Medicina d’urgenza
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Medicina d’urgenza
Emergenze ipertensive
Consideriamo alla nostra attenzione quattro casi clinici diversi:
a. al P.S. si presenta una donna al settimo mese di gravidanza; essa presenta cefalea nucale, stato
confusionale, gonfiore bilaterale agli arti inferiori. La sua pressione arteriosa (PA) è 230/130
mmHg;
b. al P.S. si presenta una donna giovane, con “sguardo spiritato”, tremori diffusi aspecifici, senso
di testa vuota, capogiri. La sua PA è 145/95 mmHg e la sua Fc è 85 bpm;
c. al P.S. si presenta un uomo sulla cinquantina, iperteso in trattamento. Presenta cefalea pulsante e
senso di vertigini. La sua PA è 190/120 mmHg;
d. al P.S. si presenta un uomo di 65 anni, fumatore, congesto [?], bronchitico cronico, diabetico,
che lamenta capogiri. La sua PA è 160/100 mmHg.
E’ evidente che in tutti e i quattro i casi si registra uno stato ipertensivo. Questo, tuttavia, è di
diverso significato in ogni caso, per cui definiremo diversamente ogni caso.
In (a) la condizione è quella di una emergenza ipertensiva. La PA è difatti superiore ai valori
225±5/125±5 mmHg, e questo comporta un rischio d’organo importante (possibilità di lesioni
encefaliche, cardiache, renali, retiniche, fetali – visto che la donna è una gestante). L’emergenza
ipertensiva quindi si configura quando i valori pressori sono superiori a 220/120 mmHg. Le lesioni
encefaliche si manifestano con cefalea (può far sospettare una emorragia cerebrale: subito una
TAC), nausea/vomito (idem)1, disturbi visivi a tipo scotomi scintillanti, stato soporoso, coma. Le
lesioni cardiache possono manifestarsi con aritmie (subito un ECG), subedema polmonare o edema
polmonare acuto. Le lesioni renali danno oliguria (un catetere può risolvere [?]), iperazotemia,
ipercreatininemia; un rene disfunzionale “può essere visto come causa” dello stato ipertensivo. A
livello del fundus oculare può rilevarsi edema papillare, emorragie retiniche, essudati cotonosi.
Una simile situazione può essere:
- primitiva (ipertensione maligna);
- secondaria (feocromocitoma, eclampsia, emorragia cerebrale).
Può scatenare IMA (Infarto Miocardico Acuto) o dissecazione aortica, che si manifesta con dolore
retrosternale e irradiato al dorso, con asimmetria dei polsi; l’ECG è negativo, subito va fatta una
TAC.
Nel caso presentato (donna gravida) il trattamento medico da effettuare è il seguente:
- idralazina (vasodilatatore arteriolare diretto) 20 mg e.v.
- beta-bloccante (o urapidil)
- solfato di magnesio 4-6 g e.v. e, a seguire, 1-2 g/h
In generale, le emergenze ipertensive si trattano con:
1. via parenterale2
- labetalolo (TRANDATE™ fiale 100 mg)3, fino a 300 mg
- clonidina (CATAPRESAN™ fiale 0,150 mg)
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Il vomito senza nausea fa sospettare un’emorragia cerebrale
Suppongo che non sia strettamente necessario conoscere i nomi commerciali e la composizione della singola
preparazione farmaceutica!
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Sul prontuario risulta che TRANDATE è solo in compresse
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- nitroglicerina (VENITRIN™ fiale 5 mg)
2. via orale
- nifedipina (ADALAT™ cps sublinguali 10 mg)
- nitroglicerina (TRINITRINA ERBA™ conf 0,3 mg)
Follow up: esame clinico, fundus, Holter pressorio, ECG, EcoCardioGrafia, Doppler arterie renali
(ipertensione nefrovascolare, situazione rara).
In (b) si parla invece di ipertensione borderline; i valori pressori difatti sono appena superiori al
limite superiore di normotensione.
In (c) la situazione è quella di una urgenza ipertensiva. La PA è aumentata, e i valori registrati si
avvicinano – senza però raggiungerli – a quelli che definiscono l’emergenza. Nelle urgenze
ipertensive non è presente il rischio d’organo.
In (d) si parla di crisi ipertensiva. La PA è difatti comunque superiore alla norma. Questo stesso
evento, tuttavia, può essere visto sotto un ottica diversa se si ignorano le condizioni del soggetto (e
quindi se viene valutata per la prima volta) oppure se è un evento abituale.
La domanda, a questo punto, è: che si fa? Vediamo:
a. nelle emergenze ipertensive è necessario diminuire la pressione di un 30% dei suoi valori, sia
dunque come PA sistolica che come PA diastolica; questo va fatto immediatamente – c’è difatti
il già citato rischio d’organo. Dunque sarà necessario repertare un vaso venoso sia per poter
effettuare un prelievo che per poter infondere la terapia. Siccome c’è il rischio d’organo,
bisogna anche effettuare TAC (verifica le condizioni encefaliche), ECG (+ enzimi; da
monitorare ogni 2-3 ore), valutazione della funzione renale, fundus oculi;
b. nelle urgenze ipertensive è necessario, anche in questo caso, abbassare i valori pressori, non
necessariamente però entro i limiti di 120/80 mmHg, che rappresentano i valori pressori ideali.
E, anche in questo caso, il calo dei valori va provocato immediatamente;
c. gli episodi bordeline non vanno trattati. Tutt’al più il paziente va sedato e ricontrollato dopo
qualche giorno;
d. le crisi ipertensive necessitano anch’esse di un calo dei valori, ma questo non va
necessariamente fatto subito; difatti questi episodi potrebbero verificarsi in soggetti che sono
magari già in trattamento, ma hanno una scarsa compliance.
I farmaci anti-ipertensivi maggiormente indicati per gli altri casi sono:
a. Nifedipina sublinguale (ADALAT™ 10 mg);
b. Diuretici dell’ansa, furosemide (LASIX™ 250 mg endovena, 4-5 fiale);
c. Nitrati, se c’è dolore precordiale.
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Intossicazione da CO
L’importanza di questa condizione non è da sottovalutare: un 3% di ricoveri in P.S. per cefalea e/o
stordimento è legata al monossido di carbonio (CO), per cui bisogna pensarci! Il CO è inodore,
incolore, non irritante. E’ un gas asfissiante.
Il monossido di carbonio si forma dalla combustione incompleta di prodotti naturali che sono
metano, kerosene, fumo (il fumatore cronico ha un 15-20% di Hb-CO), emissioni dal tubo di
scappamento delle automobili, impianti di riscaldamento, incendi.
Il gas, una volta inalato, diffonde nel sangue. L’equilibrio di saturazione è raggiunto per l’80% in 4
ore, il restante 20% in 8 ore. Il CO si lega all’Hb. Il t1/2 di dissociazione respirando in aria ambiente
è di 5-6 ore, il t1/2 respirando ossigeno puro alla pressione ambientale (1 atm) è di 1 ora e mezza.
Il CO ha una affinità per Hb che è di circa 200 volte maggiore rispetto a quella dell’O2, per cui in
presenza dei due gas, l’Hb prende 3 CO e 1 O2. Tutto questo porta a:
a. diminuita captazione di ossigeno (polmone);
b. diminuita cessione tissutale di ossigeno (tessuti);
c. legame del CO alla mioglobina (ischemia cardiaca)4;
d. formazione radicali liberi (tossicità sui vari tessuti, anche SNC);
e. interferenze sulla respirazione mitocondriale.
Ovviamente la sintomatologia sarà tanto più importante quanto maggiore è la quota di CO che va a
saturare l’emoglobina:
CLINICA DELL’INTOSSICAZIONE DA CO
Hb-CO%
Segni e sintomi
0
Assenti
10
Cefalea frontale
20
Cefalea pulsante, dispnea da sforzo fisico
30
Alterazioni dello stato di coscienza, nausea, vertigini, fatica
40
Confusione, sincope
50
Asma, convulsioni
60
Ipertensione
70
Morte
Accanto a questi dati clinici vanno considerati i dati ossimetrici e dell’emogasanalisi.
La terapia è condotta con ossigenoterapia al 100% (Venturi), grazie alla quale il CO è eliminato da
Hb grazie ad un meccanismo competitivo. La terapia iperbarica va condotta quando il livello di
HbCO è superiore al 40%.
Una volta svanita la sintomatologia, il paziente non va considerato “salvato” in tutto e per tutto.
Sono infatti descritti danni a distanza sulla sostanza bianca (sindrome apallica).
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Strano modo di schematizzare…
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Shock anafilattico
Lo shock anafilattico è una sindrome clinica grave, reversibile o meno, dovuta a sostanze
allergeniche che possono creare reazioni IgE-mediate con liberazione di sostanze vasoattive (quali
ad es., istamina) che provocano un aumento di permeabilità capillare e insufficienza circolatoria
acuta. Gli allergeni, legandosi alle IgE formano complessi che reagiscono con basofili e mastcellule,
provocano la attivazione di tali cellule, con liberazione di varie sostanze, tra cui l’istamina.
Di questi allergeni ne sono descritti parecchi:
a. farmaci; veicolati dalle proteine plasmatiche (apteni), tra essi ricordiamo penicillina,
cefalosporina, sieri eterologhi antitossici, vitamina B1, pirazolonici e altri FANS, insulina,
anestetici e preanestetici;
b. veleni di imenotteri; di ape, di vespa, di calabrone;
c. alimenti; arachidi, nocciole, banane, fragole, latte, ed altri;
d. inalanti; forfore di cavallo;
e. esercizio fisico, specie dopo pranzo;
f. lattice di gomma;
g. immunoterapia specifica.
Da tener conto che sono possibili anche delle cross-reazioni; ad esempio a carico del lattice di
gomma possono verificarsi cross-reazioni con alimenti quali kiwi o banane.
La liberazione di sostanze vasoattive aumenta la permeabilità capillare causando edema. Quando
l’edema è superficiale esso si manifesta sotto forma di pomfo; quando l’edema è profondo si parla
di angioedema. Grave forma di angioedema è quello che riguarda la glottide.
Quello che alla base si verifica è una immunoreazione di tipo I. In questo tipo di reazione si realizza
una sensibilizzazione verso un allergene, con produzione di IgE da parte di linfociti B stimolati da
IL-4 e IL-13. L’ancoraggio alle mastcellule determina poi una degranulazione ubiquitaria dopo la
successiva esposizione allo stesso allergene o ad un cross-reagente.
L’esposizione ad un allergene verso il quale c’era la sensibilizzazione determina quindi la reazione,
con liberazione di sostanze vasoattive. A livello del microcircolo, come già detto, si realizza
aumento della permeabilità capillare, exemia (con edema), inadeguata perfusione capillare,
possibilità di occlusione trombotica. A livello del macrocircolo, invece, si assiste ad un deficit del
ritorno venoso e della portata cardiaca, con deficit del flusso circolatorio. Il tutto porta ad una
ipossia, con danno cellulare, fino alla necrosi delle cellule.
Da un punto di vista clinico, i tempi di latenza tra l’esposizione all’allergene e la sintomatologia
variano da pochi minuti ad oltre un’ora; si solito, comunque, sono inferiori ai 10 minuti. Nelle
forme ad esordio lento i prodromi sono astenia, ansia, sudorazione, a volte febbre.
A livello dei vari apparati segni e sintomi registrabili sono:
1. app. cardiovascolare
- caduta della PA (si possono registrare valori normali se il paziente è iperteso);
- tachicardia, polso frequente, piccolo, molle;
2. app. respiratorio
- respiro frequente, superficiale
- dispnea, segni di broncospasmo
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3. sist. nervoso
- perdita di coscienza fino al coma
- disturbi psichici e sensoriali
- paresi, convulsioni, vertigini
4. app. gastroenterico
- vomito, diarrea, dolori addominali diffusi
5. rene: oligo-anuria
6. cute
- pallore
- cianosi estremità
- orticaria
Il laboratorio fa registrare (vedi tabella)
↑ Hct
↓ neutrofili e piastrine
↑ glicemia
↑ azotemia, creatinina, uricemia
↓ Na+
↑ K+
↑ GOT, CPK
↑ lattati
↓ pH
↓ PO2
↑ triptasi
La prognosi è tanto più grave quanto più breve è l’intervallo tra esposizione e quadro clinico (si
possono avere anche delle forme così rapide da essere definite fulminanti). Dopo un ora dalla
comparsa del quadro clinico la prognosi migliora.
La terapia, d’emergenza, consiste in:
- Adrenalina5 sottocute, secondo questo dosaggio: 1 ml di una soluzione 1/1000 in dosi da 0,3-0,5
ml ogni 10-20 minuti;
- Amine simpaticomimetiche e.v. (dopamina, noradrenalina);
- Glicocorticoidi e.v.;
- Antistaminici;
- Sostenere il circolo con trasfusioni di plasma, sostituti del plasma, albumina;
- Ossigenoterapia.
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Assolutamente da proscrivere l’uso del cortisone
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D.A.R. – Reazioni avverse ai farmaci
Si tratta di un’evenienza da considerare, dato il frequentissimo ricorso ai farmaci che oggi
ovviamente viene fatto. Le reazioni avverse ai farmaci (in acronimo angolsassone DAR = Drug
Adverse Reaction) possono essere classificate a seconda del loro meccanismo patogenetico, che può
essere immunologico o meno. Pertanto esisteranno DAR non immunologiche e DAR
immunologiche. Esistono anche delle forme di DAR cosiddette “pseudoallergiche”.
Le DAR non immunologiche possono essere prevedibili o non prevedibili. Le DAR non
immunologiche prevedibili hanno un’effetto di entità dose-dipendente, diversamente dalle altre,
quelle cioè non prevedibili.
Le DAR prevedibili possono essere dovute a:
a. sovradosaggio; ad es., aminoglicosidi in insufficienza renale;
b. aumento della sensibilità recettoriale; ad es., eccessiva risposta al warfarin nell’anziano;
c. effetti collaterali
- costanti; es., alopecia da antomitotici;
- occasionali; es., psoriasi da beta-bloccanti;
- sonnolenza da antistaminici.
d. effetti secondari; es., candidosi orale da inalazione steroidea;
e. interazione tra farmaci; es., benzodiazepine + sedativi, antiacidi + FANS;
f. tossicità diretta; es., lesioni da sostanze topiche o parenterali;
g. tossicità da sovradosaggio; es., dermatiti bollose da radiazioni6;
h. predisposizione genetica; es., acne da cortisonici;
i. liberazione di sostanze chimiche;
j. alterazioni metaboliche; es., stomatite aftosa da fenitoina, xantomi da isotretionina;
k. reazioni da accumulo; es., ipercromie da glucocorticoidi.
Le DAR imprevedibili fanno riferimento a idiosincrasie e intolleranze individuali.
Le DAR immunologiche possono essere mediate da quattro meccanismi principali:
a. reazioni di tipo I, IgE-mediate (orticaria);
b. reazioni di tipo II, citolitiche, IgG/IgM-mediate (porpora);
c. reazioni di tipo III, da Icx (esantemi, eritema nodoso, eritema polimorfo, vasculiti);
d. reazioni di tipo IV, ritardate, cellulo-mediate (dermatite allergica da contatto e fotoallergia).
Infine, ci sono le forme pseudoallergiche. Queste sono ad insorgenza rapida, spesso sono
intraoperatorie, ed insorgono con meccanismo anafilattico. Si ha liberazione di mediatori chimici da
mastociti e/o basofili in seguito alla modificazione dei fosfolipidi di membrana e/o agli effetti del
curaro e dell’anestesia; con attivazione della via classica/alternata del complemento.
In anamnesi è importante stabilire la correlazione temporale tra somministrazione del farmaco ed
insorgenza della reazione avversa, valutando la durata e la modalità del trattamento. Bisogna tenere
presente che in realtà è possibile che la reazione si dovuta non già all’effetto del principio attivo ma
degli eccipienti da cui la preparazione farmaceutica è composta, quali coloranti, conservanti o
additivi vari.
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Come se le radiazioni fossero un farmaco…
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La diagnosi etiologica spesso è molto difficile. La cutireazione per farmaci è disponibile in maniera
attendibile solo per alcuni farmaci, e per gli apteni è valutabile solo nel caso della penicillina. I
farmaci possono fungere da antigeni quando hanno un alto peso molecolare, oppure hanno un peso
molecolare basso ma fanno ponte tra due IgE. Le molecole a basso peso molecolare sono apteni.
Importante anche l’attuazione del test di tolleranza. Questo viene condotto per usare una molecola
diversa da quella che dà la reazione avversa. Quando il farmaco ha potere antigenico si usa una
molecola diversa non cross-reagente. Se compaiono segni di allergia il test va sospeso.
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Edema polmonare cardiogeno
Arriva al P.S. un paziente che presenta dispnea (tachipnoico, respira a bocca aperta, mette in uso i
muscoli respiratori accessori), cianosi, è agitato e poco collaborante. Si pratica un rapido esame
obiettivo, che mette in luce un aumento della Fc (Fc sta per frequenza cardiaca), una PA di 195/135
mmHg, ipermobilità delle basi polmonari, uso frequente del m. sternoicleidomastoideo, si repertano
rantoli e rumori secchi. Diagnosi: edema polmonare.
Nell’edema polmonare si ha un aumento dei liquidi extravascolari, prima nell’interstizio del
polmone, quindi negli alveoli. Il liquido passa negli alveoli in base alla legge fisica di Starling, per
cui sono importanti le pressioni intracapillari e interstiziali; importante anche la possibilità di un
deflusso linfatico, che consente la costanza dei valori pressori dell’interstizio. La pressione oncotica
plasmatica e la pressione interstiziale tendono a mantenere i liquidi entro i capillari; la pressione
idrostatica intracapillare e la pressione oncotica del fluido interstiziale, invece, tendono a spostare i
liquidi fuori dai vasi. Nella legge di Starling vanno anche considerati altri due parametri, che sono
il coefficiente di permeabilità e il coefficiente di riflessione delle macromolecole: si tratta di due
fattori che si modificano notevolmente con l’apertura delle giunzioni intercellulari (endoteliali
prima e alveolari successivamente) che si verifica in corso di edema polmonare acuto.
L’alterazione dei fisiologici processi di scambio di liquidi e soluti che avvengono a livello della
membrana alveolo-capillare, e lo squilibrio delle forze che li governano possono causare un
accumulo di liquidi negli spazi interstiziali dei polmoni ed all’interno degli alveoli stessi,
configurando il quadro dell’edema polmonare acuto.
Quando vi è equilibrio tra le due coppie di pressioni la filtrazione è normale; una piccola quantità di
liquido supera continuamente l’endotelio capillare polmonare e raggiunge lo spazio interstiziale; il
liquido viene poi allontanato tramite i vasi linfatici. In caso di aumento della pressione idrostatica
capillare (ma non solo in questo caso) si crea un aumento della quantità di liquido che raggiunge
l’interstizio. Successivamente avviene la migrazione di tale liquido anche nell’alveolo; questo si ha
quando la capacità linfatica viene esuberata. Comunque, quando si realizza un aumento di pressione
idrostatica nel capillare polmonare, si parla di edema polmonare acuto cardiogeno.
Difatti è proprio una bassa funzionalità della funzione contrattile ventricolare che crea un
sovraccarico a livello del circolo polmonare, con conseguente ingorgo capillare ed aumento della
pressione idrostatica. Quando difatti la possibilità di eiezione del ventricolo sinistro è inferiore
rispetto al sangue immesso nel circolo polmonare ad ogni sistole del ventricolo destro (e che
dunque ritorna a sinistra), si crea la situazione presentata.
Ciò è nella maggior parte dei casi dovuto ad un vizio mitralico o ad un esito di infarto miocardico;
altre volte invece la stessa situazione, e cioè un aumento della pressione idrostatica intracapillare è
da ascrivere ad una crisi ipertensiva, alla rottura improvvisa di un lembo valvolare o di una corda
tendinea, ad un sovraccarico idrico improvviso.
Nella patogenesi dell’edema polmonare si distinguono tre fasi:
a. Prima fase, in cui c’è un aumentato passaggio da capillari a interstizio ma si realizza un
compensatorio incremento del drenaggio linfatico; si può avere solo modesta tachipnea,
probabilmente per stimolazione di recettori interstiziali. L’aumento della ventilazione
constribuisce a migliorare il drenaggio linfatico.
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b. Seconda fase, dell’edema interstiziale. Qui la possibilità di drenaggio linfatico è superata, e
quindi si instaura un ristagno di liquidi nell’interstizio.
c. Terza fase, dell’edema alveolare. Un ulteriore incremento della pressione endovasale può
portare all’apertura delle giunzioni intercellulari sul versante alveolare, con passaggio di
liquido, macromolecole e globuli rossi negli alveoli stessi. E’ questo il quadro dell’edema
polmonare franco. L’accumulo di liquido nel polmone è maggiore alle basi che agli apici.
Ovviamente quando l’edema è alveolare è impedito lo scambio gassoso.
In anamnesi vanno ricercate le cause della sintomatologia. Il quadro clinico del paziente, in parte
già riportato, presenta una condizione di dispnea (il paziente “lotta per respirare”), con cute fredda,
sudata, pallida, spesso cianotica; il paziente è agitato e ansioso, ma può essere anche prostrato e
obnubilato se nel frattempo è insorto uno stato di shock con acidosi. Può essere presente tosse secca
o con essudato schiumoso, che poi diviene un po’ roseo. Si descriveva, soprattutto in passato,
l’ascoltazione di una “pentola che bolle”, anche senza l’uso del fonendoscopio!
L’ascoltazione rivela rantoli polmonari alle basi, broncospasmo7 (sibili); al cuore, tachicardia, ritmo
di galoppo, e altri reperti. L’ascoltazione cardiaca non è sempre agevole.
Importante, ai fini diagnostici, prognostici e terapeutici è il rilievo della PA.
Le indagini da avviare sono:
a. ECG;
b. Rx torace; i reperti radiografici si correlano agli stadi dell’edema polmonare. Difatti le
manifestazioni radiografiche dello scompenso cardiaco sinistro sono:
- ridistribuzione del flusso ematico nei campi superiori;
- strie di Kerley (a farfalla dagli ili verso la periferia, o orizzontali alle basi, o reticolari alle
basi; sono segno di edema settale);
- opacità vascolari sfumate all’ilo, segno di edema perivasale;
- definizione netta dei margini pleurici, segno di edema subpleurico;
- edema ad ali di farfalla, cioè opacità confluenti agli ili polmonari, segno di edema alveolare;
- possibile riscontro di versamenti pleurici.
c. Emogasanalisi; sempre ipossiemia, possibile ipercapnia, frequente acidosi metabolica;
d. Emocromo; leucocitosi, che consegue alla mobilizzazione del pool dei globuli bianchi
solitamente non circolanti.
La prognosi è correlata ovviamente con la natura della malattia cardiaca sottostante e la possibilità
di rimuovere il fattore precipitante. Ad esempio, è solitamente buona per le crisi ipertensive, è
pessima in caso di infarto miocardico acuto (IMA) in stato di shock.
L’edema polmonare acuto cardiogeno è un’emergenza medica. Trattamento:
a. furosemide (LASIX™ 20 mg, da 3 a 5 fiale e.v. in bolo rapido);
b. ossigenoterapia (per via dell’acidosi), con O2 in mascherina, al 100% a pressione positiva;
c. posizione ortopnoica;
d. digossina, strofantina; hanno azione cardiocinetica rapida, il loro dosaggio è a frazioni di mg in
somministrazione e.v. (Digossina = EUDIGOX™ cpr 0,2 mg);
e. broncodilatatori come l’aminofillina (AMINOMAL™ 240 mg 1 fiala, poi 3 nelle 24 ore) o
salbutamolo (VENTOLIN™);
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Diagnosi differenziale con l’asma bronchiale
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f. morfina, che toglie l’ansia e diminuisce il tono adrenergico; questo farmaco ha però lo
svantaggio di dare depressione respiratoria. Come tutti gli oppioidi, viene antagonizzato dal
naloxone. Dosaggio della morfina (CARDIOSTENOL™ fiale da 1 ml) due fiale.
g. Nitroderivati; hanno azione vasodilatatoria. Vanno dati se l’edema polmonare è “ad alta
pressione”, cioè se la PA diastolica del paziente è uguale o superiore ai 100 mmHg. Ciò serve
per ridurre il ritorno venoso. Nifedipina = ADALAT™ cpr 20 mg.
Se tutto questo fallisce, si può praticare un salasso oppure posizionare, cambiando periodicamente
posizione, lacci emostatici agli arti. “Ultima ratio” il trattamento rianimatorio.
In ogni caso il paziente va seguito nelle ore successive.
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ARDS
ARDS significa “Sindrome da Distress Respiratorio dell’Adulto”; il “distress respiratorio” è
l’insufficienza respiratoria acuta. Si tratta di una condizione che può costituire l’evoluzione di un
edema polmonare “da alterata permeabilità”, in riferimento ovviamente alla barriera alveolocapillare.
Nell’ARDS sono presenti numerose alterazioni. Innazitutto un danno dell’epitelio alveolare e
dell’endotelio capillare; questo determina passaggio di liquido e proteine nell’interstizio e negli
alveoli. L’edema alveolare e interstiziale determina un disturbo regionale della ventilazione. Su
questo può anche intervenire anche una qualche alterazione del surfattante. Comunque, a questo
punto vi è ancora il mantenimento della perfusione. Ad ogni modo, il disturbo locale della
ventilazione aumenta quello che è lo “spazio morto fisiologico” per gli scambi respiratori; questo
fatto, assieme al fatto che si verifica l’aumento della pressione polmonare, determina la precoce
ostruzione delle arteriole pre-capillari. Il parenchima polmonare diviene meno distensibile e,
pertanto, diminuisce il proprio volume. A tutto ciò si associano dunque disturbi della meccanica
polmonare.
Finora dunque abbiamo visto come nella patogenesi dell’ARDS si verifichino numerose alterazioni:
a. danno dell’epitelio alveolare e dell’endotelio capillare;
b. disturbo regionale della ventilazione;
c. precoce ostruzione delle arteriole pre-capillari;
d. disturbi della meccanica polmonare.
Il tutto porta ad una condizione di ipossiemia; per compensare l’ipossiemia aumenta la gittata
cardiaca; fatto, questo, che, a lungo andare, finisce con l’inficiare la funzione ventricolare con
aumento del danno polmonare. Su un polmone così danneggiato si innesta l’ARDS.
Cause di ARDS (o, meglio, fattori scatenanti) possono essere:
a. infezioni e sepsi (questo è il motivo per cui si dà molta importanza all’esame citologico del
BAL);
b. inalazione di vari agenti (fumo, anidride solforica, acido cloridrico…);
c. farmaci, agenti tossici e diagnostici (oppiacei, paraquat, salicilati, contrasti…);
d. aspirazione del contenuto gastrico;
e. traumi, colpi di tosse violenti.
Pazienti “a rischio”, nei quali è frequentemente possibile il riscontro di ARDS, sono gli ustionati, i
politraumatizzati, i pazienti con CID, coloro che hanno una storia di trasfusioni multiple, e quelli
nei quali vi è sospetto di aspirazione o che presentano sepsi con ipotensione.
Il quadro clinico presenta rumori secchi, ipossiemia, possibile ipocapnia, infiltrati multipli e
bilaterali, periferici (questo si può ben osservare all’Rx, e consente di fare diagnosi differenziale
con l’edema polmonare acuto cardiogeno), aumento della pressione capillare polmonare,
diminuzione dell’espandibilità (compliance) polmonare.
Nell’approccio al paziente è bene individuare la causa della malattia. Ciò è importante per poter
impostare una terapia specifica. E poi ancora, trattare l’ipossia mediante ossigenoterapia, impostare
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una terapia “di supporto” (si valuta la funzione cardiaca e la [ ] di Hb), assistenza ventilatoria. Per
quanto concerne la prognosi, la mortalità è del 50%; sale al 90% se si instaura anche uno shock
settico. La sindrome può complicarsi con una insufficienza respiratoria intrattabile, infezioni,
insufficienze multiorgano, complicanze della ventilazione meccanica. Anche dopo il fatto acuto, si
possono verificare sequele ostruttive o restrittive.
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Ipoglicemia
Il glucosio è importantissimo per il metabolismo di tutti gli organi, ma in particolare di quello delle
cellule cerebrali. Proprio per questo motivo esiste tutto un meccanismo di controregolazione
dell’ipoglicemia che consente di formare nuovo glucosio a partire da composti diversi
(gluconeogenesi epatica) e di impedire l’utilizzo di glucosio da parte degli organi meno sensibili. In
questo complesso meccanismo di controregolazione entrano sostanze quali il glucagone, il
cortisolo, l’ormone della crescita (GH) e le catecolamine. Dunque quando c’è ipoglicemia
intervengono tutte queste sostanze. Ecco perché in caso di ipoglicemia si osservano sintomi
adrenergici quali sudorazione, tachicardia, tremori, ansietà; sono dovuti all’aumentato tono
simpatico indotto proprio dall’ipoglicemia! I sintomi di alterata funzione del SNC sono più tradivi
rispetto a questi, e consistono in vertigini, alterazioni visive, confusione, convulsioni, sincope ed
eventualmente coma. I pazienti neuropatici o nei quali è stato indotto un beta-blocco presentano
ovviamente una sintomatologia adrenergica di gran lunga attenuata: sono i casi in cui il pericolo di
una ipoglicemia è molto maggiore, data la maggiore probabilità che in questi si realizzino sequele
neurologiche dovute al fatto che non vi sono sintomi prodromici.
La diagnosi di ipoglicemia si fa con:
a. ipoglicemia (valori inferiori a 35-50 mg/dl);
b. presenza di sintomi dell’ipoglicemia;
c. miglioramento dopo somministrazione di glucosio
Questi tre “punti” sono noti come “triade di Whipple”.
Distinguamo due tipi di ipoglicemie8: la postprandiale (o reattiva) e quella a digiuno. L’ipoglicemia
postprandiale si manifesta in presenza di condizioni che realizzano un’alterato svuotamento
gastrico (es., gastrectomia, piloroplastica, vagotomia), con rapido assorbimento di glucosio ed
eccessivo rilascio di insulina; l’insulina ha una azione ipoglicemizzante, che in tal caso è molto
accentuata (i livelli di insulina diminuiscono dopo quelli del glucosio). Nei bambini sono causa di
ipoglicemia postprandiale l’intolleranza al fruttosio, la galattosemia e l’ipersensibilità alla leucina.
L’ipoglicemia a digiuno, invece, è dovuta ad uno squilibrio tra produzione e utilizzo di glucosio.
L’aumentato utilizzo si può avere in condizioni quali insulinoma, insulina esogena, presenza di
autoIg anti-insulina; in pratica in tutti i cosiddetti “iperinsulinismi”. La bassa produzione di
glucosio, invece, si osserva in deficit ormonali (a carico di ipofisi, surrene, pancreas), difetti
enzimatici (relativi al metabolismo del glucosio), in caso di deficit dei substrati (malnutrizione,
gravidanza, perdita muscolare), nelle epatopatie e per farmaci (ad es., il propanololo o i salicilati).
Anche l’ingestione di etanolo, aumentando il rapporto NADH/NAD, con blocco della
gluconeogenesi, può dare ipoglicemia a digiuno. La diagnosi è compiuta dosando glucosio,
cortisolo, insulina, peptide C nel sangue, e dosando i metaboliti delle sulfaniluree nelle urine, in
presenza di sintomatologia ipoglicemica.
Che si fa? Nelle forme gravi, l’iniziale rapida infusione di 60-100 ml e.v. di glucosio al 50% in
acqua deve essere seguita da quella di glucosio al 10% al fine di mantenere la glicemia a livelli
superiori ai 100 mg/dl. Il trattamento delle altre forme di ipoglicemia è la dieta: il paziente non deve
rimanere a digiuno e deve consumare pasti piccoli e frequenti.
8
Classificazione che si trova sull’Harrison, XIV edizione
14
Medicina d’urgenza
Infarto miocardico acuto
Abbreviato IMA. Il riconoscimento precoce e il trattamento immediato dell’IMA sono essenziali; la
diagnosi si basa sull’anamnesi caratteristica, sull’ECG e sull’andamento degli enzimi cardiaci.
I sintomi sono:
a. dolore toracico di tipo anginoso, però più intenso e persistente (oltre trenta minuti); il dolore
anginoso si manifesta con un senso di peso retrosternale, oppressione, costrizione, con tipica
irradiazione al braccio sinistro. Di norma il dolore anginoso compare dopo sforzi, specialmente
al termine dei pasti o dopo forti emozioni. Nell’angina il dolore è tipicamente alleviato dal
riposo e dalla somministrazione di nitroglicerina; questo invece non è completamente vero
nell’IMA;
b. spesso il dolore è accompagnato da nausea, sudorazione, eretismo;
c. il 25% degli IMA decorre asintomatico9.
All’esame obiettivo possono riscontrarsi pallore, sudorazione profusa, tachicardia, terzo/quarto tono,
discinesie dell’itto; nell’infarto ventricolare destro è comune il turgore della vena giugulare.
All’ECG si possono riscontrare due casi distinti:
a. IMA con onda Q; si ha sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, manifestazione
dopo alcune ore dell’onda Q; questo si vede nelle derivazioni precordiali, nella aVL e nella I;
b. IMA senza onda Q; si ha sottoslivellamento del tratto ST, seguito da alterazioni persistenti del
tratto ST e dell’onda T senza sviluppo dell’onda Q.
Per quanto concerne gli enzimi cardiaci, i più importanti sono:
a. creatinachinasi (CK) anche come isoenzima CK-MB;
b. troponine cardio-specifiche T e I;
c. latticodeidrigenasi (LDH) anche come isoenzima LDH1.
In prima giornata CK va monitorata ogni 8 ore; essa ha un picco entro 24 ore dall’evento e poi si
normalizza dopo 48-72 ore. L’isoenzima CK-MB è più specifico di CK, ma aumenta anche nella
miocardite e nella cardioversione elettrica. Il rapporto CK-MB/CK se maggiore o uguale a 2,5
suggerisce un IMA. CK può aumentare anche per iniezione i.m., sforzi fisici, traumi muscolari. Le
troponine T e I sono cardiospecifiche, e restano elevate per 1-2 settimane. LDH raggiunge il picco
entro 3-4 giorni e rimane elevata per 14 giorni. Più specifico per l’IMA è l’isoenzima LDH1.
Quando la diagnosi di IMA non è chiara sono utili esami radiologici non invasivi quali
EcoCardioGrafia, che però non può distinguere infarti nuovi da esiti precedenti, e la scintigrafia
miocardica, che identifica le zone di ipoperfusione (anch’essa però gravata dal fatto di non poter
distinguere l’evento recente).
Complicanze di un IMA sono:
a. aritmie ventricolari (tachicardia, fibrillazione, ritmo idioventricolare accelerato);
b. aritmie sopraventricolari (soprattutto tachicardia sinusale);
c. bradiaritmie, blocchi AV;
d. scompenso cardiaco congestizio;
e. shock cardiogeno;
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Harrison, XIV edizione
15
Medicina d’urgenza
f. complicanze meccaniche acute (rottura del setto, insufficienza mitralica acuta da
ischemia/infarto dei muscoli papillari, rottura della parete libera del ventricolo);
g. pericardite;
h. aneurisma ventricolare;
i. angina ricorrente;
j. sindrome di Dressler (febbre, dolore pleuritico e versamento pericardico, che si possono
manifestare 2-6 settimane dopo IMA; il dolore e le caratteristiche dell’ECG sono caratteristiche
della pericardite10; in genere risponde alla terapia con ASA e FANS).
Come si tratta un IMA? Distinguiamo un trattamento iniziale e una terapia successiva.
Il trattamento iniziale ha come scopo quello di ridurre il dolore, limitare al minimo le dimensioni
della zona infartuata, prevenire/trattare le aritmie e le complicanze meccaniche.
Una terapia trombolitica (streptochinasi, t-PA) può ridurre le dimensioni dell’infarto e limitare le
disfunzioni ventricolari. I pazienti candidati a questo trattamento (per i quali non ci sono
controindicazioni importanti quali ad es., interventi chirurgici maggiori o traumi recenti, periardite
acuta o dissezione aortica, tumore intracranico, pregressa emorragia cerebrovascolare, ipertensione
grave) vanno trattati al più presto (optimum entro tre ore) con streptochinasi (dosaggio 1,5 milioni
U in 1 ora) o t-PA (15 mg in bolo, poi 50 mg in 30 min., poi 35 mg nell’ora successiva); insieme
alla terapia trombolitica vanno somministrati ASA 160-325 mg/die per os e, se è stato utilizzato tPA, eparina per mantenere il PTT (2 x controllo per 48 ore).
Le complicanze della terapia trombolitica comprendono emorragia, aritmie da riperfusione e, nel
caso della streptochinasi, reazioni allergiche.
Nei pazienti con controindicazione alla terapia trombolitica può essere effettuata un’angioplastica
coronarica percutanea primaria per il ripristino del flusso coronarico.
La terapia successiva, indipendente dalla trombolisi, consiste in:
a. ricovero in Unità Coronarica, con monitoraggio continuo dell’ECG;
b. accesso venoso a permanenza per il trattamento d’emergenza delle aritmie;
c. controllo del dolore (morfina 2-4 mg e.v. ogni 5-10 min fino al miglioramento o al sorgere degli
effetti collaterali11; nitroglicerina sottolinguale 0,3 mg se c’è PA > 100 mmHg);
d. ossigenoterapia (O2 saturazione > 90%);
e. lieve sedazione (ad es., con diazepam 5 mg 4volte/die per os);
f. dieta leggera;
g. beta-bloccanti; riducono il consumo miocardico di ossigeno, limitano le dimensioni dell’area
infartuata e riducono la mortalità. La somministrazione è inizialmente e.v. (per es., metoprololo
5 mg ogni 5-10 min., fino a 15 mg totali) e si continua per via orale (rimanendo nel nostro es.,
metoprololo 25-100 mg 2 volte/die);
h. anticoagulanti/antiaggreganti piastrinici;
i. ACE inibitori; devono essere prescritti precocemente durante il ricovero in pazienti
emodinamicamente stabili; vanno continuati per tutta la vita in soggetti con scompenso cardiaco
congestizio o disfunzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione < 40%);
j. Bisogna controllare la [Mg] nel sangue per ridurre il rischio di aritmie.
10
11
Dolore toracico pungente, alleviato dalla flessione del tronco; frequenti febbre e palpitazioni
Nausea, vomito, depressione respiratoria, ipotensione
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Medicina d’urgenza
Sincopi
Per sincope si intende una perdita della coscienza dovuta a ipoperfusione a livello dell’intero
encefalo o del sistema di attivazione reticolare troncoencefalico. I sintomi prodromici consistono in
senso di “testa vuota”, debolezza, nausea, offuscamentro visivo, acufeni, sudorazione. Talvolta si
manifesta in modo così rapido da non avere prodromi. Il paziente è pallido, con polso debole,
frequente o irregolare. Possono comparire mioclonie spontanee o movimenti clonici della durata di
5-10 secondi. I sintomi prodromici che precedono la perdita di coscienza nella sincope si chiamano
lipotimia. Posizionando il paziente in clinostatismo, così da ripristinare la circolazione cerebrale, lo
stato di coscienza viene riacquistato rapidamente. I sintomi, comunque, non persistono per più di 5
minuti.
La diagnosi differenziale viene generalmente posta tra sincope e crisi comiziale. La diagnosi di
sincope è più probabile se l’evento è stato provocato da dolore acuto, da ansia, o ancora se è stato
immediatamente conseguente all’assunzione della posizione ortostatica da quella clinostatica o
seduta, a differenza dell’attacco comiziale, che non è legato alla postura. I pazienti con sincope
descrivono spesso una tipica fase di transizione dallo stato di coscienza a quello di incoscienza,
della durata di pochi secondi. Durante la sincope il paziente è pallido, mentre spesso durante un
attacco epilettico è presente cianosi. Lo stato di incoscienza è brevissimo nella sincope, è
prolungato nella crisi convulsiva. In quest’ultima, inoltre, sono più frequenti le brusche cadute a
terra del soggetto, che procurano lesioni. Dopo una sincope il soggetto riacquista la vigilanza in
pochi minuti, a differenza di quanto avviene dopo un episodio epilettico.
CAUSE DI SINCOPE E LIPOTIMIA
Riduzione del flusso a livello del SNC
Inadeguati meccanismi vasocostrittori
Vaso-vagali
(vasodepressione),
insufficienza autonomica
Ipovolemia
Disidratazione, emorragia, diuretici
Ridotto ritorno venoso (c.meccaniche)
Manovra di Valsalva, tosse, minzione
Ridotta gittata cardiaca
Stenosi aortica, embolia polmonare,
infarto miocardico, tamponamento
cardiaco…
Aritmie
Riduzione del flusso, o effetti ad essa TIA
correlati, a livello della sostanza
Altri
reticolare
Alterate caratteristiche del sangue a livello encefalico
Embolia arteria basilare, insufficienza vertebro-basilare
Emicrania basilare, cisti del III ventricolo
Ipossia
Anemia
Iperventilazione
Ipoglicemia
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Medicina d’urgenza
Sindrome orticaria-angioedema (SOA)
In seguito alla esposizione a varie sostanze, attraverso diversi meccanismi si giunge ad una
condizione che, da un punto di vista clinico, ci presenta un paziente che mostra sia pomfi orticariodi
cutanei, sia una imbibizione profonda, e dunque un quadro di angioedema.
La SOA è riconducibile a diversi meccanismi d’insorgenza, per cui ne distingueremo diverse forme:
a. allergiche; si tratta di reazioni IgE-mediate (mast-cells + 2 IgE con allergene) scatenate
dall’assunzione di alimenti (lette, uova, pesce…), inalanti (polveri, forfore…), farmaci (betalattamici), parassiti (giardia, taenia…);
b. pseudo-allergiche; si tratta di reazioni non IgE-mediate dovute comunque a sostanze in grado di
liberare istamina;
c. da Icx; si tratta di reazioni di III tipo, innscate da virus, batteri, miceti;
d. da citolisi; sono reazioni di II tipo;
e. fisiche; calore o freddo;
f. ereditarie; da deficit di C1-INH (edema di Quincke);
g. da contatto; vi sono forme immunologiche (ad es., antibiotici), e forme non immunologiche (ad
es., puntura di ortiche, meduse, alghe…);
h. secondarie ad altre malattie (mal. autoimmuni, neoplasie…);
i. forme infettive; (ad es., foci infettivi dentari);
j. forme idiopatiche.
Clinicamente si manifestano orticaria e angioedema.
L’orticaria si manifesta con i pomfi, di forma e dimensioni varie. I pomfi sono rilevatezze della cute
di colore bianco-porcellana o rosa o rosso, spesso con dei prolungamenti periferici, chiamati
pseudopodi, di consistenza duro-elastica; sono estremamente fugaci (da una decina di minuti a
qualche ora). Sono causati da una vasodilatazione capillare e da un edema del derma papillare e
medio. Sono le lesioni elementari dell’orticaria.
Quando l’effetto edemigeno interessa gli strati più profondi si realizza il quadro dell’angioedema
che è scarsamente o per nulla pruriginoso poiché negli strati profondi sono scarsamente
rappresentate le terminazioni nervose sensitive.
Dunque l’angioedema si manifesta con una imbibizione profonda. I prodromi sono malessere,
astenia, cefalea, parestesie, disturbi vasomotori. Se è interessata la glottide, si hanno manifestazioni
asfittiche. Le sedi tipiche sono volto, genitali, arti, cavo oro-faringeo, apparato gastroenterico. Sedi
atipiche sono SNC (dove si possono avere afasie temporanee, convulsioni), SNP (disturbi transitori
della motilità e della sensibilità), parotide (tumefazione), articolazione (tumefazione).
Per fare diagnosi, è possibile ricorrere a tutta una serie di accorgimenti. A parte la diagnosi clinica,
che risulta agevole, è necessario fare diagnosi etiologica, per così individuare l’agente responsabile.
Per questo motivo sono attuabili test cutanei (da attuare dopo alcuni mesi dall’esordio), epicutanei
(per sospetto SOA da contatto), coadiuvati da PRIST (è la ricerca delle IgE totali) e RAST (è la
ricerca delle IgE specifiche). Utile può risultare lo studio del complemento (C3, C4, dosaggio C1INH), la ricerca di Icx, lo studio della funzionalità epatica, l’esame parassitologico delle feci, la
ricerca di turbe gastroenteriche, neuropsichiche, epatiche, l’esame emocromo (orticaria in corso di
leucemie, paraneoplastica!).
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Medicina d’urgenza
La terapia dell’orticaria è fatta innanzitutto con il riconoscimento e la rimozione dell’agente
causale, e quindi con l’uso di farmaci antistaminici, stabilizzatori di membrana (il
disodiocromoglicato), Ca2+-antagonisti, teofillina, steroidi, adrenalina (è la terapia d’emergenza),
cortisonici, fototerapia, psicoterapia, diete di esclusione.
La terapia specifica dell’engioedema prevede che, nell’emergenza, si somministri adrenalina
sottocute (1 ml della soluzione 1/1000), ma si può anche arrivare a mezzi quali tracheotomia o
intubazione. La terapia dell’angioedema cronico, invece, si avvale di cortisonici.
Un piccolo accenno al fatto, già riferito, per la verità, che manifestazioni orticariodi si possono
avere da cause fisiche: uno stimolo meccanico può provocarli (dermografismo), così come freddo,
acqua, vibrazioni, pressioni, fatica.
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Medicina d’urgenza
Embolia polmonare
L’embolia polmonare è una condizione per cui si realizza una brusca ostruzione del flusso ematico
polmonare. Le conseguenze sono:
a. perdita di aree perfuse; ci sono aree del polmone che sono ventilate ma non perfuse;
b. comparsa di atelettasie; questo avviene dopo 2-24 ore;
c. ipossia arteriosa;
d. ipertensione polmonare;
e. insufficienza acuta del ventricolo destro;
f. riduzione della gittata cardiaca.
Per la verità queste ultime tre conseguenze (sono conseguenze emodinamiche, non respiratorie) si
verificano solo quando è ostruita una quota significativa del circolo polmonare. Un’altra grave
conseguenza, che è l’infarto polmonare, si verifica solo quando pre-esistono malattie polmonari o
cardiache.
Sovente gli emboli hanno origine dagli arti inferiori. I trombi, come il buon Wirchoff insegna,
possono formarsi per lesioni endoteliali, ipercoagulabilità, stasi. La stasi (pazienti allettati a lungo
per varie ragioni) è tra i maggiori responsabili, dunque, dell’embolia, specie se il soggetto è un
paziente coagulopatico, o è un’anziano, cardiopatico, traumatizzato. Cara agli anatomopatologi è
anche la possibilità di un embolo gassoso o adiposo.
Il paziente all’improvviso si mostra dispnoico, con tachicardia, ritmo di galoppo ventricolare destro
e tachipnea; qualche volta può anche avere febbre elevata; può essere ipoteso, nel qual caso
l’embolia polmonare è davvero importante, così come se si verifica una crisi sincopale. Se c’è
infarto polmonare il nostro paziente avvertirà dolore toracico e avrà emottisi.
I comuni esami di laboratorio sono scarsamente diagnostici; un Rx torace normale non esclude la
presenza di un embolo polmonare, mentre la scintigrafia perfusoria normale esclude un’embolia
polmonare clinicamente significativa. Se nel paziente c’è sospetto di tromboembolia polmonare,
può utile essere un esame ecografico di grossi vasi arteriosi e venosi, onde poter verificare
l’esistenza di punti di partenza di un trombo, e per così indurre una sollecita terapia. Chiaramente se
si effettua una scintigrafia perfusoria e ventilatoria e si nota il “disaccoppiamento” tra ventilazione
(normale) e perfusione (patologica) il quadro è altamente suggestivo di embolia polmonare.
Comunque, l’angiografia polmonare resta l’esame definitivo.
Il trattamento di scelta nella maggior parte dei pazienti consiste nella somministrazione di eparina
(18 U/kg/h) in infusione continua endovenosa, dopo un bolo iniziale di 80 U/kg. L’obiettivo è
quello di mantere il PTT 1,5-2 volte superiore al normale. L’eparina va continuata per 7-10 giorni
nel caso di trombosi venosa profonda e per 10 giorni nel caso di tromboembolia. Nella maggior
parte dei pazienti, dopo un’embolia polmonare sono indicati almeno 3 mesi di terapia orale con
warfarin. Nei pazienti con embolia massiva e ipotensione sistemica è indicata la terapia
trombolitica, che mira alla risoluzione dei trombi venosi. Si può ricorrere nei casi più gravi alla
terapia chirurgica (interruzione della vena cava inferiore tramite clips o filtri), quando il paziente ha
episodi ripetuti e non risponde alla terapia medica, o quando la terapia medica è controindicata.
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Medicina d’urgenza
Coma diabetici
[Non stupisca il titolo, che solo ad un ignorante può apparire grammaticalmente scorretto; sul “Vocabolario della lingua
italiana” edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, il termine “coma” (derivato da κωµα, −τος) è
invariabile, pertanto l’uso comune di indicare i “comi” diabetici è totalmente erroneo e censurabile]
I pazienti diabetici sono soggetti a quattro tipi di coma:
a. coma chetoacidosico;
b. coma iperosmolare;
c. coma ipoglicemico;
d. coma lattacidosico.
I coma (a) e (b) possono insorgere all’esordio del diabete, ed è pertanto fondamentale sospettarli in
qualsiasi paziente in stato di coma, anche se con anamnesi negativa per il diabete mellito. I coma (c)
e (d), invece, colpiscono soggetti per i quali è nota la diagnosi di diabete mellito; tali coma sono
infatti spesso conseguenza di un trattamento improprio.
Parliamo del coma chetoacidosico. Il “re” dei coma diabetici.
Esso, abbiamo detto, è un coma diabetico, quindi insorge quando c’è ipoinsulinemia. Il deficit di
insulina provoca un aumento della gluconeogenesi e della glicogenolisi, e una riduzione della
captazione periferica di glucosio. Infatti l’insulina serve proprio a ridurre la glicemia; se l’insulina
non c’è la glicemia aumenta, e aumenta grazie a questi tre meccanismi: riduzione di captazione
periferica di glucosio, glicogenolisi e gluconeogenesi. La gluconeogenesi è un processo mediante il
quale si produce glucosio a partire da altri composti, quali aminoacidi e lattato.
Va bene, andiamo avanti. Risulta, quindi, una iperglicemia. L’iperglicemia causa, per osmosi, un
richiamo di acqua dalle cellule, che si trovano così ad essere disidratate. Ed è una prima azione.
Inoltre il glucosio, quando aumenta parecchio, supera la soglia di renale di riassorbimento, e viene
escreto con le urine, assieme a ioni (Na+, Cl-, K+, Mg2+), che lo seguono per ragioni osmotiche.
Dunque si ha disidratazione e perdita di elettroliti.
Ma non finisce qui; infatti l’effetto dell’ipoinsulinemia si realizza anche a livello del metabolismo
dei lipidi; l’ipoinsulinemia, difatti, induce la lipolisi, e quindi aumenta la concentrazione plasmatica
di acidi grassi liberi (i cosiddetti NEFA), che, in sede epatica, vengono convertiti in corpi chetonici
grazie all’azione del glucagone12 (ormone controinsulare che non può essere antagonizzato
dall’insulina, e che quindi è libero di agire indisturbato). Quando la capacità chetogenica del fegato
viene esuberata, si realizza anche un aumento della trigliceridemia. Nel sangue si accumulano i
corpi chetonici prodotti dal fegato.
Dunque, finora abbiamo visto come, nel coma chetoacidosico:
a. esiste una ipoisulinemia;
b. questa causi iperglicemia;
c. l’iperglicemia causa disidratazione e perdita di elettroliti;
d. si ha un aumento della chetonemia.
I corpi chetonici sono acidi deboli; questo significa che, a pH fisiologico, si dissociano al 99%. Ciò
causa aumento degli idrogenioni, e quindi acidosi metabolica. Questa acidosi metabolica viene
12
L’aumento di glucagone associato alla ipoinsulinemia può essere assoluto o relativo
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Medicina d’urgenza
compensata con un aumento della ventilazione polmonare. Comunque, ci sono troppi H+ nel
sangue; una parte di essi viene scambiata con il K+ intracellulare, e questi ioni K+ sono destinati –
come sappiamo – ad essere perduti con le urine. C’è dunque acidosi; l’acidosi ha provocato
l’aumento della ventilazione e la perdita di K+ endocellulare.
Bene; inoltre l’acidosi ha effetto inotropo negativo sul cuore, cioè diminuisce la forza di
contrazione, e ciò è collegato ad una vasodilatazione periferica. Questo è alla base di uno stato
ipotensivo, con depressione cerebrale.
Quindi, nel coma chetoacidosico, oltre ai fenomeni visti primi, dobbiamo aggiungere:
e. acidosi metabolica;
f. iperventilazione;
g. ipotensione.
Un’ultima cosa: l’insulina agisce, oltre che sul metabolismo glucidico e lipidico, anche su quello
proteico. Il deficit di insulina aumenta la proteolisi. Ciò significa che vengono liberati aminoacidi
nel sangue, e questi aminoacidi alimentano la gluconeogenesi epatica. Il cerchio si chiude!
Adesso abbiamo gli elementi per capire come riconoscere un coma chetoacidosico. Il paziente,
clinicamente dimostra:
a. astenia, crampi muscolari, ipotonia, iporeflessia;
b. poliuria, sete, polidpsia;
c. perdita di peso, anoressia, nausea, vomito, dolore addominale, addome trattabile;
d. ipotensione, polso piccolo, tachicardia;
e. respiro di Kussmaul13, alito acetonico;
f. ipotermia, ma cute secca e calda, con grave disidratazione;
g. coscienza alterata (fino al coma, appunto).
Di fronte ad un paziente che si presenta così, in pronto soccorso si procede ad assicurarsi anzitutto
un accesso venoso, quindi si valuta la glicemia e la chetonuria mediante strisce reattive. Entrambi
questi indicatori sono elevati. Un prelievo di sangue fa fatto analizzare; nel coma chetoacidosico si
riscontra:
a. aumento di glicemia, azotemia, creatinina;
b. Na+ ridotto, K+ variabile;
c. aumento dei corpi chetonici, normale il lattato;
d. pH, bicarbonati, PCO2 e PO2 ridotti; PO2 può anche essere normale;
e. il “gap anionico”14 è aumentato;
f. leucocitosi neutrofila, Hct aumentato per emocontentrazione.
Altri esami sono quello delle urine, [CPK], D-dimeri (CID?), colture batteriche (se si sospettano
sovrainfezioni), ECG (per escludere un IMA ed evidenziare anomalie della ipoK+emia), Rx torace
(cardiomegalia?, opacità pleuropolmonari?).
Il paziente va monitorato clinicamente (rilievo di PA, Fc, Fr, diuresi, temperatura, coscienza) e da
un p.d.v. di laboratorio, per correggere eventualmente la terapia intrapresa. Il comportamento
medico è il seguente:
a. idratazione con soluzione salina isotonica (fisiologica allo 0,9%); se Na+ sale oltre i 155 mEq/l
va sostituita con soluzione ipotonica (soluzione salina allo 0,45%). Esiste una regola per
calcolare quanto liquido infondere al paziente. Conoscendo l’osmolarità plasmatica, si
13
14
Iperventilazione, respiro profondo rapido russante
Il “gap anionico” è la risultante della sottrazione [Na+ ] – [bicarbonati + cloro]; di solito esso è uguale a +10 mEq
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Medicina d’urgenza
moltiplica metà del peso corporeo per il rapporto (285-Posm / Posm). Vale l’usanza di infondere
circa la metà del deficit idrico e poi rivalutare;
b. insulina; infusione continua con pompa automatica di 5 UI/h di insulina pronta. Secondo autori
americani, siccome una insulino-resistenza non può essere diagnosticata a priori, devono essere
inizialmente somministrate 25-50 UI/h di insulina pronta fino al compenso dell’acidosi;
c. K+; solitamente con il trattamento la K+emia scende e scopo della terapia è quello di evitare una
ipoK+emia potenzialmente mortale. Si somministra K-fosfato e si monitora la situazione
cardiaca;
d. Bicarbonati; non tutti gli autori sono d’accordo. Vanno somministrati se il pH scende oltre 7.
La terapia non finisce se non almeno 4 ore dopo la scomparsa dei chetoni da plasma e urine (non
basta solo abbassare la glicemia).
Parliamo del coma iperosmolare.
Anche qui, il paziente è diabetico, e quindi è iperglicemico. Di solito però si tratta di diabetici
NIDDM, quindi con una residua funzione pancreatica; un po’ d’insulina c’è, e questo basta ad
evitare lo strapotere del glucagone a livello epatico: qui, difatti, la chetonemia non è elevata. Ma,
allora, che succede? E’ presto detto: se il paziente non è in grado di bere quantità di liquidi adeguate
a compensare la perdita di acqua con le urine, l’abbondante diuresi osmotica causa una grave
disidratazione. Il quadro si osserva comunemente nei diabetici anziani in cui un ictus o un’infezione
peggiorano l’iperglicemia e impediscono l’assunzione di adeguate quantità di acqua, così che
l’ipovolemia causa una insufficienza renale, con conseguente difficoltà nell’eliminare il glucosio.
Possono manifestarsi convulsioni. Altre cause sono rappresentate da alimentazione per sondino ad
elevato contenuto proteico, dialisi peritoneale, elevata assunzione di carboidrati e agenti osmotici,
quali mannitolo e urea.
Il coma iperosmolare quindi si presenta caratteristicamente con iperglicemia senza chetosi
significativa, ed un’iperosmolarità che è responsabile di turbe neurologiche. Può essere presente
comunque acidosi, dovuta alla ridotta perfusione tissutale e accumulo di lattato. La glicemia arriva
in genere a 1000 mg/dl; può essere presente una lieve acidosi metabolica. L’osmolarità sierica è
elevata, ma la Na+emia può essere normale a causa dell’iperglicemia. Il deficit di liquidi è
mediamente di 10 litri.
Come trattamento, è necessario somministrare liquidi per via endovenosa, sufficienti a sostenere la
circolazione e la diuresi. Sebbene sia necessaria acqua libera, nelle prime 1-2 ore dovrebbero essere
infusi 2-3 litri di soluzione fisiologica per ripristinare il volume intravascolare, mentre in seguito
potranno essere infuse soluzioni saline ipotoniche e, quando la glicemia si avvicina ai valori
normali, soluzioni glucosate al 5% come fonte di acqua libera. Per controllare l’iperglicemia
bisogna somministrare insulina. La mortalità è superiore al 50%.
Parliamo del coma ipoglicemico.
E’ il più frequente nei diabetici. Esso si manifesta in seguito alla deprivazione acuta di glucosio che
consegue di solito ad una overdose di insulina; ma ci sono anche altre cause, quali un grande
esercizio fisico, digiuno, epatopatie, alcol. I meccanismi fisopatologici fanno riferimento a quelli
dell’ipoglicemia, che abbiamo già affrontato da qualche parte in questa dispensa. Qui c’è da
aggiungere – o, meglio, da ribadire – che i sintomi adrenergici possono mancare nel diabetico
neuropatico e nel diabetico trattato con beta-bloccanti non selettivi.
23
Medicina d’urgenza
Arrivato al pronto soccorso il paziente mostra i segni di una gravissima ipoglicemia, appunto, fino
al coma. Il paziente viene sottoposto subito ad un prelievo di sangue per confermare l’ipoglicemia,
e quindi a infusione di soluzione glucosata15 per il tempo necessario (talvolta anche giorni) fino a
quando torni ad alimentarsi. Possibilmente si individuerà il fattore scatenante e la sua correzione.
Parliamo infine del coma lattacidosico.
Quando in una cellula rallentano i processi ossidativi, oppure si ha un aumento dei processi
glicolitici, si realizza un accumulo di piruvato, che può essere trasformato in lattato. Il lattato (acido
lattico) è il prodotto ultimo della glicolisi anaerobia dei tessuti, pertanto, una volta immesso in
circolo, esso può essere eliminato per via renale oppure essere riconvertito dal fegato in glucosio,
tramite il processo della gluconeogenesi. Lattato può dunque anche accumularsi per malattie renali
o epatiche. Nel diabetico può manifestarsi questo coma poiché una categoria di farmaci usati per la
terapia del diabete NIDDM, le biguanidi, stimolano la glicolisi e aumentano la produzione di
lattato. Tale metabolita, peraltro, non può essere metabolizzato dal fegato poiché le biguanidi stesse
impediscono la gluconeogenesi epatica. Il lattato, quindi, accumulandosi nel sangue, si dissocia e
causa acidosi metabolica.
Il paziente mostrerà pertanto segni clinici di acidosi, un pH basso (< 7.25), e alta [ ] di lattato (> 5
mmol/l, quando la norma è 0.4/1.2 mmol/l). Il paziente è astenico, lamenta cefalea, anoressia,
vomito, dolore epigatrico, confusione, sonnolenza, obnibilamento, coma, insufficienza cardiaca,
ipotensione, shock, respiro di Kussmaul, possibile oliguria. Siccome i bicarbonati sono “bassi”, il
“gap anionico” è aumentato.
Che si fa? Se l’acidemia è severa (pH < 7) si ricorre alla terapia con bicarbonato. Sempre, invece, si
somministrano composti ossidoriducenti come il blu di metilene; se vi è sovraccarico di Na+ si può
ricorrere alla dialisi peritoneale o all’emodialisi, usando come “buffer” per la dialisi il bicarbonato.
Se vi è ipoglicemia si somministra una glucosata, se vi è shock si somministra soluzione fisiologica
e dopamina.
15
Glucosata al 20% 100 ml/h (circa 24 gtt/min)
24
Medicina d’urgenza
Asma bronchiale allergico
L’asma è una malattia caratterizzata da aumentata reattività delle base vie aeree a stimoli di vario
genere; l’ostruzione delle vie aeree è episodica e reversibile; l’intensità è variabile, da lieve e senza
limitazioni per le attività del paziente a grave, ponendo in pericolo la vita stessa del paziente.
L’ostruzione persistente per giorni o settimane è definita stato di male asmatico.
L’alterazione patogenetica principale è rappresentata da un’abnorme reattività delle vie aeree a
stimoli aspecifici e specifici. Tutti i pazienti dimostrano un’aumentata broncocostrizione in risposta
alla somministrazione per via inalatoria di metacolina o istamina (agenti broncocostrittori
aspecifici). Alcuni pazienti possono essere classificati come portatori di asma allergico; essi
manifestano un peggioramento della sintomatologia quando si espongono a pollini o altri allergeni
(ad es., l’acaro della polvere). L’anamnesi familiare e/o individuale è caratterizzata dalla presenza
di altre malattie allergiche, quali rinite, orticaria o eczema. I test cutanei con allergeni sono positivi
e le IgE sieriche possono essere aumentate. I test di provocazione bronchiale possono evidenziare
una risposta positiva all’inalazione di allergeni specifici.
Un numero significativo di pazienti asmatici ha l’anamnesi negativa per allergie, non reagisce ai
test cutanei e presenta risultati negativi ai test di provocazione bronchiale con allergeni specifici.
Molti di questi sviluppano broncospasmo dopo un’infezione delle alte vie respiratorie. Questi
pazienti vengono definiti come affetti da asma idiosincrasico.
Altri pazienti manifestano la sintomatologia durante sforzo, esposizione al freddo o in seguito a
stimoli presenti nell’ambiente di lavoro. Molti osservano un aumento dei sibili espiratori dopo
un’infezione virale delle vie respiratorie o in risposta a stimoli emozionali. Questa broncoreattività
aspecifica si valuta attraverso il test alla metacolina; in parte geneticamente determinata, è dovuta a
fattori genericamente irritanti (fumo di sigaretta, inquinamento atmosferico, odori molto forti…) I
fattori patogenetici coinvolti sono diversi (regolazione nervosa alterata, alterazioni della
muscolatura liscia, squilibri ionici…).
Il denominatore comune della patologia asmatica è l’iperattività aspecifica dell’albero
tracheobronchiale. La precisa etiologia del fenomeno non è nota, ma è noto che l’infiammazione è
importante. La reattività delle vie aeree può variare e le variazioni sono correlate con i sintomi
clinici. Tra i fattori più comuni che aumentano la reattività vi sono allergeni aerogeni, ASA, betabloccanti, solfiti alimentari, inquinamento atmosferico, infezioni respiratorie.
Si distinguono fattori principali, in grado di scatenare flogosi e broncospasmo (e questi sono vari
allergeni, infezioni virali), e fattori secondari, che causano solo broncospasmo, senza flogosi (es.,
farmaci). E’ comune anche una distinzione tra asma intrinseco (dovuto a cause intrinseche) e asma
estrinseco (dovuto lapalissianamente a cause estrinseche, come un allergene).
Nella patogenesi dell’asma vi sono due fasi. Nella “early fase” è importante l’attività delle
mastcellule, che causano solo alterazioni funzionali; nella “late fase” sono invece importanti gli
eosinofili, che sono poi i responsabili delle alterazioni del parenchima polmonare e quindi
dell’asma, divenuta quindi un fatto organico, e non più funzionale. Mediatori del broncospasmo
sono prostaglandine e leucotrieni; l’istamina ha un ruolo edemigeno e chemiotattico.
Come valutare un paziente asmatico?
25
Medicina d’urgenza
a. anamnesi ed esame obiettivo;
- sibili, dispnea, tosse, febbre, escreato, altre malattie allergiche;
- fattori precipitanti;
- gli attacchi di asma si verificano spesso di notte;
- risposta ai farmaci
- tachipnea, tachicardia, utilizzo muscoli respiratori accessori, cianosi;
b. esami strumentali;
- funzionalità respiratoria (FCV, FEV1, VEMS ridotti);
- possibile eosinofilia;
- aumento lieve delle IgE;
- esame escreato (eosinofilia, spirali, cristalli di Charcot-Leyden; neutrofili se infezione);
- emogas; ipossia durante l’attacco, ipocapnia, alcalosi respiratoria;
- Rx torace può mostrare insufflazione e infiltrati focali dovuti ad atelettasie.
Il quadro clinico può presentarsi a crisi parossistiche (asma parossistico) o con regolari accessi
asmatici (asma cronico) o con episodi ravvicinati (male asmatico). Si è soliti distinguere quattro
stadi dell’asma: lieve intermittente, lieve persistente, moderato persistente, grave persistente; questa
classificazione risulta utile per la terapia, come vedremo.
Dopo l’allontanamento, se possibile, dall’agente scatenante, sono da considerare, come farmaci da
utilizzare nel trattamento:
a. beta-stimolanti; per via inalatoria essi danno l’effetto più rapido e il miglior indice terapeutico;
nei pazienti non cardiopatici si può utilizzare adrenalina sottocute in diluizione 1/1000. La
somministrazione endovenosa di beta-stimolanti nell’asma grave non è giustificata per l’alto
rischio di tossicità;
b. metilxantine; comprendono teofillina e suoi sali. Per la verità sono poco utilizzati per via del
loro basso indice terapeutico;
c. glucocorticoidi; gli steroidi in realtà richiedono più di 6 ore per essere efficaci nell’asma acuto,
per cui le preparazioni nebulizzate da utilizzare per via inalatoria sono utili solo se associate alla
terapia cronica, ma non nelle crisi acute. Oggi sono considerati i farmaci di scelta nel paziente
ambulatoriale, qualora i farmaci adrenergici non controllino in misura efficace la malattia;
d. disodiocromoglicato; più che altro va bene per la prevenzione (si prende due settimane prima
della prevista esposizione all’allergene), essendo uno stabilizzante di membrana;
e. anticolinergici; non sono efficaci quanto i beta-agonisti, e sono più lenti nel dare effetto.
Nell’emergenza, ad ogni modo, si somministra un beta-agonista (es., metaprotenerolo) via aerosol;
ogni 20 minuti per 3 dosi, quindi ogni 2 ore fino alla diminuzione dell’attacco.
Come correliamo gli stadi al trattamento? La situazione è diversa per l’adulto e per il bambino.
a. adulto; stadio I non c’è un trattamento di fondo, ma solo broncodilatatori a breve durata (es.,
VENTOLIN™); stadio II glucocorticoidi per via inalatoria, antileucotrienici [allo stato attuale
sono ancora in sperimentazione], stabilizzatori di membrana; stadio III glucocorticoidi per via
inalatoria, broncodilatatori a lunga durata, possibile ImmunoTerapia Specifica [il cosiddetto
“vaccino”]; stadio IV si aggiungono corticoidi per via sistemica;
b. bambini fino a 5 anni; stadio I come adulti; stadio II glucocorticoidi per via inalatoria ogni
giorno e, nelle crisi, broncodilatatori a breve durata; stadio III come l’adulto, ad alti dosaggi;
stadio IV come nel III ma con steroidi sistemici nelle crisi.
26
Medicina d’urgenza
Nelle riacutizzazioni si valuta la gravità della situazione e si inizia un trattamento con beta-dueagonisti a breve durata; se va bene, si continua, altrimenti si aggiungono glucocorticoidi per via
orale.
Nelle riacutizzazioni il paziente può essere ospedalizzato. Il trattamento ospedaliero è in tal caso:
- anamnesi, e.o., laboratorio;
- beta-agonisti a breve durata;
- ossigeno;
- glucocorticoidi per via sistemica;
- evitare la sedazione;
- rivalutare il paziente e il da farsi.
27
Medicina d’urgenza
Malattia di Rendu-Osler-Weber
La malattia è più conosciuta come teleangectasia emoragica ereditaria. Rientra tra le malattie
emorragiche. La malattia di Rendu-Osler-Weber è una malattia ereditaria trasmessa come carattere
autosomico dominante caratterizzata da un’alterazione strutturale della parete vasale, che risulta
assottigliata, e da dilatazioni vascolari che danno luogo a fragili formazioni di tipo angiomatoso
(teleangectasie, malformazioni arterovenose…) localizzate in qualsiasi organo e tessuto. In pratica
si verifica un’alterazione dell’emostasi dovuta ad una alterazione della parete vasale.
Le lesioni, a volte piane altre volte sporgenti, compaiono gradatamente e tendono ad accentuarsi e a
progredire con l’età; sono disposte prevalentemente sulle mucose nasale, labiale, gengivale,
linguale, orale, e sulla cute di faccia, mani, tronco…, dove sanguinano spontaneamente o dopo
traumi anche minimi. Le lesioni viscerali si riscontrano soprattutto a livello gastrico, epatico,
vescicale e respiratorio; nei polmoni possono determinarsi fistole artero-venose con ipossia, cianosi,
policitemia, ippocratismo digitale16. Le emorragie possono verificarsi in qualsiasi sede. Frequenti
sono le epistassi, meno il sanguinamento orale, gastroenterico, respiratorio. I ripetuti fatti
emorragici possono indurre uno stato anemico (anemia sideropenica).
Il trattamento, in caso di emorragie massive, consiste nella trasfusione di globuli rossi concentrati,
associato a misure emostatiche locali (compressione della sede del sanguinamento) e a
somministrazione di antifibrinolitici. Per correggere lo stato anemico c’è la terapia marziale.
16
Dita “a bacchetta di tamburo” con unghie “a vetro di orologio”, reperto peraltro aspecifico
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Medicina d’urgenza
Sanguinamenti
Considereremo in questa sede fondamentalmente le emorragie gastroenteriche, dato che sono quelle
che, quando particolarmente copiose, vanno considerate delle emergenze. Ovviamente più gravi
versamenti ematici, quali quelli ad es. che si producono in seguito ad un incidente stradale e che
vedono un soggetto politraumatizzato, sono di competenza strettamente chirurgica.
Le emorragie gastroenteriche possono presentarsi con ematemesi, melena, ematochezia, positività
del sangue occulto nelle feci. Come ben sappiamo, l’ematemesi è l’emissione di sangue con il
vomito, e denota frequentemente una emorragia prossimale al Treitz17; la melena è l’emissione di
sangue misto a feci, ed indica una emorragia prossimale alla valvola ileo-cecale di Bahuino; la
ematochezia è l’emissione di feci solcate di sangue, ed indica principalmente un’emorragia distale
alla valvola ileo-cecale. E’ anche possibile che un sanguinamento gastrico possa dare melena, e
questo può avvenire quando tale sanguinamento è di sì minima entità da non innescare il riflesso del
vomito. Possiamo distinguere due casi: l’emorragia dal tratto gastroenterico superiore e l’emorragia
dal tratto gastroenterico inferiore.
Il sanguinamento dal tratto gastrointestinale superiore può riconoscere diverse cause:
a. comuni; si tratta di ulcera peptica, gastrite, esofagite, lacerazione di Mallory-Weiss dovuta a
conati di vomito, rottura di varici gastroesofagee;
b. meno comuni; sangue ingerito (epistassi), neoplasia, terapia anticoagulante, gastropatia
ipertrofica di Ménétriere, aneurisma aortico, fistola aortoenterica, malformazioni arterovenose,
sindrome di Rendu-Osler-Weber, vasculiti, discrasie ematiche…
Il sanguinamento, quando di una certa entità, si manifesta sempre con una ematemesi. In tal caso il
paziente va subito soccorso.
La causa più frequente è la rottura di varici esofagee, segno di ipertensione portale. Di solito si
tratta di pazienti cirrotici. La fuoriuscita di sangue va subito tamponata utilizzando un particolare
presidio che è la sonda di Sengstaken-Blakemore, quindi si procede ad un iniziale riequilibrio
emodinamico urgente del paziente, che ovviamente rischia lo shock (se già non lo manifesta). Fatto
questo si procede alla valutazione del paziente:
a. anamnesi ed e.o.; farmaci (FANS, ASA aumentano il rischio di sanguinamento), ulcera
pregressa, diatesi emorragica, familiarità, segni di cirrosi…;
b. effettuare un’aspirazione con sondino naso-gastrico se l’origine del sanguinamento non è
stabilita con certezza dalla sola anamnesi;
c. endoscopia EGDS; permette la valutazione della sede del sanguinamento e la possibilità di un
intervento terapeutico;
d. Rx bario; non è ugualmente accurato come EGDS; se non si può usare l’endoscopia si può
invece procedere alla arteriografia selettiva della mesenterica superiore;
e. scintigrafia con emazie marcate; è utile per verificare la sede del sanguinamento.
Il sanguinamento dal tratto gastrointestinale inferiore può essere riferito a emorroidi, ragadi anali,
traumi rettali, proctiti, coliti, polipi del colon, CR del colon, angiodisplasie, diverticolosi,
invaginazioni, ulcera solitaria, malattie del connettivo, uso di farmaci anticoagulanti. I segni clinici
tipici sono la melena o l’ematochezia; sono valide le riserve alle quali abbiamo già accennato.
Valutazione del paziente:
17
Angolo duodeno-digiunale di Treitz
29
Medicina d’urgenza
a.
b.
c.
d.
e.
f.
anamnesi ed esame obiettivo;
colonscopia;
aspirazione nasogastrica (per sospetto sanguinamento prossimale al Treitz);
clisma opaco; in realtà non è di nessuna utilità nei fatti acuti;
arteriografia;
esplorazione chirurgica; è invero proprio l’ultima risorsa.
Come si trattano questi stati emorragici? Bene, veniamo al trattamento. Innanzitutto si incannula
una vena con un grosso ago; questo consente di effettuare prelievi di sangue e di infondere liquidi.
Vanno monitorati i parametri vitali, la diuresi, l’ematocrito (la caduta dell’ematocrito è spesso
ovviamente tardiva). La PA va mantenuta mediante infusione di liquidi isotonici (soluzione
fisiologica) a temperatura ambiente (quelli ghiacciati potrebbero lisare i coaguli); nei cirrotici si
utilizzino invece albumina e plasma fresco congelato. Se disponibili, emazie concentrate. Nei
cirrotici, anche vitamina K.
30
Medicina d’urgenza
Vasculopatie periferiche
Nell’ambito della medicina d’urgenza assumono importanza due condizioni:
a. tromboembolia periferica;
b. trombosi venosa profonda.
La tromboembolia periferica è una condizione che compromette il circolo arterioso periferico. E’
dunque una malattia del circolo arterioso. E’ dovuta specialmente alla presenza di trombi o
vegetazioni cardiache o aortiche, oppure a trombi venosi che arrivano nelle arterie grazie ad uno
shunt intracardiaco destro-sinistro. Il paziente che ne viene colpito lamenta la comparsa di un dolore
improvviso o di sensazione di torpore ad un arto, in assenza di anamnesi positiva per claudicatio,
che è invece segno di arteriosclerosi. All’esame obiettivo si denota assenza del polso (relativamente
all’arto interessato), pallore e riduzione della temperatura dell’arto, distalmente all’occlusione. La
lesione è localizzabile con l’angiografia e richiede l’immediata somministrazione di terapia
anticoagulante e l’embolectomia chirurgica. La terapia trombolitica (es., streptochinasi, urochinasi)
può essere efficace per trombi all’interno di vasi aterosclerotici o by-pass arteriosi.
La trombosi venosa profonda è una occlusione venosa da parte di materiale trombotico. Può
interessare qualsiasi distretto venoso; soprattutto però questa condizione interessa il distretto venoso
profondo degli arti inferiori. Nell’arto inferiore vi sono due “distretti” venosi, il distretto profondo,
che accompagna le arterie, e quello superficiale, organizzato nei due sistemi delle safene, interna ed
esterna. E’ a carico del distretto venoso profondo dell’arto inferiore che si verifica nella maggior
parte dei casi l’occlusione. Meno frequentemente colpiti sono gli arti superiori, i vasi portali,
cerebrali, la cava. In genere la trombosi cavale è un’estensione, a livello della cava, della trombosi
dei vasi degli arti inferiori. Dunque ci riferiremo, nella trattazione, all’arto inferiore.
Le trombosi venose profonde sono distinte in distali e prossimali, a seconda che siano
rispettivamente al di sotto o al di sopra della vena poplitea; la distinzione è utile dal momento che le
forme distali danno embolia polmonare al massimo nel 20% dei casi (spesso peraltro decorrono
asintomatiche e quindi possono essere più gravi) mentre quelle prossimali danno embolia
polmonare nel 50-60% dei casi.
Fattori di rischio per la trombosi venosa profonda sono:
a. allettamento, soprattutto dopo interventi chirurgici che mobilizzino masse muscolari;
b. deficit di fattori anti-trombotici (proteine C, S, antitrombina III, resistenza alla proteina C
attivata);
c. iperomocisteinemia;
d. gravidanza o terapia con estroprogestinici;
e. patologie neoplastiche (sindrome paraneoplastica);
f. varici primitive; in realtà non sono un importante fattore di rischio;
g. varici secondarie; non sono fattori di rischio ma sono una conseguenza della trombosi venosa
profonda.
31
Medicina d’urgenza
La diagnosi è posta con anamnesi (ricerca dei fattori di rischio)18, esame obiettivo (segni di
infiammazione, dolore al polpaccio o alla coscia), esami strumentali (EcoColorDoppler, sia pure
con qualche riserva, ed altri), esami di laboratorio (tra cui i D-dimeri). Vediamo.
Abbiamo detto che con l’anamnesi si possono individuare i soggetti a rischio e le condizioni
predisponenti. Segue una tabella – tradotta – pubblicata sul Lancet che noi studenti dovremmo
conoscere all’esame.
+1
Cancro in atto (terapia in corso, o nei sei mesi precedenti, o palliativa)
+1
Paralisi, paresi o recente immobilizzazione di un arto inferiore
+1
Recente allettamento (> 3 gg) o chirurgia maggiore nelle quattro settimane precedenti
+1
Dolorabilità localizzata lungo il sistema venoso profondo
+1
Edema di tutto l’arto
+1
Gonfiore al polpaccio > 3 cm sotto la tuberosità tibiale (10 cm) (> rispetto all’altro 3 cm)
+1
Edema improntabile più accentuato nell’arto sintomatico
+1
Circolo collaterale superficiale (no vene varicose)
-2
Diagnosi alternativa (verosimile almeno tanto quanto quella di trombosi venosa profonda)
Alta probabilità se ≥ 3 (75%)
Media probabilità se = 1 o 2 (17%)
Scarsa probabilità = 0 (3%)
Circa gli esami strumentali abbiamo detto che è possibile effettuare l’EcoColorDoppler; va
effettuato con compressione della vena (la vena con trombosi non si comprime); è un esame che va
bene per le trombosi prossimali; per quelle distali va bene, come si dice, “in mani esperte”. Un po’
meno per le trombosi della vena cava e della vena iliaca, che si trovano sotto dei gas e sotto delle
ossa. L’esame si può ripetere dopo una settimana.
Se l’EcoColorDoppler non va bene ci sono altre indagini:
a. flebografia (pericolosa);
b. angio-RM (costosa).
Tra gli esami di laboratorio, utili sono i D-dimeri, che indicano la degradazione del fibrinogeno, e
quindi una alta concentrazione di fibrina. Se i D-dimeri sono negativi la trombosi è esclusa. E’ cioè
un esame specifico ma non sensibile.
Qual è la terapia per la trombosi venosa profonda? La terapia deve:
a. evitare che il trombo si estenda;
b. evitare che il trombo diventi embolo;
c. favorire la lisi del trombo.
Per (a), evitare che il trombo si estenda, si fa eparina19 inizialmente (azione immediata) in bolo e.v.
5000 unità, poi eparina sodica per infusione (20-30 mila unità nelle 24 ore, cioè 1100 unità/ora); poi
18
19
Value of assessment of pretest probability of deep-vein thrombosis in clinical management. Lancet. 1997;350:1796
L’eparina si lega all’antitrombina e la rende più attiva; il risultato è il blocco funzionale della trombina
32
Medicina d’urgenza
si monitorizza l’attività della eparina con due test, che sono l’APTT20 (risulta prolungato) e INR21
(che non è soggetto alle variabili di misurazione del laboratorio, e che deve essere mantenuto tra 2 e
3). Attenzione al fatto che l’eparina può dare piastrinopenie.
L’eparina si può anche somministrare sottocute; in tal caso si utilizza l’eparina calcica; ogni 0,1 ml
corrisponde a 2500 unità. Di solito si somministrano 0,5-0,7 ml per 2 volte al giorno.
Oppure, sempre sottocute, si può dare un’altra forma di eparina, e cioè eparina a basso peso
molecolare; questa eparina è prodotta in modo da far sì che il p.m. medio delle molecole sia basso
(circa 4mila dalton) e non ci sia una “miscela di eparine” ad alto peso molecolare. Questo comporta
vantaggi; innantutto l’emivita è maggiore, e ciò consente un minor numero di somministrazioni
nelle 24 ore (1/die per profilassi, 2/die per terapia, mentre con l’eparina calcica per la terapia se ne
fanno 3/die); inoltre pare che l’eparina a basso peso molecolare dia un minore effetto osteoclastico e
quindi riduca il rischio di osteoporosi. Altro vantaggio è dato dal fatto che agisce in prevalenza sul
fattore X della coagulazione e non modifica l’APTT, e inibisce l’inizio della cascata coagulativa,
quindi non c’è bisogno di controllare la coagulazione. La compliance del paziente è maggiore, e
inoltre diminuiscono i tempi di ricovero. Però l’eparina a basso p.m. costa molto (3-4 volte rispetto
all’eparina calcica).
Oltre all’eparina, altri farmaci utilizzabili sono gli anticoagulanti orali, principalmente del tipo dei
dicumarolici. Questi farmaci agiscono sui fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti, e non
agiscono fintantochè restano in circolo i fattori funzionanti. Pertanto questi farmaci non vanno
utilizzati nell’emergenza, ma solo dopo qualche giorno. Infatti, in terza o quarta giornata si associa
alla eparina il farmaco anticoagulante orale. Questi farmaci, impedendo il corretto funzionamento di
alcuni fattori della coagulazione, possono dare emorragie (2-5%) talvolta anche gravi (es.,
emorragie cerebrali). La terapia si protrae per 3-6 mesi.
Per (c), favorire la lisi del trombo, si possono usare farmaci trombolitici. Essi sono:
a. streptochinasi;
b. urochinasi;
c. t-PA.
La streptochinasi ha una descritta azione allergizzante, ma è economica. Si somministrano 250mila
unità in 20 min, e poi 100mila/ora/24 ore.
L’urochinasi ha un costo molto elevato, e si somministrano 4400 unità/kg/12 ore.
Il t-PA è “forse troppo importante per la trombosi venosa profonda”; il dosaggio è 100 mg in 2 ore
(infusione venosa breve).
20
Tempo di Protrombina Parziale Attivata; è un test in vitro che provoca la coagulazione attraverso l’attivazione
esogena del sistema di contatto. Il valore ottenuto è il tempo, in sec, che occorre perché la coagulazione avvenga
21
Indica di quanto risulta aumentato il TP, Tempo di Protrombina, rispetto alla norma; anche il TP è un parametro che
indica il tempo entro il quale la coagulazione si verifica; INR è acronimo di “International Normalized Ratio”
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Medicina d’urgenza
Encefalopatia porto-sistemica
Sull’Harrison è indicata come “encefalopatia epatica”. Lo stadio terminale di questa malattia è il
coma epatico. La malattia in esame è una condizione di alterazione funzionale del sistema nervoso
centrale associata a epatopatia grave acuta o cronica; può essere acuta e reversibile o cronica e
progressiva.
Alla base dell’encefalopatia vi è l’incapacità da parte del fegato di detossificare gli agenti nocivi
per il sistema nervoso; questi agenti nocivi sono ammonio, mercaptani, acidi grassi, GABA. Ciò è
dovuto alla ridotta funzionalità epatica e al by-pass epatico che molte sostanze presenti nel circolo
portale compiono in virtù della creazione di circoli collaterali, dovuti alla stessa epatopatia.
L’ammonio può ridurre i livelli di glutammato cerebrale, un neurotrasmettitore eccitatorio, per
formare glutamina. Possono giungere nel SNC anche falsi neurotrasmettitori, poiché in tali
condizioni aumentano i livelli ematici degli aminoacidi aromatici e si riducono quelli degli
aminoacidi a catena ramificata. Possono giocare un ruolo anche gli agonisti endogeni delle
benzodiazepine. L’indicatore ematico più facilmente dosabile è l’ammoniemia, sebbene la sua
correlazione con le condizioni cliniche non sia assoluta.
Fattori precipitanti sono rappresentati dal sanguinamento gastrointestinale (per ogni 100 ml di
perdita ematica, vengono depositati nell’intestino dai 14 ai 20 g di proteine), dall’iperazotemia,
dalla stipsi, dall’eccessiva introduzione di proteine, dall’alcalosi ipokaliemica, da farmaci
deprimenti il SNC (benzodiazepine), ipossia, ipercapnia, sepsi. In pratica sono pericolose le fonti di
azoto: rene, flora batterica intestinale, proteine alimentari, proteine dei globuli rossi.
E’ fatta una classificazione in gradi del coma epatico:
a. I grado; inversione del ritmo sonno/veglia, sonnolenza, lieve confusione, alterazione della
personalità, asterixi, test psicometrici alterati;
b. II grado; sonnolenza, comportamento inappropriato;
c. III grado; stupore, stato confusionale, linguaggio inarticolato;
d. IV grado; coma, occasionalmente segni extrapiramidali, mioclonie, foetor haepaticus, EEG
caratteristico.
Il trattamento tende ad abbassare l’ammoniemia riducendo l’assunzione proteica e praticando
clisteri o somministrando lassativi. Si può dare lattulosio (converte NH3 in NH4+, che non è
assorbibile, provoca diarrea e altera la flora intestinale) 30-50 ml/h per os fino a provocare diarrea
quindi 15-30 ml per 3-4 volte/die per ottenere 2 o 3 scariche/die. Se c’è coma si somministra come
enteroclisma (300 ml in 700 ml d’acqua). Nei casi refrattari si aggiunge neomicina 1 g per os 2v/die
o metronidazolo 250 mg per os 3v/die. Alcuni somministrano aminoacidi ramificati. Ovviamente è
indicato il trapianto di fegato.
34
Medicina d’urgenza
Allergie alimentari
Le allergie alimentari posso essere di due tipi:
a. IgE-mediate;
b. Non IgE-mediate.
Le prime si realizzano col solito meccanismo della immunoreazione di I tipo, già descritto per lo
shock anafilattico; le altre invece fanno riferimento ad altri meccanismi, immunologici
(Immunocomplessi, citotossicità) o meno, come possono esserlo le forme pseudoallergiche (es., in
seguito a somministrazione di anestetici) o quelle idiosincrasiche.
Gli alimenti, o loro prodotti e/o metaboliti, si accumulano a livello della sottomucosa e qui, nel caso
in cui vengano ad essere “interpretati” come antigeni, stimolano la sintesi di Ig; queste Ig si
complessano con l’alimento e, insieme, viaggiano nel circolo. Qui, o vengono clearate dal sistema
reticoloendoteliale, oppure possono depositarsi a vario livello:
a. se si depositano a livello cutaneo, si realizza orticaria;
b. se si depositano a livello polmonare, si hanno alterazioni respiratorie;
c. se si depositano a livello del SNC, si ha cefalea22.
Gli alimenti, a loro volta, possono essere classificati in base al meccanismo mediante il quale si
manifesta l’allergia; vi sono infatti alimenti che agiscono effettivamente da allergeni, altri che
contengono istamina, altri ancora che fanno liberare istamina. Alcuni alimenti possiedono più di
una di queste caratteristiche. Senza contare che, ovviamente, possono essere responsabili di
alterazioni allergiche anche elementi che, volontariamente o meno, entrano a far parte della
confezione del prodotto, come additivi o contaminanti. Ad esempio, coloranti e conservanti
(“volontari”) oppure fertilizzanti o erbicidi (“involontari”, nel senso che sono assorbiti
dall’atmosfera e inglobati nell’alimento). Tra i conservanti, i nitrati in particolare possono dare
origine a veri e propri shock anafilattici, come la “sindrome da ristorante cinese”.
Alimenti che agiscono con meccanismo allergico “vero” sono latte e derivati, uova, cereali, legumi,
frutta, crostacei, pesci, pomodori. Alimenti che contengono istamina sono pomodori, spinaci, birra,
formaggi, crostacei, vegetali, carni, crauti, salsicce di maiale, cibi in scatola. Alimenti che fanno
liberare istamina sono fragole, pomodori, cioccolato, bianco dell’uovo, pesci, latte.
La diagnosi è condotta con anamnesi ed esame obiettivo, innanzitutto; l’allergia si manifesta con
manifestazioni orticariodi/angioedematoidi, e questo costituisce naturalmente la condizione di
emergenza.
Nei casi più blandi, invece, il solo esame clinico può non essere sufficiente; si procede quindi a test
cutanei (skin test) e alla ricerca di IgE specifiche (RAST); questo se già in anamnesi le idee sono
più o meno chiare. Nei casi in cui non si abbia un sospetto su quali possano essere gli alimenti
interessati, si procede a diete particolari, cosiddette “diete oligo”, cioè “oligoallergiche”: in pratica
si tratta di nutrire il paziente con pietanze note; il medico, sapendo di cosa si ciba il paziente, può
così interpretare le manifestazioni cliniche. Accanto alle diete “oligo” esistono anche le diete
22
Veramente interessante…
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Medicina d’urgenza
“aggiuntive”: in pratica al soggetto viene detto di mangiare ogni giorno un alimento in più, fin
quando si scopre quello che dà l’allergia.
Questo iter diagnostico può però non riuscire; esiste allora la possibilità del cosiddetto “challenge”
cieco; cioè al paziente viene somministrata giornalmente una capsula liofilizzata con un alimento
che è ignoto sia al paziente che al medico (“doppio cieco” statistico), così da evitare comportamenti
“disturbanti” da parte dell’una e dell’altra parte (ad es. il paziente sapendo che sta mangiando una
porcheria può non mangiarla…). Di solito con quest’ultimo sistema la diagnosi etiologica, cioè
della sostanza (o del gruppo di sostanze) incriminate vien fatta. Da tener presente, comunque, che vi
possono essere delle cross-reazioni.
La terapia dell’emergenza è, al solito, con somministrazione sottocutanea di 1 ml di adrenalina di
soluzione 1/1000, in dosi da 0,3-0,5 ml ogni 10-20 minuti.
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Medicina d’urgenza
Bibliografia e avvertenze
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Appunti delle lezioni
Appunti di cardiologia
Appunti di immunoreumatologia
Harrison, Principi di Medicina Interna – Il manuale, (p) 1999
A.S. Roversi, Diagnostica e Terapia, VIII edizione, (p) 1995
A. Faletto, La nuova medicina d’urgenza, (p) 1994
Cainelli, Manuale di dermatologia, I edizione, (p) 1999
Farmabank – Prontuario farmaceutico, (p) 2000
Vorrei avvertire alcuni lettori encefalitici che ciò che sta in parentesi quadre è la classica N.d.R.,
cioè “nota del redattore”, com’è convenzione tipografica. Evidentemente vi sono studenti che non
hanno mai letto un libro o un articolo di giornale! La N.d.R. esprime un parere personale
dell’Autore, e quindi va considerata una sorta di “nota a margine”. Questo significa che quando c’è
qualcosa tra parentesi quadre, quel qualcosa va escluso dal monte di informazioni da imparare
acriticamente a memoria.
PTT e APTT significano la stessa cosa (Semeraro docet).
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