Trilogia Servillo

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Anna Barsotti
La villa senza mura nella Trilogia goldoniana di Toni Servillo
Fra teatro e cinema1
Toni Servillo è attore e regista di teatro, attore cinematografico e regista di opere
liriche. Con apparente modestia si definisce interprete, rivendicando con il testo, sia
drammatico sia cinematografico (per lui la «sceneggiatura») un rapporto di lettura
critica, di penetrazione approfondita e di conseguente rivelazione al pubblico, che è il
suo destinatario e interlocutore privilegiato.
Solo che nel teatro, da cui nasce come «efferato dilettante»2, e in cui si forma
attraverso una serie di esperienze e di tappe che ne fondano il percorso, tale rapporto è
sostenuto dalla binarietà, appunto, attore-regista e quindi dalla collettività d’una
compagnia di cui si sente responsabile; nel cinema, invece, cui approda dapprima
saltuariamente e via via in modo sempre più sistematico e consapevole (senza mai però
dimenticare l’altro polo, scenico), egli delega la responsabilità dell’insieme alla figura (e
persona) d’un altro regista, dal momento che il rapporto con il pubblico, nell’immagine
filmica, è filtrato dall’occhio della macchina da presa. Di conseguenza, nel primo caso,
non è il suo personaggio il soggetto da interpretare esclusivamente, ma l’insieme su cui
si fonda la messinscena; nel secondo, si rileva un interesse prioritario per la propria
parte, pur nella considerazione attenta e viva di quella degli altri, attori che molto
spesso gli sono stati e gli sono compagni nell’avventura scenica.
Di conseguenza, ancora, essendo anche, inscindibilmente, regista oltre che attore, sul
palco si attribuisce di rado parti da protagonista, allo scopo, così facendo, di conservare
meglio la prospettiva (quasi esterna, quasi spettatoriale) sul complesso; nel cinema
invece − possiamo dedurlo da molte sue dichiarazioni – emerge progressivamente
l’attrazione, e quindi il piacere (non divistico ma creativo) per la parte principale. L’uno
e l’altro atteggiamento non collidono, però, anzi è come se si integrassero a vicenda, si
scambiassero informazioni reciprocamente, perché teatro e cinema (come lui dice) sono
sì «marito» e «moglie»3 ossia campi differenti ma che possono sposarsi, e si sono sposati
nel percorso di un artista dello spettacolo (come il suo).
Moscato dice di Servillo che è un «attore di teatro prestato al cinema»4, ma non è del
tutto vero; bisognerebbe piuttosto dire che è un attore di teatro che nel cinema ha
trovato (da un certo momento in poi) un altro campo fertile per la sperimentazione del
processo che gli è divenuto più congeniale: la ricerca nella tradizione5; partenopea
naturalmente ma anche internazionale, dal momento che, insieme a Eduardo De
Filippo, uno dei suoi riferimenti è Louis Jouvet.
I primi due paragrafi del saggio, rielaborati e ampliati, si trovano con il titolo Estroversione e introversione in Toni
Servillo fra teatro e cinema nel volume collettaneo Teatro e media, a cura di Anna Barsotti e Carlo Titomanlio,
Ghezzano (Pi), Felici Editori, 2012, pp. 201-224 (alle pp. 201-209).
2
Cfr. O. Ponte di Pino (a cura di), Un efferato dilettante, una conversazione con Toni Servillo (17 aprile 1996),
http//www.trax.it/olivieropdp/servillo96.htm.
3
T. Servillo, Il talento e la disciplina. Conversazione con Toni Servillo, in E. Magrelli (a cura di), Toni Servillo. L’attore
in più, Nardò (LE), Salento Books, 2011, p. 25.
4
E. Moscato in A. Barsotti, Sistole e diastole nel teatro di Enzo Moscato: conversazione con l’attore-autore, in Aa. Vv.,
Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 662.
5
Cfr. A. Barsotti (a cura di), “La ricerca nella tradizione”. Conversazione con Toni Servillo (28 marzo 2004), in Ead.,
Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 247-319, in particolare p. 302.
1
1
Se il rapporto fra tradizione e innovazione è, d’altra parte, un tratto che può
accomunarlo allo stesso Eduardo, l’itinerario di Servillo è à l’invers; non figlio d’arte
come il primo, di famiglia borghese, casertana, ma frequentatrice di teatri anche
musicali (non a caso Toni è fratello di Peppe Servillo), parte dalla cosiddetta ricerca
negli anni in cui s’animava anche in area partenopea il teatro di figura, fondando
insieme ad amici il Teatro Studio di Caserta nel 1977. Ma, paradossalmente, proprio
quando s’esaurisce quella prima esperienza, e nel 1987 si unisce a Mario Martone e ad
Antonio Newiller nel «laboratorio teatrale permanente» che ancora si chiama Teatri
Uniti, riemerge in lui il retroterra della tradizione, come bagaglio da cui ripescare oggetti
e frammenti, antropologici e culturali.
La prima esperienza (o ricerca) nutre infatti il sentiero napoletano di Servillo, già
intrapreso nell’86 con lo spettacolo evocativo E… (montaggio di poesie eduardiane
sulla natura, e sull’immagine visiva, sonora e coloristica delle parole), e percorso
attraverso il collage creativo di de Berardinis, altro suo punto di riferimento, nella parte
del suggeritore per la scena delle prove, inserto da Ditegli sempre di sì in Ha da passà ’a
nuttata, del 1989, ancora da Eduardo. Sentiero napoletano, dunque, anomalo, che
implica la destrutturazione della tradizione e la sua ricreazione alla luce del
contemporaneo, come aveva già fatto appunto Leo (nel periodo di Marigliano) e come
farà, a suo modo, Servillo stesso, esordendo da regista nei Teatri Uniti con Partitura
(’88) di Moscato, poi trasformata in Rasoi (’91) insieme a Martone (da cui quest’ultimo
trarrà il film del ’93), dove il nostro interpreta – o crea? – l’indimenticabile figura del
Guappo. Seguirà la regia di Zingari (’93) di Raffaele Viviani; e nella proposta
metatateatrale di quel testo visionario Toni non interpreta, come ho anticipato, il
protagonista, ma la figura dell’inferico antagonista ’O Diavulone.
D’altra parte incomincia (in parallelo) il percorso cinematografico di Servillo, prima
nel film d’esordio di Martone, Morte di un matematico napoletano del ’92, con Cecchi
(fiorentino napoletanizzato) nella parte di Caccioppoli, poi in Teatro di guerra (’97) dello
stesso regista, che radunando sul set il gruppo degli attori dei Teatri Uniti è come se ne
filmasse il difficile tentativo d’essere diversi, al tempo stesso idealistico e, per certi versi,
velleitario. Auto rappresentazione osmotica fra cinema e teatro, in cui la parte di
Servillo è dissonante (come già su un altro versante quella di Franco, l’allievo
competitivo e attratto dalla normalità, rispetto al «matematico napoletano»). In Teatro
di guerra egli è personaggio d’impresario, sfottente e un po’ cialtrone, d’un immaginario
Stabile, che alla fine l’avrà vinta, declinando nella lingua (anche teatrale) partenopea
certe figure d’estroversi arroganti che appartengono (per sua ammissione) al repertorio
filmico di Tognazzi e di Gassman.
L’arrivo ai classici
Ma come si arriva ai classici attraverso il duplice (ormai) percorso cine-teatrale, e il
sentiero registico-attoriale napoletano, che si è detto anomalo? E soprattutto come si
arriva alla Trilogia della villeggiatura goldoniana, oggetto di questa indagine? Opera che
debutta in anteprima al Teatro di Corte di Caserta (1-4 novembre) e in prima nazionale
al Teatro Grassi di Milano (7 novembre-9 dicembre) nel 2007, essendo il Piccolo
coproduttore dello spettacolo insieme ai Teatri Uniti di Napoli; ma che continua a
2
girare in Italia fino alla stagione 2009-20106, e all’estero dal 2008 al 2010,
modificandosi (come vedremo) man mano e particolarmente nell’anno (2008) in cui
Servillo raggiunge il vertice della popolarità cinematografica con Gomorra di Matteo
Garrone e Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti) di Paolo Sorrentino.
Si arriva ai classici, in teatro, portando a compimento, per adesso, il sentiero
napoletano, con la messinscena del Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo nel
20027; un classico sui generis Eduardo, un padre sentito come scomodo dagli stessi
esponenti del teatro di ricerca partenopeo (non Ruccello, né evidentemente de
Berardinis), soprattutto Moscato, il quale però negli ultimi tempi l’ha rivalutato come
attore artaudiano e gli ha dedicato nel 2012 lo spettacolo Tà-Kài-tà. Ma prima ancora ci
si arriva attraverso l’altro sentiero intrapreso dall’attore regista casertano, quello francese
(non a caso ho citato Jouvet), con la trilogia di commedie sei-settecentesche, Il
misantropo di Molière nel 1995 (antecedente a Teatro di guerra), Le false confidenze di
Marivaux nel ’98, e Il Tartufo ancora di Molière (sempre tradotto da Cesare Garboli)
nel 2000. Non mi soffermo su questa importante triade, che precede l’inizio della
seconda collaborazione di Servillo attore con Sorrentino: L’uomo in più è del 2001, Le
conseguenze dell’amore del 2004 (produzioni intercalate da Sabato, domenica e lunedì).
Osservo solo in proposito che la prospettiva assunta da Servillo regista su questi testi
d’un passato sempre presente è quella ben evidenziata da Taviani, di metterli in scena
come per la prima volta, come nuovi8.
Con ciò non si vuol dire certamente che Servillo ignori la tradizione (la quale
costituisce per lui, come per Eduardo, un trampolino di lancio) ma che sente l’esigenza di
toglierne la polvere e di impostare il rapporto dello spettacolo teatrale con il pubblico
contemporaneo in modo dialettico sia sul versante storico sia su quello dello spazio
scenico e della recitazione degli attori. Attori che appartengono in parte al suo stesso
cammino (teatrale e poi anche cinematografico) da Iaia Forte/ Célimène e Roberto De
Francesco/Alceste di Il Misantropo ad Andrea Renzi/Dorante e Anna
Bonaiuto/Araminte di Le false confidenze, fino al giovane cast di Il Tartufo, dove appunto
l’inedita giovinezza dell’interprete Peppino Mazzotta concorre a dare spezie speciali
alla costitutiva ambiguità del protagonista, e dell’intero testo.
Quanto alle parti che Servillo si attribuisce, come già detto, non sono le principali:
slittano dall’Oronte (rivale ridicolo, ma non troppo nella sua interpretazione, dell’acerbo
misantropo) al machiavellico sevo Dubois, fino all’Orgone infatuato di Tartufo. Parte
quest’ultima già adottata da Carlo Cecchi nella sua proposta del testo (tradotto dallo
stesso Garboli). C’è anche forse un elemento di sfida in tale scelta: offrire del cosiddetto
personaggio secondario una resa così personale da farsi riconoscere – come attore –
Adattamento e regia di Toni Servillo; aiuto regista: Costanza Boccardo; scene: Carlo Sala, costumi: Ortensia
De Francesco, luci: Pasquale Mari; personaggi e interpreti: Leonardo (Andrea Renzi), Paolino (Francesco
Paglino), Cecco (Rocco Giordano), Vittoria (Eva Cambiale), Ferdinando (Toni Servillo), Filippo (Paolo
Graziosi), Guglielmo (Tommaso Ragno), Giacinta (Anna Della Rosa), Brigida (Chiara Baffi), Fulgenzio (Gigio
Morra), Sabina (Betti Pedrazzi), Costanza (Mariella Lo Sardo), Rosina (Giulia Pica), Tognino (Marco D’Amore).
Come si vedrà, non sono troppo d’accordo con la recensione di Gherardo Vitali Rosati, Contratti d’amore in
vacanza, pubblicata su web 20/04/2009, http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione1.php?id=4022.
7
Per l’analisi della messinscena rinvio a Strategie del silenzio e senso delle parole. Sabato, domenica e lunedì 2002,
nel mio Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, cit., pp. 279-295.
8
In proposito rimando al mio saggio Grandi vecchi e giovani attori nei Molière del nostro tempo (da Stoppa a Servillo),
«Ariel», XVIII, 55 (2004), pp. 69-84; ma prima a quello di F. Taviani, Un “Tartufo” odierno, «Il Manifesto», 12
novembre 2006.
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nelle sue varie declinazioni. Sfaccettare il suo stile (definito genericamente essenziale ed
elegante) con aspetti che matureranno anche nel cinema: specie di antagonista o
coprotagonista di un personaggio più giovane, a cui solo in rari momenti ruba la parte,
ma in modo sornione, come nell’Oronte e nell’Orgone molieriani (il secondo poi
affidato a Francesco Silvestri, per incarnare Alceste a suo modo, quando gli viene a
mancare De Francesco); ma pure (sotto mentite spoglie) proiezione del regista, secondo
una prospettiva che dal Dubois di Marivaux approda a Ferdinando, lo «scrocco» della
Trilogia goldoniana.
L’ultima prospettiva meta-teatrale riguarda soprattutto la scena e la sua gestione;
mentre la prima – antagonista o coprotagonista – attraversa il cinema dove, si è detto,
egli si sente strumento diretto da altri, ma aspira al protagonismo, anche se non
dimentica mai l’insieme a partire dalla lettura del testo, che in questo caso è la
«sceneggiatura»9. Qui ha già declinato l’antagonista (in Teatro di guerra) come farà poi in
Gomorra (2008), o il coprotagonista, addirittura contrastivo Doppio in L’uomo in più
(2001), ma assume appunto su di sé anche la costruzione del personaggio principale: fin
dal sindaco bassoliniano ma pasoliniano di La salita (per la regia di Martone, in I
Vesuviani del ’97), poi assolutamente in Le conseguenze dell’amore (forse il capolavoro di
Sorrentino) del 2004, la cui lavorazione avviene, non a caso, in contemporanea con la
gestione scenica e attoriale di Sabato, domenica e lunedì, unico esempio di quasi
protagonismo in teatro, se si escludono gli assoli, ma nella commedia eduardiana più
corale; infine nella parte del commissario di La ragazza del lago (per la regia di Malaioli,
2007) e in quella molto singolare di Andreotti in Il divo ancora di Sorrentino.
I due poli espressivi tra cui si tendono questi diversi ruoli sono l’estroversione e
l’introversione (nel teatro come nel cinema) attraverso una gamma che va dalla
cattiveria, persino disumana, ma talora esteriormente simpatica, comunque vitale, alla
sua cinica variante, ma intimamente, umanamente tormentata (come nello stesso
Divo); caratteristica quest’ultima che connota anche i suoi personaggi positivi (il
commissario Giovanni Sanzio) o che diventano tali, riscattandosi alla fine (Titta Di
Girolamo).
Gli strumenti sono anche quelli del grottesco (implicando talvolta la mascheratura)
ma slittano via via, sul versante dell’introversione, verso la resa del silenzio: nodo
cruciale il Peppino Priore eduardiano, che farà scuola (per conferma dell’attore) a Titta,
mescolandosi alla tragicomica ma agghiacciante, misteriosa maschera andreottiana; la
quale d’altronde riceve impulsi, forse insospettati, dal Guappo di Rasoi10.
La Trilogia goldoniana per Servillo
Ma ritorniamo al teatro, in particolare ai classici, e in questo contesto alla Trilogia
della villeggiatura goldoniana, che segue al sentiero francese e anche all’approdo,
nell’ambito della commedia, di quello napoletano. Va detto, d’altra parte, che sia
l’attore-regista scenico sia l’interprete cinematografico mostrano nel poliedrico artefice
Servillo una propensione al romanzo triadico (se egli stesso definisce trilogia filmica Le
conseguenze dell’amore, Il divo e Il gioiellino).
Cfr. T. Servillo, Il talento e la disciplina…, cit., pp. 24-26.
« […] quando stavamo girando il monologo di Andreotti», Paolo Sorrentino, «per sollecitarmi […] a osare di
più, mi ha invitato a pensare al mio monologo di guapperia in Rasoi, che doveva aver visto in teatro quando era
un ragazzo. Quel monologo è quindi tornato come punto di riferimento in uno dei miei ultimi film» (T. Servillo, Il
talento e la disciplina…, cit., pp. 16-17).
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L’opera di Carlo Goldoni, come è noto, è uno spettacolo uno e trino11: si articola in tre
diverse commedie, Le smanie...12, Le avventure..., Il ritorno… che, come precisa lo stesso
creatore (in L’autore a chi legge), «ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre si uniscono
perfettamente». Infatti rappresentano e sviluppano tappe successive di un percorso: le
frenesie, anche equivoche, di due famiglie livornesi, né nobili né ricche, in partenza per
le vacanze; la «folle condotta»13 (ancora per l’autore) di componenti e ospiti nella
campagna di Montenero e infine, al loro ritorno in città, l’intreccio di delusioni
amorose e problemi economici che solo apparentemente si scioglie.
Il contesto contiene la satira goldoniana nei confronti di un ceto medio veneziano
(trasferito prudentemente, o emblematicamente nella centrale Toscana, così come già
per La locandiera) che non è riuscito a elevarsi né economicamente né moralmente, che
si limita a scimmiottare la nobiltà, e che ha profondamente deluso l’autore; non a caso
(anche per una delusione che abbraccia il mondo del teatro) l’anno successivo alla
stagione della Trilogia, nel 1762, Goldoni abbandonerà Venezia per Parigi.
Non è casuale neppure la scelta della «villeggiatura», come tema cruciale e luogo
deputato – per quanto la villa compaia soltanto ma significativamente nella tappa
intermedia –, dal momento che la sua pratica, divenuta «fatto di costume fin dagli anni
cinquanta» in seguito al tentativo dello Stato veneto di «rilanciare l’agricoltura [per] fare
uscire la società dalla crisi economico-sociale»14, non aveva sortito l’effetto sperato già
fra i nobili (nelle cui ville in Brianza Goldoni era stato ospite). E l’autore stesso aveva
affrontato il tema in molteplici forme, dalla commedia (come quella dal titolo La
villeggiatura, del ’56) al «dramma giocoso» per musica. Quindi la «villa», scriverà nei
Mémoires, gli appare, da luogo dove «i nostri antenati non andavano che per raccogliere
i loro beni», luogo dove i suoi contemporanei vanno invece «a dissiparli». Testimonia:
«In villa si gioca forte, si tien tavola imbandita […]; lì il cicisbeismo italiano prospera
senza impacci e progredisce più che altrove» 15. Figuriamoci quando tale dissipazione
(moralisticamente stigmatizzata) si applica a beni precari o inesistenti, come nel caso
dei borghesi già sull’orlo della rovina nelle Smanie…
In questo contesto iscrive la storia (o l’educazione) sentimentale, con amaro lieto fine,
di due coppie d’amanti scombinati: Leonardo ama Giacinta (figlia di Filippo), che
s’innamorerà, invece, di Guglielmo (proprio durante l’evasiva villeggiatura), che la
contraccambia, ma da lei stessa viene quasi costretto a sposare Vittoria (sorella di
Leonardo) che lo ama non riamata; per cui le duplici nozze del finale del Ritorno…
(Giacinta-Leonardo, Guglielmo-Vittoria), precedute da quelle di straforo fra Rosina e
Tognino, sanciscono una situazione di tormentosa infelicità, per i giovani almeno; ché i
vecchi, lo svagato Filippo e l’apparentemente saggio Fulgenzio (deus ex machina in
borghese), restano soddisfatti di combinazioni matrimoniali vantaggiose dal punto di
Cfr. F. Mazzocchi, “La Trilogia della villeggiatura” di Massimo Castri, «Il castello di Elsinore», XIV, n. 40, 2001,
pp. 107-138.
12 Le smanie per la villeggiatura (3 atti in prosa), Le avventure della villeggiatura (3 atti in prosa), Le avventure della
villeggiatura (3 atti in prosa), rappresentate le prime due nell’ottobre, la terza nel novembre 1961 al Teatro San
Luca di Venezia; pubblicate a Venezia nel 1773.
13
Cito qui e altrove dall’edizione: C. Goldoni, Trilogia della villeggiatura, con un saggio di Giorgio Strehler, Milano,
Rizzoli, 2008, pp. 68-69. I testi riprodotti sono quelli stabiliti da G. Ortolani, C. Goldoni, Tutte le opere, Milano,
Mondadori, 1960, vol. VII.
14
S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Venezia, Marsilio, 2011, p. 114.
15
Cfr. ivi, p. 115. Ferrone cita, e traduce, dall’edizione completa delle Opere, curata da Ortolani, con la sigla
MN, I, parte seconda, cap. XXIII.
11
5
vista economico. E a ben guardare, in questa Trilogia, oltre e più che d’amore, si parla
molto di soldi, sperperati per «esserci» piuttosto che per «essere», salvati anche per
salvare le «apparenze»16. Così Servillo, con una frase ripetuta in varie dichiarazioni e
interviste, sembra riecheggiare quella di Siro Ferrone: «I personaggi aspirano a
“rappresentarsi” piuttosto che a “essere”». Con l’eccezione, per lo studioso goldoniano,
di «Giacinta e Guglielmo che a questo camuffamento arriveranno lungo il corso di tutta
la trilogia adeguandosi alfine alla parte in commedia a loro assegnata» 17.
Per il regista e (vedremo) interprete l’osservazione assume una valenza a noi
contemporanea, nella prospettiva assunta anche per gli altri classici rivisitati (Eduardo
compreso), dove l’aggiornamento non è mai superficiale, i semplici costumi restando
metaforicamente quelli d’epoca (quasi a distanziare epicamente, ma senza brechtismi,
la vicenda); l’estensione come riconoscimento dei valori di senso di un testo che «ci
offre un’analisi lucida e cruda di questo mondo» storicamente goldoniano, ma «che è
anche il nostro», scaturisce dalla lettura approfondita del testo stesso, dalla sua parziale
riscrittura drammaturgica, e dalla sua resa registica, attoriale e scenografica che
espressivamente, e materialmente (la materialità viva del teatro), lo avvicina al
pubblico. Goldonianamente, ma anche dopo Eduardo, il mondo del teatro raggiunge e
provoca in modo sornione il teatro del mondo, «un mondo in cui i sentimenti e i destini
sono spesso trattati con fredda aridità, alla stregua di una partita doppia»18.
D’altra parte, la meta teatralità implicita nell’opera e riconosciuta da Ferrone si può
ravvisare nella scelta di Servillo per sé della parte di Ferdinando, lo «scrocco», il
professionista parassita della villeggiatura, un personaggio di lato ma forse proprio per
ciò l’unico a inquadrare a ogni momento (partecipa a tutte e tre le tappe) la situazione,
e ad avere, come bersaglio chiaro, il denaro (che gli manca). Solo per quest’ultimo
aspetto economico, che si è scoperto fondamentale, la sua apparente passività (condita
dalle spezie del pettegolezzo comico e maligno) si trasforma in attività, dal punto di
vista di partecipazione all’intreccio. Il suo cicisbeismo (ringiovanito, rispetto al testo,
dall’età e dall’elegante destrezza dell’attore) oltrepassa la moda fruttandogli alla fine,
attraverso un contratto matrimoniale con la vecchia, infoiata, zia Sabina la
«donazione» che gli interessa.
C’è anche un altro aspetto da considerare: Ferdinando è forse il personaggio più
negativo della commedia, subdolo e approfittatore, eppure risulta innegabilmente
simpatico anche per com’è interpretato dall’attore: recitazione pigramente enfatizzata,
nella paralinguistica cantilenante e accattivante e nella gestica un po’ effeminata,
svolazzante (specialmente con le mani) come nel modo con cui si muove sul palco, con
qualche posa elegante. Non sembri arrischiato pensare, per l’effetto sul pubblico, a un
suo personaggio cinematografico diversamente negativo e diversamente risolto: Franco
di Gomorra, che si occupa con aplomb manageriale dello smaltimento dei rifiuti (dal
nord industriale occultati nei territori agricoli della provincia campana). I due hanno in
comune soltanto il versante dell’estroversione che non contiene alcun tormento interiore;
eppure Garrone si è rivolto a Servillo con queste parole: «Voglio un attore, perché ho
T.
Servillo,
http://www.liceobodoni.it/AttivitaStudenti/teatromusicadanza/teatro/GoldoniVilleggiatura210209.pdf
17
S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni , cit., p. 116.
18
Incontro con Toni Servillo, 19 gennaio 2010, in occasione delle rappresentazioni della Trilogia della
villeggiatura al Théâtre des Célestins di Lione, a cura di M. Morini, http://cle.ens-lyon.fr/italien/incontro-contoni-servillo-87225.kjsp
16
6
bisogno di questa recita, cioè ho bisogno che il personaggio più negativo del film sia il
personaggio più simpatico e questo lo può fare solo un attore […]». Quindi doveva
«raccontare allegramente un disastro»19 come, a suo modo, farà per il cicisbeo
scroccone.
In qualità di regista (non meta teatrale ma effettivo) dello spettacolo Servillo ha scelto
la soluzione di unire perfettamente le tre commedie in una, di poco più di tre ore, che
rispettasse nella prospettiva del «romanzo teatrale» la diversità di ciascuna: se le
Smanie… possono apparire ancora dentro la tradizione del comico, giostrando però
nevroticamente eppure quasi geometricamente eventi e personaggi, le Avventure… pur
nel clima vacanziero che le connota rendono sempre più problematico il genere
commedia, il Ritorno… conserva alcuni momenti grotteschi, ma declina verso il
dramma, precipitando in un finale tutt’altro che consolatorio. Non a caso Alonge, fin
dalla prima commedia, nota come vi «pulsi dentro una sostanza che è già tutta
drammatica» per concludere che «Goldoni diventa quasi un autore proto borghese»20.
La soluzione dell’accorpamento e dello sfoltimento è stata già praticata da Giorgio
Strehler, cui si deve il rilancio scenico di quest’opera goldoniana (nel 1954 e nel 1974) e
al cui copione si riallaccia Servillo operandovi, come vedremo, significative
trasformazioni; un accorpamento del genere fa anche Mario Missiroli (nel 1981), invece
Massimo Castri ha scelto nelle tre stagioni dal 1995 al 1996 la singolarizzazione
(addirittura l’ampliamento) dei testi.
La messinscena di Servillo si distacca tuttavia sia dagli uni che dall’altro, specialmente
per il trattamento della figura-chiave, protagonistica, di Giacinta. Non più l’eroina
«romantica» di Strehler, «vittima di una società»21, ma neppure la figura prevaricante ed
economica, antipatica di Castri. Giacinta (la giovane attrice Anna Della Rosa) è una
ragazza combattuta fra l’ansia d’indipendenza, che spera di conquistare con il
matrimonio con Leonardo (Andrea Renzi), che ama poco, l’insorgere della passione
per Guglielmo (Tommaso Ragno), e i cosiddetti doveri, le convenienze d’una buona
fama che l’avranno vinta condannandola all’infelicità: come si rileva in quell’abbraccio
del finale proiettato sul boccascena, per cui s’aggrappa a Leonardo (col viso stravolto e
lo sguardo fisso sul pubblico), quasi sul punto di cadere in avanti. Al tempo stesso lo
sovrasta, mentre lui nasconde la faccia nel suo seno. «Giacinta – dice ancora Servillo –
è responsabile delle sue scelte, è incapace di ribellarsi alla sua società: i giovani della
Trilogia offrono molte occasioni per una riflessione sulla giovinezza d’oggi». Con ciò
afferma d’essere più «cinico» di Strehler, «più goldoniano»22.
Ma l’operazione che più ci interessa è quella della bipartizione cui è sottoposta la
Trilogia: due tempi drammaturgici (e spettacolari) che comprendono, il primo, le
Smanie… e parte delle Avventure…, il secondo la seconda parte di esse e Il ritorno…
L’azione si interrompe proprio nel passaggio cruciale della scena dalla terrazza (che a
partire dal 2008 raffigura metonimicamente la villa) al boschetto, dove s’ambienta
l’avvenimento dell’opera, l’incontro amoroso fra Giacinta e Guglielmo, sorpresi da
T. Servillo, Il talento e la disciplina…, cit., pp. 28-29.
R. Alonge, Il teatro di Massimo Castri, Roma, Bulzoni, 2003, vol. II, p. 94. Cfr. ora anche Id., “Le Retour de la la
villégiature”, III, 2 dans le triangle Strehler-Missiroli-Castri, in «Il castello di Elsinore», XXV, 2012.
21
T.
Servillo,
http://www.liceobodoni.it/AttivitaStudenti/teatromusicadanza/teatro/GoldoniVilleggiatura210209.pdf
22
Ibid.
19
20
7
Leonardo, e la decisione della ragazza d’obbligare l’amante a sposare Vittoria,
autocondannandosi o conformandosi.
La villa senza mura
La scenografia di Carlo Sala asseconda questo andamento: in un unico contenitore
scenico, che inclina sempre più verso la platea (secondo l’uso di Servillo di accostare gli
spettatori senza mescolarli agli attori), si susseguono gli ambienti della Trilogia. Una
parete-maschera composta da due fondali l’uno dietro l’altro (quello antistante con tre
aperture, la centrale più ampia) s’adatta alle due case di Leonardo e Filippo (variando
solo qualche arredo, la luce, meno forte in quella del più spiantato giovane), mentre il
passaggio fra le due abitazioni è segnalato da un piccolo suono; accompagnate, invece,
da una marcetta rubata al Petrushka di Stravinsky23 s’alzano a vista prima la parete
posteriore poi lentamente quella davanti, ma dopo un oscuramento della scena che
suggerisce l’effetto d’una dissolvenza cinematografica, per dar luogo alla terrazza della
colazione, dove Ferdinando/Servillo prende posto, profilandosi poi come silhouette
allungata ed elegantemente stravaccata contro un fondale chiaro che s’illumina
(apparentemente per il disco di un sole, simulato da un faro giallo ma sfumato). Ma alla
ripresa del secondo tempo la scena si trasforma in un boschetto, le cui fronde invadono
significativamente il boccascena, con la luce rossastra del tramonto; per ritornare poi,
ancora a vista, nelle case di Filippo e di Leonardo, ormai prive di ogni accessorio, con
l’abbassarsi della stessa parete maschera del primo atto che appare, ora, nuda e
screpolata. Il finale si svolge nella casa di Costanza (Mariella Lo Sardo), personaggio
apparso nelle Avventure…; parete ancora più nuda ma come sfondata dal riquadro
centrale d’una camera metonimica: c’è solo il letto degli improbabili sposi Rosina
(Giulia Pica) e Tognino (Marco D’amore).
Se l’alzata delle due pareti concorre a isolare, da un lato, l’ambiente e il clima della
villeggiatura, la parentesi vacanziera situata all’esterno d’una villa senza mura (perché
anche lo scorcio che se ne intravede nelle prime rappresentazioni scomparirà nelle
repliche successive) è a sua volta resa più penetrante e intima dalla scansione o cesura
fra l’ampiezza solare della terrazza e l’ombrosa radura (ma già la luce s’era fatta
rossastra alla fine del primo tempo) simulata metaforicamente dal fondale e dai due
tappeti verdi per il fogliame, che invadono significativamente il boccascena, luogo
appartato in cui scorre la linfa vitale, e ci si nasconde (almeno all’inizio) per esprimere
la passione. La villa di Servillo diventa via via senza mura24 anche perché rappresenta
appunto la vacanza da una quotidianità urbana al tempo stesso smaniosa
dell’apparenza (le bizze di Vittoria per il “mariage”) e perciò nevrotica, ma anche
pesantemente routinaria nei ripetuti tentativi di evitare i creditori (da parte del fratello
Leonardo). Eppure quel cielo fondale chiaro dietro il quale si intravvede il disco faro
Lo stesso brano utilizzato da Eduardo De Filippo nella sigla di alcune sue commedie televisive.
Come già accennato prima nel testo, a partire dal 2008 la scena della terrazza (o cortile) della villa diventa
sempre più essenziale: nella ‘prima’ e nelle foto pubblicate nel programma di sala (foto di Gianni Esposito
presenti anche sul sito di Teatri Uniti) è delimitata a sinistra da un basso muretto grigio, e da una scala praticabile,
con vasi di varie piante, che porta a un balconcino; nelle riprese al Teatro Comunale di Ferrara (8 febbraio 2008),
ma anche in precedenza, questa costruzione scompare, e restano solo dei rampicanti che, in seguito, nel 2009 (per
esempio al Teatro del Giglio di Lucca) spariranno anch’essi. Un processo di astrazione – del resto scompaiono
anche i riferimenti alla città di Livorno e alla località di Montenero – che non è nuovo nelle regie di Servillo, ma
in questo caso è stato suggerito anche dall’esperimento coatto della rappresentazione al Mercadante di Napoli
senza costumi e senza scene a causa dello sciopero dei camionisti (12 dicembre 2007). Il mondo del teatro,
quando è vivo, è fatto così: la costrizione può indurre alla sperimentazione, e alla riflessione per soluzioni diverse.
23
24
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del sole, accompagnato da un sonoro di cicale, se consente un po’ d’arroganza al
parassita, che reclama dai servi la sua «cioccolata», non lo libera dai calcoli del denaro
(impegnandolo in un conto risibilmente accelerato delle sue vincite al gioco). Né lo
risparmia dal corteggiamento serrato e persino audace della zia Sabina (una Betti
Pedrazzi grottescamente energica, meno anziana della sua parte, all’epoca di Goldoni
interpretata en travesti dal comico Giuseppe Lapy); perché, per quanto lei gli ripugni,
com’è reso evidente dal prossemico svolazzare di Servillo quando la disinibita vedova
tenta di catturarlo, abbrancandolo (fino al casqué in cui i due si bloccano), la «vecchia
pazza» è ricca e potrebbe salvarlo, d’un colpo, dall’indigenza che lo costringe a fare il
buffone per una corte degradata di borghesi.
Copione e performances
Come sappiamo, il copione di Servillo parte da quello di Strehler, attraversando
cinque stesure successive, con l’assistenza di Costanza Boccardi e la verifica con i suoi
compagni storici di lavoro che fanno parte dei Teatri Uniti. Taglia gli a parte e certe
scene, non le stesse di Strehler (elimina quella dello zio Bernardino, nel Ritorno…, e
tiene quella di Ferdinando che si prende gioco di Tognino nelle Avventure…). Quanto ai
monologhi, Servillo ne conserva alcuni, non solo quelli – come vedremo – che
riflettono momenti cruciali dello spettacolo, ma anche quello di Ferdinando che segue
la sua prima posa sulla terrazza coi piedi sul tavolinetto da giardino, il corpo
abbandonato all’indietro, le braccia penzoloni, così che la marsina rossa (come i
calzoni) scenda mollemente dalla spalliera della sedia fino a terra. Icona dell’ozio e
della pigrizia, che richiama nelle curvature del corpo la foggia dei pochi arredi. Le sue
prime mosse, dopo la chiamata del servo tra l’infastidito e l’arrogante, elastiche ma
rilassate – alzarsi dalla sedia e compiere qualche gesto ginnastico al limite della danza –
suscitano il riso degli spettatori. L’assolo successivo dell’attore è un numero da varietà:
s’avanza di poco in proscenio, quasi rivolgendosi al pubblico, e dopo un breve
commento si mette appunto a controllare il suo «bilancio» di gioco su un minuscolo
taccuino che estrae da una tasca del panciotto. Da cui, appunto, il nuovo effetto comico
per la ripetizione accelerata dei conti (che non gli riescono subito bene) poi di colpo lo
stridulo richiamo dei domestici che ancora non l’hanno servito, accompagnato dal
gesto deittico del braccio con la mano destra verso la sinistra del palco, dove, nascoste
dalla cascata di fogliame, dovrebbero trovarsi le mura della villa.
Da lì invece entra Graziosi/Filippo, già reso ridicolo dal cappottino bigio sopra la
lunga camicia bianca e berretto da notte. Immagine goffa, anche se il padrone di casa
ribadisce che i servi li paga lui! Segue la gag della «cioccolata»: un esempio di
«fallimento dei propositi» (Propp) del continuamente frustrato personaggio che, alla
fine d’una gustosa schermaglia, specie gastronomica di tiro alla tazza fra i due
contendenti (ormai seduti entrambi ai lati del tavolino, Graziosi di profilo e Servillo di
fronte al pubblico), è costretto a lasciare e ad assistere alla compiaciuta libazione
dell’ospite, preceduta dal tintinnio prolungato del cucchiaino che mescola lo zucchero.
Ogni dettaglio è curato nella gestica e nella phoné di Ferdinando, come quando dopo
aver bevuto si sofferma a commentare la bontà del liquore, tra una pausa e l’altra, con
voce resa fioca dalla gola ed espressione beata (mal celando una certa soddisfazione
ritorsiva nei confronti delle battute dell’altro, che ha tentato prima di umiliarlo). Quindi
sulla battuta «la vostra cioccolata è perfetta!» compie un gesto simbolico tagliando l’aria
con la mano.
9
In questo punto Servillo sposta – dopo l’uscita prima di Ferdinando e poi di Filippo –
l’unica parte salvata dell’iniziale, lungo, dialogo fra i servi che si trovano la mattina
presto a fare colazione insieme, mentre i padroni dormono ancora (tagliato da Strehler,
marcato da Castri); quella fra Brigida e Paolino, valorizzata per contrasto con la scena
precedente. Scena vuota, poi ingresso di Brigida (Chiara Baffi) dalle fronde, che chiama
Paolino (Francesco Paglino) e intesse con lui una trama amorosa, pur parlando dei
signori e della sua volontà di trattarlo come loro, servendogli la cioccolata: parola che
assume qui il retrogusto erotico della bevanda, pronunciata da entrambi a distanza
intima, dopo l’avvicinamento della ragazza all’altro presso il tavolino centrale, quasi
come un bacio. Ma proprio quando Brigida esce per prepararla a Paolino e questi si
allunga soddisfatto sulla sdraia che la donna (più intraprendente) ha portato in
proscenio, entra a passo lento e svagato Giacinta a piedi nudi, capelli sciolti, camicia
bianca che le scopre le braccia, per impuntarsi alla vista del servo sdraiato, che sorpreso
alle spalle per qualche attimo non s’accorge della sua presenza. Quando l’avverte,
scatta in piedi e s’inchina (un po’ vergognoso) allontanandosi sempre nella direzione
delle fronde.
Si prepara così la seconda icona (di queste prime scene in villa). Giacinta/Anna Della
Rosa, dopo una breve pausa, si sdraia al posto del servo, più mollemente, il corpo
abbandonato e proteso, come le braccia che mostrano le mani pendenti, i piedi
leggermente sovrapposti uscendo dalla camicia e, ultimo tocco, il grande cappello sulla
faccia. Anche su questa icona si ferma l’azione, allo scopo di infondere al pubblico
l’effetto non tanto dell’ozio (come quella iniziale di Servillo/Ferdinando) quanto
d’abbandono malinconico ma anche, come vedremo subito dopo con l’entrata di
Brigida con la cioccolata (lievissimo qui pro quo), infastidito. La padroncina, infatti, non
s’accorge subito della serva, anzi quando le sfugge il cappello dal viso se lo rimette
ancora mollemente; e quando Brigida (mente fina) finge d’aver preparato la colazione
per lei, accucciandosi e chiamandola a voce bassa per destarla, nel ripetere il gesto di
ricoprirsi col cappello (che stavolta si è tolta) l’attrice, con mimica discreta, mostra alla
parola «cioccolata» un’espressione scocciata (ruotando i grandi occhi verso l’alto) che
sembra il massimo del tormento concessale.
Eppure nella scena della confessione d’un innamoramento che l’ha colta di sorpresa
Giacinta cambia registro; restando sdraiata accanto alla servetta, che le si accosta
sedendosi sullo sgabello per interrogarla, attraverso il movimento del braccio sinistro e
della testa imprime un nuovo dinamismo alla sua figura. Dapprima corrucciata,
volgendo la faccia dalla parte opposta all’altra, quando parla di Leonardo, e verso di
essa quando parla di Guglielmo, s’anima via via che le comunica, con stupore,
sgomento ma anche compiacimento (s’apre in un piccolo sorriso) per quest’amore
indebito, che d’altronde la possiede. Basta guardare ai gesti, sempre piccoli, indiziali
che compie nel suo riconoscimento: oltre al sorrisetto che lampeggia di straforo, quel
riportarsi il pollice alle labbra (quasi a mangiarsi le unghie) e il fremito sensuale che le
percorre il corpo fin dalla punta dei piedi bene in vista, con una languidezza nella voce
inedita e in contrasto con il tono secco, ancora, del resto delle battute, intercalate o
scandite dalla posa di voltarsi di profilo, con il dorso della mano sulla bocca.
Fremito sensuale, accompagnato anche da gesti iconografici (quando unisce gli indici
per mostrare la propria vicinanza pericolosa, durante quella villeggiatura, con il corpo
dell’amato), ma contrastato in se stessa dalla doppia mozione di non poter mancare alla
parola data e di non voler macchiare il buon nome. Qui il tono si fa apparentemente
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più perentorio perché il ritmo è affrettato, i gesti diventano più frequenti e marcati,
come quando nel tentativo di convincere la servetta (e ancora più se stessa)
dell’impossibilità di mandare a monte le nozze promesse – alzando il braccio con la
mano a palmo teso per bloccare fisicamente l’ipotesi e sventolandola per gettare via
l’eventualità – esprime la preoccupazione che il mondo possa pensare la tresca
antecedente alla vacanza (indica con il braccio destro un altrove, l’ambiente urbano) e
che lei abbia premeditato la compagnia dell’amante, qui e ora, alla presenza del
fidanzato (così incrocia gli indici e poi li affianca).
Il cappello di paglia assolve inoltre una funzione simbolica, oggetto su cui appoggiare
una mano mentre con l’altra gesticola, o a cui aggrapparsi nei momenti di concitazione,
dietro a cui nascondersi all’apparire della già insospettita e fomentatrice zia Sabina.
Il resto della scena (dopo i duetti reciprocamente dissonanti fra Sabina e Ferdinando e
Giacinta e Guglielmo) si svolge con la progressiva entrata di tutti i personaggi, che si
dispongono, infine a coppie, seduti ai tavoli portati dai servi, per una partita a carte in
attesa che si serva il pranzo: Guglielmo è abbinato a Vittoria, mentre Filippo – che si
sente sempre messo in disparte in casa sua – finisce con Tognino (Marco D’Amore).
Con quest’ultimo, giovane figlio un po’ ritardato del dottore del paese, entrano per la
prima volta in scena Costanza (Mariella Lo Sardo), moglie di un commerciante, e la
nipote Rosina (Giulia Pica); con il loro impaccio e gli abiti non alla moda (il mariage di
Vittoria provoca l’invidia e il dispetto di Costanza) rappresentano quella piccola
borghesia che anela a frequentazioni di livello più alto, per una promozione sociale da
acquistare anche col matrimonio (della stessa nipote con Tognino).
L’uscita di scena dei personaggi per andare a pranzo è a coppie; per ultimi escono
Giacinta e Leonardo, che giocherella con le carte in atteggiamento dubbioso e
imbronciato e non si decide ad alzarsi finché la fidanzata non lo richiama all’ordine.
Lo scarto rispetto alle Smanie…, in questa prima parte delle Avventure… – che d’altra
parte il regista ha scelto di accorpare fra loro – consiste non solo nella trasformazione
scenica degli interni urbani nell’esterno della terrazza della villa di Filippo, ma anche
nel ritmo delle azioni che vi si svolgono, allentato di molto (con pause) così come
quello della recitazione; e nella coreografia, per cui gli attori si muovono di meno nello
spazio scenico, e ancora piuttosto lentamente, d’altro canto nelle scene d’insieme (che
qui, da un certo momento in poi, prevalgono) distribuendosi in modo da occuparlo
tutto. Per quanto riguarda la prossemica, resta perlopiù limitata a quella personale,
tranne che nel duetto fra Giacinta e Guglielmo, dove diventa intima, spostandosi sulla
pedana proscenica, là dove il giovane tenta di baciare la ragazza, e in quello, buffo, in
cui Sabina tenta di sedurre Ferdinando.
Non è dunque il ritmo a connotare la divaricazione operata da Servillo fra il primo e il
secondo tempo (ché è anzi all’interno del primo contrastivo); ma piuttosto l’atmosfera
che, a partire dalle scene nel boschetto, incomincia a mettere decisamente in crisi il
genere (osservato per tutto il primo tempo, pur venato di inquietanti sottotesti) con una
serie di contraccolpi i quali preparano il precipizio in quel lieto fine apparente che
contiene il dramma. Lo sfondamento della quarta parete avverrà a metà del secondo
tempo, per la passeggiata verso il caffè delle varie coppie, che attraversano la platea
andando verso il fondo e ritornando per quella via sul palco. Mentre nella tappa iniziale
del primo tempo, geometrico ed equilibrato, in contrasto con la recitazione accelerata al
limite del parossismo, non si esce dalla scatola scenica, come inquadrata per gli
11
spettatori; solo a partire dalla crisi che attraversa i rapporti fra i personaggi-attori, questi
ultimi, specialmente Giacinta, si protendono verso il boccascena.
Il boschetto e il finale
Dal buio totale emerge, con il secondo tempo, la scena appunto del boschetto: la
parete maschera nera posteriore a inquadrare una cascata di foglie verdi, tra le quali
traluce il roseo colore d’un tramonto, quella anteriore più ampia contiene il primo e il
secondo piano uniti, come già accennato, sul pavimento da due tappeti verde più
chiaro che discendono verso la platea oltre la pedana centrale, sfiorando i tre gradini
che l’affiancano da ambo i lati. Qui si colloca, all’inizio, il monologo di Giacinta che,
entrata da destra, va a sedersi sul limite del proscenio, con i piedi posati sulla pedana
aggettante. È rivolta al pubblico, a cui implicitamente confida i suoi tormenti.
Servillo conserva questo monologo significativo della protagonista, appunto rivolto al
pubblico: «Vorrei respirare un momento. Vorrei un momento di quiete» (III, 2, centrale
delle Avventure…), che è come una ricerca di chiarimento interiore per stabilire il
proprio comportamento successivo. Il regista riprende il monologo nella sua interezza,
tagliando solo le ripetizioni e modificando i termini più desueti, e ne fa proprio la scena
iniziale del secondo tempo della rappresentazione25. Nel complesso la scelta di far
coincidere l’incipit del secondo tempo con la confessione di Giacinta determina un
mutamento di tono, in passionale e drammatico.
Qui Anna Della Rosa usa al solito molto la mimica e una piccola gestica (nel fremito
delle dita) per esprimere i sentimenti del personaggio (da ferma), oltre a una vocalità
serrata e scandita che s’incrina soltanto quando ammette di non essersi mai immaginata
di «innamorarsi a questo punto». Il sorriso che le sfugge è subito nascosto dalla mano e
dal gesto di chinare il capo. Sorpresa da Guglielmo, reagisce dapprima con l’apparenza
di un fastidio che malcela la paura; si sente braccata e lo è di fatto, perché Tommaso
Ragno simulando rispetto si siede accanto a lei e la tocca, l’accerchia con le braccia, le
prende la mano che lei ha alzato per fermarlo.
Il dialogo diventa concitato, nervoso e amoroso allo stesso tempo, le voci si
rincorrono, e la serie dei doveri che Giacinta recita al suo un po’ subdolo spasimante è
come attraversata da un fremito, finché viso a viso la ragazza risponde per tre volte
(con gradazione crescente) «Vi amo», abbracciandolo, dopo che ne ha preso la faccia
fra le mani. Anche dopo che s’è svincolata ed è risalita in scena, continuando il suo
discorso – già improntato dall’ostinazione a seguire, malgrado tutto, la via del decoro,
ovvero quanto gli altri si aspettano da lei – a distanza da Guglielmo, che l’ha seguita
ma non osa più avvicinarsi, dal fondo dove s’è rifugiata gli corre quasi incontro sulla
battuta «Avete voluto ch’io parlassi…» per prima accarezzandogli disperatamente il
capo, ma alla sua ultima battuta le braccia dell’uomo cadono lungo i fianchi; da questo
momento in poi l’atteggiamento dell’attore diventerà sempre più inerte.
Proprio in questa scena, che sia Strehler sia Servillo accorpano con quella successiva,
in cui mentre Giacinta sta per fuggire sopraggiunge Leonardo, possiamo registrare
scelte diverse, lessicali e sintattiche, tra i copioni dei due registi rispetto all’originale
goldoniano. Nel complesso Servillo opta per una lingua italiana contemporanea vicina
a quella parlata, ma esaltandone la musicalità, colorandola di inflessioni napoletane per
25
Conserverà anche quello dell’atto II, 11, del Ritorno…: in cui Giacinta legge la lettera di Guglielmo e indugia
nel dubbio se seguire il cuore o la ragione (ovvero le convenzioni sociali), imprimendo poi decisamente un
cambiamento di rotta ai personaggi principali, che si adegueranno tutti alla fine alle regole di classe.
12
alcuni attori, e d’altra parte lasciando ad essa una certa patina poetica, proprio in
funzione dell’effetto musicale26.
Es. scene 3-4, III, Avventure (boschetto, Giacinta-Gugliemo poi Leonardo)
Scena 3 (Guglielmo e la suddetta):
G) GIACINTA. […] Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea
d’intendere il mio sentimento, l’avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire;
a ciò vi rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l’onore si dee
preferire alla vita.
GUGLIELMO. (Oimé! Non so in che mondo mi sia. Mi ha confuso a tal segno, che
non so più che rispondere.)
GIACINTA. (Ah! È pur grande lo sforzo che fare mi è convenuto! Grand’affanno, gran
tormento mi costa!)
Scena 4 (Leonardo e detti):
LEONARDO. Voi qui, signora?
GIACINTA. (Oh cieli!)
LEONARDO. Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo?
GUGLIELMO (Ah! è inevitabile il precipizio.)
GIACINTA. (Si tratta dell’onore. Vi vuol coraggio) (da sé). Gli affari ch’io tratto, con
esso lui, dovrebbero interessar voi più di me. […]
ST) GIACINTA. Ecco, avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Volevate
conoscere il mio sentimento, lo conoscete. Mi avete chiesto se dovevate vivere, o
morire … ebbene… questo posso solo rispondervi: che non so dire quel che sarà di me
stessa, da oggi in poi, ma che l’onore si deve preferire alla vita.
Entra Leonardo
LEONARDO. Siete qui, signora? (un tempo). Quali affari segreti vi obbligano a
ritirarvi qui col signor Guglielmo?
GIACINTA. Gli affari che io tratto con lui dovrebbero interessar voi più di me.
SE) GIACINTA. … Ecco, avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Volevate
conoscere il mio sentimento, lo conoscete. Mi avete chiesto se dovevate vivere o
morire … ebbene sol questo posso rispondervi che non so dire quel che sarà di me stessa
da oggi in poi; ma che l’onore si deve preferire alla vita.
LEONARDO. Siete qui, signora? Quali affari segreti vi obbligano ad incontrarvi qui col
signor Guglielmo?
GIACINTA. Gli affari che io tratto con lui dovrebbero interessar voi più di me.
Come esempio riporto le scene 3-4 dell’atto III di Le avventure… , pp. 215-216 dell’edizione goldoniana citata.
Con la sigla G indico il testo di Goldoni, con ST (Strehler) il copione dattiloscritto inedito conservato
nell’Archivio Storico del Piccolo Teatro di Milano, datato 1954, p. 27, con SE (Servillo) il copione dattiloscritto
inedito, 2007, pp. 48-49, che ho potuto consultare per gentile concessione del regista. Uso il grassetto per le
varianti rispetto al testo goldoniano, il grassetto corsivo per quelle del copione di Servillo rispetto al copione di
Strehler.
26
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Servillo tiene alcune modifiche lessicali di Strehler, ma normalizza «ritirarvi» in
«incontrarvi». Eppure l’andamento più colloquiale non esclude certe coloriture
settecentesche in entrambi, come l’appellativo «Signora» per una ventenne, ma implica
persino aggiunte come il «sol questo» (Giacinta) da parte di Servillo.
Ricordiamo inoltre, dal punto di vista scenico, la prossemica diversa da Strehler in
questo spettacolo: laddove Giacinta (Valentina Fortunato) e Guglielmo (Sergio
Fantoni) si tenevano a distanza, qui si abbracciano e si baciano.
Ma con l’ingresso di Leonardo il triangolo amoroso assomiglia piuttosto a una
diagonale: in cima il fidanzato che pretende spiegazioni, poi Giacinta di tre quarti
perché parla a lui e (implicitamente) a Guglielmo, il quale si colloca alla fine, nel punto
più vicino al pubblico e quasi frontale ad esso (volgendo le spalle agli altri due). La
postazione e la prossemica di Guglielmo/Tommaso Ragno gli permettono d’essere
notato quando esprime, con una smorfia che fa ridere (anche se non troppo
accentuata), un contrastante commento mimico alla notizia, data all’altro da Giacinta,
che lui gli chiede in moglie la sorella Vittoria. Così come si vede bene l’espressione
cupa, almeno atona come la voce con cui conferma la richiesta di matrimonio. Dopo
che la coppia regolare s’allontana (per volontà di Giacinta che esibisce decisione e
affetto per Leonardo) Ragno, prima di uscire dalla parte opposta, in una pausa ripete
variandola la smorfia, con una specie d’ammiccamento al pubblico.
Dunque, nel crepuscolare e quasi opprimente spazio del boschetto, si penetra da
subito nel privato, con l’assolo di Giacinta (rivolto al pubblico), raggiunta e messa alle
strette, anche fisicamente, da Guglielmo, eppure, nonostante appaia coinvolta dalla
«passione» (parola che ricorre quando si riferisce al giovane) e se ne lasci travolgere in
abbracci e baci, determinata a preferire l’«onore» alla «vita» prima ancora che
sopraggiunga Leonardo, e anche per salvarsi dal giustificato sospetto del fidanzato
decida per sé e per l’amante l’infelice soluzione matrimoniale di lui con Vittoria.
D’altra parte, nel boschetto un po’ shakespeariano la linfa vitale ed erotica scorre,
ancora e soprattutto grazie alle fughe per riacchiapparsi di Brigida e Paolino che si
scatenano durante la vacanza scenica dei padroni, andati a rinfrescarsi golosamente alla
bottega del caffè. Ma in quello stesso luogo Servillo collocherà anche dispetti, invidie,
gelosie meschine, recuperando una scena di scherzi crudeli – del suo personaggio ai
danni di Tognino – che nel testo goldoniano è precedente; e da lì parte, appunto, la
passeggiata a coppie attraverso la platea che concorre a rompere la quarta parete, già
incrinata dalla postazione iniziale di Giacinta. Passeggiata volutamente disordinata
perché le coppie paiono formarsi casualmente, scendendo da or l’una or l’altra scaletta
che affianca quella postazione («c’è un senso di disordine in questa ‘fuga’, di tempo
speso vanamente»27, ci ha detto il regista). Essa sembra interrompere le scene nel
boschetto, provocando disorientamento negli spettatori – per gli abiti settecenteschi
indossati dagli attori, diretti verso il caffè, o il foyer del teatro – che si sentono per un
attimo abbandonati; ma invece incornicia, col ritorno in scena dei personaggi per la
stessa strada, i giochi d’amore silvestre fra i due servi, l’unica pantomima gioiosa (il
sonoro delle voci è appena accennato) dell’intera pièce, più buffamente replicata dalla
coppia dei giovanissimi Rosina e Tognino, evasi ridenti e ansimanti dal gruppo. Il
minus habens e la ragazzina sacrificata sull’altare dell’escalation sociale traggono
Dall’incontro con Toni Servillo al Teatro Verdi di Pisa, 27 febbraio 2008, con gli studenti dello stage “Scenari
di regia contemporanea” dell’Università di Pisa. Incontro e trascrizione a mia cura.
27
14
piacere infantile dal connubio calcolato, così come i servi (qui giovani anch’essi) dalla
vacanza (in senso proprio) dei padroni, anche se, nella parte finale da chi calcola e
detiene il potere, sia pure un po’ ammaccato, dovrà dipendere il loro destino.
Ma soprattutto la cesura temporanea servirà a mostrare le conseguenze di calcoli e di
mancanza degli stessi, a partire dal ritorno di Giacinta prima del resto del gruppo, che
lentamente sale la scaletta, da sola. Seguiranno certi fatti relativi agli affari economici
(e non solo sentimentali) delle famiglie coinvolte, che si sono preparati avanti la
passeggiata: il recapito della finta lettera indirizzata a se stesso da Leonardo, come se
fosse stata scritta da Fulgenzio («il nostro amicone», dirà Filippo), in cui si annuncia la
grave malattia dello zio Bernardino, dal quale il giovane dovrebbe ereditare, e che
provoca il suo rientro anticipato dalla campagna; ma prima ancora la sua rivelazione a
Vittoria, davanti a tutti, della domanda di matrimonio da parte di Guglielmo (che
Tommaso Ragno subisce con un secco e basso «Benissimo»), per cui lui partirà con
loro, pur riuscendo a rimandare il contratto nuziale che il solerte Ferdinando è svelto a
preparare, per poi rigirarlo ironicamente ma insistentemente a Sabina («Un contratto di
matrimonio senza donazione»).
Dopo i saluti per la partenza (anche Costanza con Rosina e Tognino prende
commiato), incomincia a trasformarsi la scenografia con i servi che smontano il
boschetto; ma mentre nel debutto, come poi a Pisa e a Ferrara (2008), Giacinta esce per
ultima, dopo essersi soffermata un momento e solo allora avviene il cambio di scena,
nella replica del 2009 al Teatro del Giglio di Lucca, Anna Della Rosa raggiunge la
pedana, con indosso il suo mariage illuminato da un occhio di bue, e compie alcuni giri
su se stessa, limitata nello spazio (come ormai nelle scelte di vita) al modo delle
bambole da carillon, con lo sguardo perso, triste. Una soluzione più teatrale e
simbolica, rispetto alla dissolvenza quasi cinematografica del precedente cambio di
scena, perché la figura in primo piano della ragazza cattura gli sguardi degli spettatori,
distraendoli da quanto avviene alle sue spalle.
«Io avrei voluto fare Giacinta», ci ha detto Servillo nell’incontro al Teatro Verdi di
Pisa, il 27 febbraio 2008: «Come raramente succede nella drammaturgia italiana, lei si
stacca dagli altri e parla con la vita, confessando la propria indeterminatezza e
indecisione», nella scena d’attacco del secondo tempo; perciò l’ha così evidenziata
tagliando il dialogo precedente fra i servi. Le ha invece tolto proprio il monologo finale
delle Avventure…, il famoso “discorso agli spettatori”, in cui Giacinta interrompe il suo
lamento amoroso, rassicurando il pubblico che gli risparmierà l’ascolto di «una lunga
disperazione», rimandandolo alla commedia che seguirà: non ce n’è bisogno per
Servillo, dal momento che i tre testi sono condensati in due tempi, ma non ce n’era
bisogno neanche per Strehler, il quale però ne conserva la prima parte, sostituendo la
seconda (dopo aver tenuto la battuta «La commedia non pare finita ma è finita») con
una didascalia in cui Giacinta scoppia in lacrime, poi al richiamo di Filippo risponde
«Sono qui! » ed esce quasi di corsa mentre cala lentamente il sipario. Il regista milanese
mantiene così il carattere patetico della protagonista, che invece quello partenopeo
vuole evitare, oltretutto condensando nell’ultima trovata che ne meccanizza il corpo il
senso di un’autodeterminazione solo apparente.
Con lo stesso criterio Servillo le toglie anche l’ultimo monologo del Ritorno…, in cui
Giacinta saluta il pubblico: la scena si conclude ancora con un’azione corporea, con
quell’abbraccio disperato e muto di Giacinta a Leonardo, dopo che ha annunciato la
loro partenza per Genova. Troncando così la Trilogia, il regista marca la drammaticità
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del finale, facendo precipitare il ritmo serrato delle scene precedenti in una immobilità
inattesa, che obbliga il pubblico a focalizzarsi sull’epilogo della vicenda. Ritornata in
scena, seria, rigida nell’abbigliamento, nei movimenti e nelle espressioni, nell’abbraccio
si trova più in alto rispetto agli spettatori – con i quali nei precedenti monologhi si era
messa quasi al pari sedendosi – cui lancia un ultimo sguardo quasi tragico, e soprattutto
più in alto dello sposo che, si capisce, non la possiederà mai.
Quanto alla parte di Ferdinando, ancora Servillo ci ha detto: «Ognuno presta qualcosa
di sé al personaggio, ma è un accumulo energetico: quello che succede è un mistero
come quando si spenge la luce. Facendo Andreotti al cinema mi sono sentito in
imbarazzo perché dovevo trovare un involucro che non mi si confaceva»; d’altra parte
«Ferdinando è ideale per il regista, poi serve a contrastare lo stereotipo cinematografico
che mi vuole malinconico»28.
28
Ibid.
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