Psicopatologia e Clinica relazionale

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Psicopatologia e Clinica relazionale
a cura di
Paolo Gritti
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 Roma
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I edizione: ottobre 
Indice
7. Introduzione
Paolo Gritti
Note sull’andar per il mare della clinica relazionale
PARTE I
La psicologia relazionale fra Natura e Cultura
23. Gianluca Resicato
La psicogenesi dei disturbi psichici:sinergie ed antitesi tra teorie
sistemiche e stili di attaccamento
45. Isabella Lo Castro
Il matrimonio interculturale:una variante a più colori del
matrimonio fra famiglie
PARTE II
La sofferenza psichica nello sviluppo della persona
61. Berniero Ragone
I disturbi pervasivi dello sviluppo tra vincolo biologico e
relazioni affettive
81. Laura Melara
Il rischio psichico in adolescenza:figli difficili nella cultura
dell’antistato
5
6 Indice
PARTE III
Mente e corpo nella prospettiva relazionale
107. Donatella Bottiglieri
L’arcipelago delle relazioni omosessuali
121. Ester Livia Di Caprio
L’anoressia mentale: fuga dall’ horror vacui familiare
139. Maria Rosaria Marra, Marinella Rotondo
Il lavoro sistemico con l’handicap: sfruttare le risorse relazionali
Psicopatologia e Clinica relazionale
ISBN 978-88-548-6496-2
DOI 10.4399/97888548649621
pag. 7–22 (ottobre 2013)
Introduzione
Paolo Gritti
Note sull’andar per il mare della clinica relazionale.
A tai memorie il Laerziade, preso
L’ampio ad ambe le man purpureo manto,
Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,
Vergognando, che lagrime i Feaci
Vederserlo stillar sotto le ciglia.
Omero, Odissea, Libro VIII
1. Un periglioso viaggio
Venti anni or sono, siamo nel 1992, quattro terapeuti e didatti di
psicoterapia della famiglia e della coppia decidono di incontrarsi per
discutere di casi clinici. Il loro incontro non è casuale. Uno di loro, il
più anziano, è stato, in passato, il loro formatore. In seguito è divenuto
il collega degli altri tre. Un consolidato legame affettivo li unisce. E’
lui che promuove questa iniziativa, mossa solo dal desiderio di evitare
le secche di una attività professionale intensa ma sterile di nuovi stimoli culturali per avventurarsi nel mare aperto della ricerca clinica.
Cosicché i quattro prendono l’abitudine di incontrarsi periodicamente
narrandosi casi clinici, semplici o complessi, tuttavia intriganti. Essi si
danno un nome: Nexus. Il nome designa lo scopo del gruppo. Indagare
la trama che connette storie cliniche, vite vissute, esperienze affettive,
relazioni terapeutiche con l’ordito della cultura di cui ciascuno dei
personaggi raccontati e dei clinici in conversazione è portatore. Dunque, il Gruppo Nexus si designa come fautore di una versione culturalista della cura della parola. La cultura è intesa come matrice primigenia di significati, trasmessa e modulata dalle comunità umane, la famiglia in primo luogo.
In questa cornice di senso, prendersi cura della sofferenza delle
persone significa esplorare le cornici culturali, personali e collettive,
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Gritti
entro le quali si esprime tale sofferenza. Di una esplorazione, infatti,
si tratta, perché non può darsi per inteso di conoscere tali premesse,
proprie e altrui. Esse ci attraversano, ci governano nostro malgrado.
La consapevolezza delle proprie matrici culturali è flebile ma soprattutto ingannevole perché crediamo erroneamente di poterci affrancare
da esse mentre, al contrario, ne siamo attori e divulgatori accaniti, sovente in assoluta cecità. Il Gruppo Nexus indaga le storie
cliniche nella posizione dell’antropologo che esplora comportamenti,
rituali, affetti, organizzazioni umane per provare a descrivere ed intendere, per la prima volta, una cultura a lui solo affine o del tutto
estranea. Il sintomo diviene espressione di una specifica struttura culturale trasmessa, condivisa, trasformata nelle generazioni e nelle comunità e la psicopatologia dell’uomo assume anche il carattere di una
mappa descrittiva di un territorio variegato, complesso ed ancora sconosciuto. Nexus ha la necessità preliminare di riconoscere le proprie
matrici culturali e le ravvede nelle culture mediterranee che hanno colonizzato il mare di mezzo fino a lambire la rocca di Partenope. Culture votate alla navigazione, alla inquieta peregrinazione, alla inesausta
curiosità , alla scelta di vite mutevoli, al conflitto, ai legami lontani,
agli incontri rischiosi. L’odissea del ritorno a casa di Ulisse diviene
per Nexus la trama narrativa idonea a collegare fra loro le storie cliniche raccolte nel corso della navigazione nelle acque profonde della
psicopatologia. I quattro si convincono, finanche, che l’Odissea medesima sia una sorta di trattato di psicopatologia descrittiva ante litteram
e che i casi clinici che si vanno narrando possono essere meglio compresi se a quel testo commisurati. Ognuno dei pazienti incontrati diviene epigono dei ben noti interlocutori di Ulisse ed egli medesimo
viene inteso come il prototipo delle umane fragilità psichiche. I membri del gruppo si convincono infine che la varietà delle condizioni cliniche descritte può essere ricondotta ad alcune strutture psicologiche
descritte dal cantore omerico e che, nella connessione fra cultura, personalità e biografia, sia possibile intendere qualcosa in più dei nostri
pazienti e delle loro trame relazionali.
Con l’andar del tempo e del viaggio, il gruppo Nexus si fortifica di
esperienze cliniche condivise e matura la consapevolezza di poter rendere partecipi giovani colleghi delle competenze acquisite in mare
anche sulla terraferma di un istituto di formazione dedicato alla clinica
Note sull’andar per il mare
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delle relazioni umane secondo il modello sistemico-relazionale.
Nasce così Ecopsys, acronimo anglosassone del Collegio Europeo di
Scienze Psicosociali. Il riferimento ai contesti interpersonali non è casuale. E’ nel campo psicosociale che la salute e la sofferenza del soggetto si intrecciano con le vite altrui, con il tramite del dialogo, della
parola spesa nell’incontro o nel conflitto ed è in esso che si situa il lavoro clinico di Ecopsys. La conversazione terapeutica con le famiglie,
con le coppie e con i pazienti sembra a questi naviganti la migliore
opportunità per indagare i nessi esplicativi fra soggettività e relazione
e fare di questo intreccio la matrice di mutamenti interni ed interpersonali forieri di maggiore consapevolezza ma anche di guarigione.
Ecopsys inizia le proprie attività didattiche solo nel 2006. La gestazione è stata lunga e complessa ed ha imposto anche la rinuncia ad
una perenne navigazione senza scalo. Da allora, tuttavia, l’andar per il
periglioso mare della clinica appassiona un numero sempre maggiore
di neofiti. Gli studenti di Ecopsys, guidati dai loro didatti, ripercorrono rotte già note della psicopatologia ma altre, del tutto nuove, né
esplorano. Queste sono le forme del malessere che attraversano la nostra epoca, da alcuni definita ipermoderna. Nuove versioni di malattia
ma anche nuove patologie mutuate dalla cultura dell’immagine, del
qui e ora, della fruizione immediata dell’oggetto, della virtualità dei
legami. L’equipaggio si accresce e diversifica i ruoli. Il nocchiero arruola giovani e brillanti didatti, anch’essi sopravvissuti alle intemperie
della formazione clinica e didattica con lui. Tutti costoro, i vecchi e
nuovi compagni di avventura, condividono anche l’attenzione alle categorie dell’inconscio, frutto delle proprie esperienze come pazienti in
analisi, nel convincimento che intrapsichico ed interpersonale sono
vasi comunicanti della identità personale e collettiva.
1.1
Siamo ad oggi. La prima testimonianza del lavoro formativo e clinico di questi primi cinque anni di vita di Ecopsys è questo testo, tratto dalle relazioni dei didatti della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Famiglia presentati e discussi in occasione della Summer
School 2010 di Ecopsys, centrata sulla psicopatologia delle relazioni.
Essi vertono sul tema della dimensione relazionale della psicopatolo-
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gia ma includono, altresì, riflessioni sulla pertinenza del pensiero sistemico-relazionale nella declinazione del rapporto fra salute e sofferenza. La collana di studi e ricerche di Ecopsys si apre, quindi, sul tema centrale della psicologia e della psicoterapia sistemico-relazionale,
nonché sulla questione che né segna le origini e lo sviluppo storico: la
riflessione sulla natura contestuale del sintomo e della malattia non
viene corroborata da analogo impegno nella esplorazione dei contesti
relazionali che promuovono la salute. Questa omissione orienta tutti
gli scritti dei pionieri del modello, condiziona le ricerche empiriche
degli esordi e permea la clinica psicoterapeutica al punto da generare,
nel tempo, una distorsione culturale. Anche il processo terapeutico
viene condizionato da questa originaria omissione, nella misura in cui
prende spesso la via della riparazione o, se si vuole, della restitutio ad
integrum, inficiando così la natura trasformativa della cura psicologica
dei contesti interpersonali che pure è dichiarata nelle premesse epistemologiche del modello. Solo nella metà degli anni ottanta la ricerca
empirica, più che la pratica clinica, torna a interrogarsi sul pattern che
connette le risorse e i vincoli relazionali nella modulazione del benessere e del disagio soggettivo.
1.2
Nel testo la psicopatologia e la clinica sistemico-relazionale sono
presentate e discusse nella variante antropologico-culturale elaborata
dai didatti e dai clinici di Ecopsys. Essa riconosce il proprio retaggio
culturale nelle opere di Bowen, Framo, Boszormeniy-Nagy, Minuchin, Whitaker ma valorizza, altresì, i contesti e i meta contesti antropologici, culturali, valoriali entro i quali si organizzano ed evolvono i
sistemi umani nella salute e nella sofferenza secondo il magistero di
Lévi-Strauss, Bateson, De Martino.
Icona del volume e metafora della posizione terapeutica, è Ulisse,
nel suo peregrinare alla riconquista delle proprie radici, mosso dal
tormento inesausto della conoscenza, sempre tentato dalla seducente
opportunità di rinunciare al ritorno a casa, eppure sempre pronto a riprendere il viaggio periglioso e osteggiato dagli Dei. Ulisse è l’uomo
moderno, consapevole della centralità del soggetto nelle sue declinazioni intersoggettive e del potere mutativo della parola e
Note sull’andar per il mare
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dell’azione,ma anticipa anche l’uomo postmoderno, volta a volta
sconfitto dalla propria onnipotenza progettuale, spesso sottoposto al
primato del somatico sullo psichico, un fragile vascello preda dei tempestosi flutti dell’esistenza che rischiano di affogarlo nel dolore del
corpo e dell’anima. La memoria della terra natìa, degli affetti privati,
la responsabilità di salvaguardare le vite di chi gli si affida
nell’angoscia e nel dubbio, il folle ottimismo e la inestinguibile curiosità sono le sue qualità umane più genuine, ben più utili della competenza, della intelligenza, della arguzia, della sagacia con la quale governa tanto il timone quanto l’incontro con l’altro.
In un dipinto di Hayez: “Ulisse alla corte di Alcinoo”, custodito
presso il Museo di Capodimonte in Napoli è racchiusa la sintesi del
processo terapeutico. Questa immagine rappresenta, a mio avviso, il
momento topico della vicenda epica e mitica del personaggio. Il sovrano invita Demodoco a cantare le gesta della guerra di Troia ed
Ulisse, finora protetto dall’anonimato “il mio nome è nessuno”, scoppia in pianto nel rivivere ciò che ha vissuto da protagonista. L’ascolto
della propria storia, narrata da altri, produce in lui un esito catartico
che ne rivela le fragili sembianze umane. Credo che la scena sia affatto simile a quanto accade nella relazione terapeutica allorché nel narrare di sé e nell’ascoltare una diversa versione della propria biografia
offerta dal terapeuta il soggetto si riappropria della sofferenza che ha
prima vissuto poi relegato nei meandri della mente ma guadagna anche il senso di tale sofferenza, il suo valore esistenziale, le sue potenzialità di riscatto dalla ignoranza di se stesso. Tale è il processo terapeutico per la persona e per le sua rete relazionale nel modello clinico
e formativo di Ecopsys.
Ulisse istituisce una cultura mediterranea, nella quale si riconoscono i didatti di Ecopsys, che accomuna ai terapeuti i pazienti, le coppie,
le famiglie che essi incontrano nella pratica clinica.
Dunque solo la ricerca delle proprie radici nel mare di mezzo consente, nel modello teorico-clinico di Ecopsys, di inscrivere la propria
singolarità in una matrice storica e antropologica che include il familiare ma non si esaurisce in essa. Per il ricercatore e clinico sistemico,
come per Ulisse, il ritorno alle origini e la tessitura di contesti di senso
divengono vela e timone che tracciano la rotta delle proprie esperienze umane e professionali.
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2. I contesti del sintomo: la psicopatologia contemporanea ed il
pensiero sistemico-relazionale.
Se si pone come data di esordio del pensiero sistemico il 1971, con
il suo testo fondativo “Pragmatica della comunicazione umana”, risulta istruttivo un confronto fra i tre maggiori modelli teorico-clinici sul
tema della ricerca in psicopatologia nel corso di quattro decadi a partire dai contributi sistemico-relazionali (Gurman e Kniskern, 1995; Malagoli Togliatti et al, 2005).
La riflessione psicoanalitica si mantiene, per lungo tempo, ben distante e distinta da qualsivoglia interesse verso le relazioni attuali del
paziente e solo con la intersoggettività di Stolorow e Atwood (1979)
intravede lo spazio delle relazioni di vita come fattore esplicativo della
sofferenza. Il cognitivismo approda alla lettura dei contesti con i contributi sul social learning di Bandura e con la versione postrazionalista di Guidano.
Dunque gli orientamenti delle psicoterapie maggiori si qualificano
come originali e solidi contributi alla conoscenza della matrice sociale
della psicopatologia. Al confronto la psicopatologia sistemicorelazionale sembra povera e confusa perché si limita a reiterare le intuizioni cliniche delle origini piluccando costrutti dai modelli concorrenti.
La psicopatologia delle relazioni e dei contesti di vita si ritrova,così, ad essere “vaso di coccio fra vasi di ferro” e si incrina progressivamente.
A mio avviso c’è dunque un urgente necessità di tornare a riflettere
sui patterns e sui contesti della sofferenza psichica mantenendosi fedeli al modello ma sperimentando anche un ibridazione feconda da matrici dottrinarie diverse. In tal senso la strada più promettente sembra
la riflessione cliniche sulle nuove patologie contemporanee. Nelle righe che seguono proverò a riconsiderare alcuni di questi passaggi storici e teorici per dare conto al lettore della nostra scelta di dedicare un
contributo di scuola al tema della psicopatologia relazionale.
Note sull’andar per il mare
13
2.1
La psicopatologia dei contesti soffre dunque nel confronto con altri
modelli psicopatologici ma tale confronto dovrebbe suscitare oggi un
rinnovato spirito di ricerca piuttosto che strategie di evitamento fobico. Leggere o rileggere opinioni altrui, difformi dalle nostre, genera il
desiderio di cimentarsi sullo stesso terreno. Accade anche che queste
letture ci suggeriscano quanto e come posizioni teoriche così distanti
convergano, più spesso di quanto non si creda, verso una rappresentazione del mentale complessa e plurideterminata.
Proverò a corroborare questa tesi con il ricorso ad una rilettura di
tre autori di difficile accostamento dottrinario e di diversa collocazione storica: Freud, Bowlby e Bateson.
La posizione di Freud rispetto alla interferenza dei familiari nella
cura psicoanalitica è ben nota:“vorrei soprattutto mettere in guardia
contro il tentativo di ottenere consenso o appoggio da parte di genitori o parenti…il più delle volte questo passo…è sufficiente a far scoppiare prima del tempo l’opposizione naturale e inevitabile dei parenti
al trattamento psicoanalitico di un loro congiunto…per ciò che si riferisce al trattamento dei parenti confesso la mia totale perplessità e ripongo in generale scarsa fiducia in un loro trattamento individuale”
(Freud, 1912).
Essa si riassume nella metafora chirurgica:”Provate un po’ a domandarvi quante di queste operazioni avrebbero buon esito se dovessero aver luogo alla presenza di tutti i membri della famiglia, che ficcassero il naso sul tavolo operatorio e ad ogni taglio di bisturi si mettessero a strillare”.
Freud denomina questi fenomeni come “resistenze esterne” alla cura psicoanalitica. Eppure proprio le numerose osservazioni cliniche al
riguardo, contenute nel testo freudiano, indicano il nesso fra psicopatologia individuale e relazioni familiari:”Nei trattamenti psicoanalitici l’intrusione dei congiunti costituisce appunto un pericolo…i congiunti del paziente sono refrattari ad ogni spiegazione…non si deve
mai far causa comune con loro…si corre il pericolo di perdere la fiducia dell’ammalato…chi ha un idea delle discordie da cui sono
spesso lacerate le famiglie non può essere sorpreso di accorgersi che
i parenti più prossimi rivelano scarso interesse al fatto che il loro
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Gritti
congiunto guarisca piuttosto che resti come è. Dove, come tanto
spesso avviene, la nevrosi è connessa con conflitti fra membri della
famiglia, il parente sano non esita a lungo nella scelta fra il suo interesse e quello di far guarire l’ammalato”.
La pratica clinica freudiana si attiene rigorosamente a questo principio. Fornirò qui un solo esempio.
Nella ultima lezione della “Introduzione alla psicoanalisi” (Freud,
1915-1917), Freud annota brevemente la vicenda clinica di una giovane donna che viene a lui inviata in consultazione per un disturbo che
egli diagnosticherà come angoscia agorafobica. Nel corso dei primi
incontri la paziente acquista fiducia nel suo interlocutore fino al punto
di confidargli il segreto che le causa tanta sofferenza. Ella è venuta a
conoscenza della affettuosa relazione che la madre intrattiene con un
amico di famiglia. Avverte l’esigenza di mantenere il segreto in famiglia eppure il suo crescente malessere la obbliga a richiedere la presenza costante della madre accanto a sé per poter dominare i suoi sintomi. Freud scrive che la fanciulla asseriva “di non voler essere protetta da nessun altro all’infuori di lei contro l’angoscia di star sola, e
sbarrandole angosciata la porta allorché (la madre) voleva uscire di
casa”. Per noi lettori adusi al pensiero relazionale è ben chiara la funzione del sintomo. Tuttavia è sorprendente quanto tutto ciò sia chiaro
anche a Freud. Egli,infatti, registra anche la strategia difensiva della
madre che ben comprende quanto il sintomo della figlia ostacoli i suoi
proposti. La madre sottrae la figlia al trattamento analitico e né impone il ricovero in “un istituto per malattie nervose”. Anni dopo Freud
viene informato del fatto che la figlia è ancora ricoverata mentre la relazione della madre è divenuta di dominio pubblico con il tacito consenso del marito: “A questo segreto, dunque, era stato sacrificato il
trattamento”. Le annotazioni freudiane, qui riportate, ed altre ancora,
disperse nei suoi scritti, ci danno conto non solo dell’acume clinico
del fondatore della psicoanalisi ma anche della ineludibilità di una riflessione clinica sui contesti relazionali dei disturbi psichici qualunque
sia il vertice teorico di riferimento.
John Bowlby descrive le interviste familiari congiunte come ausilio
per le sedute individuali alla Tavistock Child Guidance Clinic.La
“joint interview tecnique” viene descritta e commentata in un contributo del 1949. Il lavoro terapeutico, per Bowlby, rassomiglia al pro-
Note sull’andar per il mare
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cesso susseguente ad una frattura ossea.: “Non si ripara l’osso ma si
aspetta che l’osso ripari se stesso”Ne consegue un orientamento della
cura centrato sulle risorse psicosociali:”Il nostro obiettivo è promuovere le condizioni nelle quali le forze costruttive latenti nei gruppi sociali possano entrare in gioco”. Nello scritto Bowlby descrive il caso
di Henry, un ragazzo tredicenne in perenne conflitto con la madre, una
donna “molto infelice”. I comportamenti ribelli di Henry erano iniziati
cinque anni prima, alla nascita della sorella. Bowbly decide “erroneamente”di prendere in terapia individuale Henry. Dopo due anni di
terapia individuale a cadenza settimanale, Bowlby decide di convocare
padre, madre e figlio per una seduta congiunta. La fase iniziale
dell’incontro è segnata da sentimenti di rabbia e rancore. Poi gli interventi del terapeuta mutano l’atmosfera emotiva: “…dopo novanta minuti l’atmosfera cambiò in maniera davvero impressionante e tutti e
tre cominciarono a mostrare comprensione per la situazione degli altri … si trovarono a cooperare nell’onesto tentativo di trovare nuove
tecniche per vivere assieme … i modi con cui avevano affrontato questo problema in passato si erano dimostrati sbagliati.”. Bowlby osserva anche che le sedute individuali successive furono molto più fruttuose. Egli suggerisce di includere nel programma di trattamento almeno una sessione con la famiglia cui dovrebbero partecipare gli operatori che hanno in carico il caso: “Per quanto noi la impieghiamo
raramente più di una o due volte in uno stesso caso , stiamo arrivando
ad usarla quasi di routine dopo il primo colloquio e prima dell'inizio
del trattamento vero e proprio”.
In “Epidemiologia della schizofrenia”, testo breve tratto da una
conferenza del 1955, Bateson riflette sulla patogenesi comunicativa
dei disturbi schizofrenici. Ciò che, però, sembra più originale sono le
osservazioni cliniche tratte dalle sue conversazioni con i pazienti. Qui
si colgono due aspetti rilevanti. Il primo concerne la visione olistica
della patogenesi che include fattori biologici predisponenti il disturbo
comunicativo.La “debolezza dell’ego” per Bateson consiste nella “difficoltà nell’ identificare e nell’interpretare quei segnali che dovrebbero dire all’individuo di che genere è un messaggio”. Tale difficoltà attiene a “caratteristiche e potenzialità ereditarie”.”Per far confusione
sui tipi logici è presumibile che un individuo debba essere abbastanza
intelligente da capire che c’è qualcosa che non va ,ma non tanto in-
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Gritti
telligente da poter vedere di che cosa si tratti. Avanzo l’ipotesi che
queste caratteristiche siano determinate ereditariamente”.
Un Bateson determinista incline a ridurre la schizofrenia ad un difetto intellettivo? Niente di tutto ciò, perché nel testo è ben chiaro che
tale “difetto” necessita di una specifica esperienza “traumatica” per
esprimersi come schizofrenia. Il trauma consiste in un ambiente comunicativo che distorce sistematicamente i messaggi del paziente e lo
induce ad una risposta cronica modulata sulle varianti cliniche della
malattia. Ad un estremo del continuum clinico si collocherebbero, per
Bateson, “individui più o meno ebefrenici per i quali nessun messaggio è di un tipo definito”. All’altro estremo sarebbero i pazienti che
“tentano di ultra-identificare” il genere di ogni messaggio collocandosi nelle varianti cliniche paranoidee.
Il secondo aspetto rilevante di questo testo consiste nel prezioso resoconto di conversazioni con pazienti che lasciano almeno intendere
una solida competenza clinica dell’autore. Bateson sembra far ricorso
a significanti simbolici per decodificare il discorso del paziente né disdegna di interrogarsi sulla dimensione inconscia dei loro atti comunicativi.Si leggano i riferimenti al paziente che dichiara che “qualcosa si
era mosso nello spazio” e Bateson interpreta lo “spazio” come “madre” ottenendo dal paziente il seguente commento: “Lo spazio è la
madre”. O,ancora, la tecnica utilizzata per guadagnarsi la collaborazione del paziente, rincorso dai propri fantasmi persecutori. E,infine,
la cronaca dell’incontro con la madre del paziente, decisivo al fine
della formulazione di una diagnosi sul caso.
Cosa accomuna autori così distanti e all’apparenza incompatibili
come Freud, Bowlby e Bateson? Di certo la intelligenza per non lasciarsi ingabbiare dal sintomo bensì la ricerca di fattori psicosociali
che lo sostengono o lo determinano e che sono rilevanti nel trattamento psicologico al punto, almeno in Freud, da invalidare il processo terapeutico. Per essi guardare oltre il sintomo significa imbattersi in fattori relazionali, in ambienti affettivi e comunicativi, in vicissitudini di
vita intessute di legami significativi a partire dai quali è possibile una
ricostruzione di senso che operi come traccia del percorso di cura con
la parola. Ma vi è un altro aspetto di questi contributi che merita di essere evidenziato. Pur così distanti fra loro, questi scritti lasciano intendere una costante attenzione degli autori alla comprensione della sof-
Note sull’andar per il mare
17
ferenza del paziente nei suoi contesti di vita con la ineludibile conseguenza che le categorie esplicative della soggettività e delle esperienze
di relazione possono essere integrate in una visione complessa e multidimensionale della psicopatologia.
2.2
La nuova psicopatologia delle relazioni si nutre oggi di radicali mutamenti della cultura occidentale. Essi concorrono tutti, a mio modo di
vedere, nella mortificazione del valore della soggettività. Ripropongo
alcune considerazioni al riguardo tratte da un mio precedente contributo.
Il primato dell’immagine implica un declino della parola che diviene “sporadica, sintetica, estensiva. Il conversare cede il posto al
guardare, l’ascolto si fa passivo perché non si può replicare a ciò che
si ascolta”. Ne consegue,spesso, che “l’unica scelta di salvaguardia
psichica per il soggetto rimanga il negarsi ad ogni rapporto”. Il primato della proprietà sull’identità privilegia l’oggetto sul soggetto. Gli
oggetti surrogano l’identità personale e collettiva e la persona si misura dalla proprietà di oggetti. Il primato del soma sul corpo rende invisibile il corpo naturale, soggetto al trascorrere delle età. Il corpo malato, il corpo anziano, il corpo morente sono negati mentre si afferma un
soma violentato, falsificato dalla chirurgia plastica e bariatrica, dalle
diete anoressizzanti, dal trapianto. Il primato della cronaca , sulla storia valorizza solo il tempo presente, consuma gli eventi in una perenne
diretta televisiva. Cosicché la memoria del passato si offusca fino
all’amnesia. Il primato del risultato sul progetto valorizza efficacia ed
efficienza a scapito della fantasia e dell’utopia.”L’espressione artistica diviene inutile” o peggio uno “status symbol da ostentare nel salotto di casa”. Infine il primato della menzogna sulla verità si nutre della
antitesi fra vero e falso. Il politico potente, il giornalista influente, lo
scienziato illustre rivendicano per sé il possesso della verità oggettiva
mistificando le coscienze con la squalifica di ogni opinione avversa,
del punto di vista dell’altro invalidato nella sua soggettività. Questi
fenomeni culturali originano nuove forme di legami sofferenti inscritti
nella normalità della vita quotidiana. La dipendenza, il controllo o la
violenza sull’altro diventano pattern relazionali costanti nella vita del-
18
Gritti
le persone, tanto più nocivi quanto più idonei a mantenere una esistenza scevra di ogni consapevolezza.
2.3
Occorre, infine, commentare qualcosa sui nessi fra psicopatologia e
nosografia.
Nell’ultimo trentennio del ‘900 la psicopatologia clinica diviene
debitrice della urgenza oggettivante di apparati nosografici descrittivi
come il DSM e il ICD. La psicopatologia clinica, nel valorizzare il legame sempre più solido con la psichiatria, si depaupera della sua identità osservativa ed ermeneutica per ridursi a mera elencazione descrittiva di categorie sindromiche. La affermazione dell’apparato diagnostico DSM trasforma il pensiero ipotetico-deduttivo della psicopatologia in un protocollo valutativo orientato da criteri di inclusione/esclusione dei sintomi con un format che vorrebbe essere multidimensionale ma che spesso si riduce al solo piano sintomatologico. La
psicopatologia DSM diviene un “letto di Procuste” dove la singolarità
del paziente della sua sofferenza viene soggiogata alla chiarezza ed
alla condivisione diagnostica.
Tuttavia nel DSM IV (1994) nonché nel DSM IV-TR (2000) compaiono, sia pure in asse aggiuntivo, categorie di orientamento relazionale descritte come:”Problemi relazionali”. Essi includono “modalità
di interazione tra i membri di un gruppo relazionale”, sono associati a
“compromissione clinicamente significativa del funzionamento o sintomi in uno o più membri dell’unità relazionale o compromissione del
funzionamento dell’unità relazionale stessa”. Una descrizione del tutto sintonica con il pensiero e la pratica sistemico-relazionale.
Si aggiunga che è specificato che i problemi relazionali possono essere del tutto indipendenti da condizioni cliniche nonché “oggetto
principale della attenzione clinica” da elencare in asse I. Tali problemi includono la “relazione genitore-bambino”, la “relazione tra partner” e “la relazione tra fratelli”. Dunque una enfasi sulle relazioni familiari anche se manca una variante diagnostica inclusiva di tutto il sistema familiare. Si noti che problemi di ordine relazionale sono descritti anche nella categoria denominata “Problemi correlati a maltrattamento o abbandono”.
Note sull’andar per il mare
19
La valutazione clinica di questi problemi veniva supportata dal ricorso alla GARF (Global Assessment of Relational Functioning Scale)
originariamente elaborata da Lyman Wynne. Tuttavia le premesse per
un utilizzo frequente e talvolta esclusivo di queste valutazioni diagnostiche del DSM-TR furono vanificate nel tempo. Di certo la diffidenza del clinici sistemici verso questa opportunità ha giocato un ruolo
decisivo ed oggi riesce veramente difficile integrare il pensiero sistemico-relazionale con gli orientamenti culturali della psichiatria (Bertrando, 2009).Una unica eccezione è rappresentata dal poderoso lavoro di elaborazione teorica nonché di raccordo con la psichiatria clinica
americana ad opera di Florence Kaslow . Il suo volume “Handbook of
Relational Diagnosis and Dysfunctional Family Patterns” (1996) rappresenta il miglior tentativo di coniugare categorie relazionali della
diagnosi con la nosografia psichiatrica. Nei capitoli clinici di questo
trattato sulla diagnosi relazionale vengono indagati i problemi inerenti
la diagnostica in età evolutiva, le diagnosi focalizzate sulle relazioni di
coppia nonché le diagnosi inerenti il sistema familiare a partire dal
presupposto di poter distinguere i disordini relazionali propriamente
detti da quelle condizioni cliniche nelle quali un problema individuale
è associato ad un disturbo della relazione oppure da quei disturbi individuali che si giovano, nella diagnosi e/o nel trattamento, di una valutazione del contesto relazionale del paziente. Nel testo è ben chiarito
che il ricorso ad un sistema categoriale mal si coniuga con il pensiero
clinico sistemico ma che lo scopo dei contributi che vi sono inclusi è
di gettare un ponte culturale fra la psichiatria e la psicoterapia delle relazioni. Il valore euristico di questo volume poggia sui risultati allora
conseguiti da una agguerrita task force di clinici americani con
l’inserimento nel DSM IV di specifiche categorie nosografiche relazionali. Circa tre lustri dopo questo risultato di allora è del tutto vanificato nella nuova versione del DSM V che verrà pubblicato nel 2014.
Ogni riferimento alle dimensioni relazionali della psicopatologia è
scomparso.
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Gritti
3. Ancora un volta in viaggio
Questo testo collettivo va letto come un approdo solo temporaneo
nel lungo e insidioso viaggio della conoscenza della nostra e altrui
sofferenza. La tela dell’esperienza clinica si tesse e si sfila dal giorno
alla notte in ogni nuovo incontro con i pazienti e le loro famiglie.
Sfida la nostra presunzione di sapere dell’altro o degli altri prima
che sia istituito il dialogo nel qui e ora dell’incontro. Ci suggerisce che
volta a volta possiamo allontanarci dalla rassicurante terraferma del
già visto e già vissuto per avventurarci nel mare aperto della ricerca di
senso e della cura con la parola. Questa scelta ci impone di accettare
con noi stessi la possibilità di una comprensione ex post di ciò che accade, nutrita dalla costanza con la quale ci interroghiamo sulle tracce
relazionali che l’incontro clinico elìcita in noi stessi. La urgenza di
comprendere o di descrivere è una cattiva consigliera. Al contrario la
paziente curiosità batesoniana dell’antropologo che osserva, scevro di
pregiudizi, le forme di vita altrui risulta la migliore premessa di conoscenza e di proficuo intervento. Il terapeuta-antropologo dovrà solo
consentirsi di star lontano da Itaca per ritornarvi solo quando la sua
esperienza sarà compiuta. Solo allora parole come casa, famiglia, coppia, legame avranno conquistato un senso per lui.
Sempre devi avere in mente Itaca
Raggiungerla sia il tuo pensiero costante.
Soprattutto, però, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?
K. Kavafis, Itaca
Note sull’andar per il mare
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