorrere nel futuro in obblighi di pagamento, responsabilità o anche insolvenze, potrebbe preferire,
riservando a se stesso esclusivamente un diritto di usufrutto vitalizio, che i beni di cui è attualmente pieno
proprietario vengano intestati, in linea di principio attraverso un atto di donazione, a propri stretti familiari
che siano ritenuti, nel contempo, meritevoli, anche per la fiducia che il soggetto che intende proteggere il
proprio patrimonio ripone in loro, di divenire i futuri pieni proprietari del bene di cui si tratta e non esposti
a loro volta, sulla carta, a quel rischio di indebitamento che induce il dante causa a spogliarsi da subito della
proprietà.
In caso di successivo indebitamento e conseguente aggressione del patrimonio da parte dei creditori,
infatti, colui che ha donato la nuda proprietà ed ha conservato il solo diritto di usufrutto vitalizio - in
assenza dei presupposti, per l’assenza attuale di creditori e la mancanza di ogni preordinazione al riguardo,
per l’esercizio dell’azione revocatoria ex artt. 2901 ss. c.c., e, in ogni caso, una volta prescritto il relativo
termine - avrà normalmente ottenuto un buon risultato in termini di assets protection, dal momento che,
da un lato, le utilità destinate all’usufruttuario ex artt. 981 e 984 c.c. sono comunque una parte (talora,
come si vedrà in seguito, anche scarsamente significativa) delle utilità spettanti al proprietario, dall’altro
lato, come l’esperienza insegna, l’esecuzione forzata relativamente ad un diritto di usufrutto anche vitalizio
potrebbe trovare significative difficoltà nel reperire un acquirente “terzo” e quindi spianare la strada, di
fatto, per un acquisto coattivo low cost da parte del medesimo nudo proprietario, o di altri comunque
correlati a quest’ultimo.
Invero, chi partecipa quale aspirante aggiudicatario ad una vendita forzata di un diritto di usufrutto vitalizio
“scommette” sulla durata della vita dell’usufruttuario esecutato, dal momento che il diritto che acquista si
estingue inderogabilmente, ex art. 979 comma 1 c.c., con la morte di tale soggetto, con la conseguenza che
tale aggiudicatario avrà un diritto assolutamente precario.
L’avente causa dall’usufruttuario è privo, infatti, anche di quelle garanzie minime di stabilità che la legge,
nell’art. 999 c.c., concede al conduttore che ha concluso il contratto di locazione con il solo usufruttuario
che, a determinate condizioni, può conservare una durata quinquennale extra mortem del proprio diritto
personale di godimento (che, nel caso di estinzione dell’usufrutto acquistato a seguito di procedura
esecutiva, non è invece dato di rinvenire).
Il vantaggio che può essere ottenuto in funzione di assets protection tramite una costituzione del diritto di
usufrutto non può comunque essere rafforzato attraverso la pattuizione dell’incedibilità del diritto in
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deroga alla regola legale di cui all’art. 980 c.c., dal momento che tale incedibilità, riferita alle alienazioni
volontarie e non estensibile a quelle coattive, non preclude in alcun modo l’instaurazione, relativamente a
tale usufrutto, di un procedimento di esecuzione forzata per iniziativa di un creditore dell’usufruttuario
stesso.
Inoltre, in tutti i casi in cui si impiega il diritto di usufrutto in tale specifica funzione di assets protection,
occorrerà prestare la massima attenzione, sia quando si costituisce l’usufrutto medesimo sia
successivamente, al fine di evitare che anche il nudo proprietario possa essere debitore, solidale o anche
sussidiario, con o senza beneficio d’ordine o di preventiva escussione, rispetto di coloro che possono dirsi
creditori dell’usufruttuario, perché, in tutti questi ultimi casi, come è evidente, verrebbe meno ogni
vantaggio della separazione tra nuda proprietà ed usufrutto, in considerazione del fatto che il creditore
vanta un titolo che, una volta rispettate gli eventuali oneri di preventiva richiesta o di preventiva escussione
nei confronti dell’usufruttuario, legittima all’azione esecutiva nei confronti di entrambi i titolari di diritti
reali, dando luogo, alla fine, ad una vendita coattiva della piena proprietà.
5. “Possesso” del patrimonio intestato a società e dubbi sulla possibilità di ricorrere, anziché
all’usufrutto, al diritto di uso ex art. 1021 c.c.
Ai fini di assets protection, l’impiego dell’alienazione a stretti familiari della nuda proprietà con riserva di
usufrutto in capo all’alienante nei termini sopra esemplificati, o, comunque, del diritto di usufrutto in altri
casi comunque diffusi (si pensi al caso in cui la finalità venga realizzata nel momento in cui si acquista un
determinato bene da un terzo o si costituisce una società), appare ipotizzabile in linea teorica, con riguardo
ad ogni tipo di bene, materiale o immateriale, statico oppure produttivo, di “primo livello” oppure di
“secondo livello” (come nel caso delle partecipazioni sociali).
Tuttavia, agli stessi fini, laddove si tratti di beni materiali (immobili, ma anche mobili), l’impiego del diritto
di usufrutto risulta nei fatti poco praticato, perché l’istituto più idoneo a realizzare siffatta specifica
funzione è piuttosto rappresentato dal diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. (trattandosi di immobile ad uso
abitativo o relativa pertinenza), oppure dal diritto di uso ex art. 1021 c.c. (trattandosi di immobile diverso
dal precedente oppure di bene mobile), dal momento che, in entrambi i casi, si tratta di diritti non alienabili
separatamente dalla proprietà (art. 1024 c.c.) e, per tale ragione, anche insuscettibili, per opinione
dottrinale pacifica e prassi consolidata dei tribunali, di esecuzione forzata separatamente dalla proprietà
stessa.
In che misura quest’ultima soluzione rafforzata di assets protection, se così si può dire, può essere
impiegata relativamente alle partecipazioni sociali?
In materia, nell’esperienza di chi scrive, non esiste alcuna prassi.
Con riguardo alle cose, ovvero ai beni materiali, la dottrina ritiene che l’oggetto del diritto di uso sia
potenzialmente assai esteso, coincidendo con qualunque cosa risulti idonea a rendere possibile all’usuario
l’acquisizione in modo diretto di date utilità materiali o frutti [cfr. M. TRIMARCHI, voce Uso (diritto di), in
Enc. dir., Milano, 1992, p. 923].
Da tale punto di vista, non si vede una significativa differenza con il diritto di usufrutto: ogni cosa che può
costituire oggetto di usufrutto può altresì costituire oggetto di uso, dovendosi la differenza rinvenire
unicamente nel fatto che, nel caso specifico dell’uso, l’utilità ritraibile dal titolare consiste esclusivamente
nel godimento diretto, nei soli limiti in cui ciò possa essere strumentale ai bisogni del titolare e della propria
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famiglia (il che riduce il campo applicativo dell’istituto, per quanto riguarda gli immobili, a casi di scuola,
come il caso del parco o del giardino, o dell’immobile di servizio rispetto ad un immobile abitativo che non
è per sua natura suscettibile di divenire esso stesso oggetto del diritto di abitazione attraverso il regime
giuridico delle pertinenze ex artt. 817 ss. c.c., e, per quanto riguarda i mobili, a situazioni comunque
connotate dalla specifica natura della cosa, come nel caso di libri, opere d’arte, arredi, gioielli, mezzi di
trasporto e pochi altri oggetti).
Può il titolare del diritto di uso ritrarre dal bene un godimento di tipo indiretto, derivante dalla percezione
di frutti o di altre utilità, a loro volta tuttavia acquisibili dal titolare del diritto di uso soltanto ove destinati a
fare fronte ai bisogni del titolare del diritto o della sua famiglia?
La dottrina, per le utilità diverse dai frutti, tende a dare a tale interrogativo una risposta negativa, sulla base
della definizione di cui all’art. 1021 comma 1 c.c., che circoscrive il contenuto del diritto di uso, quanto ai
proventi che possono dare luogo al c.d. godimento indiretto, alla sola possibilità di “raccogliere i frutti per
quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia”.
Se in tale nozione di frutti può comprendersi, si ritiene sempre in dottrina, il caso dell’immobile
strumentale locato, dal momento che il tenore letterale dell’art. 1021 comma 1 c.c. citato non autorizza
l’interprete a comprendere nella definizione normativa i soli frutti naturali, escludendo invece quelli civili
(quali appunto il canone di locazione di un immobile), nella stessa non può invece comprendersi ogni altra
somma di denaro non riconducibile alla definizione di frutti civili posta dall’art. 820 comma 3 c.c. , secondo
cui “sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia.
Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo
delle locazioni”.
La comprensione tra le facoltà dell’usuario di queste ultime utilità non può essere argomentata dall’art.
1026 c.c., dal momento che la delimitazione delle utilità spettanti all’usuario assume, attraverso la
definizione dell’art. 1021 c.c., carattere tipologico, escludendo ogni compatibilità rispetto alla diversa
posizione, al riguardo, dell’usufruttuario.
La conclusione esce ulteriormente rafforzata dal confronto con il più ampio godimento indiretto consentito
all’usufruttuario dall’art. 981 comma 2 c.c., secondo cui tale titolare di diritto reale su cosa altrui può
“trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti in questo capo”, anche in
considerazione del fatto che le “utilità” di cui all’articolo in oggetto si aggiungono ai frutti naturali e civili, la
cui spettanza esclusiva all’usufruttuario è sancita dal successivo art. 984 c.c.
Ne consegue che, se può in astratto concepirsi la costituzione di un diritto di uso su un’azienda - pure nel
silenzio sul punto dell’art. 2561 c.c. (e dall’argomento a contrario che si potrebbe ritenere di ricavare dalla
menzione del solo affitto nel successivo art. 2562 c.c.) - dal momento che il corrispettivo dell’affitto di
azienda rientra comunque nella definizione di frutto civile posta dal citato art. 820 comma 3 c.c., non
altrettanto può dirsi per quanto riguarda le azioni di società e le altre partecipazioni sociali, dal momento
che esse, in quanto beni c.d. di secondo grado, non sono suscettibili di divenire oggetto di un contratto di
affitto in senso tecnico.
La difficoltà, nell’ottica del complessivo ragionamento che si sta seguendo, deriva - per le partecipazioni
non azionarie - non dalla pretesa inammissibilità teorica di un diritto di uso ex art. 1021 c.c. su beni
immateriali, dal momento che, sotto tale profilo, come già detto, non potrebbero non valere le medesime
considerazioni sopra svolte con riguardo al diritto di usufrutto (con la conseguenza che non si vedono
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difficoltà a costituire diritti di uso ex art. 1021 c.c. su beni immateriali suscettibili di generare frutti civili in
senso tecnico, come potrebbe accadere, per esempio, per un brevetto o un diritto di autore), bensì
dall’impossibilità di concepire - per tutte le partecipazioni sociali, azionarie e non azionarie - frutti civili
secondo la definizione data dalla legge, tali non essendo i dividendi e le distribuzioni straordinarie del
patrimonio sociale ai quali le partecipazioni sociali danno titolo.
Ne consegue ulteriormente, ad avviso di chi scrive, che, pure nell’oggettiva opinabilità della materia (e,
quindi, nella ritenuta non assoggettabilità a responsabilità disciplinare ex art. 28 della legge notarile del
notaio che ricevesse un siffatto tipo di atto), la costituzione di un diritto di uso in senso tecnico ex art. 1021
c.c. relativamente ad azioni (anche dematerializzate o non emesse) di società per azioni o a partecipazioni
in società a responsabilità limitata (o anche a società di persone) non potrebbe essere giustificata neppure
dall’esigenza di impedire una libera alienazione della partecipazione stessa da parte del proprietario o
titolare gravato, dal momento che la costituzione di un diritto su un determinato bene presuppone
comunque che tale diritto abbia, nel caso di specie, un preciso contenuto, non rinvenibile nell’esempio al
vaglio, stante l’assenza in capo al relativo titolare di ogni possibile facoltà di godimento sia diretto sia
indiretto.
Pertanto, la posizione definita in un ipotetico atto giuridico anche notarile di titolare di diritto di uso ex art.
1021 c.c su una qualsiasi partecipazione sociale dovrebbe essere riqualificata dall’interprete, se a ciò non
ostano nel caso concreto altri elementi utili ai fini dell’interpretazione soggettiva ed oggettiva del contratto
ex artt. 1362 ss. c.c., alla stregua di un vero e proprio diritto di usufrutto ex artt. 978 ss. c.c. e, trattandosi di
società di capitali, ex art. 2352 c.c. o art. 2471 bis c.c.
Per ottenere un valore aggiunto in termini di assets protection con riferimento a qualsiasi tipo di
partecipazione sociale, conviene dunque concentrarsi sui vantaggi e sui limiti che possono derivare
dall’impiego del diritto di usufrutto, rinunciando a percorrere la strada alternativa del diritto di uso ex art.
1021 c.c.
6. Tecniche negoziali per la valorizzazione dell’usufrutto di partecipazioni sociali in funzione di
assets protection.
Ogni partecipazione sociale può costituire, come si è visto, oggetto di usufrutto ed essere impiegata in
funzione di assets protection.
6.1. Società di persone.
Non vi è alcun dubbio che anche relativamente alle partecipazioni di società di persone si possa costituire
un diritto di usufrutto (in tale senso, in dottrina, C. ANGELICI, Usufrutto di quote nella società in
accomandita semplice, in Studi e materiali del Consiglio nazionale del Notariato, Milano, 1995, p. 274 ss.; F.
CORSINI, Note in tema di usufrutto su quote di società di persone, in Notariato, 1998, p. 353 ss.; A.
MICHINELLI, Pegno ed usufrutto di quote di società in accomandita semplice alla luce delle recenti
evoluzioni giurisprudenziali, in Giur. comm., 1998, II, p. 199 ss.; in giurisprudenza, Trib. Trento, 17 gennaio
1997, in Giur. comm., 1998, II, p. 188 ss.; Trib. Milano, 16 luglio 1988, in Giur. it., 2009, p. 650 ss.; Trib.
Verona, 10 ottobre 1996, in Società, 1997, p. 913 ss.), non solo attraverso vicende della partecipazione
sociale successive alla costituzione, ma anche direttamente in sede di atto costitutivo.
L’impiego a tale fine di una partecipazione in società personali appare tuttavia meno efficiente rispetto
all’analogo impiego in società di capitali.
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Infatti, una consolidata dottrina, avallata anche da alcuni precedenti giurisprudenziali di merito (Trib.
Bologna, 24 aprile 2001, in Società, 2002, p. 495 ss.; Trib. Biella, 23 ottobre 1999, in Dir. fall., 1999, II; p.
1250 ss.; Trib. Parma, 7 febbraio 1998, in Giur. merito, 1999, p. 527 ss.), ritiene che colui che acquisisce in
qualsiasi società di persone la posizione di usufruttuario della partecipazione sociale non possa essere
considerato socio e, conseguentemente, alla luce dell’idea tradizionale che solo chi è socio possa assumere
tale veste (la legge, invero, si limita a porre espressamente tale precetto nell’art. 2318 comma 2 c.c., per
quanto riguarda il socio accomandatario di società in accomandita semplice), da un lato divenire
amministratore della società, dall’altro lato acquisire responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali.
L’impossibilità di divenire amministratore della società - presidiata nella prassi operativa dai controlli di
legalità dello stesso ufficio del registro delle imprese, che in molte realtà locali rifiuta l’iscrizione dell’atto
notarile che abbia riservato a colui che è solo usufruttuario della partecipazione sociale qualsiasi potere di
amministrazione - contribuisce indubbiamente a rendere il ricorso al diritto di usufrutto nelle società di
persone meno appetibile, dal momento che impedisce al relativo titolare (che non conservi altresì una
residua partecipazione in piena proprietà) di assumere la veste di amministratore e, quindi, di conservare
qualsiasi potere di gestione della società (in tema, cfr. anche Usufrutto su quote di società in accomandita
semplice, Quesito di impresa n. 235 – 2014/I del Consiglio nazionale del Notariato del 7 maggio 2014).
Tuttavia, non può tacersi come, soprattutto nelle società semplici, il socio corre il rischio che, ai sensi
dell’art. 2270 comma 2 c.c., la propria partecipazione venga aggredita dal creditore particolare, ove gli altri
suoi beni siano insufficienti a soddisfare i suoi crediti, con conseguente esclusione di diritto ex art. 2288
comma 2 c.c. ed immediata facoltà per il creditore stesso di agire contro la società debitrice della somma di
denaro corrispondente al valore di liquidazione della partecipazione, senza che il vincolo di destinazione
impresso dal contratto sociale sul patrimonio della società possa impedire tale esito.
Ne consegue che, per prevenire siffatto esito, il socio di società semplice potrà desiderare di ritagliarsi, già
in sede di costituzione della società o anche successivamente con un atto di cessione della nuda proprietà
della partecipazione (destinato a dare luogo, secondo l’opinione dominante, ad una vera e propria
modificazione del contratto sociale ex art. 2252 c.c., stante il passo indietro che impone in merito alla
distribuzione degli utili al socio nudo proprietario), la veste di semplice usufruttuario, nonostante la
rinuncia ai poteri amministrativi che essa comporta secondo l’opinione oggi dominante.
Il rischio che la società corre in caso di aggressione del patrimonio dell’usufruttuario da parte di un
creditore particolare è, invero, se si accetta la premessa secondo cui quest’ultimo non è socio,
esclusivamente quello di subire un pignoramento dei crediti che, in tale veste, egli ha maturato verso la
società ex art. 2262 c.c., in quanto risultanti da rendiconto approvato e, si badi bene, per i quali il contratto
sociale non richieda, in deroga a quest’ultimo articolo, alcuna deliberazione dei soci ai fini della loro
immediata distribuzione.
La posizione di mero usufruttario della partecipazione sociale, dunque - per quanto precluda al titolare ogni
ingerenza nell’amministrazione della società ed anche ogni possibilità di intervenire e condizionare le
vicende modificative del contratto sociale, che, una volta che l’usufrutto è stato costituito, restano di
competenza dei soli soci - può permettere, soprattutto se accompagnata da una clausola del contatto di
società che, in deroga all’art. 2262 c.c., richiede una deliberazione dei soci per la distribuzione degli utili,
una significativa forma di protezione del patrimonio sociale di fronte al rischio rappresentato dalla presenza
di futuri creditori particolari di tale soggetto partecipante all’iniziativa sociale.
6.2. Società di capitali.
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La veste di usufruttuario può essere assunta direttamente in sede di stipulazione dell’atto costitutivo di una
società di capitali, sia che si tratti di una società per azioni sia che si tratti di una società a responsabilità
limitata, e ciò indipendentemente da colui o coloro che eseguono il conferimento.
La conclusione, valida per ogni tipo di società, assume, per le società di capitali, una conferma normativa
oggi testuale.
In tema di società per azioni, infatti, dopo la riforma del 2001 - 2003, ai sensi dell’art. 2346 comma 4
secondo periodo c.c., lo statuto può prevedere un’assegnazione delle azioni in misura diversa rispetto alle
due regole base di proporzionalità previste nel precedente periodo, attinenti, rispettivamente, alla
proporzionalità tra conferimenti eseguiti e capitale sottoscritto (la prima) e tra quest’ultimo valore ed il
numero delle azioni assegnate (la seconda).
La stessa disciplina è prevista per le società a responsabilità limitata dall’art. 2468 comma 2 c.c.
Ne deriva che anche colui che esegue l’intero conferimento potrebbe scegliere, in forza delle citate norme,
non solo di sottoscrivere una parte soltanto delle azioni o delle partecipazione sociali, ma anche di limitare
il proprio diritto all’usufrutto dell’intero capitale sociale o di parte di esso - attribuendo la veste di socio a
soggetti terzi - e ciò, a differenza di quanto accade per le società di persone, conservando la facoltà (per le
srl, in realtà, soltanto ove l’atto costitutivo deroghi la regola suppletiva posta dall’art. 2475 comma 1 c.c.,
secondo cui la veste di amministratore spetta soltanto ai soci) di amministrare la società eventualmente
anche nella veste di amministratore unico.
Vi è tuttavia un caveat.
La disposizione dell’art. 2479 comma 1 c.c., nella parte in cui riserva alla competenza della decisione dei
soci ogni argomento che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del
capitale sociale sottopongono ad essa, è ritenuta inderogabile in minus da parte dell’atto costitutivo, in
quanto espressione di una sovranità dei soci proprietari che, in tale specifico tipo sociale, è ritenuta
espressione di un principio di corretta governance.
Pertanto, colui che, pure avendo eseguito l’intero investimento, è intenzionato a “ritirarsi” nella posizione
di usufruttuario e di amministratore dovrà valutare, anche alla luce delle considerazioni che si faranno di
seguito in merito all’opportunità di concedere il voto al nudo proprietario, l’opportunità di accollarsi il
rischio che, avvalendosi i soci di tale norma, egli perda quella riserva del potere gestorio che aveva
immaginato per sé nella specifica veste di amministratore.
Non accettando di assumere quest’ultimo rischio, il soggetto in parola potrà, in alternativa, ipotizzare di
scegliere il tipo azionario, dal momento che, in quest’ultimo modello, non solo non esiste una norma
analoga a quella testé riferita per le srl, ma esiste, tutto al contrario, un vero e proprio divieto per lo statuto
di riservare alla competenza dell’assemblea qualsiasi atto di gestione per il quale non sia la legge stessa a
prevedere una competenza assembleare [arg. ex art. 2364 comma 2 n. 5) c.c., in raffronto con l’art. 2364
comma 2 n. 4) c.c. prima della riforma del 2001 - 2003].
In tale ultimo caso tuttavia, poiché la nomina come amministratore non può essere prevista per un periodo
superiore a tre esercizi (art. 2383 comma 2 c.c.), l’usufruttuario - amministratore dovrà avere lo scrupolo,
per chiudere il cerchio e garantirsi piena tutela giuridica, di fare sì che il voto nelle (sole) assemblee
convocate per la nomina degli amministratori spetti in ogni caso, secondo la regola generale posta dall’art.
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2352 c.c., ad esso usufruttuario, e non, come pure quest’ultimo articolo consente (e come normalmente
accadrà quando l’usufrutto è posto in essere in funzione di assets protection), al socio.
Le considerazioni testé fatte valgono anche per il caso in cui la sottoscrizione delle azioni o delle
partecipazioni sociali avvenga in sede non di atto costitutivo, bensì di aumento del capitale sociale a
pagamento.
Esse, infine, valgono anche per colui che, essendo già azionista o titolare di partecipazioni di srl quale pieno
proprietario, intenda “ritirarsi” nella posizione di mero usufruttuario delle azioni o delle partecipazioni
mediante donazione o altro atto di trasferimento della proprietà con riserva a proprio favore dell’usufrutto
(vitalizio o anche a termine con data certa o altrimenti determinato).
In tutti i casi in cui colui che ha investito risorse in una società di capitali abbia deciso di assumere la
posizione di mero usufruttuario delle azioni o delle partecipazioni sociali, accettando che la nuda proprietà
sia intestata a familiari o ad altri soggetti di sua fiducia, i dividendi (e le eventuali distribuzioni di riserve da
utili) spettano all’usufruttuario, dal momento che, pure non costituendo frutti civili in senso tecnico,
rientrano nel perimetro di quelle utilità definite come contenuto dell’usufrutto dall’art. 981 comma 2 c.c.
Allo stesso modo, in tutti i predetti casi, spetta all’usufruttuario il diritto di voto in ogni assemblea.
Tuttavia, mentre la spettanza all’usufruttuario dei dividendi e delle altre somme distribuite dalla società
ripartendo le riserve da utili è ritenuta inderogabile, in quanto corrispondente al contenuto del diritto di
usufrutto (cfr. art. 981 comma 2 c.c.) e, in ultima istanza, garantito dal principio di tipicità dei diritti reali
(anche su beni immateriali o altri diritti non aventi per oggetto cose), la titolarità in capo all’usufruttuario
del diritto di voto può essere derogata, per espressa previsione dell’art. 2352 c.c., richiamato per le srl
dall’art. 2471 bis c.c., a favore del socio.
Quest’ultima deroga dovrà essere contenuta nell’atto costitutivo dell’usufrutto, salva sempre la facoltà
dello statuto di intervenire nella materia a priori e, anche ribaltando la regola legale, limitare o addirittura
escludere ogni espressione dell’autonomia privata al riguardo.
Come si deve porre colui che assume la veste di mero usufruttuario per finalità di assets protection di
fronte a tale espressa facoltà legislativa?
Conservando in capo a se stesso il pieno diritto di voto garantito dall’art. 2352 c.c., egli corre il rischio che,
in caso di sopravvenienza di creditori particolari, questi possano esercitare direttamente tale diritto di voto
(ex art. 2900 c.c., in esercizio di un’azione surrogatoria, oppure, in alternativa, a seguito di un sequestro
conservativo o di un pignoramento del diritto di usufrutto), con conseguente opportunità di derogare tale
soluzione legislativa già in sede di costituzione del diritto di usufrutto?
La risposta, ad avviso di chi scrive, è che:
-
quanto al rischio di esercizio da parte dei creditori di azione surrogatoria, il diritto di voto in società
di capitali non sembra rientrare nella definizione dei diritti esercitabili dal debitore verso terzi ex
art. 2900 comma 1 c.c., dal momento che non si tratterebbe, nel caso di specie, di diritti che il
titolare “trascura di esercitare”;
-
quanto invece al rischio che il creditore dell’usufruttuario, ove nominato custode, assuma
permanentemente la facoltà di esercizio del diritto di voto a seguito di sequestro conservativo o di
12
pignoramento del diritto di usufrutto, è lo stesso art. 2352 c.c. a dare la risposta positiva, a nulla
ostando che la norma, nella parte in cui estende al sequestro delle azioni o delle partecipazioni
sociali in srl (in quest’ultimo caso, con il limite dell’art. 2471 c.c., nella parte in cui limita la vendita
coattiva nel caso in cui queste ultime partecipazioni non siano liberamente trasferibili) la regola che
sottrae il voto al legittimo titolare, sia applicata a danno dell’usufruttuario, anziché direttamente a
danno del socio pieno proprietario; a tale riguardo, sorge soltanto il dubbio di quale sia lo
strumento che può consentire stragiudizialmente, ex art. 2900 comma 2 c.c., al creditore
dell’usufruttuario titolare del diritto di voto di presentarsi in assemblea e pretendere di esercitare il
diritto di voto in luogo del socio che ne è titolare, operando le necessarie distinzioni a seconda che
si tatti di società per azioni sottoposta al TUF, di società per azioni regolata dal solo codice civile
oppure di società a responsabilità limitata.
Ne consegue che, laddove si ricorra alla costituzione dell’usufrutto in funzione di assets protection,
l’usufruttuario che teme di potere essere in futuro esposto a sequestro o pignoramento del diritto da parte
dei propri creditori particolari dovrà valutare attentamente se derogare all’art. 2352 c.c., lasciando per
intero il diritto di voto in capo al nudo proprietario, oppure, come è realistico suggerire nella maggior parte
dei casi, nel presupposto che la legge non pretenda che il titolare del diritto di voto sia sempre l’uno o
l’altro soggetto una volta per tutte, limitare il proprio voto a quegli aspetti in cui ritiene prevalente
l’esigenza di non privarsi di poteri fondamentali di governance societaria oppure, in diversa e quasi opposta
prospettiva, che un esercizio del voto direttamente da parte di un custode non possa creare alcun rilevante
danno alla società.
Tra le ipotesi in cui, in quest’ultima ottica, il diritto di voto potrà essere esercitato soltanto dal socio, merita
di essere sottolineata la deliberazione in tema di distribuzione degli utili (o delle riserve da utili destinate a
loro volta all’usufruttuario), dal momento che, una volta che tale deliberazione è stata adottata,
l’usufruttuario diviene creditore della società ed il suo creditore particolare può senz’altro agire contro la
società pignorando il credito o chiedendo coattivamente il pagamento ex art. 2900 c.c.
Non si può tuttavia escludere che quest’ultima scelta di protezione verso i propri futuri eventuali creditori
particolari esponga l’usufruttuario al rischio, tutt’affatto diverso ma in molti casi altrettanto “temibile”, che
i soci divenuti titolari del diritto di voto, anche se si tratta di propri figli o soggetti ritenuti inizialmente di
stretta fiducia, preferiscano evitare ogni distribuzione, pregiudicando la redditività attuale
dell’usufruttuario, pure in ipotesi in bonis, a vantaggio della propria redditività futura, una volta che
l’usufrutto si sarà estinto per morte del titolare.
Di fronte a tale prospettiva, l’usufruttuario stesso potrà comunque cautelarsi, cercando un trade - off tra le
due opposte prospettive di rischio, imponendo, per esempio, una clausola statutaria secondo cui, fino ad
una certa somma variamente determinata in base alle proprie presumibili esigenze anche future, gli utili
siano distribuiti tra gli aventi diritto a prescindere da ogni deliberazione assembleare e, quindi, nonostante
il diritto di voto in tali assemblee continui a spettare senza eccezioni, in deroga all’art. 2352 c.c., al socio
nudo proprietario.
Merita infine menzione un’ultima possibile cautela negoziale: poiché l’art. 2352 comma 6 c.c., richiamato
per le srl dall’art. 2471 bis c.c., prevede che i diritti amministrativi diversi da quelli contemplati nei
precedenti commi (in pratica: il diritto individuale di controllo ex art. 2476 comma 2 c.c., il diritto di
chiedere la revoca cautelare degli amministratori ex art. 2476 comma 3 c.c. ed il diritto di impugnare le
deliberazioni assembleari o le decisioni dei soci) siano esercitati sia dal socio sia dall’usufruttuario, potrà
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essere opportuno che, per uno o più di tali diritti amministrativi, l’atto costitutivo dell’usufrutto, volendo
scongiurare un esercizio di tali diritti da parte del creditore particolare dell’usufruttuario, intervenga ritenendo la dottrina dominante che si tratti di norma derogabile (cfr., per tutti, C. GATTONI, Art. 2471 bis,
in Commentario Marchetti - Bianchi - Ghezzi -Notari, Milano, 2008, p. 439) - limitandone la spettanza al
solo socio.
Vi è infine da considerare, sempre nell’ottica di una più efficace forma di assets protection, quali siano le
cautele da suggerire in relazione all’eventualità che, in caso di partecipazioni sociali in usufrutto, la società
di capitali proceda ad operazioni di aumento del capitale o a distribuzione di riserve.
A tale fine, come è evidente, occorre partire dalla ricostruzione della disciplina legale in assenza di
specifiche clausole nell’atto costitutivo dell’usufrutto.
In caso di aumento del capitale sociale a pagamento, l’art. 2352 comma 2 primo periodo c.c., richiamato
per le s.r.l. dall’art. 2471 - bis c.c., prevede che “se le azioni attribuicono un diritto di opzione, questo spetta
al socio ed al medesimo sono attribuite le azioni in base ad esso sottoscritte” (sottinteso: in piena
proprietà).
In caso di aumento gratuito del capitale sociale, invece, l’art. 2352 comma 3 c.c., richiamato per le s.r.l.
dall’art. 2471 - bis c.c., prevede che “il pegno, l’usufrutto e il sequestro si estendono alle azioni di nuova
emissione”.
Nulla infine è previsto dalla legge in merito alla distribuzione di riserve da parte della società, pure
potendosi ritenere che la regula iuris possa essere comunque ricavata dai principi del diritto societario e
dalle norme che definiscono il contenuto del diritto di usufrutto; infatti, per regola generale di diritto
societario, la distribuzione opera a favore del nudo proprietario, in quanto socio, mentre, per regola
ricavabile dalla disciplina del diritto di usufrutto, e precisamente dall’art. 981 comma 2 c.c., secondo cui
l’usufruttuario “può trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti in questo capo”,
le distribuzioni di riserve da utili spettano all’usufruttuario, in quanto utilità accantonate al momento della
percezione e distribuite solo successivamente; in senso contrario alla spettanza al solo socio nudo
proprietario del diritto di percepire le somme dovute dalla società a seguito di distribuzione di riserve da
capitale, invero, non sembra che possa addursi il precetto del citato art. 981 comma 2 c.c., ma sembra
preferibile, mettendo l’accento sulla specialità della normativa del libro quinto quoad obiectum, ritenere
che il diritto spetti al socio nudo proprietario in applicazione del principio posto (a tutela dell’investimento)
per gli aumenti del capitale a pagamento dall’art. 2352 comma 2 c.c., piuttosto che all’usufruttuario in base
all’art. 981 comma 2 c.c.
Ciò, si badi bene, nella consapevolezza che, da un lato, la legge, per favorire la certezza del diritto, abbia
disposto - per il caso dell’aumento del capitale sociale con diritto di opzione - sulla base dell’id quod
plerumque accidit (il sottoscrittore si paga l’investimento, a nulla rilevando che, in determinati casi, il
prezzo potrebbe essere inferiore al valore effettivo delle partecipazioni sottoscritte, determinandosi in tale
modo una parziale espropriazione del plusvalore inespresso delle azioni detenute dall’usufruttuario prima
dell’aumento), dall’altro lato, assumendo tale precetto come espressione di un principio generale che dà
preferenza a colui che ha eseguito l’investimento rispetto a colui che vanta un generale diritto alle utilità
derivanti dalle azioni applicabile anche in caso di distribuzione di riserve da capitale, non si possa escludere
che, nello specifico caso, la riserva da capitale derivi da vicende societarie svoltesi per intero in costanza del
diritto di usufrutto, con la conseguente analoga espropriazione del valore economico che avrebbe dovuto
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essere destinato all’usufruttuario medesimo, in ossequio, anche questa volta, al principio di certezza del
diritto.
Considerazione, quest’ultima, che non può non confermare - dal momento che la certezza del diritto
privilegiata dal legislatore non deve andare a discapito dell’interesse delle parti di compiere nel caso
concreto una diversa scelta - la piena derogabilità della norma (come sopra interpretata) in forza di clausola
contenuta nell’atto costitutivo di usufrutto (ed anche in forza di clausola contenuta nell’atto costitutivo o
nello statuto della società), sia in forma di titolarità del diritto alla distribuzione diversa da quella sopra
ipotizzata per legge ed opponibile alla società (es.: tutte le riserve da capitale sono distribuite a favore
dell’usufruttuario e non al socio), sia in forma di diritto di credito pecuniario dell’usufruttuario, ferma la
soluzione legale nei confronti della società, di ottenere dal nudo proprietario che ha riscosso la riserva da
capitale una parte dell’importo percepito corrispondente alla parte di riserva da capitale formatasi in
costanza del diritto di usufrutto.
Se così stanno le cose per legge, e se, in caso di usufrutto di azioni o altre partecipazioni sociali in funzione
di assets protection, l’usufruttuario che intende proteggersi dalle pretese di futuri creditori personali non
può comunque derogare la regola specifica che riconosce a lui solo i proventi derivanti da distribuzione di
riserve di utili, stante il carattere tipologico dell’art. 984 comma 1 c.c., con l’inderogabilità che ne deriva,
come già sopra sottolineato, non resterà altro che prevedere che - al di là di quanto pattuito in generale, o
per altre specifiche ipotesi di deliberazione - il voto nella assemblee convocate per la distribuzione di
riserve (in generale, oppure, più restrittivamente, soltanto da utili) spetti, in deroga alla regola generale di
cui all’art. 2352 c.c., soltanto al socio nudo proprietario.
FEDERICO TASSINARI
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