la nascita e lo sviluppo del sistema curtense in europa

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“LA NASCITA E LO SVILUPPO DEL
SISTEMA CURTENSE IN EUROPA”
PROF. MARCELLO PACIFICO
Università Telematica Pegaso
La nascita e lo sviluppo del sistema
curtense in Europa
Indice
1
LA SOCIETÀ ALTO-MEDIEVALE --------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
L’IMPERO CAROLINGIO E LE ORIGINI DEL FEUDALESIMO ----------------------------------------------- 8
3
I CARATTERI DELL’IMPERO ------------------------------------------------------------------------------------------- 14
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 20
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 La società Alto-Medievale
Tra il VI e l’VIII secolo l’Occidente cristiano attraversò un periodo involutivo che colpì tutti
i settori della società.
I segni di questo processo furono evidenti: le campagne furono abbandonate, molte città
scomparvero e in quelle rimanenti si registrò un forte calo, visto che gli abitanti preferirono
radunarsi nelle zone cittadine, che erano difese maggiormente.
Scomparvero i numerosi villaggi che i romani avevano costruito lungo le maggiori reti viarie
e a causa della mancata manutenzione le vie non furono più curate poiché i commerci e gli scambi
tra le diverse città cessarono quasi del tutto.
Questo generale stato di abbandono interessò anche l’ambiente: in seguito all’abbandono dei
terreni si verificò una dilatazione delle foreste soprattutto nelle regioni al di là del Reno.
Le foreste per le popolazioni dell’Alto Medioevo ebbero molta importanza sia materiale che
economico ma anche nell’ambito dell’immaginario: infatti le foreste erano fonte di cibo, vi era
praticata la caccia e si raccoglievano i frutti che crescevano spontaneamente.
Il bosco però rappresentava anche un luogo misterioso e meraviglioso; si immaginava che al
suo interno vivessero streghe, mostri ma anche eremiti e santi e questo fece sì che proprio nei
boschi venissero ambientate storie sia magiche che agiografiche.
Tra il V e l’VIII secolo perciò l’assetto sociale, economico e culturale dell’antichità cambiò
radicalmente; sia città che campagne si spopolarono e tra i centri abitati si crearono grandi spazi
vuoti.
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A questo punto però non si arrivò improvvisamente ma attraverso un lento declino avviatosi
già nel II-III secolo a cui si era cercato inutilmente di porre rimedio attraverso l’accoglimento dei
Germani all’interno dei confini dell’impero.
La decadenza fu causata anche da un insieme di fattori che combinati tra loro crearono una
situazione molto critica: guerre e devastazioni arrivarono insieme alle pestilenze, come la
tubercolosi, la peste e la malaria, e alle carestie e proprio queste impedirono un rapido
ripopolamento.
La crisi demografica non ebbe ovunque la stessa gravità; in Italia raggiunse il massimo
mentre nelle fredde regioni dell’Europa orientali si avvertì meno anche perché le temperature rigide
ostacolavano un rapido diffondersi delle malattie.
Le città in buona parte provvedevano ai propri bisogni con le risorse prodotte all’interno
delle mura o nelle zone suburbane; a risentirne furono i commerci e gli scambi tra le città che
comunque, specialmente in Italia, non si interruppero mai del tutto.
La produttività agricola subì un calo radicale a causa del carattere rudimentale degli attrezzi
e alla perdite delle conoscenza tecniche; ogni famiglia cercava di produrre da sé tutto ciò di cui
aveva bisogno perciò coltivava diversi terreni anche distanti tra loro.
Gli storici hanno individuato come alcune città erano circondate da tre zone concentriche
caratterizzate da una produttività che diminuiva più ci si allontanava dal centro abitato. A ridosso
della città c’erano infatti gli orti e i vigneti, subito dopo c’era la zona adibita alla coltivazione dei
cereali dove, dopo il raccolto, pascolavano gli animali, e infine c’era la fascia dei prati e dei boschi
per praticare il pascolo, la caccia, la pesca e la raccolta di frutti e legna.
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Gli orti davano spesso molti prodotti mentre la produzione cerealicola era alquanto scarsa;
l’allevamento inoltre era praticato ma con molte difficoltà visto che nell’area mediterranea il terreno
era arido e il clima secco.
Nell’area mediterranea il terreno dopo il raccolto veniva fatto riposare per un anno
(rotazione biennale); ogni terreno veniva diviso in due parti così da alternare la semina con il
riposo; nella parte a riposo (maggese) venivano fatti pascolare gli animali.
Le famiglie contadine vivevano in uno stato di povertà e praticavano un’economia di
sostentamento che impediva qualsiasi tipo di arricchimento o miglioramento delle condizioni di
vita.
La maggior parte dei contadini non era proprietaria né della terra che coltivava né degli
animali che allevava; quasi tutti vivevano in una condizione servile.
All’inizio della crisi demografica i grandi proprietari terrieri capirono che gli uomini da
schiavizzare erano sempre meno numerosi così decisero di accasarli, cioè dare loro in gestione un
pezzo di terra e una casa in modo che potessero sostentarsi autonomamente.
Questi contadini erano tenuti a corrispondere al proprio padrone parte del raccolto e alcune
giornate lavorative (le corvée) oltre che beni in natura come polli, uova o utensili. Concessioni di
terre venivano fatte a favore dei contadini liberi ai quali però si richiedeva una quota minore del
loro guadagno; quando la crisi statale si fece più grave questi coloni divennero piccoli proprietari e
la grande proprietà si venne articolando in terre date in concessione ai coloni liberi o di condizione
servile (pars massaricia) e in terre gestite direttamente dal proprietario (pars dominicia).Le due parti
insieme anche a boschi, prati e terre incolte formavano la curtis costituita perciò da tutti i beni che
facevano capo al padrone. Per capire la consistenza effettiva del fenomeno delle prestazioni d’opera
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bisognerebbe analizzare con cura i polittici, cioè gli inventari dei grandi monasteri dove venivano
annotate le proprietà e le attività in essa svolte.
Si cercava di stabilire un certo equilibrio tra le terre date in affitto e quelle date in
conduzione diretta, nel senso che l’estensione di queste ultime era in rapporto al numero di
prestazioni d’opera su cui era possibile fare affidamento. Ogni curtis poi gestiva questo problema in
modo diverso, secondo le proprie necessità.
L’integrazione tra riserva e massaricio fu l’espressione caratteristica dell’economia curtense
che non fu, come si crede, interamente votata per l’autoconsumo poiché le eccedenze venivano
vendute in cambio di utensili o trasportate in altre curtis di proprietà dello stesso signore. Il padrone
delle terre deve essere chiamato signore; esso aveva pieni poteri sui suoi servi che gli dovevano
obbedienza. In origine la condizione degli schiavi era ben diversa da quella dei coloni liberi; con la
diffusione del Cristianesimo (nonostante la Chiesa non condannò mai la schiavitù) le loro
condizioni migliorarono e fu concesso loro di creare una famiglia e possedere qualche bene. I
proprietari fondiari divennero invece protettori dei loro dipendenti e cercarono di far valere anche la
giustizia: organizzavano la difesa del territorio, decidevano in merito a piccole controversie,
prestavano sementi o grano per far fronte alle carestie.
In questo modo i piccoli proprietari si trovarono ad essere sempre più dipendenti dal
proprietario fondiario di cui riconoscevano l’autorità.
In molti credono che durante l’Alto Medioevo l’Europa tornò a un tipo di economia naturale
fondata solo sui baratti e con un esiguo numero di scambi; l’Europa era sì impoverita ma ciò non
causò l’assenza totale dei commerci.
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Le stesse curtis infatti non riuscivano ad avere un’autosufficienza produttiva (si pensi alla
necessità di stoffe o metalli); è stata testimoniata l’esistenza di fiere e mercati locali in cui si
vendevano i prodotti in eccedenza e durante i quali gli abitanti di villaggi diversi avevano contatti.
Anche le città, sebbene molto ridotte, continuavano ad essere sede delle botteghe artigianali:
naturalmente il commercio monetario riguardava pochi beni e venivano coniate per la maggior parte
monete d’argento di poca valuta; le pochissime monete d’oro venivano utilizzate per acquistare i
beni di lusso provenienti dall’Oriente mentre quelle in eccesso venivano fuse per realizzare gioielli
o oggetti sacri per la chiese.
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2 L’impero carolingio e le origini del feudalesimo
La storia dell’Europa nell’Alto Medioevo fu segnata anche da una serie di eventi politici che
crearono le premesse per una rinascita; alcuni di questi importanti eventi sono legati all’evoluzione
del regno dei Franchi. Dopo la morte di Clodoveo il regno era stato diviso in quattro parti: la
Neustria, l’Austrasia, l’Aquitania e la Borgogna e ciò aveva causato un indebolimento del potere
regio.
Queste quattro entità politiche e territoriali erano in forte concorrenze tra loro e nel VII
secolo si verificò una guerra per l’egemonia che interessò maggiormente la Neustria e l’Austrasia e
che fu combattuta non dai sovrani ma dagli effettivi detentori del potere: i maestri di palazzo. Dopo
diverse fasi nel corso del VII secolo si imposero i Pipinidi: i maestri di palazzo dell’Austrasia;
l’artefice della vittoria fu Pipino II di Heristal che dal 687 al 714 detenne il potere in Austrasia,
Neustria e Borgogna.
A lui succedette il figlio Carlo Martello che ebbe il merito di ricomporre sotto un unico
potere politico tutto il territorio e di estendere l’autorità del potere regio su territori come la Frisia e
la Turingia dove ancora il potere franco non si era imposto.
Carlo rivolse i suoi interessi verso l’Aquitania e affrontò anche il pericolo degli Arabi che
avevano valicato i Pirenei sconfiggendoli nel 732 a Poitiers e ciò gli diede fama di campione della
cristianità. Alla sua morte nel 741 divise il regno tra i suoi figli: al primogenito Carlomanno andò
l’Austrasia, l’Alemannia e la Turingia; al secondogenito Pipino il Breve lasciò invece la Neustria, la
Borgogna e la Provenza. I due fratelli purtroppo non riuscirono a tener testa come aveva fatto il
padre all’aristocrazia e per mantenere l’ordine ripristinarono la monarchia merovingia elevando al
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trono un re fantasma, Childerico III. Carlomanno e Pipino inoltre appoggiavano la missione
evangelizzatrice fra i Frigi e i Sassoni del monaco anglosassone Bonifacio e la sua opera fu
fondamentale per immettere nell’orbita cattolica il popolo franco. Bonifacio diede solide basi
organizzative alla sua missione: creò una serie di distretti ecclesiastici che avevano come sedi centri
fortificati e che divennero poi sedi vescovili.
Molta cura fu rivolta verso l’organizzazione della Chiesa franca, furono sostituiti prelati
indegni, ordinati nuovi vescovi e ristabilita la disciplina ecclesiastica. Nel 747 avvenne un fatto
molto importante: Carlomanno abdicò a favore del fratello per ritirarsi nel monastero di
Montecassino e lo stesso papa Zaccaria accettò la sua scelta legittimando il futuro potere di Pipino.
Nel 751 Pipino fece rinchiudere Childerico in un convento e si fece proclamare re facendosi anche
ungere con l’olio santo da Bonifacio; questa fu una scelta ben ponderata in quanto Pipino volle dare
un segnale di apertura alla Chiesa e un fondamento sacro alla sua elezione ponendo le basi per la
nascita di una monarchia di diritto divino. Per rendere ancora più salda l’elezione discesa
direttamente da Dio nel 754 si fece ungere nuovamente insieme ai figli Carlomanno e Carlo dallo
stesso pontefice Stefano II che si era recato in Francia per chiedere aiuto contro i Longobardi.
Pipino di Heristal, Carlo Martello e Pipino il Breve riuscirono a fondare solide basi all’unità politica
dei Franchi e ciò fu possibile oltre che per le loro doti politiche per l’intuizione delle enormi
potenzialità sia politiche che militari insite nell’istituto della clientela armata.
I Franchi come tutti i popoli germanici avevano sempre avuto un’attitudine alla guerra che
non si attenuò nemmeno quando si trasformarono in proprietari terrieri; far parte dell’esercito era
una prerogativa e un dovere di tutti gli uomini liberi. Alcune minoranze guerriere nel corso
dell’VIII secolo si erano anche specializzate imparando nuove tecniche militari provenienti
dall’oriente, come il combattimento a cavallo grazie all’introduzione della staffa che dava al
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cavaliere più stabilità. Di questi gruppi facevano parte giovani guerrieri appartenenti alla nobiltà che
restavano accanto al loro capo militare che concedeva loro delle terre in cambio del loro giuramento
a prestare servizio militare.
Questo tipo di concessione delle terre ai guerrieri non differiva in nulla dalla stessa
concessione delle corvée ai contadini con la sola differenza che il servizio reso dal contadino era
considerato vile e senza valore mentre i servizi militari resi dai guerrieri erano considerati
prestigiosi. La società franca era impregnata di valori militari così ben presto si formalizzarono i
caratteri di una vera e propria cerimonia che formalizzava l’ingaggio del cavaliere; durante questa
cerimonia definita «dell’omaggio» il giovane guerriero (vassus) giurava fedeltà e si legava al suo
signore con un vincolo di fedeltà.
La ricompensa per questi servizi e per la fedeltà data fu usato il termine di «feudo» che
prima indicava gli animali e poi invece cominciò a indicare i beni fondiari; la concessione delle
terre avveniva durante un’altra cerimonia, quella dell’investitura.
Ogni cavaliere oltre ad avere abilità e buone caratteristiche fisiche doveva avere anche un
armamento efficace come cavalli, armature pesanti e armi resistenti.
Al tempo di Carlo Martello i Pipinidi puntarono su un grande ampliamento delle clientele
vassallatiche e provvedevano loro stessi all’armamento giovandosi dell’immenso patrimonio che
avevano a loro disposizione. Oltre che nominare e dotare di armi nuovi cavalieri Carlo Martello
ingaggiò anche membri dell’aristocrazia che potevano da soli fronteggiare le spese per il loro
armamento. Questo sistema di clientele politico-militari creò attorno ai Pipinidi un vasto aggregato
di alleati che non si opposero quando Pipino spodestò dal trono l’ultimo esponente della dinastia
merovingia.
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I Franchi avevano perciò un forte potere militare che Pipino il Breve, una volta salito al
trono, sfruttò subito per iniziare la sua espansione in Europa. Il primo popolo che i Franchi
sconfissero fu quello dei Longobardi; come ben sappiamo i Longobardi si trovavano in Italia e
proprio nell’VIII secolo, guidati dal re Astolfo, cercavano di conquistare tutti i territori rimasti in
mano ai Bizantini. I Longobardi fecero l’errore di avvicinarsi troppo ai possedimenti della Chiesa; il
pontefice Stefano II nel 754 infatti, sentendosi minacciato, si recò in Francia a chiedere aiuto a
Pipino.
Stefano II conferì a Pipino il titolo di patrizio dei Romani che aveva il significato di
protettore della Chiesa romana. Pipino non si fece convincere subito anche perché a corte c’era un
forte partito filo longobardo che era capeggiato dal fratello del re (il monaco a Montecassino) e che
si oppose a un intervento franco. Nel 755 Pipino decise di avviare la spedizione militare e subito fu
palese la differenza tra l’esercito potente e ben organizzato dei Franchi e quello formato da uomini
liberi dei Longobardi. Quest’ultimo fu letteralmente travolto dalle schiere franche alla Chiusa di
San Michele, l’esercito si rifugiò poi a Pavia ma cadde dopo un breve assedio.
Pipino strappò ad Astolfo la promessa di cedere al papa tutti i territori Bizantini che avevano
conquistato e la città di Ravenna ma appena si allontanò dall’Italia Astolfo si negò la promessa e
attaccò Roma. Pipino fu allora costretto a intraprendere una nuova missione nel 756 e questa volta
sconfisse definitivamente Astolfo il quale fu costretto a cedere gli ex territori bizantini alla Chiesa.
Anche dopo questa seconda missione Pipino onorò solamente il suo titolo di protettore della
Chiesa tanto che il successore di Astolfo, re Desiderio mostrò propositi pacifici volendo stringere
rapporti di amicizia con i Franchi.
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A sancire questi nuovi rapporti tra i due popoli furono i matrimoni dei due figli di Pipino
(Carlomanno e Carlo) con le due figlie di Desiderio (Gerberga e Ermengarda): la pace durò circa
quindici anni durante i quali morirono il papa, Pipino e Carlomanno.
Carlo, rimasto erede, ripudiò la moglie e cacciò la vedova e i figli del fratello; questi
tornarono da Desiderio che per vendicarsi attaccò i territori pontifici e la stessa Roma causando di
nuovo l’intervento dei Franchi chiamati dal nuovo papa Adriano I.
Anche questa volta i Franchi ebbero la meglio: nel 773 Carlo confisse i Longobardi e dopo
aver assediato Pavia per dieci mesi costrinse Desiderio a seguirlo in Francia come prigioniero. Il
figlio Adelchi provò a fare qualcosa ma fallì contro la potenza franca e fu costretto a cercare rifugio
in Oriente mentre invece i duchi longobardi si sottomisero senza opporre resistenza al vincitore al
fine di poter mantenere i loro patrimoni.
Nel 776 però, in seguito a un tentativo di rivolta dei duchi, Carlo inviò propri funzionari,
conti e vassalli franchi che assicurarono al sovrano un maggior controllo sul territorio italiano.
Carlo oltre che sul fronte italiano fu impegnato anche su altri fronti sia interni (imporre l’autorità
regia su Borgogna e Provenza) che fuori dai confini franchi.
Nel 778 con un ingente esercito si recò verso la Spagna con l’obiettivo di mettere fine alla
minaccia musulmana dei Mori e dei Saraceni ma dopo la vittoria a Pamplona fu costretto a tornare
indietro per fronteggiare una rivolta dei Sassoni. Durante la ritirata il suo esercito cadde in
un’imboscata dei Baschi presso Roncisvalle dove persero la vita molti cavalieri tra cui il
leggendario Rolando la cui sofferenza di Carlo fu menzionata negli Annales regni Francorum.
Nell’801 Carlo intraprese una nuova spedizione in quei territori e nell’813 riuscì a creare il nuovo
distretto della Marca hispanica comprendente la Navarra e la Catalogna.
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Negli anni tra la prima e la seconda spedizione Carlo aveva affrontato dei problemi a Nord e
a Est del suo regno: a Nord infatti i sassoni mostravano una fiera resistenza all’autorità franca e alla
diffusione del Cristianesimo. Carlo era riuscito a piegare i nobili ma non la grande massa di
contadini che si mantennero in armi per molti anni. Solo nell’804 finalmente si raggiunse una
situazione pacificata e si diede un nuovo ordinamento ecclesiastico. Nella parte orientale in
concomitanza con la rivolta sassone c’era stata la rivolta della Frisia e della Baviera, rivolte che
persero subito vigore dopo la sconfitta dei sassoni; nel 788 Carlo incorporò al suo regno Frisia,
Baviera, Carinzia e Austria. Con queste annessioni il regno franco aveva raggiunto notevoli
dimensioni estendendosi in tutta l’Europa centrale, in Spagna, nell’Italia centrale, nel bacino
dell’Elba. Le molte spedizioni militari e missionarie ebbero come risultato quello di stabilizzare i
confini del regno e favorire la diffusione del Cristianesimo.
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3 I caratteri dell’Impero
Carlo aveva radunato alla sua corte molti uomini di cultura e questi gli fecero capire quanto
importante fosse il suo ruolo e quanto grande fosse diventato il suo potere; questi gli fecero
acquisire una nuova ideologia del potere assimilabile a quella degli imperatori dell’antica Roma.
Anche la Chiesa romana man mano che il suo potere cresceva gli attribuiva prerogative e benefici
che prima erano dell’imperatore d’oriente; Carlo si sentiva molto vicino all’ideologia romana,
cercava di imitare il grande Costantino e come lui fondò una capitale, Aquisgrana ispirandosi ai
modelli urbanistici delle antiche città romane; nonostante ciò negli atti ufficiali continuava a usare i
titoli di «Re dei Franchi, re dei Longobardi, patrizio dei Romani». Sul finire dell’VIII secolo si
verificarono degli eventi che sancirono il suo ruolo e che diedero un solenne riconoscimento alla
sua autorità; dal 797 il trono bizantino aveva perso molta della sua dignità a causa dell’ignobile
gesto dell’imperatrice Irene che, per avere il potere, aveva fatto accecare e imprigionare il suo
stesso figlio Costantino VI. Ai vertici della massima istituzione politica cristiana ci fu perciò un
vuoto che si aggiunse alla debolezza del papato retto dal 795 dal contestatissimo Leone III; il 25
aprile 799 il papa fu imprigionato in un monastero dal quale fu liberato solo dopo l’intervento di
due missi franchi.
Dall’Italia raggiunse Carlo in Germania e dopo aver implorato il suo aiuto ritornò sotto la
scorta in Italia; il re stesso decise di scendere in Italia, arrivò il 34 novembre dell’800 e organizzò
per il 1°dicembre un’assemblea di prelati dove si giudicò il pontefice che alla fine dei lavori, il 23
dicembre, fu giudicato innocente.
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Il 25 dicembre, durante la Messa di Natale papa Leone III pose sul capo di Carlo una corona
mentre il popolo romano lo acclamava gridando la frase: «A Carlo augusto, coronato da Dio, grande
e pacifico imperatore dei Romani, vita e vittoria!».
Questo episodio ebbe un grande eco e oggi gli storici si chiedono di chi sia stata l’iniziativa
ma di certo in quell’800 Carlo Magno era superiore al papa; Carlo inoltre già da tempo si sentiva
pronto a ricevere il titolo di imperatore e il papa non era di certo in grado di imporgli o negargli
nulla. Alcuni problemi si presentarono quando a Costantinopoli fu deposta Irene e rileggittimato il
potere imperiale con l’elezione di Niceforo; tra i due imperi scoppiò un vero e proprio conflitto che
si risolse nell’812 quando il nuovo imperatore Michele I riconobbe a Carlo il titolo imperiale in
cambio dei territori della Dalmazia, dell’Istria e di Venezia. Risolti i problemi con l’impero
bizantino restarono da chiarire quelli con il papato: Carlo aveva il compito di difendere la cristianità
occidentale dai pagani, assicurare stabilità all’apparato ecclesiastico e assicurare la diffusione della
dottrina cristiana nei suoi domini; il papa avrebbe invece pregato per la protezione divina sugli
eserciti imperiali e sul popolo divino. Il papato si trovava in una situazione di netta inferiorità per
cui dopo la morte di Carlo la questione si riaprì.
Il nuovo impero si basava sulla stretta compenetrazione tra Stato e Chiesa ma Carlo Magno
non volle rendere omogenei tutti i territori da lui conquistati e nella maggior parte degli Stati
rimasero in vigore le leggi preesistenti. Delle modifiche si ebbero solo nel settore del diritto
pubblico e nel funzionamento dell’apparato ecclesiastico; dove non costituì regni affidati a
familiari, Carlo creò distretti a capo dei quali mise dei funzionari pubblici con il titolo di conti i
quali avevano compiti riguardanti la difesa, l’amministrazione e la giustizia. Nelle zone di frontiera
i distretti avevano un’estensione maggiore, vennero chiamati marche e assegnati alla gestione di un
marchese; altri grandi distretti erano i ducati che spesso avevano un carattere nazionale ben preciso.
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L’operato di conti, marchesi e duchi era ricompensato sia con il prestigio e con la potenza della
carica (honor) ma soprattutto con i proventi di multe e confische, con il reddito prodotto dai terreni
che venivano loro affidati e che costituivano la normale dotazione della carica (res de comitatu).
Nelle mani di questi funzionari pubblici, che spesso erano anche feudatari del re e che possedevano
terre per diritto di famiglia, si concentrò un grande patrimonio fondiario. Per tenere sotto controllo
questi funzionari Carlo aveva a sua disposizione dei suoi fedelissimi chiamati vassi dominici i quali
erano sottoposti alla giurisdizione del funzionario pubblico ma la loro presenza era segno di
equilibrio e della presenza del sovrano. Per mantenere sempre situazioni di equilibrio nei distretti si
fece ricorso anche a un antico istituto giuridico romano: quello dell’immunità.
All’immunità fiscale che sottraeva dal fisco le terre del demanio imperiale, si aggiunse
quella di carattere giurisdizionale: all’interno della contea esistevano delle terre immuni dove solo
l’immunità (istituto giuridico nato in età romana) poteva riscuotere imposte o esercitare i poteri
giuridici. Queste terre erano come delle isole che riducevano l’autorità dei funzionari pubblici anche
se frenava la crescita del distretto. Dal punto di vista dell’ordinamento dell’impero fu messo in atto
un mutamento in positivo in quanto tutto divenne più strutturato e ordinato.
L’amministrazione dell’impero aveva la sua sede nel palazzo; con il termine palatium si
indicava allo stesso tempo sia corte mobile dell’imperatore che l’insieme di tutti i funzionari e dei
dignitari del suo seguito. Un ruolo di primo piano era affidato a tre funzionari: l’arcicappellano:
preposto a tutti gli affari di natura religiosa; il cancelliere: responsabile della redazione di diplomi,
lettere del re e testi legislativi; i conti palatini: responsabili dell’amministrazione della giustizia e
delegati del re in casi eccezionali.
Tra i personale di palazzo Carlo sceglieva anche i missi dominici, degli ispettori che inviava
in coppia (un laico e un ecclesiale) a visitare una contea e controllare l’operato dei funzionari.
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Questa organizzazione amministrativa era sì efficiente ma sempre inferiore a quella di
Costantinopoli, inoltre la corte non aveva una sede fissa ma si spostava sempre per consumare in
loco le risorse delle diverse ville imperiali.
Questi spostamenti avevano però il carattere positivo di creare un rapporto più stretto con le
comunità locali anche se la corte gravitava sempre nei territori limitrofi ad Aquisgrana.
Carlo Magno cercò di dare omogeneità ai suoi domini con un’intensa attività legislativa
concretizzata nei capitolari, leggi formate da brevi articoli (capitula) emanate durante i placiti,
assemblee che si riunivano circa due volte all’anno, una chiusa all’aristocrazia a ottobre e l’altra a
maggio a tutti i vassalli.
I capitulari trattavano di diritto pubblico e dell’organizzazione dell’apparato ecclesiastico
mentre solo alcuni di essi, i capitularia legibus addenda, erano integrazioni delle leggi nazionali e
trattavano perciò anche argomenti di diritto privato e penale. Gli interventi in campo economico
furono anche frequenti sia per migliorare la gestione delle ville facenti parte del patrimonio regio
ma anche per proteggere piccoli proprietari e ceti rurali dalle pressioni dell’aristocrazia che spesso
sfruttava la povertà dei contadini a proprio vantaggio. Sempre per proteggere le classi meno
fortunate Carlo cercò di fermare l’aumento dei prezzi ma tutte queste leggi valevano a ben poco
visto che il già esiguo apparato amministrativo del re era formato da funzionari pubblici aristocratici
che non erano disposti a far rispettare quelle leggi che andavano a colpire la loro classe sociale di
appartenenza. L’economia monetaria romana era ormai solo un ricordo e non era ancora possibile
dare l’avvio a un sistema di imposte fondiarie; così si pensò di regolamentare le imposte dei dazi e
dei pedaggi per strade, ponti e valichi anche per non ostacolare quei pochi traffici che esistevano. In
campo monetario i funzionari carolingi cercarono di recuperare il pieno controllo di tutte le zecche
evitando la produzione di monete di scarso prestigio e favorendo invece la produzione di quelle
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d’argento. La moneta circolante fu il soldo per le merci di valore elevato mentre il denaro si usò per
le transazioni più frequenti.
Sia il padre di Carlo come poi anche lui e il suo successore si impegnarono molto nell’opera
di restaurazione della Chiesa e questo per motivi politici oltre che religiosi.
Per gli ecclesiastici di corte l’impero coincideva con tutta la comunità cristiana che era retta,
in comunione di intenti dal papa e dall’imperatore. Da parte sua Carlo sceglieva vescovi e abati tra
coloro che gli erano più fedeli proprio perché le istituzioni ecclesiastiche svolgevano un ruolo
importantissimo nell’inquadrare la popolazione e dare stabilità al suo dominio. Non a caso quando
un nuovo territorio veniva annesso all’impero subito venivano mandati i missionari e veniva
introdotto il modello organizzativo della Chiesa franca che si costituiva in province (con a capo gli
arcivescovi), diocesi e pievi (circoscrizioni parrocchiali) dove vivevano piccole comunità di
chierici. Fu attuata un’opera di riforma dei monasteri; la nobiltà franca forniva ai monasteri
protezione politica e militare anche perché spesso a capo di questi venivano scelti abati e badesse
appartenenti alle stesse nobili famiglie. I monasteri però avevano perso ogni prestigio religioso a
causa dell’affievolirsi della disciplina interna e della dispersione dei loro patrimoni a causa della
cattiva gestione di abati senza una vera e autentica vocazione.
Fu premura di Carlo Magno ristabilire l’antica disciplina e negli anni a lui successivi
Ludovico il Pio impose ai monasteri la regola di san Benedetto; la riforma religiosa prevedeva
anche un progetto che mirava ad elevare il livello culturale dei monaci e dei chierici attraverso delle
scuole presso le chiese e i monasteri dove vennero insegnate le arti del trivio (grammatica, retorica,
dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia), la teologia, il canto
gregoriano e il diritto ecclesiastico.
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Vennero inoltre ammessi anche gli esponenti delle famiglie nobili che in futuro avrebbero
avuto di certo carriere come funzionari pubblici anche se Carlo aveva il desiderio di aprire le scuole
a tutti i suoi sudditi. Ad Aquisgrana, sempre per desiderio di Carlo, si costituì la Schola palatina o
Accademia, un cenacolo di intellettuali per la maggior parte ecclesiastici e di alta cultura che si
riunivano per discutere insieme e che istruirono i figli dei funzionari di corte: ne fecero parte illustri
intellettuali come Paolo Diacono, Pietro da Pisa, Clemente Scoto e lo storico Eginardo il quale
scrisse la biografia di Carlo Magno.
Strumento importante per la ripresa degli studi fu la nuova scrittura carolina che per la sua
semplicità si diffuse velocemente in tutta Europa mettendo fine al particolarismo grafico che aveva
imperato fino ad allora. Carlo Magno ebbe il merito di aver dato il via alla rinascita culturale
dell’Europa (ridefinita appunto “rinascita carolina”), rinascita che non si arrestò con la sua morte
grazie alle sue scuole rimaste attive.
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