L’ECONOMIA DELLA CINA, TRA LUCI ED OMBRE Rodolfo Bastianelli I l clima di incertezza che percorre quasi tutti i Paesi sta scuotendo anche la Cina. I contraccolpi delle turbolenze che da due anni colpiscono la zona dell’Euro, si stanno quindi facendo sentire anche sull’economia cinese i cui indicatori confermano una brusca frenata nella crescita. Resta da vedere se questo rallentamento sia solo una fase di salutare raffreddamento oppure costituisca il segnale di un più pericoloso deterioramento del sistema. Se per molti osservatori, la Cina starebbe infatti solo seguendo un percorso simile a quello attraversato in passato da altre nazioni che, dopo anni di tumultuosa crescita favorita dai bassi salari e dall’abbondanza di manodopera, devono riorientare la loro economia puntando più sullo sviluppo della domanda e dei consumi interni che non sulle esportazioni, per altri al contrario l’economia cinese starebbe entrando invece in una fase che potrebbe prossimamente condurre anche ad una profonda crisi dalle conseguenze quantomai negative. Le difficoltà dell’attuale quadro economico cinese Se per anni la crescita dell’economia cinese ha superato in positivo tutte le previsioni stimate dalle diverse istituzioni finanziarie internazionali, quest’anno al contrario sembra che le stime vadano invece in senso opposto, ovvero con un tasso molto inferiore a quanto aspettato dagli osservatori. Le ragioni della rapida espansione registrata dalla Cina negli ultimi vent’anni vanno ricercate principalmente in una serie di ragioni. Considerata una delle più importanti potenze del XIX Secolo – secondo uno studio nel 1832 il Paese costituiva la più larga economia del pianeta – la Cina in seguito è progressivamente entrata in una profonda crisi dovuta prima alle tensioni interne ed all’estrema debolezza delle 55 Panorama 2013 strutture statali, poi alle gravi catastrofi naturali di cui il suo territorio è stato frequentemente oggetto ed infine dalle disastrose politiche attuate durante la fase rivoluzionaria degli anni Sessanta. Questo grave deterioramento trova conferma anche nelle stesse statistiche internazionali, secondo le quali, in poco più di un secolo, la quota cinese sull’intero PIL mondiale si è ridotta dal 32,9% del 1832 ad appena il 4,9% del 1978. Con l’avvio delle prime riforme varate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la situazione è iniziata però ad evolversi in senso positivo aprendo di fatto la strada alla forte crescita degli anni a seguire. Grazie ad un’ampia disponibilità di manodopera ed all’elevata quota di risparmio presente nel Paese, la Cina è stata in grado di avviare una fase di rapido sviluppo che tra il 1979 ed il 2011 ha portato il PIL cinese a crescere in media del 9,9% annuo, mentre un ulteriore stimolo all’espansione economica è venuto dalla decisione presa nel 2000 dal governo di consentire alle aziende cinesi di poter investire all’estero. Forti di uno stock di riserve in valuta pregiata ritenuto il più alto al mondo ed investito principalmente in assets a basso rischio come i titoli del tesoro statunitensi, le aziende di Pechino hanno iniziato ad acquisire importanti partecipazioni all’estero effettuate anche allo scopo di assicurare al Paese le forniture di materie prime di cui questo necessitava per portare avanti la sua forte fase di espansione. Con il rallentamento dell’economia internazionale iniziato alla fine del 2008, la Cina ha cercato di limitare gli effetti della recessione attuando una politica di stimoli economici che, pur subendo una contrazione dovuta alla riduzione delle esportazioni, è stata comunque in grado di assorbire meglio gli effetti negativi registratisi nei Paesi europei e negli Stati Uniti1. Attualmente però la nuova fase di rallentamento iniziata nell’estate dello scorso anno sembra stia producendo i suoi effetti anche sulla Cina, dove ormai da tempo si susseguono dei dati non certo positivi che segnalano come anche a Pechino sia in atto una frenata nella crescita. Ma se quasi tutti gli osservatori concordano sul fatto che l’economia sia entrata in un periodo di stagnazione, sulle cause di questa involuzione esistono però delle diverse interpretazioni. Difatti, non pochi sostengono come le ragioni non vanno ricercate nel difficile quadro congiunturale internazionale, ma nei cambiamenti interni alla società ed alla stessa economia 56 Rodolfo Bastianelli cinese che stanno inevitabilmente portando ad un rallentamento della crescita. Secondo quanto riportato da diversi analisti, la Cina presenterebbe non solo la stessa decelerazione registrata in passato da Giappone, Corea del Sud e Taiwan, che videro la loro crescita ridursi da un tasso del 9% ad uno più moderato del 6%, ma anche l’analogo scenario interno di questi Paesi. Come ha ricordato recentemente il “Washington Post”, in Cina non solo è emersa una classe – media il cui reddito gli permette di accedere ad una più vasta serie di beni di consumo d’importazione ma anche la stessa struttura demografica appare modificata, con la maggioranza della popolazione che vive ormai nei centri urbani ed un tasso di migrazione verso le città in continua diminuzione. Tutto questo porterà in breve periodo ad una significativa riduzione della manodopera a basso costo di cui il Paese ha disposto finora, senza dimenticare poi come le severe disposizioni che hanno limitato ad uno solo il numero di figli per nucleo familiare diminuiranno progressivamente il numero dei lavoratori in grado di sostituire quelli andati in pensione. Di conseguenza, il tasso di crescita è destinato a scendere ancora fino a ridursi al 6% annuo, mentre la stessa quota di materie prime richieste dall’industria cinese potrebbe in futuro scendere sensibilmente, un elemento questo che arrecherebbe non pochi contraccolpi a Paesi come l’Australia ed il Brasile che proprio su questo hanno costruito la loro crescita economica2. Non pochi ritengono quindi salutare questa frenata dell’economia cinese. Secondo quanto riportato in una sua analisi dal “The Economist”, mentre in passato per mantenere la crescita ad un tasso elevato le autorità non avrebbero esitato ad intervenire, oggi al contrario i dirigenti di Pechino si rendono conto che ulteriori misure di stimolo accenderebbero nuove spinte speculative soprattutto sul mercato immobiliare che penalizzerebbero ulteriormente la stessa classe media visto il probabile rialzo dei prezzi. Inoltre, questi provvedimenti avrebbero solo un effetto limitato e rallenterebbero l’introduzione delle riforme e delle misure di liberalizzazione che da tempo si richiedono3. Ma se molti ritengono che la frenata dell’economia cinese vada interpretata in senso positivo, alcuni non esitano al contrario a definirla come una vera recessione i cui effetti potrebbero essere quantomai pesanti. Secondo alcuni articoli apparsi sul “The New York Times”, i segni di un forte decelera- 57 Panorama 2013 zione si stanno facendo sempre più evidenti, tanto che la stessa Banca Mondiale avrebbe dichiarato come l’economia del Paese sia attualmente molto più debole di quanto sembri, un’affermazione questa confermata anche dall’indebolimento dell’indice sulla produzione industriale sceso la primavera scorsa sotto i 50 punti, un livello con il quale si indica l’ingresso in una fase recessiva. Non pochi poi ritengono che nell’imminenza del programmato ricambio ai vertici del regime, molti funzionari locali mandino a Pechino rapporti ottimistici sulla situazione della loro regione solo allo scopo di ottenere promozioni ed incarichi prestigiosi. Il quadro economico potrebbe così essere ben peggiore di quello descritto dalle statistiche cinesi4. E ad aggiungere ulteriori motivi di inquietudine vi è poi anche sia il rischio di esplosione di una “bolla” immobiliare nonché la sempre maggiore disuguaglianza sociale esistente nel Paese. Con tassi d’interesse bancari appena sopra il livello d’inflazione ed un mercato borsistico caotico, l’unico settore dove i ceti più ricchi e la nascente classe – media hanno potuto investire è stato quello immobiliare, che dal 2000 ad oggi ha visto crescere il valore delle case di quasi il 70%, una cifra indicata da molti come il segnale di un’ormai prossima esplosione di una “bolla” speculativa che avrebbe forti ricadute sull’economia data la rilevanza del settore sul PIL del Paese. Se da un lato però alcuni ritengono come le autorità cinesi stiano agendo per evitare il verificarsi di questo scenario, altri invece al contrario pensano come il rischio di esplosione sia invece estremamente concreto se non addirittura certo. Stando a quanto riferito dalle due agenzie di rating internazionali “Moody’s” e “Standard & Poor’s”, il valore degli immobili situati nelle settanta principali città è sensibilmente sceso ponendo così i costruttori di fronte al rischio di una forte riduzione di liquidità dovuta proprio al mancato acquisto delle nuove costruzioni immesse sul mercato5. L’altra questione che sta ponendo il tumultuoso sviluppo economico degli ultimi anni risiede invece nella sempre maggiore disuguaglianza esistente nel Paese unita ad un quadro interno che, ad una più attenta analisi, appare assai critico. In uno studio preparato nove anni fa, si sosteneva come la percentuale di disoccupati e/o sottoccupati in Cina ammontasse al 23% della popolazione e che la forte quota di povertà rurale esistente avesse portato ad un aumento delle migrazioni verso le aree urbani ed alla 58 Rodolfo Bastianelli conseguente esplosione di tensioni sociali. Inoltre, sempre lo stesso volume indicava come in Cina persistessero gravi problemi di approvvigionamento idrico soprattutto nelle regioni settentrionali, dove l’inquinamento industriale e la scarsità di fonti riducevano la quota d’acqua disponibile per la popolazione6. E lo scenario oggi non sembra migliorato. Nonostante la formidabile crescita registrata negli ultimi anni la Cina, secondo una recente analisi, appare sempre più divisa in modo sproporzionato tra una élite arricchitasi che può accedere ad una serie di beni di lusso e godere di un elevatissimo tenore di vita e la stragrande maggioranza della popolazione i cui redditi vengono invece divorati dall’inflazione e che, di conseguenza, ha difficoltà ad acquistare gli stessi generi di prima necessità. L’assenza di una vera classe – media si noterebbe poi non solo dal ridotto numero di studenti diplomati o laureati capaci di trovare un’occupazione stabile, ma anche dal fatto che i loro redditi non sono di molto superiori a quelli dei lavoratori migranti assunti nelle diverse fabbriche del Paese. Le ragioni di questa sempre più evidente disparità vanno ricercate essenzialmente nella struttura stessa dell’economia cinese, dove lo Stato risulta avere ancora un ruolo predominante. Grazie ai bassissimi interessi concessi dagli istituti di crediti sui depositi, le imprese statali possono finanziarsi praticamente a tasso zero, mentre al contrario i privati cittadini, che non hanno altra soluzione se non di versare i loro risparmi nelle banche di Stato, ottengono di fatto un rendimento negativo in quanto il governo fissa il tasso d’interesse ad un livello più basso dell’inflazione reale. Inoltre, le politiche di espropriazione forzosa di terreni e proprietà private operate dai governi locali allo scopo di dar vita a gigantesche opere pubbliche contribuiscono a mantenere in funzione un sistema finanziario che rimane fragile ed esposto ai contraccolpi della situazione internazionale. Infine, non va poi dimenticato come nel Paese persista un’amplissima corruzione unita ad un’impunità di cui godono i dirigenti politici soprattutto a livello locale che sta generando una pressoché totale sfiducia della popolazione verso il regime7. Tutto questo ha portato sempre più spesso all’esplosione di proteste dovute sia alle pessime condizioni lavorative esistenti nelle aziende cinese che al malgoverno presente nelle province del Paese. Come ricordato nel Gennaio scorso dal “The Economist”, negli ultimi anni si è quindi assistito ad un sempre 59 Panorama 2013 maggior numero di proteste indette contro i bassi salari e l’assenza di tutele per i lavoratori e che spesso sono sfociati in gravi disordini. Ed a conferma di questa tendenza, l’analisi sottolinea come tra il 2010 ed il 2011 nella regione del Delta del Fiume delle Perle ed in quella del Guangdong, due delle più importanti aree economiche del Paese, si sia assistito ad un forte aumento degli scioperi8. Non è quindi errato affermare come la situazione cinese presenti oggi forse per la prima volta più luci che ombre nel suo modello di sviluppo. Note Vedi su questo China’s Economic Conditions, Congressional Research Service, Washington D.C., Giugno 2012 2 Vedi sull’argomento l’analisi “China’s Economic Crisis”, apparsa sul The Washington Post il 24 Maggio 2012 3 In proposito vedi l’articolo “China’s Economy. Slow Boats”, pubblicato su The Economist il 1° Settembre 2012 4 Su questo vedi gli articoli “China, Which Barreled Ahead in Recession, Finally Slows”, pubblicato sul The New York Times il 24 Maggio 2012, e “Chinese Data Mask Depth of Slowdown, Executives Say”, pubblicato sempre sul The New York Times il 22 Giugno 2012 5 Sul rischio di esplosione di una “bolla” immobiliare in Cina vedi “China’s Housing Bubble Past, And Its Future”, pubblicato su Forbes l’11 Agosto 2011 e “Beware of China’s Housing Bubble”, apparso su Christian Science Monitor il 29 Gennaio 2012 6 Sull’argomento vedi WOLF JR. / K.C. YEH / ZYCHER / EBERSTADT / SUNG HO - LEE Fault Lines in China’s Economic Terrain, RAND, Santa Monica 2003 7 Sulle disparità sociali ed economiche esistenti in Cina vedi “China’s Highly Unequal Economy”, apparso su The Diplomat il 21 Febbraio 2011 8 Sulle proteste nel Paese vedi “Unrest in China. A Dangerous Year”, pubblicato su The Economist il 28 Gennaio 2012 1 60 LA RUSSIA E LO SPAZIO EX SOVIETICO Angelica Attolico R isale ad un anno fa, all’indomani dell’annuncio della sua candidatura alle presidenziali di marzo 2012, la prima menzione ufficiale del progetto di Unione eurasiatica da parte di Putin, in un articolo pubblicato sul quotidiano russo Izvestija. Quest’idea, particolarmente ambiziosa e finalizzata a creare sul continente euro-asiatico un nuovo polo soprannazionale sul modello dell’Unione europea e di altre Organizzazioni regionali, è stata d’altronde anche uno dei cavalli di battaglia della sua stessa campagna elettorale per la corsa alle presidenziali. Tuttavia, sembra che solo oggi, ad un anno di distanza, ci si stia cominciando ad interrogare concretamente sulla reale portata di un simile obiettivo e sulle sue potenziali implicazioni, a livello geopolitico, sia per l’occidente euro-atlantico che per i principali ‘vicini’ estremo –orientali.Pertanto, a riguardo, è opportuno in primo luogo sottolineare che questa proposta putiniana non sia piovuta dal cielo ma affondi le sue radici in una serie di precedenti tentativi di integrazione della regione (alcuni di successo, altri meno) frutto di un articolato processo di riorganizzazione geo-strategica dello spazio post-sovietico promosso da alcuni Stati della regione (in primis Russia, ma anche Kazakhstan e Bielorussia) e finalizzato a colmare quel vuoto geopolitico lasciato vent’anni fa dalla disgregazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). In secondo luogo, con particolare riguardo alla Russia, come più volte sottolineato dallo stesso Putin, al di là degli aspetti puramente ideologici si tratta piuttosto di una precisa risposta strategica, a livello geopolitico ed economico, a quelle che sono le sfide che il nuovo contesto globale pone ad un Paese importante come la Russia che necessita oggi urgentemente di diversificare e modernizzare la sua economia. 61 Panorama 2013 In ogni modo, per quanto riguarda il primo aspetto, relativo alla riorganizzazione dello spazio post-sovietico, nulla di nuovo, considerato che sin dalla dissoluzione dell’Unione sovietica sono state intraprese una serie di iniziative volte a rafforzare i legami economici, politici e militari tra alcuni Stati della regione. Basti pensare innanzitutto alla Comunità degli Stati Indipendenti, nata all’indomani della dissoluzione dell’URSS con l’obiettivo di dar vita ad una forma di associazione più ristretta tra Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirgyzistan, Moldavia, Russia, Tagikistan, Uzbekistan; all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva - alleanza militare a carattere difensivo di cui fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirgyzstan e Russia; all’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione - di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakistan Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, sorta nei primi anni del 2000 e attiva nella cooperazione nell’ambito della sicurezza, economico e culturale; ed infine alla Comunità Economica Eurasiatica (EurAsEc) - istituita all’inizio dello scorso decennio tra Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan, si propone di incoraggiare l’integrazione economica tra questi Paesi e costituisce, da questo punto di vista, un punto di riferimento essenziale per la graduale realizzazione di un’Unione eurasiatica. Il primo passo fondamentale è stato compiuto, infatti, da Russia, Bielorussia e Kazakhstan che nel 2010 hanno dato vita ad un’Unione doganale che prevede, tra l’altro, l’adozione di una tariffa doganale unica e l’abolizione dei controlli doganali alle frontiere comuni. Nel gennaio 2012 è stato compiuto un passo ulteriore con l’entrata in vigore, sempre fra questi tre Stati, di uno Spazio economico comune con l’obiettivo di coordinare anche le politiche macroeconomiche, la normativa sulla concorrenza e le sovvenzioni all’agricoltura dei tre Paesi che ne fanno parte, dando vita ad un mercato di centosessantacinque milioni di persone in cui, similmente al modello europeo, le merci, i servizi, i capitali ed i lavoratori possano circolare liberamente. Proprio in questo contesto si inserisce la proposta dello scorso anno dell’attuale 62 Angelica Attolico Presidente russo di portare questo processo ad un livello di integrazione superiore, vale a dire anche politico. A novembre 2011 è stata infatti sottoscritta dai Presidenti dei tre Paesi costitutivi (Federazione russa, Kazakhstan e Bielorussia) una dichiarazione che si prefigge di realizzare entro il 2015 un’Unione euroasiatica, destinata a riassorbire gli attuali meccanismi ed aperta all’adesione di altri Stati (per ora vi hanno aderito Russia, Kazakhstan e Bielorussia ma l’invito a partecipare è esteso anche ad altri Paesi della regione, con particolare riguardo all’Ucraina e all’Asia centrale, sebbene finora solo Tajikistan e Kyrgyzstan abbiano mostrato interesse per l’iniziativa). Sempre in quest’occasione è stato anche siglato il trattato istitutivo della Commissione economica euroasiatica che, operativa dal 2012, sostituisce la Commissione dell’Unione Doganale e, similmente al modello della Commissione Ue, rappresenta un organo dotato di poteri decisioniali particolarmente ampi e vincolanti per gli Stati membri dello Spazio economico comune. Dal 2012 è entrata in funzione, tra l’altro, anche la Corte eurasiatica, che si occupa di dirimere le controversie e la cui giurisdizione ha valore vincolante per i Paesi che hanno aderito all’area. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un esperimento di progessiva integrazione regionale che, sul modello dell’Unione europea, procede in maniera graduale anche se, dati i primi risultati, ad un ritmo più veloce rispetto alle tempistiche del processo di integrazione comunitario ed europeo. Fine ultimo, per l’appunto, la nascita di un nuovo polo soprannazionale dalla valenza anche politica. Certamente, quest’idea ha destato non poco disagio psicologico a livello internazionale, richiamando alla memoria le passate aspirazioni imperiali della Russia dello Zar, o la più recente esperienza dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Tuttavia, come lo stesso Putin ha più volte sottolineato, il dato economico e strategico prevale su ogni altro aspetto e giustifica questa scelta, come dimostrato dai primi risultati e dalle prime stime legati a questi progetti. Non solo in questo biennio di attività si è assistito ad un incremento del 35% dell’interscambio commerciale fra i tre Paesi 63 Panorama 2013 finora partecipanti1, ma si ritiene anche che entro il 2015 l’appartenenza allo Spazio economico comune genererà un ulteriore crescita del PIL del 15% per gli Stati che ne fanno parte2. Inoltre, con particolare riguardo alla Russia, condividendo circa quattromila kilomentri di frontiera comune con la Cina e, d’altra parte, guardando ad Occidente verso l’Europa, enormi sono le potenzialità derivanti da questa sua posizione geo-strategica di ‘ponte’ fra queste due realtà e che, con la progressiva realizzazione di un’Unione eurasiatica, potrebbe sfruttare ancora meglio. Peraltro, dinnanzi alla crisi del debito dell’Eurozona, le importanti possibilità offerte dal mercato asiatico non possono passare inosservate. E per questo non è un caso che non solo la politica estera della nuova amministrazione russa stia guardando con sempre maggiore interesse “ad est” – perseguendo come obiettivi fondamentali l’approfondimento dell’integrazione economica e regionale dell’area eurasiatica e delle relazioni commerciali con la Cina e con il Sud-est asiatico - ma anche la sua strategia di politica economica annoveri fra le sue priorità lo sviluppo economico e politico della Siberia orientale e dell’Estremo Oriente russo. Tuttavia, per realizzare quanto prefissato entro il 2015, innumerevoli sono ancora le sfide da affrontare, tra le quali la necessità di rafforzare le infrastrutture nelle regioni asiatiche e di superare le diffidenze sia euro-atlantiche (in particolare statunitensi), che da parte della Cina che, soprattutto in Asia centrale, condivide con la Russia importanti interessi economici (soprattutto di carattere energetico). Infine, sebbene al momento abbiano aderito al progetto solo Bielorussa e Kazakhstan, e Kyrgyzstan e Tajikistan abbiano invece espresso la loro intenzione ad entrare a farne parte in un prossimo futuro, altre ex Repubbliche sovietiche non hanno al momento risposto con grande entusiasmo, come nel caso dell’Ucraina. Quest’ultima con molta difficoltà riuscirà ad essere attratta nell’esclusivo polo euroasiatico, considerata la sua concomitante ambizione di procedere anche nel processo di integrazione con l’Unione europea. Seppure non siano mancate notevoli pressioni, in particolare dai vicini russi, affinché l’Ucraina aderisca al più presto al pro- 64 Angelica Attolico cesso di integrazione regionale russo-kazako-bielorusso, il Paese ha finora risposto negativamente proponendo, come alternativa, una possibile adesione ad esso mediante la formula del “3+1”, rifiutata però fino ad oggi da Mosca. Al momento non si attendono grandi evoluzioni a riguardo, neanche a seguito della riconferma al potere, all’indomani delle ultime elezioni politiche di ottobre, del partito delle Regioni del Presidente ucraino Yanukovych, tradizionalmente più filo-russo. D’altronde, l’importanza di quest’iniziativa e delle sue enormi potenzialità, dal punto di vista sia economico che geopolitico, non dovrebbero sfuggire neanche all’Unione europea, considerando che l’Europa rappresenta per la Russia, tra l’altro, un importantissimo partner a livello energetico (essendone il suo principale cliente). Pertanto, si spera che questi nuovi ambiziosi obiettivi russi di integrazione regionale stimolino il vecchio continente non solo a a rivedere, in un’ottica più strategica, la propria politica europea di vicinato, ma anche a ripensare a nuove forme di partenariato strategico rafforzato con la Russia, al momento in stallo (i negoziati per la conclusione di un nuovo Accordo di Partenariato e Cooperazione rafforzato sono ancora in corso dal 2008 e ancora oggi non conclusi). Da questo punto di vista, si ritiene infatti che la mancanza da parte dell’Unione europea di un approccio deciso a riguardo, sia tra i principali fattori che abbiano indotto la Russia a promuovere con maggiore vigore questo progetto di integrazione eurasiatico. In ogni modo, sebbene quest’obiettivo costituisca per i Paesi che ad oggi ne fanno parte un’ottima risposta strategica alle sfide poste dalla crisi economica globale ed alle necessità più stringenti di modernizzazione e diversificazione delle loro economie, l’atout, in particolare per l’attuale leadership russa, rimane quello di sfruttare la posizione strategica del suo Paese – a metà strada fra Europa ed Asia – tramite questa nuova organizzazione regionale che non solo favorisca il dialogo e, soprattutto, la cooperazione a livello economico ma, al contempo, funga da stimolo per lo sviluppo economico e politico delle sue regioni più asiatiche (Siberia ed Estremo oriente russo). 65 Panorama 2013 Quest’ultimo obiettivo è tanto più importante quando si considera che sono proprio queste le regioni collocate lungo la sensibile frontiera con il gigante asiatico, la Cina, la quale, con sempre maggiore interesse comincia a guardare alla Russia quale possibile alleato ‘minore’ nella sua marcia per la conquista della leadership globale. Note G. CHUFRIN, A difficult road to the Eurasian economic integration, Russian Analytical Digest No. 112, 20 April 2012, http://www. css.ethz.ch/publications/pdfs/RAD-112.pdf. 2 G. BENSI, “Il mondo visto da Putin”, in East Journal, 20 gennaio 2012, http://www.eastjournal.net/russia-il-mondo-visto-daputin/11705. 1 66