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Ud2_Imperialismo e fine dell’eurocentrismo (18701914)
La transizione fra Ottocento e Novecento e l’imperialismo. I decenni di
transizione tra Ottocento e Novecento sono stati definiti età dell’imperialismo. L’imperialismo
è infatti considerato generalmente dagli storici come uno degli elementi caratterizzanti il XX
secolo (insieme all’industrializzazione “scientifica” e al declino dell’Europa).
Quali sono le cause dell’Imperialismo? L’origine e le caratteristiche di questa
nuova forma di colonizzazione sono state oggetto di accesi dibattiti fra gli studiosi. Data la
sua complessità, l’argomento è stato affrontato dalla storiografia sotto vari punti di vista, che
hanno privilegiato di volta in volta l’aspetto economico o quello politico, i rapporti di potere
tra le nazioni o l’ideologia nazionalista. Gli storici hanno perciò messo in evidenza i diversi
aspetti dell’imperialismo, che contribuiscono a focalizzare questo fenomeno complesso e
multiforme. Una delle tesi più note e controverse è quella di Lenin (1874-1924), filosofo
marxista e leader politico della rivoluzione d’Ottobre, il quale sottolineò l’aspetto aggressivo
della politica economica estera degli Stati europei, affermando che l’imperialismo non sarebbe
che la “fase suprema del capitalismo”. In ogni modo, “lasciando da parte il leninismo e
l’antileninismo, il primo compito dello storico è ristabilire il fatto ovvio (e che nessuno negli
anni 1890 avrebbe negato) che la divisione del globo aveva una dimensione economica. [...]
Il dato principale riguardo al XIX secolo è la creazione di un’unica economia globale, man
mano estesa agli angoli più remoti del mondo, e la rete sempre più fitta di operazioni
economiche, di comunicazioni e di movimenti di merci, denaro e persone che collegava i paesi
sviluppati gli uni con gli altri e con il mondo sottosviluppato” (E.J. Hobsbawm, L’età degli
imperi, 1987).
L’Europa “centro del mondo”? Gli Europei si ritenevano allora più che mai depositari
del diritto di guidare il mondo intero e, per di più, secondo i propri interessi (neppure una
grande nazione come gli Stati Uniti ebbe alcun peso sulla bilancia dei rapporti internazionali
fino al 1917), come dimostra l’atteggiamento ancora una volta assunto da Inghilterra,
Francia, Russia e Germania nel corso della conferenza di Berlino del 1874, le cui decisioni
dovevano pesare in modo determinante sulla storia del mondo contemporaneo: una storia per
un trentennio vissuta, osservata e interpretata in chiave esclusivamente europea. Così, spinti
dalla convinzione eurocentrica e incoraggiati persino dalla scienza ufficiale, divenuta
addirittura un concreto strumento di “giustificazione ideologica” del colonialismo, i popoli
europei finirono per guardare con sempre maggiore interesse alle possibilità di espansione
offerte loro soprattutto dall’Asia e dall’Africa. La penetrazione coloniale era sostenuta
dall’illusione europea della superiorità politica, culturale e biologica della razza bianca e quindi
della superiorità della nazione colonizzatrice rispetto a qualsiasi altro gruppo colonizzato e, in
particolar modo, un siffatto atteggiamento si rivolse verso le culture africane.
Quali furono gli effetti di questo tipo di colonialismo? L’occupazione dei
territori asiatici e africani da parte degli Europei, realizzata all’insegna della volontà di
potenza, di prestigio e di ricchezza, non poteva che tradursi in un pesante e spietato
sfruttamento di interi popoli e delle loro risorse: ecco perché il termine “colonialismo” finì per
assumere il significato di “odioso sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Non c’è stato popolo che
abbia tratto reali e duraturi benefici (nemmeno nel campo della tecnologia e del progresso
economico) dalla condizione coloniale, la cui eredità - al contrario - fa ancora oggi avvertire
tutto il suo peso negativo, costituita come è di confini arbitrari, di monocolture, di
arretratezza e di sottosviluppo. Né va dimenticato il fatto che antiche civiltà sono state spente
con la violenza o piegate agli interessi dei conquistatori bianchi.
Qual è l’importanza storica dell’imperialismo? Il valore epocale del fenomeno
dell’imperialismo può essere rinvenuto soprattutto nel fatto che esso “porta a compimento,
pur tra gravi contraddizioni e ingiustizie, il processo di dilatazione degli spazi umani iniziato
nel Medioevo: il mondo come “mappa mentale” equivale agli inizi del Novecento al globo
terracqueo” (S. Guarracino). L’analisi di questo fenomeno inoltre ci aiuta a riflettere
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criticamente sulle problematiche dell’attuale “globalizzazione” culturale ed economica e, nello
stesso tempo, a prendere posizione sulla opportunità di adottare una mentalità interculturale,
basata sul rispetto di quanti hanno un’identità collettiva diversa dalla propria (i cosiddetti
“altri”) e sul tentativo di comprenderne la cultura e le peculiari visioni del mondo.
La fine dell’eurocentrismo. Le potenze europee non si resero conto che nel periodo di
maggiore espansione emergono già visibili tutti i segni che avrebbero portato alla fine
dell’eurocentrismo: esse anzi credettero al contrario di costituire più che mai il centro
dell’universo, visto che fra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX quasi tutto il globo terrestre
ruotava intorno agli eserciti e agli interessi della Gran Bretagna, della Francia, della Germania
e, in misura assai ridotta, anche dell’Italia, nonché delle altre vecchie potenze coloniali:
Spagna, Portogallo, Olanda.
Quali sono le nuove realtà politiche emergenti? La realtà era però ben
diversa: a ovest dell’Europa infatti già all’inizio del Novecento gli Stati Uniti avevano raggiunto
e superato lo sviluppo industriale, commerciale e finanziario della Gran Bretagna, per
assumere in breve tempo il ruolo della maggior potenza economica mondiale alla fine della
Grande guerra (1914-1918).
In Estremo Oriente, dove ormai si appuntavano le grandi mire dell’Occidente, il Giappone,
dopo una grande trasformazione dei propri apparati politici ed economici, stava a sua volta
avviandosi a diventare la più grande potenza dell’Oriente e ad ambire, quindi, di poter
subentrare in Asia come potenza coloniale al vecchio Occidente. Né passerà molto tempo che
gli Stati europei dovranno prendere atto anche della trasformazione intervenuta e considerare
“l’impero del Sol Levante” come lo scomodo, ma ineliminabile coinquilino con il quale si è
ormai costretti a scendere a patti. Ed anche in tal caso il processo, iniziato nei decenni a
cavallo fra Ottocento e Novecento, raggiungerà il suo massimo sviluppo nel periodo compreso
fra le due guerre mondiali (1919-1939).
Il grande impero russo appare a sua volta in profonda crisi: la disastrosa guerra contro il
Giappone lo dimostrerà con chiarezza. Ecco perché possiamo affermare che l’Europa cessa di
essere il centro di un mondo destinato ormai a frazionarsi e a dilatarsi ben al di là di essa.
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La crisi della “civiltà moderna”
Mentre gli ultimi decenni dell’Ottocento furono caratterizzati da una crisi generalizzata in
campo sociale, economico e politico, il nuovo secolo si aprì all’insegna di un rinnovato
ottimismo, che induceva a pensare a un ritorno di un’epoca felice, la famosa belle époque, e
di un’Europa legata ai ritmi festosi dei valzer di Johann Strauss. I livelli di vita delle
popolazioni cominciarono a migliorare, i poveri diminuirono e il benessere si diffuse, almeno
in parte, tra i vari strati sociali, creando in questo modo la sensazione di un futuro più roseo
di quello lasciato alle spalle. In effetti il progresso economico e sociale dell’Occidente era
destinato a costituire l’aspetto più positivo della storia del Novecento. Eppure un dato
sfuggiva all’osservatore: l’Europa si avviava ormai a vivere l’esperienza amara e deludente
della fine della propria “modernità”. Gli allegri “giri di valzer” non riuscivano a smentire nei
più attenti osservatori la certezza dell’ormai inarrestabile “vecchiaia” dell’Europa, unita alla
inarrestabile decadenza della civiltà “moderna’ da essa creata.
Una tale “civiltà”, iniziata con le speranze e con gli ideali propugnati dalla rivoluzione francese
e con Napoleone (con cui iniziò, a detta dei contemporanei, “una nuova storia’’), sarà
destinata a sgretolarsi nella fatuità di fine Ottocento, quando le ideologie e i miti entrarono in
crisi, in un “mondo grigio da cui il senso era ormai fuggito, lasciando dietro di sé un
paesaggio che è un’oasi di orrore in un deserto di noia” (E Rella, Miti e figure del moderno,
Milano, Feltrinelli, 1993).
Perché la civiltà liberal-borghese entrò in un periodo di crisi? Ma perché
possiamo parlare proprio di “vecchiaia”? La risposta apparirà chiara, se teniamo presenti le
principali caratteristiche della civiltà borghese liberale, quella cioè da noi definita “moderna”:
il “liberalismo”, il “liberismo”, il “razionalismo”, oltre all’eurocentrismo (vedi schema).
Che cosa si intende per “ascesa delle masse”? C’è un ulteriore nuovo
elemento che sovverte tutto: l’ascesa delle masse, che, sino ad allora pesantemente
emarginate, sorgono, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, alla ribalta della vita politica
nazionale ed internazionale, rendendola difficilmente gestibile con il ricorso ai vecchi metodi
rappresentativi, innescando elementi di rivoluzione, agitazione e passionalità, che la “ragione”
fatica a controllare e a pacificare. Di fatto la società borghese liberale dell’Ottocento,
essenzialmente chiusa in se stessa e nel proprio elitarismo, diventa ora sempre più di massa,
ed è costretta a rompere gli schemi di un modello di sviluppo economico-politico a vantaggio
pressoché esclusivo di pochi. Certo, tutto ciò avviene in modo graduale e non all’improvviso.
Ecco perché ci è parso bene definire l’epoca compresa tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i
primi del Novecento come la “splendida vecchiaia” della moderna civiltà borghese liberale:
una civiltà cui la prima guerra mondiale porrà bruscamente fine.
Quali furono gli elementi positivi nei passaggio tra XIX e XX secolo?
Nel ventennio a cavallo fra il XIX e il XX secolo non tutto, comunque, porta il segno negativo.
Al ritrovato benessere economico, infatti, bisogna aggiungere anche i seguenti aspetti
positivi:

da un punto di vista sociale ed economico il “liberismo” si trasforma profondamente.
L’egoismo, che gli era proprio, viene limitato da una nascente coscienza egualitaria. Lo
Stato cessa di abbandonare l’economia alla sola legge del “libero mercato” ed
interviene sempre più direttamente con leggi che “proteggono” gli strati meno abbienti
della popolazione. La società diventa così sempre più “democratica” e avanzata sul
piano sociale.

Anche da un punto di vista più propriamente culturale il mondo si trasforma: ai valori
selettivi e perbenisti della “civiltà borghese” vengono contrapposti valori nuovi
connessi con l’emergere degli strati popolari nell’attività politica, sociale ed economica
dell’Europa, e con la conseguente tensione verso una “civiltà di massa”, più attenta
alle esigenze insopprimibili dei comuni bisogni propri dell’esistenza umana.
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L’origine dell’imperialismo
Le cause. Il rapido evolversi dello sviluppo economico e industriale fra XIX e XX secolo che aveva ormai assunto dimensioni mondiali - finì per determinare forti contrasti di natura
politica tra i diversi Stati europei, in concorrenza per la conquista e lo sfruttamento di mercati
sempre più ampi.
A ciò si aggiunsero fattori ideologici legati al prestigio politico e militare, che dettero luogo a
rivalità così esacerbate da porre l’Europa continuamente sull’orlo di conflitti bellici.
In concomitanza con la ricerca sempre più intensa sia di mercati sia di materie prime da parte
dell’industria, il nazionalismo venne progressivamente trasformandosi in aggressivo
espansionismo verso i Paesi extraeuropei, a danno dei quali ogni Stato tendeva a crearsi un
ampio “impero”. Di qui negli ultimi decenni dell’Ottocento il diffondersi dell‘imperialismo,
inteso come tendenza a espandere il possesso e il controllo economico e politico sulla maggior
quantità possibile di territori. La penetrazione coloniale era sostenuta dall’illusione della
superiorità politica, culturale e biologica della razza bianca.
I motivi economici dell’espansione coloniale. Fu soprattutto dopo il 1870,
durante il periodo della “lunga depressione”, che si avvertì la necessità di trovare nuovi
mercati fuori dal vecchio continente: necessità tanto più sentita quanto più veniva
aumentando l’attività industriale e con essa la produzione. D’altra parte il perfezionamento
dei macchinari, capaci di produrre merci in quantità crescenti, tendeva a rendere di giorno in
giorno più pressante la richiesta di materie prime e non solo di quelle fondamentali (ferro e
carbone), ma anche di altre quali lana, cotone e petrolio che l’Europa non produceva in
misura sufficiente al proprio fabbisogno. Ecco perché la classe dirigente dei Paesi
industrializzati andò ponendo sempre maggiore attenzione ai territori non ancora sfruttati
d’oltremare, nei quali i prodotti da lavorare e da trasformare erano disponibili in grandi
quantità e a bassissimi costi.
La spartizione dell’Africa. Nel corso dell’ultimo ventennio del secolo tale indirizzo si
rafforzò, fino a determinare profondi contrasti tra le potenze europee per il controllo
economico dei nuovi territori. Ecco perché il 15 novembre 1884 venne inaugurata a Berlino,
con la partecipazione di tutti i maggiori Stati europei (Inghilterra, Francia, Russia, Germania)
e degli Stati Uniti, una Conferenza internazionale per gli affari africani, nel corso della quale le
maggiori potenze riuscirono ad assicurarsi il diritto di spartizione dell’Africa secondo il
principio delle zone d’influenza. Contemporaneamente vennero fissate le condizioni di
accaparramento dei territori che si andavano scoprendo e che erano considerati, come
recitava l’atto finale della conferenza, pressoché indispensabili per uno Stato “evoluto e
civile”, determinato a non autocondannarsi alla decadenza economica.
Il bacino dei Congo dominio personale del re del Belgio. L’atto finale
proclamava inoltre la piena libertà di commercio nell’Africa occidentale per tutte le potenze e
assegnava il territorio del bacino del Congo alla personale sovranità di Leopoldo II (18651909), re del Belgio, il quale dette luogo a una delle forme più brutali di dominio coloniale,
basata sullo sfruttamento delle risorse e su violenze ai danni della popolazione.
Le grandi potenze si spartiscono il mondo
Il congresso di Berlino diede il via a una vera e propria corsa alle colonie, tanto che in pochi
anni l’84% del territorio mondiale venne direttamente o indirettamente assoggettato alle
potenze europee. La parte del leone fu sostenuta soprattutto dall’Inghilterra e dalla Francia,
che in pochi anni seppero creare imperi sterminati in Asia, Africa e Oceania.
L’espansionismo inglese verso l’Africa. La necessità di collegarsi con i propri
domini in India spinse gli Inglesi a interessarsi all’Egitto, specialmente dopo l’apertura del
canale di Suez avvenuta nel 1869, una via di comunicazione che dimezzava il tragitto tra
Londra e Bombay. Ciò indusse l’Inghilterra nel 1875 ad acquistare dal viceré d’Egitto, Ismail
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Pascià, quasi la metà delle azioni del canale, a insediare truppe in territorio egiziano e a
procedere nel 1882 alla sua occupazione, pur lasciandolo formalmente autonomo. Poco dopo
una sorte non molto diversa toccava al vicino Sudan. Nel frattempo gli Inglesi furono attratti
verso la zona australe del continente africano, dove erano stati scoperti vasti giacimenti di oro
e di diamanti. Dopo una guerra spietata condotta fra il 1890 e il 1902 contro i discendenti dei
primi coloni olandesi, i Boeri, gli Inglesi occuparono il Sud Africa.
L’espansione francese in Asia. A sua volta, nel 1884 il governo francese decise di
togliere alla dominazione cinese il Tonchino (l’attuale Vietnam settentrionale), che, unito alle
colonie della Cocincina (Vietnam meridionale), alla Cambogia e più tardi anche al Laos e
all’Annam, dette origine alla colonia dell’Indocina francese. Nonostante i mezzi impiegati, la
permanenza francese nel territorio asiatico si rivelò assai precaria, a causa dell’attaccamento
delle popolazioni alle monarchie e alle tradizioni locali.
La spartizione dal mondo. Alla fine del secolo l’Inghilterra, la Francia e il Belgio
avevano finito per imporre la propria sovranità su gran parte dell’Africa e dell’Asia; né la
Germania era stata da meno, avendo nel giro di pochi anni creato dal nulla un vasto dominio
coloniale nel Togo, nel Camerun e in due ampie zone dell’Africa orientale e sud-occidentale.
L’Olanda, il Portogallo e la Spagna, potenze coloniali di antica data, ma ormai molto meno
forti e intraprendenti di un tempo, furono invece private di gran parte dei loro territori.
Alle potenze europee si affiancarono gli Stati Uniti, che si impadronirono di Cuba, Portorico e
delle Filippine, già possedimenti coloniali della Spagna, spingendosi poi fino alle isole Samoa e
Hawaii, e il Giappone, che riuscì ad aprirsi la via della Cina settentrionale e della Corea.
L’Italia avvia una politica coloniale. Alla corsa alle colonie non si sottrasse
nemmeno l’Italia, per quanto le sue industrie non avessero raggiunto livelli di produzione
simili a quelli inglesi o francesi e fosse necessario anzitutto migliorare le condizioni di vita
degli Italiani stessi. A gettare il nostro Paese nell’avventura coloniale contribuì il pretesto di
trovare territori capaci di accogliere parte della popolazione in costante aumento.
Fascioda: una guerra che non scoppiò. Il contrasto fra le due maggiori potenze
coloniali, l’Inghilterra e la Francia, assunse alla fine del XIX secolo proporzioni di una rilevante
gravità, soprattutto in Africa. Qui all’iniziale penetrazione costiera si era sostituita
un’altrettanto intensa espansione verso l’interno, secondo due linee direttrici diverse: quella
nord-sud, inglese, tendente a stabilire un collegamento tra l’Egitto e il Sud Africa; e quella
ovest-est, francese, mirante a unire attraverso l’Africa centrale le colonie atlantiche con quelle
presenti nell’Africa orientale. Nel 1898 le due direttrici si intersecarono, allorché una colonna
francese proveniente dall’Africa Equatoriale s’incontrò a Fascioda, un villaggio nella regione
del Nilo, con un reparto inglese che risaliva verso il Sudan. Lo scontro armato però non
avvenne perché il governo di Parigi impartì alle truppe l’ordine di abbandonare Fascioda. La
Francia intendeva così evitare gli incalcolabili danni di una guerra coloniale e cercare di
ottenere l’assenso inglese per l’espansione francese in altra parte del continente nero, come
infatti si verificò successivamente nei riguardi del Marocco. L’episodio di Fascioda costituì una
svolta decisiva sul piano delle relazioni internazionali. L’Inghilterra e la Francia riuscirono
infatti a risolvere in breve tempo le questioni coloniali poste alla base del loro attrito e
arrivarono in seguito a stipulare una vera e propria alleanza.
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Le motivazioni economiche dell’imperialismo
Noi [Inglesi] dobbiamo avere mercati per le nostre manifatture in continuo sviluppo,
dobbiamo avere nuovi sbocchi per gli investimenti dei nostri capitali e per il continuo aumento
della popolazione [...]. Un numero sempre più elevato di nostri connazionali si dedica alla
produzione di manufatti e al commercio nelle città: essi pertanto dipendono, sia per la propria
sussistenza sia per il proprio lavoro, dai rifornimenti alimentari e dalle materie prime
provenienti da Paesi stranieri1. Per comprare e pagare tutte queste cose, noi dobbiamo
vendere le nostre merci all'estero. Durante i primi tre quarti del secolo siamo stati in
condizioni di farlo senza difficoltà attraverso una naturale espansione commerciale con i Paesi
del continente.
Nel corso degli ultimi trent'anni però la nostra supremazia nella produzione dei manufatti e
nel commercio dei medesimi è stata fortemente scossa: altri Stati, in particolare la Germania,
gli Stati Uniti e il Belgio2, si sono fatti avanti a rapidissimi passi e la loro concorrenza sta
rendendo sempre più difficile disporre di liberi mercati per le nostre manifatture.
Le intrusioni di questi Paesi persino nei nostri possedimenti ci impongono con la massima
urgenza l'adozione di energiche misure che ci assicurino nuovi mercati 3. Tali nuovi mercati
devono trovarsi in Paesi finora arretrati, dove vivono popolazioni numerose con possibilità di
aumento e di sviluppo dei bisogni economici, che i nostri mercanti e i nostri manufatturieri
siano in grado di soddisfare4. È pertanto necessario usare la diplomazia e le armi della Gran
Bretagna allo scopo di costringere coloro che possiedono i nuovi mercati a trattare con noi; e
l'esperienza insegna che il mezzo più sicuro per assicurarsi e per sviluppare tali mercati è
quello di stabilire protettorati oppure di occupare dei territori 5.
Inoltre rilevanti risparmi vengono realizzati presso di noi: risparmi, che non possono trovare
vantaggioso investimento nel nostro Paese. Essi devono, di conseguenza, trovare impiego
altrove. Per quanto costoso, per quanto rischioso questo processo di espansione imperiale
possa essere, è indispensabile alla continuità della nostra esistenza e del nostro stesso
progresso: l'imperialismo non va visto come una scelta, ma come una necessità.
Autore: John Atkinson Hobson Opera: Imperialism. A Study Data: 1902
La missione del colonizzatore
Non ho la minima intenzione di tenere qui alcun esperimento di amministrazione indiretta.
Fatta eccezione per alcuni distretti del Nord, la Costa d'Avorio non ha, tra i suoi indigeni,
alcun elemento capace di compiere, anche in modo rozzo, il ruolo degli ufficiali natii, di
mantenere anche il più sottile frammento di autorità pubblica.
Lunghi anni saranno necessari prima di poter trovare individui che siano allo stesso tempo
relativamente ben educati, energici, attivi, onesti, leali, pronti ad affrontare i pericoli che
possono coinvolgere un nativo nell'esercizio di potere nel suo stesso paese, e
sufficientemente disinteressati a servirci come ausiliari amministrativi, anche a prezzo di un
controllo severo e continuo.
Nel brano è disegnata una condizione di dipendenza degli inglesi dalle merci provenienti
dall’estero. Quali sono le condizioni di questa dipendenza? Quali conseguenze ha questa
dipendenza? Quali meccanismi innesca?
2
Quale nuova condizione, nella parte finale dell’Ottocento, rende più difficile agli Inglesi
vendere le proprie merci all’estero?
3
L’autore, a un certo punto del testo, afferma la necessità per gli Inglesi di assicurarsi nuovi
mercati: quali sono le cause di questa necessità?
4
L’autore identifica nei paesi arretrati i nuovi mercati: quali caratteristiche rendono questi
paesi adatti a tale ruolo?
5
Quali sono gli strumenti che l’autore indica come adatti ad assicurarsi nuovi mercati?
1
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Dobbiamo così confinare noi stessi alla pratica di una amministrazione diretta, che è in ogni
caso il sistema più morale nei paesi africani, perché implica assai meno quelle smoderatezze
che sono la conseguenza incontestabile della inesistente partecipazione dei nativi agli affari
pubblici.
Alcuni penseranno senza dubbio che innovazioni del genere, che ho sottolineato e che
amplierò più tardi, metterebbero gravemente a repentaglio un ordine sociale esistente per cui
nessuno ci crederebbe in grado di sostituire con successo una organizzazione creata dal nulla.
Al contrario, credo che noi in questo paese siamo precisamente in grado di cambiare l'ordine
sociale della gente ora sottomessa alle nostre leggi. Questo ordine sociale equivale, tra gli
abitanti della foresta e il Boule, all'anarchia permanente e generale, come risultato della
totale assenza di autorità che viene così a ostruire la realizzazione di riforme utili.
La nostra missione è quella di portare civilizzazione, progresso morale e sociale, prosperità
economica. Non otterremo mai successo in questa impresa se ci riteniamo obbligati a
preservare una situazione deplorevole, laddove il peso del passato ci impedisce alcun tipo di
riforma; o qualora dovessimo riuscire sarà a un ritmo in disaccordo con l'importanza dei
sacrifici sostenuti e gli interessi in cui siamo coinvolti.
Nella politica coloniale niente è più pericoloso di una politica conservatrice. Perché prendere
risoluzioni decise se esse si indeboliranno di fronte a una situazione, mentre il loro vero scopo
era portarla a compimento? Perché tali sforzi se noi stessi li predestiniamo a fallire,
condannandoli a rimanere platonici con il pretesto di rispettare gli usi e i costumi degli
indigeni?
Opera: Disposizioni agli amministratori civili francesi della Costa d'Avorio dal governatore Louis-Gabriel Angulvant
Data: 26 novembre 1908
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