Recensioni teatrali | Teatro.Persinsala.it
Alessandro
Alfieri
maggio 23, 2016
Un audace Roberto Latini propone al Teatro Vascello una
versione del classico di Ovidio stravolgendolo dall’interno e
scomponendolo in tanti episodi.
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Ci sono diversi modi di approcciarsi a un classico della letteratura classica,
che come le Metamorfosi di Ovidio a distanza di millenni mantiene
intatta la proprio forza espressiva e poetica. L’orizzonte della nostra
cultura e del nostro immaginario sono a tutt’oggi determinati dall’energia
impareggiabile dell’opera del poeta latino, che attraverso il racconto
elegiaco della storia dei miti è riuscito a realizzare un monumento
immortale che ancora ci parla del rapporto tra umano e divino, tra fato e
libertà, tra disperazione e sentimento.
La maestosità di un testo del genere metterebbe in difficoltà qualunque
autore avesse la malsana idea di tradurlo in linguaggio drammaturgico,
portandolo in scena più di duemila anni dopo, snaturandolo da subito e
facendo slittare la specificità poetica del testo nella messa in scena
teatrale. Bisogna avere una consistente dose di follia, essere degli
sperimentatori incalliti per compiere un’operazione talmente iconoclasta e
blasfema; e se nella scena del teatro contemporaneo italiano c’è un autore
che risponde a tale profilo e che poteva compiere tale “misfatto” non
poteva che essere Roberto Latini.
Il regista, autore e attore romano non è nuovo a progetti di questo tipo,
perché per il suo stile eccentrico il testo classico diventa materiale da
smontare, rivoltare, da rendere irriconoscibile, in quanto proprio nel
momento stesso in cui esso diventa altro da ciò che la cultura ufficiale ha
consolidato nel corso dei secoli, quei testi riacquisiscono la proprio carica
propulsiva, il loro significato e la loro abissale quantità di significati.
Latini porta al Teatro Vascello una versione “assurda” e allucinata delle
Metamorfosi di Ovidio e il sottotitolo che recita (di forme mutate in
corpi nuovi) sottolinea quale fosse la sua intenzione, innanzitutto
focalizzarsi sulla “metamorfosi” in sé. Perché, se Ovidio narra le
metamorfosi, queste trasformazioni non possono lasciare inalterato il testo
stesso, come se l’energia inarrestabile della mutazione non potesse non
riguardarlo mentre si autodivora in un movimento a spirale autoriflessivo
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dove è l’originale stesso a svanire. La metamorfosi trasforma, in pratica,
se stessa. Se si vogliono narrare le metamorfosi, non si può non passare
attraverso una trasformazione dell’originale che le narra: questo il
progetto audace di Latini, uno spettacolo assolutamente inedito che
frammenta le Metamorfosi in una serie di episodi che coprono diverse
ore di messa in scena.
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Dell’originale resta poco, ma è un “poco” che è tutto, mentre il “resto”
(che, sosteneva Hölderlin, è fondato dai poeti) coincide con l’“altro” cui lo
spettacolo fa riferimento celandolo e distruggendolo.
Questo “altro” è dunque tutto, mostrando come Latini conosca bene
l’infinità dell’opera ovidiana e la sua capacità di resistere a qualsiasi
messa in scena che la oltraggerebbe: la risposta di Latini è portare tale
oltraggio a coscienza, renderlo evidente e sbatterlo con irruenza alla
visione degli spettatori. Questo perché ciò che ricerca Latini non è una
maggiore comprensione dell’originale, ma il valore dello slittamento
perpetuo di senso che si verifica tra l’originale e la sua estrema rilettura e
trasposizione.
Nel “tra”, che si pone nello spazio vuoto, abissale e liminare, che separa le
Metamorfosi di Ovidio e le Metamorfosi di Latini, si gonfia un nuovo e
inedito livello di senso; il testo originale ricompare per esempio nei versi
meravigliosi del monologo di Orfeo, che implora gli dèi dichiarando il suo
amore infinito per Euridice, ma anche nelle indimenticabili parole che
compongono il racconto della Peste: sono brandelli classici che
ricompaiono contornati di clown che mugugnano e compiono atti senza
senso, talmente “irrispettosi” (nei confronti della grandezza del testo che
in teoria dovrebbero rappresentare) da risultare inquietanti. Gran parte
dell’efficacia dello spettacolo è attribuito ai corpi, tanto che la coreografia
è complice di un disegno luci e di una regia che “devono” essere di
estremo livello se non vogliono far diventare lo spettacolo un ammasso di
azioni sconclusionate destinate al caos.
Latini riesce in parte nella sua impresa, ma non a caso solo lì dove il testo
di Ovidio è maggiormente presente, perché se il suo obiettivo è lo
slittamento di senso e il cortocircuito tra il verso classico e lo strampalato
circo in scena, questo è possibile solo quando i versi del poeta latino sono
recitati chiaramente e solennemente. Quando i versi cedono alla scena,
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maggio 23, 2016
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Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini, 78 – Roma
dal 18 al 22 maggio
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allora Ovidio scompare, e lo strampalato circo si svuota senza rimandare
ad alcun “tra” e ad alcun senso “altro”. In altri termini, senza Ovidio lo
spettacolo non sarebbe che una sciarada caotica e compulsiva, e questo
Latini lo sa bene, seppure in diverse occasioni sembra dimenticarlo,
lasciando troppo la mano al suo estro di regista e trascurando Ovidio. Ma
d’altronde, le Metamorfosi sono talmente grandi che l’unico modo
appropriato di relazionarsi a esse sembra quello di perdercisi.
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Fortebraccio Teatro presenta
Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi)
da Ovidio
traduzione Piero Bernardini Marzolla
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
costumi Marion D’Amburgo
con Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Roberto Latini, Savino
Paparella, Francesco Pennacchia, Sebastian Barbalan , Alessandro
Porcu
Esklan Art’s Factory
direzione tecnica Max Mugnai
organizzazione Nicole Arbelli
riprese video Mario Panto
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