L’USUFRUTTO DI PARTECIPAZIONI SOCIALI IN FUNZIONE DI ASSETS PROTECTION (da parte di soggetto attualmente privo di creditori e che non ha preordinato alcuna operazione di futuro indebitamento) 1. L’usufrutto di partecipazioni sociali: considerazioni generali. L’usufrutto è una originale creazione della giurisprudenza romana del II secolo avanti Cristo, conseguenza della centralità assunta in quell’ordinamento dalla nozione di proprietà, a sua volta figlia della visione individualistica propria del diritto e, ancora prima, della società civile romana, che mette al centro dell’universo l’uomo libero, concepito - in una metamorfosi dal concetto puramente filosofico greco ad un concetto prettamente politico - non genericamente come individuo singolo, ma specificamente come civis romanus. Se il proprietario ha una signoria assoluta sulla cosa oggetto del proprio diritto, idonea ad escludere perpetuamente qualsiasi terzo da ogni facoltà di possesso o di sfruttamento della cosa stessa, l’usufrutto nasce, come diritto reale su cosa di proprietà altrui, al fine di mettere in quiescenza le facoltà del proprietario, che per tale ragione viene definito “nudo”, e permettere ad uno o più terzi, diversi dal proprietario stesso, di esercitare una signoria sulla cosa piena, nel rispetto della attuale destinazione economica impressa al bene, ma limitata nel tempo per una durata normalmente coincidente con la vita del suo titolare. Nulla di simile è rinvenibile nel diritto greco, così come nel diritto germanico o anglosassone (cfr., per riferimenti ancora essenziali per un primo efficace inquadramento del diritto di usufrutto dell’ordinamento italiano, G. PUGLIESE, Usufrutto, uso e abitazione, Torino, 1972, soprattutto p. 1 - 32). La piena riscoperta della concezione romana del diritto di usufrutto a seguito della rivoluzione francese, e del processo da questa innescato di superamento dei privilegi feudali (e della proliferazione dei diritti reali propria di tali società feudali), ha fatto sì che la disciplina positiva di tale diritto all’interno del code civil del 1804, poi del codice civile italiano del 1865, poi ancora del codice civile italiano vigente del 1942, ricalcasse fedelmente i pilastri della giurisprudenza romana di duemila anni prima, con adattamenti e modificazioni assolutamente marginali. Solo scorrendo l’attuale disciplina dell’istituto, posta negli artt. 978 - 1026 c.c., tale impressione appare netta, sia per i tipi di oggetto che la legge ritiene di disciplinare specificamente (alberi, vigne, semenzai, miniere, ecc.), sia, ancora di più, per il contenuto del diritto (la facoltà, prevista dall’art. 981 c.c., di godere in maniera piena ed esclusiva della cosa, sia direttamente, sia tramite terzi facendone propri i frutti ed ogni altra utilità che la cosa stessa può dare, nel limite, imposto dalla legge, del rispetto della destinazione economica originariamente impressa dal proprietario, del tutto identica alla facultas utendi et fruendi salva rerum substantia concepita dal giudice romano). L’orizzonte storico e culturale ed il nucleo normativo dell’usufrutto sono, alla luce di quanto testé constatato in merito alle caratteristiche di fondo dell’istituto, molto lontane dal diritto societario attuale, e dalla nozione stessa di partecipazione sociale. Oggetto del diritto di usufrutto, negli artt. 978 ss. c.c., sono soltanto le cose materiali (e, cioè, ciò che è suscettibile di materiale apprensione e di possesso, oltre che di destinazione economica), con l’unica eccezione del precetto contenuto nell’art. 1000 c.c., che - innovando sul punto il codice civile italiano del 1 1865, che non conteneva alcuna disposizione in materia - disciplina “la riscossione di somme che rappresentano un capitale gravato d’usufrutto”. Se oggetto dei diritti reali sono (soltanto) “le cose che possono formare oggetto di diritti” (art. 810 c.c., la prima norma contenuta nel libro III del codice civile italiano vigente), un usufrutto che non ha ad oggetto “cose” non è in linea di principio teoricamente concepibile. Anche le somme di denaro di cui all’art. 1000 c.c. sono, in quest’ottica, cose materiali, così come lo è l’eredità, nei limiti in cui la stessa, ex art. 1010 c.c., può essere concepita come oggetto nel suo complesso di un diritto di usufrutto. Per la stessa ragione, si deve aggiungere, dovrebbe essere intesa nella sua materialità, quale insieme di “cose”, anche l’azienda, che può divenire oggetto di usufrutto ex art. 2561 c.c., così come l’azione di società per azioni che, già nell’originario testo del codice civile del 1942, l’art. 2352 c.c. enumerava tra le “cose” che possono essere oggetto di usufrutto, dettando, per tali beni, una specifica disciplina destinata ad aggiungersi a quella generale di cui agli artt. 978 ss. c.c. Dato tale quadro normativo, l’impianto ideologico pandettisitico, e comunque rigidamente concettuale e dottrinario, che ha ispirato per quasi tutto il ventesimo secolo gli interpreti italiani (prima, del codice civile del 1865; poi, del codice vigente del 1942), ha portato a dubitare, a seguito di dotte dissertazioni teoriche, avvitate sul rebus più generale dell’ammissibilità o meno di cosiddetti “diritti su diritti”, dell’ammissibilità stessa dell’usufrutto su beni immateriali, ritenendo la materialità dell’oggetto un requisito imprescindibile ai fini della possibilità stessa di concepire l’esistenza del diritto (cfr., per una sintesi molto chiara, L. BIGLIAZZI GERI, Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 211 ss.). I diritti di sfruttamento e di utilizzazione economica temporanea di brevetti o diritti di autore, non a caso ritenuti dal legislatore del 1942 materia del libro V del codice (oltre che di legislazione speciale) piuttosto che del libro III, non sarebbero suscettibili - in tale ottica - di essere qualificati come usufrutto in senso tecnico, così come, sempre in tale ottica, non sarebbe concepibile alcun diritto di usufrutto su quelle partecipazioni sociali che non sono e non possono essere incorporate in una cartula materiale, quali le partecipazioni in società di persone di qualsiasi tipo e le partecipazioni in società a responsabilità limitata, per le quali, non caso, il codice civile del 1942 non conteneva, nella sua originaria stesura, alcuna norma analoga a quelle contenute nell’art. 2352 c.c. in tema di azioni. Ulteriore conferma di tale conclusione veniva tratta dalla considerazione che, per i beni immateriali, sarebbe complicato individuare la modalità operativa del limite del rispetto della destinazione economica impressa dal proprietario, dal momento che quest’ultima nozione evoca di per sé, in linea con la tradizione storica, la necessità di un bene materiale. 2. (segue): l’usufrutto sui beni immateriali e le norme ad hoc dettate in tema di usufrutto di azioni e di quote di srl. La concezione tradizionale del diritto di usufrutto da ultimo rammentata, tuttavia, si è posta, con lo sviluppo tecnologico del secondo dopoguerra del secolo scorso e l’evoluzione dell’economia italiana che ne è conseguita, in irrimediabile contrasto con la realtà. L’idea originaria che sta alla base dell’elaborazione del diritto di usufrutto compiuta più di duemila anni fa dalla giurisprudenza romana non ha nella materialità dell’oggetto un sostrato imprescindibile. 2 Il cuore dell’idea, infatti, non ruota attorno alla cosa intesa in senso materiale, ma, piuttosto, deve essere colto nella contrapposizione tra un “titolare” ultimo oggi quiescente, e quindi “nudo”, ed un “titolare” provvisorio oggi attivo, che ha ogni facoltà di godere direttamente o indirettamente del bene di cui si tratta. Se l’idea stessa di godimento diretto presuppone in ultima istanza un rapporto tra un uomo ed una cosa materiale, la dinamica dei rapporti economici e sociali di società sempre più complesse presuppone la creazione di patrimoni riguardanti più cose, e, specificamente, più diritti su cose, quali l’eredità, l’azienda, i diritti di sfruttamento di beni immateriali, il patrimonio di una società o di qualsiasi altro ente. L’ordinamento giuridico, per regolare efficacemente tale complessità, sceglie: (i) di creare beni di secondo livello quali le partecipazioni sociali, elevando il patrimonio a persona giuridica, o comunque a soggetto di diritto; oppure, in maniera sempre più diffusa negli ultimi tempi, (ii) di istituire patrimoni separati, normalmente destinati dalla legge a perseguire in via esclusiva specifici scopi (si pensi anche alla stessa azienda o, per taluni istituti giuridici, all’eredità). Il legally vested interest, o, se si preferisce non mettere da parte la tradizionale impostazione dogmatica dei sistemi giuridici derivanti dal diritto romano e dalla rivoluzione francese, il diritto soggettivo, non può non tenere conto di questa complessa realtà sottostante, e, a tale fine, deve ammettere ed impiegare, in termini sempre più ampi, il concetto strumentale di bene immateriale (comprendendo, per sempre maggiori fini, le nozioni di avviamento commerciale, di know - how, di software, ecc.). L’idea romanistica dell’usufrutto, nata in un’altra economia, ha come tratto saliente la contrapposizione sopra evidenziata, ed è pertanto perfettamente espansibile ad ogni bene immateriale, coincidente in ultima istanza con la pretesa azionabile giuridicamente (o legally vested interest). Il fatto che il diritto di usufrutto sia tuttora disciplinato negli artt. 978 ss. c.c., con norme risalenti (sia in Francia, dove è stato emanato il primo codice civile moderno, sia in Italia o in Germania, dove sono stati emanati i successivi codici civili) ad una società preindustriale assai più simile a quella degli antichi romani di duemila anni prima piuttosto che a quella di duecento anni dopo in cui oggi viviamo, non impedisce all’interprete, sotto pena di perdere una fondamentale risorsa per disciplinare efficacemente gli interessi in gioco, di riconoscere che dove c’è un bene in senso giuridico, sia questo materiale o immateriale, deve poterci essere anche un usufrutto in senso tecnico. L’ammissibilità di un diritto di usufrutto su beni immateriali potrà richiedere un’interpretazione restrittiva del limite del rispetto della destinazione economica posto dall’art. 981 comma 1 c.c.: infatti, se la rilevanza di tale limite è espressamente ribadita dall’art. 2561 comma 2 c.c. per l’usufrutto di azienda, ovvero relativamente ad un oggetto che presenta elementi sia di materialità sia di immaterialità, non sembra che vi sia alcun ragionevole spazio per difendere l’applicazione del principio anche in caso di usufrutto su beni immateriali, dal momento che la destinazione economica costituisce necessariamente un collegamento tra un soggetto ed una cosa e, per tale ragione, non può operare né prescindendo totalmente dalla materialità (si pensi ad un usufrutto di un credito), né trasferendone la rilevanza dal bene immateriale direttamente oggetto di usufrutto al patrimonio che tale bene rappresenta (si pensi alla partecipazione sociale, per la quale parlare di destinazione economica non ha senso, ed all’insieme dei beni materiali che costituiscono il patrimonio della società, per i quali la destinazione economica ha senso in astratto, ma non in concreto, non esistendo su tali beni alcun usufrutto). 3 La prospettata mutilazione del precetto di cui all’art. 981 comma 1 c.c. non deve tuttavia creare problemi, dal momento che ogni norma trova applicazione soltanto quando l’oggetto in concreto del diritto ne consente l’applicazione. La riforma societaria italiana del 2001 - 2003, per parte sua, si pone senza esitazioni sulla strada da ultimo delineata, ammettendo espressamente nell’art. 2471 bis c.c., per la prima volta, seppure seguendo un’indicazione che la dottrina consolidata in materia di srl già da tempo suggeriva (in tema, i due scritti “classici” nella dottrina giuscommercialistica italiana sono quelli di A. ASQUINI, Usufrutto di quote sociali ed azioni, in Riv. dir. comm., 1947, p. 12 ss., e di G.M. RIVOLTA, Pegno ed usufrutto di quote di società a responsabilità limitata, in Riv. dir. comm., 1961, p. 205 ss.), e la stessa prassi negoziale recepiva, che anche le partecipazioni di società a responsabilità limitata possono essere oggetto, pure nella loro necessaria immaterialità, di un diritto di usufrutto regolato, per quanto non previsto da tale norma speciale (e dall’art. 2352 c.c. da quest’ultima richiamato), dagli artt. 978 ss. c.c. (in quanto applicabili ratione obiecti). Rimossa dunque, si ritiene, l’obiezione di fondo, non è necessario che, per ammettere un diritto di usufrutto in senso tecnico su bene immateriale, vi sia una previsione espressa di legge (come nel caso dell’art. 2471 bis c.c.), con la conseguenza che nulla osta ad ammettere altresì la possibilità di costituire diritti di usufrutto sulle partecipazioni di società di persone di qualsiasi tipo o di società cooperative, al pari di ogni altro ente anche non lucrativo che ammetta una qualsiasi forma di partecipazione (si pensi alle c.d fondazioni di partecipazione). 3. Le funzioni tradizionalmente svolte dalla costituzione di usufrutto. La funzione storica del diritto di usufrutto è legata, già nel diritto romano repubblicano, alle future vicende ereditarie della persona; non a caso ogni diritto di usufrutto che ha come titolare una persona fisica deve avere come limite massimo ed inderogabile di durata la vita della persona stessa (nel codice civile italiano, cfr. l’art. 979 comma 1 c.c.). L’usufrutto è, storicamente, il diritto che tutela la moglie dopo la morte del marito. La funzione primaria di tale diritto, infatti, era quella di garantire reciprocamente le posizioni patrimoniali della moglie e dei figli (di sesso maschile) dopo la morte del pater familias, riconoscendo alla prima il pieno ius utendi et fruendi vita natural durante (salva rerum substantia), ed ai secondi, fin dalla morte del loro padre, la proprietà di tutti i beni che componevano il patrimonio di quest’ultimo, quiescente nei propri aspetti di godimento, attiva nei propri aspetti di disposizione, oltre che di verifica del mantenimento della destinazione economica già impressa dal defunto ed insuscettibile di essere alterata dalla moglie usufruttuaria senza il consenso di tutti i nudi proprietari. Il fatto che tale diritto cadesse su beni materiali era, come si è cercato di sottolineare nel precedente paragrafo, non una necessità giuridica, ma, piuttosto, un mero dato di fatto, pregiuridico, attinente alle caratteristiche economiche della società del tempo ed al fatto che la ricchezza fosse allora rappresentata in primo luogo dai fondi rustici, poi dalle case di abitazione e dagli immobili produttivi (cave, miniere ed opifici), infine dal denaro. Nessun giureconsulto romano avrebbe dubitato - immagina chi scrive - che la caratteristica peculiare del diritto fosse l’estensione ad ogni elemento del patrimonio del de cuius, e non la sua limitazione a questo o a quel bene materiale. 4 I duemila anni di successiva storia del diritto di usufrutto prendono le mosse da questa primordiale, ma assolutamente fondamentale, funzione. L’ideologia deve fare un passo indietro: come non si è esitato, con il progresso della coscienza sociale, della possibilità di estendere l’usufrutto anche al marito, mano a mano che la moglie era titolata a possedere beni in proprietà, ai figli di sesso femminile, ai figli nati fuori dal matrimonio, ecc., così non si deve esitare ad estendere l’usufrutto, per non tradire la sua originaria funzione, ad ogni utilità o bene che costituisce il patrimonio della persona. All’espansione soggettiva è seguita quella oggettiva. La prospettiva ereditaria, del resto, è solo all’origine dell’istituto; già nel diritto romano il diritto poteva essere costituito, oltre che (mortis causa) sull’intera eredità o sua quota indivisa, anche (mortis causa a titolo di legato ed anche, ovviamente, inter vivos) su singoli beni. La costituzione inter vivos, storicamente, nasce per anticipare le future vicende successorie, garantendo da subito la definitività degli assetti post mortem, senza esporre i beneficiari all’incertezza dell’esistenza e della revocabilità del testamento. L’usufrutto può dunque avere per oggetto singoli beni produttivi, interi complessi di beni, come le aziende o i beni in società laddove oggetto (diretto) dell’usufrutto sia una partecipazione sociale, o anche l’intero patrimonio (in quel momento). Anche nell’attuale contesto storico tale funzione successoria o di preparazione successoria resta la dimensione caratteristica dell’istituto. Il ricorso all’usufrutto, in tale ottica, avviene principalmente attraverso la riserva apposta ad una donazione (eccezionalmente, ad una vendita o ad un’altra alienazione a titolo oneroso, come nel caso del contratto di rendita vitalizia o di mantenimento, oppure anche ad un atto di destinazione traslativo della proprietà, come nel caso di dotazione di un trust), anche nelle forme dell’usufrutto successivo (per sé e, dopo di sé, per il coniuge, o il convivente, o il discendente prossimo rispetto ad un nudo proprietario discendente remoto). Il ricorso all’usufrutto, sempre in tale ottica, può avvenire, naturalmente, anche in relazione al trasferimento di partecipazioni in società di ogni tipo (anche nell’ambito di patti di famiglia ex artt. 768 bis ss. c.c.), con il chiaro intento di pianificare, e spesso anche di “dosare”, il passaggio generazionale dell’impresa, o comunque dei beni che compongono il patrimonio sociale. Al di fuori di tale principale funzione di pianificazione successoria anche anticipata, il diritto di usufrutto può essere costituito per atto tra vivi anche in funzione di garanzia, sia, nel momento in cui si acquista un bene, per specifica garanzia del solvens come limite di un’intestazione di beni sotto nome altrui (discendente, coniuge, convivente, ecc.), sia, seppure meno diffusamente, al di fuori del momento dell’acquisto del bene di cui si tratta, al fine di garantire il godimento vitalizio di un bene strategico da parte di una persona che, in assenza del diritto, teme che quel bene non sia più lasciato a sua disposizione da parte del proprietario (es. genitore anziano rimasto vedovo che vende a terzi la propria residenza familiare storica e va a vivere, con il consenso di quest’ultimo, in una casa di proprietà di un parente). Inoltre, il diritto di usufrutto, per restare ad esempi immobiliari, può essere costituito per atto tra vivi, soprattutto dopo la riforma dell’imposizione patrimoniale degli immobili introdotta nel decreto c.d. Salva 5 Italia dal governo Monti, in funzione di ottimizzazione fiscale: si pensi al caso in cui più figli vivano in case intestate ai propri genitori ed in cui può essere oggi fiscalmente conveniente, oltre che del tutto legittimo, e prospetticamente strategico donare al figlio che abita la casa stessa un meno impegnativo diritto di usufrutto temporaneo (es. per la durata di anni cinque), piuttosto che la piena proprietà. 4. L’impiego dell’usufrutto in funzione di assets protection: considerazioni generali. Tra le funzioni teoricamente assegnabili alla costituzione di un usufrutto vi è anche la funzione di mettere al riparo i beni su cui l’usufrutto stesso viene costituito da eventuali pretese dei creditori. Nel presupposto che tale obiettivo sia perseguito, come emerge dal titolo del presente contributo, da parte di soggetto privo attualmente di creditori e che non ha in quel momento alcuna prospettiva di assunzione volontaria di debiti, nessuno può dubitare dell’assoluta meritevolezza di tale obiettivo. In tale ottica, un soggetto che teme, per l’attività svolta o per altre specifiche circostanze anche familiari, di potere incorrere nel futuro in obblighi di pagamento, responsabilità o anche insolvenze, potrebbe preferire, riservando a se stesso esclusivamente un diritto di usufrutto vitalizio, che i beni di cui è attualmente pieno proprietario vengano intestati, in linea di principio attraverso un atto di donazione, a propri stretti familiari che siano ritenuti, nel contempo, meritevoli, anche per la fiducia che il soggetto che intende proteggere il proprio patrimonio ripone in loro, di divenire i futuri pieni proprietari del bene di cui si tratta e non esposti a loro volta, sulla carta, a quel rischio di indebitamento che induce il dante causa a spogliarsi da subito della proprietà. In caso di successivo indebitamento e conseguente aggressione del patrimonio da parte dei creditori, infatti, colui che ha donato la nuda proprietà ed ha conservato il solo diritto di usufrutto vitalizio - in assenza dei presupposti, per l’assenza attuale di creditori e la mancanza di ogni preordinazione al riguardo, per l’esercizio dell’azione revocatoria ex artt. 2901 ss. c.c., e, in ogni caso, una volta prescritto il relativo termine - avrà normalmente ottenuto un buon risultato in termini di assets protection, dal momento che, da un lato, le utilità destinate all’usufruttuario ex artt. 981 e 984 c.c. sono comunque una parte (talora, come si vedrà in seguito, anche scarsamente significativa) delle utilità spettanti al proprietario, dall’altro lato, come l’esperienza insegna, l’esecuzione forzata relativamente ad un diritto di usufrutto anche vitalizio potrebbe trovare significative difficoltà nel reperire un acquirente “terzo” e quindi spianare la strada, di fatto, per un acquisto coattivo low cost da parte del medesimo nudo proprietario, o di altri comunque correlati a quest’ultimo. Invero, chi partecipa quale aspirante aggiudicatario ad una vendita forzata di un diritto di usufrutto vitalizio “scommette” sulla durata della vita dell’usufruttuario esecutato, dal momento che il diritto che acquista si estingue inderogabilmente, ex art. 979 comma 1 c.c., con la morte di tale soggetto, con la conseguenza che tale aggiudicatario avrà un diritto assolutamente precario. L’avente causa dall’usufruttuario è privo, infatti, anche di quelle garanzie minime di stabilità che la legge, nell’art. 999 c.c., concede al conduttore che ha concluso il contratto di locazione con il solo usufruttuario che, a determinate condizioni, può conservare una durata quinquennale extra mortem del proprio diritto personale di godimento (che, nel caso di estinzione dell’usufrutto acquistato a seguito di procedura esecutiva, non è invece dato di rinvenire). Il vantaggio che può essere ottenuto in funzione di assets protection tramite una costituzione del diritto di usufrutto non può comunque essere rafforzato attraverso la pattuizione dell’incedibilità del diritto in 6 deroga alla regola legale di cui all’art. 980 c.c., dal momento che tale incedibilità, riferita alle alienazioni volontarie e non estensibile a quelle coattive, non preclude in alcun modo l’instaurazione, relativamente a tale usufrutto, di un procedimento di esecuzione forzata per iniziativa di un creditore dell’usufruttuario stesso. Inoltre, in tutti i casi in cui si impiega il diritto di usufrutto in tale specifica funzione di assets protection, occorrerà prestare la massima attenzione, sia quando si costituisce l’usufrutto medesimo sia successivamente, al fine di evitare che anche il nudo proprietario possa essere debitore, solidale o anche sussidiario, con o senza beneficio d’ordine o di preventiva escussione, rispetto di coloro che possono dirsi creditori dell’usufruttuario, perché, in tutti questi ultimi casi, come è evidente, verrebbe meno ogni vantaggio della separazione tra nuda proprietà ed usufrutto, in considerazione del fatto che il creditore vanta un titolo che, una volta rispettate gli eventuali oneri di preventiva richiesta o di preventiva escussione nei confronti dell’usufruttuario, legittima all’azione esecutiva nei confronti di entrambi i titolari di diritti reali, dando luogo, alla fine, ad una vendita coattiva della piena proprietà. 5. “Possesso” del patrimonio intestato a società e dubbi sulla possibilità di ricorrere, anziché all’usufrutto, al diritto di uso ex art. 1021 c.c. Ai fini di assets protection, l’impiego dell’alienazione a stretti familiari della nuda proprietà con riserva di usufrutto in capo all’alienante nei termini sopra esemplificati, o, comunque, del diritto di usufrutto in altri casi comunque diffusi (si pensi al caso in cui la finalità venga realizzata nel momento in cui si acquista un determinato bene da un terzo o si costituisce una società), appare ipotizzabile in linea teorica, con riguardo ad ogni tipo di bene, materiale o immateriale, statico oppure produttivo, di “primo livello” oppure di “secondo livello” (come nel caso delle partecipazioni sociali). Tuttavia, agli stessi fini, laddove si tratti di beni materiali (immobili, ma anche mobili), l’impiego del diritto di usufrutto risulta nei fatti poco praticato, perché l’istituto più idoneo a realizzare siffatta specifica funzione è piuttosto rappresentato dal diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. (trattandosi di immobile ad uso abitativo o relativa pertinenza), oppure dal diritto di uso ex art. 1021 c.c. (trattandosi di immobile diverso dal precedente oppure di bene mobile), dal momento che, in entrambi i casi, si tratta di diritti non alienabili separatamente dalla proprietà (art. 1024 c.c.) e, per tale ragione, anche insuscettibili, per opinione dottrinale pacifica e prassi consolidata dei tribunali, di esecuzione forzata separatamente dalla proprietà stessa. In che misura quest’ultima soluzione rafforzata di assets protection, se così si può dire, può essere impiegata relativamente alle partecipazioni sociali? In materia, nell’esperienza di chi scrive, non esiste alcuna prassi. Con riguardo alle cose, ovvero ai beni materiali, la dottrina ritiene che l’oggetto del diritto di uso sia potenzialmente assai esteso, coincidendo con qualunque cosa risulti idonea a rendere possibile all’usuario l’acquisizione in modo diretto di date utilità materiali o frutti [cfr. M. TRIMARCHI, voce Uso (diritto di), in Enc. dir., Milano, 1992, p. 923]. Da tale punto di vista, non si vede una significativa differenza con il diritto di usufrutto: ogni cosa che può costituire oggetto di usufrutto può altresì costituire oggetto di uso, dovendosi la differenza rinvenire unicamente nel fatto che, nel caso specifico dell’uso, l’utilità ritraibile dal titolare consiste esclusivamente nel godimento diretto, nei soli limiti in cui ciò possa essere strumentale ai bisogni del titolare e della propria 7 famiglia (il che riduce il campo applicativo dell’istituto, per quanto riguarda gli immobili, a casi di scuola, come il caso del parco o del giardino, o dell’immobile di servizio rispetto ad un immobile abitativo che non è per sua natura suscettibile di divenire esso stesso oggetto del diritto di abitazione attraverso il regime giuridico delle pertinenze ex artt. 817 ss. c.c., e, per quanto riguarda i mobili, a situazioni comunque connotate dalla specifica natura della cosa, come nel caso di libri, opere d’arte, arredi, gioielli, mezzi di trasporto e pochi altri oggetti). Può il titolare del diritto di uso ritrarre dal bene un godimento di tipo indiretto, derivante dalla percezione di frutti o di altre utilità, a loro volta tuttavia acquisibili dal titolare del diritto di uso soltanto ove destinati a fare fronte ai bisogni del titolare del diritto o della sua famiglia? La dottrina, per le utilità diverse dai frutti, tende a dare a tale interrogativo una risposta negativa, sulla base della definizione di cui all’art. 1021 comma 1 c.c., che circoscrive il contenuto del diritto di uso, quanto ai proventi che possono dare luogo al c.d. godimento indiretto, alla sola possibilità di “raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia”. Se in tale nozione di frutti può comprendersi, si ritiene sempre in dottrina, il caso dell’immobile strumentale locato, dal momento che il tenore letterale dell’art. 1021 comma 1 c.c. citato non autorizza l’interprete a comprendere nella definizione normativa i soli frutti naturali, escludendo invece quelli civili (quali appunto il canone di locazione di un immobile), nella stessa non può invece comprendersi ogni altra somma di denaro non riconducibile alla definizione di frutti civili posta dall’art. 820 comma 3 c.c. , secondo cui “sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni”. La comprensione tra le facoltà dell’usuario di queste ultime utilità non può essere argomentata dall’art. 1026 c.c., dal momento che la delimitazione delle utilità spettanti all’usuario assume, attraverso la definizione dell’art. 1021 c.c., carattere tipologico, escludendo ogni compatibilità rispetto alla diversa posizione, al riguardo, dell’usufruttuario. La conclusione esce ulteriormente rafforzata dal confronto con il più ampio godimento indiretto consentito all’usufruttuario dall’art. 981 comma 2 c.c., secondo cui tale titolare di diritto reale su cosa altrui può “trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti in questo capo”, anche in considerazione del fatto che le “utilità” di cui all’articolo in oggetto si aggiungono ai frutti naturali e civili, la cui spettanza esclusiva all’usufruttuario è sancita dal successivo art. 984 c.c. Ne consegue che, se può in astratto concepirsi la costituzione di un diritto di uso su un’azienda - pure nel silenzio sul punto dell’art. 2561 c.c. (e dall’argomento a contrario che si potrebbe ritenere di ricavare dalla menzione del solo affitto nel successivo art. 2562 c.c.) - dal momento che il corrispettivo dell’affitto di azienda rientra comunque nella definizione di frutto civile posta dal citato art. 820 comma 3 c.c., non altrettanto può dirsi per quanto riguarda le azioni di società e le altre partecipazioni sociali, dal momento che esse, in quanto beni c.d. di secondo grado, non sono suscettibili di divenire oggetto di un contratto di affitto in senso tecnico. La difficoltà, nell’ottica del complessivo ragionamento che si sta seguendo, deriva - per le partecipazioni non azionarie - non dalla pretesa inammissibilità teorica di un diritto di uso ex art. 1021 c.c. su beni immateriali, dal momento che, sotto tale profilo, come già detto, non potrebbero non valere le medesime considerazioni sopra svolte con riguardo al diritto di usufrutto (con la conseguenza che non si vedono 8 difficoltà a costituire diritti di uso ex art. 1021 c.c. su beni immateriali suscettibili di generare frutti civili in senso tecnico, come potrebbe accadere, per esempio, per un brevetto o un diritto di autore), bensì dall’impossibilità di concepire - per tutte le partecipazioni sociali, azionarie e non azionarie - frutti civili secondo la definizione data dalla legge, tali non essendo i dividendi e le distribuzioni straordinarie del patrimonio sociale ai quali le partecipazioni sociali danno titolo. Ne consegue ulteriormente, ad avviso di chi scrive, che, pure nell’oggettiva opinabilità della materia (e, quindi, nella ritenuta non assoggettabilità a responsabilità disciplinare ex art. 28 della legge notarile del notaio che ricevesse un siffatto tipo di atto), la costituzione di un diritto di uso in senso tecnico ex art. 1021 c.c. relativamente ad azioni (anche dematerializzate o non emesse) di società per azioni o a partecipazioni in società a responsabilità limitata (o anche a società di persone) non potrebbe essere giustificata neppure dall’esigenza di impedire una libera alienazione della partecipazione stessa da parte del proprietario o titolare gravato, dal momento che la costituzione di un diritto su un determinato bene presuppone comunque che tale diritto abbia, nel caso di specie, un preciso contenuto, non rinvenibile nell’esempio al vaglio, stante l’assenza in capo al relativo titolare di ogni possibile facoltà di godimento sia diretto sia indiretto. Pertanto, la posizione definita in un ipotetico atto giuridico anche notarile di titolare di diritto di uso ex art. 1021 c.c su una qualsiasi partecipazione sociale dovrebbe essere riqualificata dall’interprete, se a ciò non ostano nel caso concreto altri elementi utili ai fini dell’interpretazione soggettiva ed oggettiva del contratto ex artt. 1362 ss. c.c., alla stregua di un vero e proprio diritto di usufrutto ex artt. 978 ss. c.c. e, trattandosi di società di capitali, ex art. 2352 c.c. o art. 2471 bis c.c. Per ottenere un valore aggiunto in termini di assets protection con riferimento a qualsiasi tipo di partecipazione sociale, conviene dunque concentrarsi sui vantaggi e sui limiti che possono derivare dall’impiego del diritto di usufrutto, rinunciando a percorrere la strada alternativa del diritto di uso ex art. 1021 c.c. 6. Tecniche negoziali per la valorizzazione dell’usufrutto di partecipazioni sociali in funzione di assets protection. Ogni partecipazione sociale può costituire, come si è visto, oggetto di usufrutto ed essere impiegata in funzione di assets protection. 6.1. Società di persone. Non vi è alcun dubbio che anche relativamente alle partecipazioni di società di persone si possa costituire un diritto di usufrutto (in tale senso, in dottrina, C. ANGELICI, Usufrutto di quote nella società in accomandita semplice, in Studi e materiali del Consiglio nazionale del Notariato, Milano, 1995, p. 274 ss.; F. CORSINI, Note in tema di usufrutto su quote di società di persone, in Notariato, 1998, p. 353 ss.; A. MICHINELLI, Pegno ed usufrutto di quote di società in accomandita semplice alla luce delle recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Giur. comm., 1998, II, p. 199 ss.; in giurisprudenza, Trib. Trento, 17 gennaio 1997, in Giur. comm., 1998, II, p. 188 ss.; Trib. Milano, 16 luglio 1988, in Giur. it., 2009, p. 650 ss.; Trib. Verona, 10 ottobre 1996, in Società, 1997, p. 913 ss.), non solo attraverso vicende della partecipazione sociale successive alla costituzione, ma anche direttamente in sede di atto costitutivo. L’impiego a tale fine di una partecipazione in società personali appare tuttavia meno efficiente rispetto all’analogo impiego in società di capitali. 9 Infatti, una consolidata dottrina, avallata anche da alcuni precedenti giurisprudenziali di merito (Trib. Bologna, 24 aprile 2001, in Società, 2002, p. 495 ss.; Trib. Biella, 23 ottobre 1999, in Dir. fall., 1999, II; p. 1250 ss.; Trib. Parma, 7 febbraio 1998, in Giur. merito, 1999, p. 527 ss.), ritiene che colui che acquisisce in qualsiasi società di persone la posizione di usufruttuario della partecipazione sociale non possa essere considerato socio e, conseguentemente, alla luce dell’idea tradizionale che solo chi è socio possa assumere tale veste (la legge, invero, si limita a porre espressamente tale precetto nell’art. 2318 comma 2 c.c., per quanto riguarda il socio accomandatario di società in accomandita semplice), da un lato divenire amministratore della società, dall’altro lato acquisire responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali. L’impossibilità di divenire amministratore della società - presidiata nella prassi operativa dai controlli di legalità dello stesso ufficio del registro delle imprese, che in molte realtà locali rifiuta l’iscrizione dell’atto notarile che abbia riservato a colui che è solo usufruttuario della partecipazione sociale qualsiasi potere di amministrazione - contribuisce indubbiamente a rendere il ricorso al diritto di usufrutto nelle società di persone meno appetibile, dal momento che impedisce al relativo titolare (che non conservi altresì una residua partecipazione in piena proprietà) di assumere la veste di amministratore e, quindi, di conservare qualsiasi potere di gestione della società (in tema, cfr. anche Usufrutto su quote di società in accomandita semplice, Quesito di impresa n. 235 – 2014/I del Consiglio nazionale del Notariato del 7 maggio 2014). Tuttavia, non può tacersi come, soprattutto nelle società semplici, il socio corre il rischio che, ai sensi dell’art. 2270 comma 2 c.c., la propria partecipazione venga aggredita dal creditore particolare, ove gli altri suoi beni siano insufficienti a soddisfare i suoi crediti, con conseguente esclusione di diritto ex art. 2288 comma 2 c.c. ed immediata facoltà per il creditore stesso di agire contro la società debitrice della somma di denaro corrispondente al valore di liquidazione della partecipazione, senza che il vincolo di destinazione impresso dal contratto sociale sul patrimonio della società possa impedire tale esito. Ne consegue che, per prevenire siffatto esito, il socio di società semplice potrà desiderare di ritagliarsi, già in sede di costituzione della società o anche successivamente con un atto di cessione della nuda proprietà della partecipazione (destinato a dare luogo, secondo l’opinione dominante, ad una vera e propria modificazione del contratto sociale ex art. 2252 c.c., stante il passo indietro che impone in merito alla distribuzione degli utili al socio nudo proprietario), la veste di semplice usufruttuario, nonostante la rinuncia ai poteri amministrativi che essa comporta secondo l’opinione oggi dominante. Il rischio che la società corre in caso di aggressione del patrimonio dell’usufruttuario da parte di un creditore particolare è, invero, se si accetta la premessa secondo cui quest’ultimo non è socio, esclusivamente quello di subire un pignoramento dei crediti che, in tale veste, egli ha maturato verso la società ex art. 2262 c.c., in quanto risultanti da rendiconto approvato e, si badi bene, per i quali il contratto sociale non richieda, in deroga a quest’ultimo articolo, alcuna deliberazione dei soci ai fini della loro immediata distribuzione. La posizione di mero usufruttario della partecipazione sociale, dunque - per quanto precluda al titolare ogni ingerenza nell’amministrazione della società ed anche ogni possibilità di intervenire e condizionare le vicende modificative del contratto sociale, che, una volta che l’usufrutto è stato costituito, restano di competenza dei soli soci - può permettere, soprattutto se accompagnata da una clausola del contatto di società che, in deroga all’art. 2262 c.c., richiede una deliberazione dei soci per la distribuzione degli utili, una significativa forma di protezione del patrimonio sociale di fronte al rischio rappresentato dalla presenza di futuri creditori particolari di tale soggetto partecipante all’iniziativa sociale. 6.2. Società di capitali. 10 La veste di usufruttuario può essere assunta direttamente in sede di stipulazione dell’atto costitutivo di una società di capitali, sia che si tratti di una società per azioni sia che si tratti di una società a responsabilità limitata, e ciò indipendentemente da colui o coloro che eseguono il conferimento. La conclusione, valida per ogni tipo di società, assume, per le società di capitali, una conferma normativa oggi testuale. In tema di società per azioni, infatti, dopo la riforma del 2001 - 2003, ai sensi dell’art. 2346 comma 4 secondo periodo c.c., lo statuto può prevedere un’assegnazione delle azioni in misura diversa rispetto alle due regole base di proporzionalità previste nel precedente periodo, attinenti, rispettivamente, alla proporzionalità tra conferimenti eseguiti e capitale sottoscritto (la prima) e tra quest’ultimo valore ed il numero delle azioni assegnate (la seconda). La stessa disciplina è prevista per le società a responsabilità limitata dall’art. 2468 comma 2 c.c. Ne deriva che anche colui che esegue l’intero conferimento potrebbe scegliere, in forza delle citate norme, non solo di sottoscrivere una parte soltanto delle azioni o delle partecipazione sociali, ma anche di limitare il proprio diritto all’usufrutto dell’intero capitale sociale o di parte di esso - attribuendo la veste di socio a soggetti terzi - e ciò, a differenza di quanto accade per le società di persone, conservando la facoltà (per le srl, in realtà, soltanto ove l’atto costitutivo deroghi la regola suppletiva posta dall’art. 2475 comma 1 c.c., secondo cui la veste di amministratore spetta soltanto ai soci) di amministrare la società eventualmente anche nella veste di amministratore unico. Vi è tuttavia un caveat. La disposizione dell’art. 2479 comma 1 c.c., nella parte in cui riserva alla competenza della decisione dei soci ogni argomento che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale sottopongono ad essa, è ritenuta inderogabile in minus da parte dell’atto costitutivo, in quanto espressione di una sovranità dei soci proprietari che, in tale specifico tipo sociale, è ritenuta espressione di un principio di corretta governance. Pertanto, colui che, pure avendo eseguito l’intero investimento, è intenzionato a “ritirarsi” nella posizione di usufruttuario e di amministratore dovrà valutare, anche alla luce delle considerazioni che si faranno di seguito in merito all’opportunità di concedere il voto al nudo proprietario, l’opportunità di accollarsi il rischio che, avvalendosi i soci di tale norma, egli perda quella riserva del potere gestorio che aveva immaginato per sé nella specifica veste di amministratore. Non accettando di assumere quest’ultimo rischio, il soggetto in parola potrà, in alternativa, ipotizzare di scegliere il tipo azionario, dal momento che, in quest’ultimo modello, non solo non esiste una norma analoga a quella testé riferita per le srl, ma esiste, tutto al contrario, un vero e proprio divieto per lo statuto di riservare alla competenza dell’assemblea qualsiasi atto di gestione per il quale non sia la legge stessa a prevedere una competenza assembleare [arg. ex art. 2364 comma 2 n. 5) c.c., in raffronto con l’art. 2364 comma 2 n. 4) c.c. prima della riforma del 2001 - 2003]. In tale ultimo caso tuttavia, poiché la nomina come amministratore non può essere prevista per un periodo superiore a tre esercizi (art. 2383 comma 2 c.c.), l’usufruttuario - amministratore dovrà avere lo scrupolo, per chiudere il cerchio e garantirsi piena tutela giuridica, di fare sì che il voto nelle (sole) assemblee convocate per la nomina degli amministratori spetti in ogni caso, secondo la regola generale posta dall’art. 11 2352 c.c., ad esso usufruttuario, e non, come pure quest’ultimo articolo consente (e come normalmente accadrà quando l’usufrutto è posto in essere in funzione di assets protection), al socio. Le considerazioni testé fatte valgono anche per il caso in cui la sottoscrizione delle azioni o delle partecipazioni sociali avvenga in sede non di atto costitutivo, bensì di aumento del capitale sociale a pagamento. Esse, infine, valgono anche per colui che, essendo già azionista o titolare di partecipazioni di srl quale pieno proprietario, intenda “ritirarsi” nella posizione di mero usufruttuario delle azioni o delle partecipazioni mediante donazione o altro atto di trasferimento della proprietà con riserva a proprio favore dell’usufrutto (vitalizio o anche a termine con data certa o altrimenti determinato). In tutti i casi in cui colui che ha investito risorse in una società di capitali abbia deciso di assumere la posizione di mero usufruttuario delle azioni o delle partecipazioni sociali, accettando che la nuda proprietà sia intestata a familiari o ad altri soggetti di sua fiducia, i dividendi (e le eventuali distribuzioni di riserve da utili) spettano all’usufruttuario, dal momento che, pure non costituendo frutti civili in senso tecnico, rientrano nel perimetro di quelle utilità definite come contenuto dell’usufrutto dall’art. 981 comma 2 c.c. Allo stesso modo, in tutti i predetti casi, spetta all’usufruttuario il diritto di voto in ogni assemblea. Tuttavia, mentre la spettanza all’usufruttuario dei dividendi e delle altre somme distribuite dalla società ripartendo le riserve da utili è ritenuta inderogabile, in quanto corrispondente al contenuto del diritto di usufrutto (cfr. art. 981 comma 2 c.c.) e, in ultima istanza, garantito dal principio di tipicità dei diritti reali (anche su beni immateriali o altri diritti non aventi per oggetto cose), la titolarità in capo all’usufruttuario del diritto di voto può essere derogata, per espressa previsione dell’art. 2352 c.c., richiamato per le srl dall’art. 2471 bis c.c., a favore del socio. Quest’ultima deroga dovrà essere contenuta nell’atto costitutivo dell’usufrutto, salva sempre la facoltà dello statuto di intervenire nella materia a priori e, anche ribaltando la regola legale, limitare o addirittura escludere ogni espressione dell’autonomia privata al riguardo. Come si deve porre colui che assume la veste di mero usufruttuario per finalità di assets protection di fronte a tale espressa facoltà legislativa? Conservando in capo a se stesso il pieno diritto di voto garantito dall’art. 2352 c.c., egli corre il rischio che, in caso di sopravvenienza di creditori particolari, questi possano esercitare direttamente tale diritto di voto (ex art. 2900 c.c., in esercizio di un’azione surrogatoria, oppure, in alternativa, a seguito di un sequestro conservativo o di un pignoramento del diritto di usufrutto), con conseguente opportunità di derogare tale soluzione legislativa già in sede di costituzione del diritto di usufrutto? La risposta, ad avviso di chi scrive, è che: - quanto al rischio di esercizio da parte dei creditori di azione surrogatoria, il diritto di voto in società di capitali non sembra rientrare nella definizione dei diritti esercitabili dal debitore verso terzi ex art. 2900 comma 1 c.c., dal momento che non si tratterebbe, nel caso di specie, di diritti che il titolare “trascura di esercitare”; - quanto invece al rischio che il creditore dell’usufruttuario, ove nominato custode, assuma permanentemente la facoltà di esercizio del diritto di voto a seguito di sequestro conservativo o di 12 pignoramento del diritto di usufrutto, è lo stesso art. 2352 c.c. a dare la risposta positiva, a nulla ostando che la norma, nella parte in cui estende al sequestro delle azioni o delle partecipazioni sociali in srl (in quest’ultimo caso, con il limite dell’art. 2471 c.c., nella parte in cui limita la vendita coattiva nel caso in cui queste ultime partecipazioni non siano liberamente trasferibili) la regola che sottrae il voto al legittimo titolare, sia applicata a danno dell’usufruttuario, anziché direttamente a danno del socio pieno proprietario; a tale riguardo, sorge soltanto il dubbio di quale sia lo strumento che può consentire stragiudizialmente, ex art. 2900 comma 2 c.c., al creditore dell’usufruttuario titolare del diritto di voto di presentarsi in assemblea e pretendere di esercitare il diritto di voto in luogo del socio che ne è titolare, operando le necessarie distinzioni a seconda che si tatti di società per azioni sottoposta al TUF, di società per azioni regolata dal solo codice civile oppure di società a responsabilità limitata. Ne consegue che, laddove si ricorra alla costituzione dell’usufrutto in funzione di assets protection, l’usufruttuario che teme di potere essere in futuro esposto a sequestro o pignoramento del diritto da parte dei propri creditori particolari dovrà valutare attentamente se derogare all’art. 2352 c.c., lasciando per intero il diritto di voto in capo al nudo proprietario, oppure, come è realistico suggerire nella maggior parte dei casi, nel presupposto che la legge non pretenda che il titolare del diritto di voto sia sempre l’uno o l’altro soggetto una volta per tutte, limitare il proprio voto a quegli aspetti in cui ritiene prevalente l’esigenza di non privarsi di poteri fondamentali di governance societaria oppure, in diversa e quasi opposta prospettiva, che un esercizio del voto direttamente da parte di un custode non possa creare alcun rilevante danno alla società. Tra le ipotesi in cui, in quest’ultima ottica, il diritto di voto potrà essere esercitato soltanto dal socio, merita di essere sottolineata la deliberazione in tema di distribuzione degli utili (o delle riserve da utili destinate a loro volta all’usufruttuario), dal momento che, una volta che tale deliberazione è stata adottata, l’usufruttuario diviene creditore della società ed il suo creditore particolare può senz’altro agire contro la società pignorando il credito o chiedendo coattivamente il pagamento ex art. 2900 c.c. Non si può tuttavia escludere che quest’ultima scelta di protezione verso i propri futuri eventuali creditori particolari esponga l’usufruttuario al rischio, tutt’affatto diverso ma in molti casi altrettanto “temibile”, che i soci divenuti titolari del diritto di voto, anche se si tratta di propri figli o soggetti ritenuti inizialmente di stretta fiducia, preferiscano evitare ogni distribuzione, pregiudicando la redditività attuale dell’usufruttuario, pure in ipotesi in bonis, a vantaggio della propria redditività futura, una volta che l’usufrutto si sarà estinto per morte del titolare. Di fronte a tale prospettiva, l’usufruttuario stesso potrà comunque cautelarsi, cercando un trade - off tra le due opposte prospettive di rischio, imponendo, per esempio, una clausola statutaria secondo cui, fino ad una certa somma variamente determinata in base alle proprie presumibili esigenze anche future, gli utili siano distribuiti tra gli aventi diritto a prescindere da ogni deliberazione assembleare e, quindi, nonostante il diritto di voto in tali assemblee continui a spettare senza eccezioni, in deroga all’art. 2352 c.c., al socio nudo proprietario. Merita infine menzione un’ultima possibile cautela negoziale: poiché l’art. 2352 comma 6 c.c., richiamato per le srl dall’art. 2471 bis c.c., prevede che i diritti amministrativi diversi da quelli contemplati nei precedenti commi (in pratica: il diritto individuale di controllo ex art. 2476 comma 2 c.c., il diritto di chiedere la revoca cautelare degli amministratori ex art. 2476 comma 3 c.c. ed il diritto di impugnare le deliberazioni assembleari o le decisioni dei soci) siano esercitati sia dal socio sia dall’usufruttuario, potrà 13 essere opportuno che, per uno o più di tali diritti amministrativi, l’atto costitutivo dell’usufrutto, volendo scongiurare un esercizio di tali diritti da parte del creditore particolare dell’usufruttuario, intervenga ritenendo la dottrina dominante che si tratti di norma derogabile (cfr., per tutti, C. GATTONI, Art. 2471 bis, in Commentario Marchetti - Bianchi - Ghezzi -Notari, Milano, 2008, p. 439) - limitandone la spettanza al solo socio. Vi è infine da considerare, sempre nell’ottica di una più efficace forma di assets protection, quali siano le cautele da suggerire in relazione all’eventualità che, in caso di partecipazioni sociali in usufrutto, la società di capitali proceda ad operazioni di aumento del capitale o a distribuzione di riserve. A tale fine, come è evidente, occorre partire dalla ricostruzione della disciplina legale in assenza di specifiche clausole nell’atto costitutivo dell’usufrutto. In caso di aumento del capitale sociale a pagamento, l’art. 2352 comma 2 primo periodo c.c., richiamato per le s.r.l. dall’art. 2471 - bis c.c., prevede che “se le azioni attribuicono un diritto di opzione, questo spetta al socio ed al medesimo sono attribuite le azioni in base ad esso sottoscritte” (sottinteso: in piena proprietà). In caso di aumento gratuito del capitale sociale, invece, l’art. 2352 comma 3 c.c., richiamato per le s.r.l. dall’art. 2471 - bis c.c., prevede che “il pegno, l’usufrutto e il sequestro si estendono alle azioni di nuova emissione”. Nulla infine è previsto dalla legge in merito alla distribuzione di riserve da parte della società, pure potendosi ritenere che la regula iuris possa essere comunque ricavata dai principi del diritto societario e dalle norme che definiscono il contenuto del diritto di usufrutto; infatti, per regola generale di diritto societario, la distribuzione opera a favore del nudo proprietario, in quanto socio, mentre, per regola ricavabile dalla disciplina del diritto di usufrutto, e precisamente dall’art. 981 comma 2 c.c., secondo cui l’usufruttuario “può trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti in questo capo”, le distribuzioni di riserve da utili spettano all’usufruttuario, in quanto utilità accantonate al momento della percezione e distribuite solo successivamente; in senso contrario alla spettanza al solo socio nudo proprietario del diritto di percepire le somme dovute dalla società a seguito di distribuzione di riserve da capitale, invero, non sembra che possa addursi il precetto del citato art. 981 comma 2 c.c., ma sembra preferibile, mettendo l’accento sulla specialità della normativa del libro quinto quoad obiectum, ritenere che il diritto spetti al socio nudo proprietario in applicazione del principio posto (a tutela dell’investimento) per gli aumenti del capitale a pagamento dall’art. 2352 comma 2 c.c., piuttosto che all’usufruttuario in base all’art. 981 comma 2 c.c. Ciò, si badi bene, nella consapevolezza che, da un lato, la legge, per favorire la certezza del diritto, abbia disposto - per il caso dell’aumento del capitale sociale con diritto di opzione - sulla base dell’id quod plerumque accidit (il sottoscrittore si paga l’investimento, a nulla rilevando che, in determinati casi, il prezzo potrebbe essere inferiore al valore effettivo delle partecipazioni sottoscritte, determinandosi in tale modo una parziale espropriazione del plusvalore inespresso delle azioni detenute dall’usufruttuario prima dell’aumento), dall’altro lato, assumendo tale precetto come espressione di un principio generale che dà preferenza a colui che ha eseguito l’investimento rispetto a colui che vanta un generale diritto alle utilità derivanti dalle azioni applicabile anche in caso di distribuzione di riserve da capitale, non si possa escludere che, nello specifico caso, la riserva da capitale derivi da vicende societarie svoltesi per intero in costanza del diritto di usufrutto, con la conseguente analoga espropriazione del valore economico che avrebbe dovuto 14 essere destinato all’usufruttuario medesimo, in ossequio, anche questa volta, al principio di certezza del diritto. Considerazione, quest’ultima, che non può non confermare - dal momento che la certezza del diritto privilegiata dal legislatore non deve andare a discapito dell’interesse delle parti di compiere nel caso concreto una diversa scelta - la piena derogabilità della norma (come sopra interpretata) in forza di clausola contenuta nell’atto costitutivo di usufrutto (ed anche in forza di clausola contenuta nell’atto costitutivo o nello statuto della società), sia in forma di titolarità del diritto alla distribuzione diversa da quella sopra ipotizzata per legge ed opponibile alla società (es.: tutte le riserve da capitale sono distribuite a favore dell’usufruttuario e non al socio), sia in forma di diritto di credito pecuniario dell’usufruttuario, ferma la soluzione legale nei confronti della società, di ottenere dal nudo proprietario che ha riscosso la riserva da capitale una parte dell’importo percepito corrispondente alla parte di riserva da capitale formatasi in costanza del diritto di usufrutto. Se così stanno le cose per legge, e se, in caso di usufrutto di azioni o altre partecipazioni sociali in funzione di assets protection, l’usufruttuario che intende proteggersi dalle pretese di futuri creditori personali non può comunque derogare la regola specifica che riconosce a lui solo i proventi derivanti da distribuzione di riserve di utili, stante il carattere tipologico dell’art. 984 comma 1 c.c., con l’inderogabilità che ne deriva, come già sopra sottolineato, non resterà altro che prevedere che - al di là di quanto pattuito in generale, o per altre specifiche ipotesi di deliberazione - il voto nella assemblee convocate per la distribuzione di riserve (in generale, oppure, più restrittivamente, soltanto da utili) spetti, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2352 c.c., soltanto al socio nudo proprietario. FEDERICO TASSINARI 15