PROGETTO DI FORMAZIONE PER OPERATORI DEL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE Dalla presentazione del Prof. Rossi Monti: I. PRESUPPOSTI ED ESIGENZE Un progetto di formazione degli operatori si inserisce all’interno di una realtà di lavoro già in atto, caratterizzata da aspetti di carattere quantitativo (dotazione del servizio in termini di operatori, strutture, mezzi, etc.) e strumenti di carattere qualitativo. Se gli strumenti legislativi hanno la funzione di definire la cornice istituzionale nella quale il servizio deve svolgere il suo lavoro, assicurandogli la dotazione istituzionale necessaria, il servizio stesso deve poi sviluppare all’interno di questa cornice un funzionamento sufficientemente buono dal punto di vista qualitativo. Ovviamente, al di sotto di una certa dotazione, nessun servizio è in grado di assicurare una prestazione adeguata. Tuttavia, anche una dotazione pressoché adeguata dal punto di vista quantitativo, non assicura di per se stessa la qualità dell’intervento. La disponibilità di strumenti incide naturalmente anche sulla qualità del funzionamento: alla mancanza di determinati strumenti fa riscontro la necessità di usare gli strumenti a disposizione in maniera impropria, snaturandone o appesantendone la caratteristiche e rendendoli in genere meno efficaci. Gunderson ha mostrato con grande chiarezza come l’apparente risparmio in termini di strutture si traduca invece in un maggior aggravio di spesa (oltre che in inefficacia clinica) nel caso del trattamento istituzionale dei pazienti con disturbi borderline di personalità : “il principio generale è che non è mai una cosa buona avere un paziente in un livello di assistenza più elevato del necessario”. Ma anche in presenza di parametri di carattere quantitativo adeguati, questi ultimi non garantiscono la qualità (Saraceno, 2005): in altri termini la quantità di risorse disponibili non è proporzionale alla qualità del sistema. Oltre che sulla adeguatezza quantitativa delle risorse, è necessario dunque lavorare sulla qualità, vale a dire su quegli aspetti che rendono un gruppo di operatori un gruppo di lavoro efficace, che assume una metodica di lavoro comune, che si dà degli obiettivi a breve e lungo termine sufficientemente condivisi, nei quali ciascun membro del gruppo, nella diversità dei ruoli, riesce a riconoscersi. Là dove “condivisione” non vuole indicare uno stato di totale assenza di conflitto: anzi, al contrario, vuole indicare la opportunità di condividere il conflitto, di considerarlo cioè non tanto un elemento di disturbo, ostacolo o addirittura paralisi del lavoro del gruppo, ma al contrario uno continuo stimolo alla promozione di una migliore qualità del lavoro. Perché questo accada è necessario però che il conflitto possa svolgersi all’interno di una serie di regole condivise: le regole del gioco. Così ad esempio visioni conflittuali della problematica o del futuro di un paziente devono poter contare (grazie alla funzione di salvaguardia del gruppo di lavoro svolta dal leader) su uno spazio stabile di discussione nel quale il conflitto possa emergere e diventare oggetto di riflessione per tutto il gruppo. Il conflitto quindi non va visto come una componente da eliminare dal lavoro di gruppo, ma come invece il carburante stesso del 1 lavoro di gruppo, purché esista uno spazio in cui le parti in conflitto possano parlare tra loro, innescando un processo di riflessione comune. Lo sviluppo di una cultura condivisa (o meglio – si potrebbe dire - conflittualmente condivisa) si fonda sul riconoscimento di alcuni punti ineludibili che costituiscono il fondamento di ogni ulteriore riflessione: è necessario cioè strutturare un linguaggio comune che non può essere solo quello della psichiatria alla DSM-IV, centrata sulla descrizione dei comportamenti, né quello di un modello teorico (come ad esempio quello offerto dalla psicoanalisi) svincolato dalla prassi dei servizi e anche dalle situazioni cliniche delle quali servizi si fanno carico (così diverse da quelle della pratica psicoanalitica tradizionale). In particolare, centrare l’attenzione quasi esclusivamente sui comportamenti vuol dire pensare che il proprio campo di intervento sia rappresentato da situazioni cliniche già ampiamente strutturate, senza quindi potere cogliere quegli aspetti personologici ed evolutivi insiti in ogni disturbo, soprattutto nelle sue fasi più precoci. Per mettere a fuoco questi aspetti è necessaria una diagnosi, ma una diagnosi che non sia solo nosografica ma clinica in senso pieno e capace di individuare anche le possibili risorse della persona o i punti di forza della sua personalità. In questo senso la diagnosi si deve fondare sulla attenzione ai fenomeni visibili oggettivabili (molti degli item DSM) ma anche sulla conoscenza e sulla analisi delle esperienze interiori consapevoli del soggetto, della sua storia, del suo mondo di valori, delle sue disposizioni e capacità. Una diagnosi del genere è accessibile solo all’interno di un setting che preveda la possibilità di una intervista basata sul colloquio e sull’ascolto e non solo mirata alla individuazione di indicatori di disturbo esteriori ed oggettivabili. Al di là di questi due temi (l’intervista e la diagnosi) si pone la necessità di una conoscenza approfondita delle varie condizioni cliniche di cui si occupa ogni servizio psichiatrico. Una conoscenza dei disturbi dal punto di vista descrittivo ma anche delle configurazioni di esperienze soggettive che sono tipiche di ciascuna condizione, in modo che ogni operatore abbia la possibilità di rappresentare a se stesso una serie di condizioni prototipiche potendone cogliere le caratteristiche essenziali. In sostanza è necessario che ogni operatore abbia una rappresentazione condivisa di ciò che si prova ad essere psicotico, ad essere schizofrenico, così come ad essere depresso, maniacale, in crisi di panico, etc. Solo dalla convergenza di una conoscenza realizzata dall’esterno (la descrizione dei vari disturbi) e di una conoscenza realizzata dall’interno (che cosa si prova a…?) sarà possibile fare scaturire un progetto terapeutico degno di questo nome. Che non sia cioè una sorta di programma sovrammesso in maniera impersonale ad un individuo visto come semplice portatore di una diagnosi. II. RELATORI Vista la ampiezza del campo di applicazione mi sembrerebbe opportuno suddividere il carico di lavoro tra più docenti, tutti appartenenti alla medesima area culturale (psicopatologia fenomenologica e psicopatologia psicoanalitica). Tra i nomi dei possibili 2 docenti indico – oltre a me medesimo - i seguenti, incaricandomi eventualmente di contattarli e di coordinare i loro lavori: prof. Arnaldo Ballerini – Psichiatra – Presidente della Società Italiana per la Psicopatologia dr. Giampaolo Di Piazza – Psichiatra prof. Giovanni Stanghellini – Psichiatra – Professore associato di psicologia dinamica (Univ. Di Chieti) dr. Primo Lorenzi dr. Cappellari Ludovico – Primario dei Servizi Psichiatrici della Regione Veneto Ad una fase introduttiva del Corso centrata sui concetti di diagnosi e di intervista psichiatrica, dovrebbe quindi seguire una fase successiva dedicata alla conoscenza dei vari quadri psicopatologici esaminati nel loro versante oggettivo e soggettivo. Calendario 08.02.2007 1. LA DIAGNOSI IN PSICHIATRIA prof. Mario Rossi Monti 02.03.2007 2. L’INTERVISTA PSICHIATRICA prof. Giovanni Stanghellini 13.04.2007; 04.05.2007 3. IL DELIRIO ED I SUOI ORGANIZZATORI prof. Arnaldo Ballerini 12.06.2007 4. L’AUTISMO e AREA NEGATIVA della SCHIZOFRENIA dr. Cappellari Ludovico 21.09.2007 5. L’AREA DEI DISTURBI DELL’UMORE: PARADIGMI DELLA DEPRESSIONE dr. Giampaolo Di Piazza 26.10.2007 6. PSICOPATOLOGIA DEL VISSUTO CORPOREO dr. Primo Lorenzi 08.11.2007 7. LA QUESTIONE BORDERLINE: L’IMPATTO DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ prof. Mario Rossi Monti 3