L`anoressia come tempo sospeso: un`esperienza

Edvard Munch (1863 - 1944) – La fanciulla malata – 1885/86
L’anoressia come tempo sospeso: un’esperienza clinica.
L’anoressia mentale rappresenta da sempre un nodo tra psichiatria e medicina sia da un punto di vista nosografico che da un punto di vista
gestionale.
In effetti la “soluzione anoressica” (Boris H.N., 1984) cela realtà psicopatologiche differenti, in cui il denominatore comune rimane la perplessità
nel definire l’identità femminile.
Inoltre la “fisicità” del sintomo, il coinvolgimento del corpo e della sua fisiologia, determinano una contaminazione tra due sguardi clinici, quello
della psichiatria e quello della medicina.
Da un punto di vista psicodinamico le descrizioni cliniche dell’anoressia mentale (Bruch H., 1974, Selvini Palazzoli M., 1963) che hanno ripreso
quelle della fine dell’’800 ( Lasegue C., 1873) tendono a definire un’entità nosografica autonoma, legata in modo quasi esclusivo alla
psicopatologia femminile.
Denominatori comuni della sindrome sono una difficoltà di definizione dell’ identità femminile: è evidente come questi aspetti, adolescenziali e
giovanili, richiamino situazioni originali di sviluppo dell’immagine di Sé. La corrispondenza tra livelli attuali e livelli antichi è provata dalla
coincidenza che le anoressiche mostrano tra spazio fisico e spazio mentale, come nell’iniziale binomio corpo-mente (Selvini Palazzoli M., op.
cit.).
H. Bruch ha dipinto le pazienti come bambine modello che “soddisfano il sogno dei loro genitori di avere un figlio perfetto” ed ha parlato a loro
proposito di “infanzia esemplare” (Bruch H., 1980).
Benché l’età di esordio in età puberale venga ancora considerata quella più frequente, stanno aumentando le segnalazioni di età di esordio sia
più tardive, ma soprattutto di casi il cui esordio avviene in età prepubere, infantile e della prima e primissima infanzia ed addirittura in periodo
neonatale (Mouren-Simeoni M.C., Bouvard M.P., 1993).
Caratteristica della “soluzione” è il bloccare l’introito di elementi esterni (non solo del cibo) e soprattutto la loro assimilazione.
La “soluzione” anoressica più che astensione dal cibo e rifiuto del nutrimento, è decisione di non accettare nulla all’interno del proprio spazio,
soprattutto di non assimilare alcun elemento esterno, di non integrarlo alla struttura (Boris H.N., 1984).
Non sempre la soluzione riesce perfettamente: qualcosa può filtrare attraverso la barriera, e a volte se penetra viene rigettato con il vomito
autoindotto.
L’anoressia è rivelatrice di alterata permeabilità dello spazio interiore e prova l’esistenza di una patologia dei confini del Sè.
L’astenersi dal cibo o prenderne troppo e vomitarlo indica una volontà di non assimilazione.
La situazione premorbosa, come aveva già rilevato Lasègue, corrisponde a un ritiro rispetto alle attività e al ritmo di vita: abbandono degli studi,
contrazione delle relazioni sono abituali. L’anoressia cristallizza questo ripiegamento. Le pazienti si preoccupano di non assumere alcuna cosa
e fanno di tutto per non assimilare quanto entra nel loro spazio.
La fase anoressica si presenta quale sospensioni di ritmi, ritrarsi rispetto alla fisiologia e al tempo storico.
L’anoressica, secondo Boris, distingue i livelli d’assorbimento: quanto entra “in me”, ella ci ricorda, resiste ad essere “di me”.
Più gravi sono gli elementi psicotici che l’anoressia può celare, rilevabili all’esordio nella rigidità dei vissuti e delle difese, in momenti confusivi e
di parziale scissione, motivi persecutori che attestano la difficoltà a circoscrivere i confini di Sé: i fantasmi persecutori si risolvono spesso nel
vomito, cioè nell’espulsione di qualcosa vissuto come intrusivo.
“Leitmotiv” psicopatologico rimane per tutta questa fase, la non-definizione dell’immagine del Sé, che conferma le carenze strutturali e che ha,
quale correlati, l’emancipazione del corpo e la negazione della sua fisiologia.
Le pazienti appaiono solitamente “sessuofobiche”, ma anche allorquando non presentino difficoltà nella vita sessuale, riferiscono un notevole
disagio nello sviluppare sentimenti e affetti: i rapporti risultano più “contatti” e “fusioni” che non effettivi “scambi”.
Nell’articolazione indispensabile tra sguardo medico e ascolto psichiatrico non deve mai venir meno dunque, pur nel rispetto della specificità,
l’intesa condivisa di spostare la “soluzione” anoressica dall’ancoraggio fisico per farne rivelare nella relazione l’essenza mentale.
L’amenorrea secondaria e l’anoressia corrispondono a turbe di un momento evolutivo preciso nella ricerca dell’identità femminile, che per S.
Freud (1905) deve affrontare un lungo e non lineare cammino, dovendo spostarsi dall’amore assoluto per la madre del periodo pre-edipico
all’investimento sul padre, figura centrale della fase edipica, per tornare alla madre nel momento ulteriore, di definitiva separazione, costituito
dalla pubertà.
I cambiamenti legati alla immagine corporea vissuti dalla bambina che diviene donna adolescente risultino assai traumatici e difficili da tollerare
da parte di quelle bambine che hanno subito turbamenti nei momenti di identificazione precoci, nei quali il rapporto mente-corpo funziona come
un’unità non differenziata.
Alcune adolescenti evitano gli attributi femminili e mantengono un aspetto efebico, di solito ben accordato a predilezioni sportive.
Giovani più inclini a riconoscersi nel ruolo femminile, ad occuparsi di moda, mostrano comunque di preferire una figura stilizzata e ridotta nei
caratteri sessuali specifici.
Altre giovani, poi, esibiscono una cosmesi sottolineata e assumono atteggiamenti seduttivi, quale maschera di femminilità non risolta.
L’esperienza clinica
Francesca compirà tra qualche giorno 18 anni.
La incontriamo la prima volta nello studio della collega della Neuropsichiatria Infantile, dove si è recata per uno degli ultimi controlli prima del
raggiungimento della maggiore età e dove siamo stati invitati per il passaggio del caso.
Giunge accompagnata dai genitori.
E’ alta, il suo passo è lento, cammina un po’ dinoccolata, flemmatici i movimenti.
Ha un peso apparentemente nella norma, ma il modo di muoversi trasmette la sensazione come se un suo corpo “virtuale” occupasse meno
spazio del corpo “reale”.
Ha lunghi capelli neri, lisci, con un taglio alla moda.
Il trucco abbastanza marcato, tutto impostato sui toni del chiaro-scuro, con gli occhi accuratamente disegnati.
In contrasto con questo suo voler apparire “adulta” l’espressione del viso e il timbro di voce sono quelli di una bambina piccola, un po’ intimidita,
forse, dalla presenza dei “nuovi” medici.
Il linguaggio è corretto, ma talvolta il discorso è limitato nella forma e piatto nei contenuti, spesso ridotto a risposte monosillabi.
Le labbra mimano un sorriso, ma lo sguardo è triste.
L’abbigliamento è simile a quello delle ragazze della sua età, pantaloni di taglio sportivo, ma molto femminili, abbastanza aderenti, in contrasto
con una maglietta quasi “da maschio”, come se la sua definizione sessuale di donna non si fosse ancora compiuta.
Siede tra il padre e la madre, sembra quasi compressa e soffocata da loro.
La collega mi spiega che F. ha chiesto un anticipo dell’appuntamento perché “non si sentiva di nuovo bene”.
Infatti, dopo un periodo di relativo benessere che aveva consentito la sospensione della terapia con olanzapina, è insorta una riacutizzazione
della sintomatologia, con somatizzazioni multiple (cefalea, nausea sensazione di stomaco chiuso), sentimenti di “tristezza e malinconia”, vissuti
di inadeguatezza e spunti persecutori nei confronti di una persona che la segue nel nuovo lavoro.
Si valuta, quindi, la reintroduzione in terapia del farmaco.
In attesa del successivo incontro che avverrà nel mio studio del Centro di Salute Mentale, al fine di un maggiore approfondimento del caso,
valutiamo le precedenti cartelle cliniche dei ricoveri di F.
I genitori di F. si sono conosciuti tramite un annuncio messo dal padre su un giornale, al quale la mamma ha risposto. Dopo una breve
corrispondenza epistolare, hanno preso a frequentarsi, ma lui, convinto di non esserle piaciuto, è stato ricoverato per uno scompenso psicotico.
Non le ha più scritto per 4 anni, poi le ha chiesto di sposarlo e così è stato. Il padre di F. è affetto da disturbi psichiatrici di una certa gravità,
ricoverato più volte in regime psichiatrico, con diagnosi di “psicosi depressiva” e trattato oltre che con psicofarmaci, con elettroshock-terapia.
Ricoverato ultimamente, nel giugno 2003, in preda ad un florido delirio sessuale (aveva fatto, tra l’altro, proposte sessuali ad una vicina di casa).
In passato è stato portato d’urgenza in ospedale, perché vedendo che la bambina non mangiava ha cercato di impiccarsi. Aveva minacciato di
farlo anche davanti ai suoi perché “vedeva la bambina già morta”.
Sin dai primi incontri con lo specialista la madre di F. elenca quello che mangia la bambina (puree, passati di verdure, yogurt, omogeneizzati),
rimanendo sempre sul piano concreto del particolare del cibo.
I discorsi dei genitori appaiono abbastanza frammentati e persi nei particolari, senza una visione organica e globale.
La madre, con un atteggiamento iperprotettivo-ansioso, parla molto, è intrusiva. Racconta che la bambina impiega tantissimo tempo a mangiare
e che lei le scalda più volte il cibo. Quando la madre parla e descrive il cibo, F. si mette a piangere.
Anche negli incontri successivi, quando F. è ormai cresciuta, si sostituisce a lei nel rispondere alle domande che le vengono poste.
Il padre alterna momenti di pianto, in cui parla dei suoi difetti, a momenti in cui con tono di superiorità, rimprovera la moglie e le insegna il da
farsi.
La bambina si presenta piangente, sembra avere paura, parla con voce flebile.
Nel 2001 la mamma si ricovera per sottoporsi ad un intervento chirurgico di asportazione di un nodulo mammario. E’ preoccupata di lasciare F.
con il padre, perché ritiene che la ragazza non sia autonoma. Padre e figlia rimangono una settimana da soli e F. mangia il cibo preparato dal
papà. Ai controlli appare di buon umore, più socievole.
Rivediamo F. dopo una quindicina di giorni.
Ha cambiato un po’ aspetto: dopo una breve iniziale esitazione, fugata dall’invito ad accomodarsi, non sembra più la ragazza spaurita e
reticente che avevamo visto la prima volta.
Appare disposta a parlare e a collaborare.
I suoi discorsi sono quasi tutti incentrati sul tema “cibo”. Riferisce che ora ha molta fame, che preferisce soprattutto cibi dolci, che mangia molti
biscotti nel caffè-latte anche a merenda, alternando, anche a breve distanza di tempo, cibi salati, soprattutto patatine fritte, che ha preso
parecchi chili, ma che questo non le dispiace.
F. si definisce una ragazza timida e sensibile, con poche amicizie, tra cui un’”amica del cuore” che però, qualche tempo fa, l’ha “tradita”,
mancando di sincerità nei suoi confronti a proposito di un ragazzo che le piaceva.
Manifesta di aver sempre avuto una certa difficoltà a porsi in relazione con il mondo esterno, adottando la scelta di non proporsi
spontaneamente agli altri e di non affrontare i cambiamenti (“ho paura di cambiare”, dice), le esperienze nuove. Ha degli amici “di penna” che ha
conosciuto per corrispondenza tramite delle riviste, senza un reale proposito di conoscerli di persona.
Descrive la sua infanzia come un periodo sereno, caratterizzato da un ottimo rapporto con le figure genitoriali, quando era molto piccola,
soprattutto con la madre.
Il padre era sempre “un po’ nervoso” e, negli anni seguenti questo la portò ad assistere a frequenti litigi fra i genitori.
F. non ha mai sopportato e non sopporta tuttora, che i suoi litigassero, spesso correva via, trovando rifugio in camera sua, con le orecchie
tappate, aspettando che tutto finisse.
Ha sempre sentito la figura materna più vicina a sé rispetto a quella paterna, più comprensiva ed accudente, anche negli anni successivi: la
madre non la lasciava mai, né di giorno, né di notte, durante i suoi ricoveri in ospedale.
A casa ha avuto solo negli ultimi anni dell’infanzia una camera tutta sua (“c’erano pochi soldi per comperare i mobili”, afferma) e quindi ha
dormito per diversi anni in camera con i suoi.
Anche più tardi, però, quando ormai aveva degli spazi autonomi, spesso la mamma le permetteva di dormire nel “lettone” con lei, quando F.
sentiva più forte la paura del buio.
F. racconta che da bambina aveva anche altre paure: quella dei cani e quella di ingoiare i denti “che si muovono”, ma riferisce un rifiuto da parte
sua di aprire la bocca e lasciarsi visitare dal dentista.
Racconta anche di aver frequentato una scuola per parrucchieri, ma con risultati fallimentari perché “toccare i capelli mi dava un senso di
nausea, fino a poco tempo fa non riuscivo a lavare e pettinare neanche i miei, ero costretta ad andare tutte le settimane dal parrucchiere”.
La frequenza delle scuole elementari non le ha dato particolari problemi.
Quando F. ha 9 anni, insorge un disturbo di tipo anoressico (o meglio, “sitofobico”), con nausea alla vista del cibo, paura di rimanere soffocata
dal transito del cibo attraverso l’esofago, mal di testa e somatizzazioni gastrointestinali, che si verificano soprattutto quando D. ingerisce alimenti
di consistenza molle.
In realtà tale disturbo avrebbe avuto inizio, racconta la ragazza, da quando ella aveva mangiato una merendina cosparsa da granelli di zucchero
che le era rimasta come “attaccata” in gola, per un tempo che le era sembrato interminabile, causandole una sensazione di soffocamento.
Questa iniziale idiosincrasia per quel tipo di alimento l’ha portata ad eliminare progressivamente ma in modo abbastanza repentino una gran
quantità di cibi, non solo quelli “zuccherosi”, tramite un’accurata selezione e limitando le esperienze in cui doveva mangiare in pubblico.
Tale comportamento ha causato un notevole calo ponderale in F. ed ella racconta che quando la mamma insisteva nel farla mangiare, ella
andava via da tavola piangendo: di carattere dolce, in queste circostanze diventava ostinata.
F. è stata ricoverata varie volte presso il Reparto di Pediatria/Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale S. Croce dove è stata trattata
farmacologicamente con ansiolitici e neurolettici classici ed è stata progressivamente rialimentata con cibi di dimensioni via via più grandi.
La ragazza non riferisce una dismorfofobia ed una percezione claustrofobica del proprio corpo, anzi, l’esatta valutazione della propria magrezza
le provocava una sensazione di disagio, quando durante l’attività ginnica, a scuola, era costretta a mettersi in tuta ed, inevitabilmente, a
confrontarsi con fisici più muscolosi.
Negli anni successivi, F. ha alternato momenti di relativo benessere a fasi di breakdown, come quando, nel giugno 1999, dopo un intervento di
appendicectomia, il suo equilibrio nervoso si è nuovamente rotto, portandola a due ricoveri molto ravvicinati per “dolori addominali” e
somatizzazioni varie ( cefalea, sensazione di freddo intenso, difficoltà respiratorie) e a recarsi spesso in Pronto Soccorso per “dolori lancinanti
allo stomaco”, dopo aver fatto indigestione di una grossa quantità di biscotti.
L’ambientamento di F. nel reparto di Chirurgia per l’elezione dell’appendice, è stato reso difficoltoso da più motivazioni (“tutti mi costringevano a
mangiare, ma io avevo paura ad ingoiare”, “le cose sono diverse da come le prepara la mia mamma: il pollo la mamma lo prepara sempre alla
cacciatora con il sugo, qui lo fanno solo lesso e io così non l’ho mai mangiato”).
Dopo questi episodi, seguiti da un breve periodo di sufficiente benessere, F. ha ripreso a mangiare poco e a selezionare nuovamente i cibi:
preferisce solo minestrine e cibi semiliquidi e se le capita di mangiare qualcosa di più solido la madre glie lo sminuzza in pezzi piccolissimi,
riducendo in purea anche le polpette (“devi mangiare tutto, se no non cresci”).
Spesso F. preferisce mangiare da sola in camera.
Le uscite di casa si diradano sempre più, fino a diventare inesistenti. Comincia la paura di contaminazione, di contrarre qualche pericolosa
malattia, che la porta a lavarsi continuamente le mani.
L’ideazione delirante che qualcosa le entri dall’esterno.
Riprende nuovamente a dormire con la mamma, perché ha paura del buio, ha paura di morire durante il sonno.
Questo proteiforme corteo sintomatologico ha richiesto l’impiego di terapia psicofarmacologica con neurolettici atipici (Risperidone) con risposta
discreta.
Nell’ambito scolastico F. ha concluso le medie e poi ha frequentato con molta difficoltà e discontinuità un anno e poco più di istituto
professionale. A scuola il rendimento era insufficiente in molte materie, non le piaceva studiare, nel computer era troppo lenta, faceva molte
assenze. Racconta: “I professori ce l’avevano con me, anche se avevo studiato, lo facevano apposta a trarmi in inganno…”. La frequenza
scolastica è stata interrotta per i notevoli problemi di inserimento e socializzazione, legati alla coartazione affettiva associata anche a fasi
caratterizzate da importanti spunti paranoici (nei confronti degli insegnanti e dei compagni di scuola); venivano inoltre segnalate dalle insegnanti
difficoltà di apprendimento soprattutto in ambito logico-matematico.
F. racconta che frequentava saltuariamente la scuola, stando per lo più in casa. Usciva con un’amica qualche volta, mentre ora frequenta un
“gruppo” di coetanei che però riesce a vedere solo una volta a settimana perché si tratta di ragazzi che vivono in un altro paese, è sempre un
po’ persecutoria verso gli altri.
Gli spunti paranoidi sono intensi, riemergono continuamente (“le vecchiette mi fissano e criticano”, “le mie coetanee escono con i drogati”).
L’argomento “ragazzi” viene sempre accuratamente evitato, se non per precisare, in modo sessuofobico, che quelli che lei ha conosciuto,
compreso uno più giovane di lei di 3 anni, “volevano portarsela a letto”.
Le difficoltà di socializzazione e un nuovo scompenso nella primavera del 2002 hanno richiesto nuovamente impiego di farmaci: olanzapina 5
mg in sostituzione di risperidone per irregolarità mestruali ed iperprolattinemia e paroxetina 20 mg, ed hanno causato, inoltre, notevoli problemi
in ambito professionale: numerosi tentativi effettuati dalla famiglia di inserimento in attività lavorativa sono falliti; per questa ragione, a partire da
tale periodo, sono stati ripresi contatti con il Servizio Sociale con cui è stato stilato un progetto congiunto: D. usufruisce di un intervento
educativo per 3 ore settimanali: è riuscita ad instaurare con l’educatrice un ottimo rapporto che le ha permesso di essere più fiduciosa e
motivata verso l’ambiente esterno; è stato inoltre possibile effettuare inserimento professionale: F. ha effettuato uno stage, conclusosi nella
primavera con risultati discreti ed attualmente ha iniziato un nuovo inserimento professionale presso una struttura alberghiera; in ambito
lavorativo la ragazza necessita di continuo sostegno per la scarsa autostima e per una notevole intolleranza alle frustrazioni ed ai fallimenti.
Dopo un breve periodo in cui il lieve miglioramento clinico ha consentito di sospendere il trattamento con olanzapina e il mantenimento di una
terapia farmacologia esclusivamente a base di paroxetina, il ripresentarsi della sintomatologia, caratterizzata da somatizzazioni multiple
(cefalea, nausea sensazione di stomaco chiuso), sentimenti di “tristezza e malinconia”, vissuti persecutori, ha richiesto la reintroduzione del
farmaco prima sospeso.
Si è in attesa di valutare l’andamento di questo nuovo inserimento professionale.
Commento al caso
F. propone il suo problema alimentare come un problema di confine del Sé, vissuto come unità inscindibile di corpo e mente. La
rappresentazione fisica da lei messa in atto è un messaggio consegnato visivamente all’esterno. La chiusura anoressica mentale comporta
restringimento dello spazio fisico. L’ingrassamento dichiara invece l’uscita dalla protezione familiare e comporta a sua volta allargamento della
spazialità del corpo.
La patologia del confine del Sé che in F. oscilla in modo così visibile tra apertura e chiusura all’esterno, appare evidente nella sua situazione
ancipite e iniziale, mentre è più difficile rilevarla quando la scelta tra le due linee patologiche è stata compiuta ed ha definito quadri cristallizzati.
Il conformismo alle abitudini alimentari del proprio ambiente portano alla confezione di pasti determinati, esattamente regolati e prevedibili nella
composizione e nella successione dei vari componenti. Siamo di fronte ad un sintagma rigido e ad un sistema estremamente povero di scelte.
L’anoressia è, dunque, difficoltà a focalizzare l’identità nella fase puberale, a sviluppare la sessualità femminile, ad accoglierne i vissuti specifici.
F. conferma in modo iterativo questo stato d’animo, ben descritto da Pillay e Crisp (1977): scarsa fiducia nelle proprie risorse, aumento
dell’ansia e della depressione, interazioni sofferte, tendenza ad uno stile “ossessivo” per equilibrare la perdita di quel “controllo” che è nucleo
della fenomenologia anoressica.
F. spesso ripete: “non ho la sicurezza di riuscire, proprio in nulla”, “non so come comportarmi”, “non so che fare, forse niente mi interessa”: il
timore si lega all’assimilazione di emozioni, all’accoglimento di elementi nuovi che mutino nella sostanza economie cristallizzate.
Nell’ambito, poi, di questo disagio individuale, le famiglie sono sempre addosso, il cibo è sempre presente.
Questo dato è stato messo in rilievo sin da Lasegue nel 1873 fino alla recente messa a punto italiana della Palazzoli Selvini nel 1963 : un
continuo rilevare il rimando necessario alla famiglia, alle norme dell’ambiente, alla società stessa : non è inoltre sfuggito agli studiosi più acuti
come l’anoressia sia, tra i disturbi psichiatrici, quello la cui incidenza e configurazione sono particolarmente relazionabili al corso del costume
sociale.
Il rifiutare il cibo, il non mangiare, il deperire, sono dunque inscindibili dal contesto familiare e sociale.
F. rimane isolata in una famiglia che non la comprende, tuttavia rimane legata a questa famiglia, perché proprio le motivazioni del suo disturbo
le impongono di restare.
Da un punto di vista antropologico-esistenziale, il disturbo consiste non soltanto in un minus ma in una perversione della alimentazione: la
perversione anoressica di F. si manifesta con le opposizioni del tipo: salato/ zuccherato (Levi-Strauss CL,1967), forma di ribellione al contesto di
una famiglia che mangia in modo estremamente convenzionale, non allontanandosi dal grigio conformismo.
In una ulteriore riflessione antropologica (Levi-Strauss CL,“Pensiero selvaggio”,1962; ”Il crudo e il cotto”, 1964), si possono cogliere i nessi che
legano sfera alimentare e sfera sessuale: “…analogia profondissima…ovunque nel mondo, il pensiero umano sembra stabilire tra l’atto della
copulazione e l’atto del mangiare, a tal punto che moltissime lingue li designano con lo stesso termine…”.
Si pensi ancora alla “dialettica dell’apertura e della chiusura degli orifizi”, che più sembra far convergere i rapporti tra le varie sfere a livello del
corpo. Questa dialettica, nella quale “continenza e incontinenza, chiusura ed apertura, si pongono anzitutto come manifestazioni di misura e
dismisura”, porta a focalizzare i significati del vomito e delle alterazioni della funzione intestinale, fatti consueti nell’anoressia. E sempre in
questa dialettica emergono alcune figure quali il masticare rumorosamente, il ridere, l’aprire la bocca, l’orinare, il mestruare, che pure, come
risulta dalle notazioni di vari studiosi e della stessa Palazzoli Selvini, la quale ricorda, tra le altre, la difficoltà (mostrata anche da F.) che aveva
una delle sue pazienti ad aprire la bocca dal dentista, acquistano una connotazione precisa nella dinamica del disturbo psicopatologico.
Bibliografia
1. Boris H.N. The problem of anorexía nervosa, “Int. J. Psycho-Anal“, 65, 1984, pp. 315-322.
2. Bruch H. Perils of behavoiur modification in treatment of anorexia nervosa, J.Am.Med.Assoc., 230, 1974, 1419-1422
3. Palazzoli Selvini M. L’anoressia mentale. Feltrinelli, Milano, 1963.
1. Lasegue C. De l’anorexie hystérique. Arch gén. Méd., 21, 385, 1873.
2. Palazzoli Selvini M. op. cit.
3. Bruch H. op. cit.
4. Mouren- Simeoni M.C., Bouvard M.P., Anorexie mentale chez l’enfant prépubére : particularités cliniques et évolutives, « Neuropsichiatrie
de l’Enfance et de l’Adolescence », 41, 291-295 (1993)
5. Boris H. N. op. cit.
6. Boris H. N. op. cit.
7. Freud S. Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, « Opere », 4, Boringhieri, Torino, 1970, p. 526
8. Pillay M., Crisp A.H. Some psychological characteristics of patients with anorexia nervosa whose weight has been newly restored, Br. J.
Med. Psychol., 50, 1977, 375-380.
9. Lasegue C., op. cit.
10. Palazzoni Selvini M. op. cit.
11. Lévi-Strauss CL Antropologia strutturale. Il saggiatore, Milano, 1967, p. 103.
12. Levi-Strauss CL. Il pensiero selvaggio. Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 117.
13. Levi-Strauss CL. Il crudo e il cotto. Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 191.
14. Levi-Strauss CL. Il crudo e il cotto, op. cit..