Milano, 21 marzo 2014 La rilevanza mediatica che ha assunto la vicenda collegata al ritiro da parte di Abbott dei reattivi per la misura del paratormone (PTH) richiede un chiarimento da parte delle società scientifiche di Medicina di Laboratorio. Senza voler minimizzare l’effettiva esistenza di una problematica analitica, che ha indotto la ditta a ritirare i suoi reattivi dal mercato, è però necessario verificare nel contesto corretto le conseguenze reali di questo evento. In primo luogo deve essere chiarito che la sovrastima massima del 45% non si riferisce a lotti specifici del reattivo, ma a variazioni di concentrazione osservati in campioni a basse concentrazioni di PTH. In questi casi anche variazioni di tale entità non comportano il superamento del limite superiore dell’intervallo di riferimento (“intervallo di normalità”), e non influenzando quindi il giudizio clinico sul paziente. Questo spiega il motivo per cui i sistemi di controllo di cui i laboratori sono dotati non abbiamo dato specifici allarmi. Infatti, nel momento in cui i laboratori utilizzatori hanno rivalutato nel tempo l’andamento delle medie dei valori dei propri pazienti, hanno riscontrato incrementi inferiori al 10– 15%. Questo spiega anche come mai, almeno per quanto a nostra conoscenza, non siano state ricevute dai laboratori segnalazioni da parte dei clinici utilizzatori in merito a possibili problematiche interpretative relative ai risultati di PTH. La difficoltà per il clinico e lo specialista di laboratorio di apprezzare variazioni di questa entità (10-15%) dipende dal fatto che la misura del PTH è molto complessa del punto di vista analitico (l’ormone è presente in circolo in varie forme), e comunque soggetta ad un certo grado di variabilità. Oltre a quella analitica insita nella misura, esiste una variabilità di tipo pre-analitico legata alla limitata stabilità della molecola, ed un’elevata variabilità biologica (oscillazioni della concentrazione dell’ormone nello stesso individuo nell’arco della giornata e tra giorni). Tutte queste fonti di variabilità rendono più complessa l’interpretazione clinica dei risultati del PTH, tanto da dover ricorrere a misure ripetute per un’interpretazione più accurata, valutando solo variazioni importanti delle sue concentrazioni a cui possano poi conseguire interventi medici. C’è infine da rimarcare che la misura del PTH rappresenta una delle componenti di un quadro diagnosticolaboratoristico in cui devono essere obbligatoriamente inclusi altri esami chiave, come calcio e fosfato sierici e urinari, il dosaggio della vitamina D e, se necessario, anche altri parametri come la forma libera (ionizzata) del calcio plasmatico, la fosfatasi alcalina di origine ossea ed altri marcatori di turnover osseo. I dati sono da valutare nel loro complesso, e dovrebbero quindi poter prescindere dalla singola misura di PTH. Dal contesto sopra descritto appare evidente come il richiamo in massa di tutti i soggetti sottoposti alla misurazione del PTH nel periodo di utilizzo del reagente incriminato per la ripetizione della misura dello stesso non si possa rivelare utile per chiarire situazioni pregresse (i valori dell’ormone rimisurati oggi potrebbero essere differenti per motivi biologici e/o fisiopatologici che nulla hanno a che fare con le problematiche segnalate relative alla sua misurazione), ma possa invece procurare un allarme ingiustificato nella popolazione. Naturalmente, questo non esclude che in casi mirati la ripetizione possa essere utile, ma ciò deve essere valutato dal clinico in base al contesto generale biochimico del paziente sopra descritto. Ferruccio Ceriotti Presidente SIBioC - Medicina di Laboratorio Marco Migliardi Presidente ELAS Italia