profilo delle teorie pedagogiche

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“PROFILO DELLE TEORIE
PEDAGOGICHE’’
PROF. RICCARDO FRAGNITO
Università Telematica Pegaso
Profilo delle teorie Pedagogiche
Indice
1
DEFINIZIONE DI APPRENDIMENTO ---------------------------------------------------------------------------------- 3
2
IL COMPORTAMENTISMO ----------------------------------------------------------------------------------------------- 6
3
IL COGNITIVISMO --------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13
4
APPROCCIO COGNITIVISTA: DA PIAGET A GARDNER------------------------------------------------------- 17
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 35
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Definizione di apprendimento
Prima di esporre le principali teorie che si sono occupate dell’apprendimento, sembra
opportuno delineare una definizione di tale processo.
L’apprendimento è da considerarsi come quel processo di acquisizione di conoscenze, di
competenze o capacità attraverso lo studio; tale processo coinvolge diverse strutture che
interagiscono mediante processi di assimilazione, accomodamento e giustapposizione, in modo
dinamico.
Per molto tempo gli studiosi hanno ritenuto che questo processo fosse di semplice accumulo
di informazioni che non potessero poi essere elaborate o sottoposte a trasformazione da parte del
bambino; a differenza di studi più recenti che hanno definito l’allievo quale attivo fruitore e attore
all’interno del processo di apprendimento.
Tale
passaggio
da
una
visione
meccanicistica
ad
una
visione
costruttivistica
dell’apprendimento si ripercuote sulla qualità della scuola: all’interno del tradizionale sistema
didattico, infatti, si riteneva di preminente importanza il trasferimento del sapere dal docente al
discente, sottoforma di nozioni e contenuti; mentre nella visione costruttivistica si guarda alla
costruzione di strumenti, metodi, abilità, in grado di aiutare il discente nella costruzione di un
sistema formativo che sia dinamico e che favorisca l’esplorazione, la creazione di percorsi autonomi
e l’autovalutazione. «Non è possibile formare delle personalità autonome nel campo morale se
l'individuo è d'altra parte sottoposto ad una costrizione intellettuale tale ch'egli debba limitarsi ad
apprendere a comando senza scoprire da se stesso la verità: se è passivo intellettualmente non potrà
essere libero moralmente». 1
L’apprendimento è definibile, più semplicemente, come un processo di acquisizione e di
trasformazione di reazioni, schemi, conoscenze, atteggiamenti e abilità da parte di un individuo.
Secondo gli studi più recenti, tutto l’arco di vita, è da considerarsi come un processo continuo
di apprendimento, che avviene in modo volontario o involontario.
Diversi sono gli elementi che condizionano l’apprendimento: età, intelligenza, partecipazione,
interesse, motivazione, esperienze vissute, informazione, interazione con gli altri, fallimenti,
successi, ecc.
1
Michelini M., Indagine sulle modalità di formazione delle conoscenze scientifiche e sulla formazione delle idee
spontanee in contesto operativo, La Fisica nella Scuola XXXI, 1 Supplemento, 1998
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Dunque, nella mente del soggetto, e più precisamente nella sua memoria, si rinvengono sia i
ricordi di esperienze passate sia la disponibilità a nuove informazioni da acquisire.
In riferimento al funzionamento della memoria è possibile distinguere un sistema di
apprendimento che sia a breve, a medio e a lungo termine:
-
il sistema di apprendimento a breve termine, può essere di tipo

spaziale, caratterizzato dal ricordo del luogo oppure della
forma;

-
verbale, caratterizzato ad esempio dalla ripetizione sottovoce.
il sistema di apprendimento a medio/lungo termine, può essere di tipo

procedurale, riguarda ad esempio il come si impara;

dichiarativo, vale a dire l’espressione verbale dei ricordi, che a
sua volta si divide in episodio (ricordo personale) e sematico
( sociale).
Inoltre, va ricordato che i processi di apprendimento si basano su diverse capacità:
-
Percettive, capacità mediante le quali si “afferrano” e si organizzano le
inoformazioni che ci provengono dal mondo circostante. Tali capacità costituiscono
il primo anello della catena che unisce ciò che è nell’ambiente con la risposta ad esso
come forma di apprendimentonon si potrebbe apprendere né ricordare se prima
non si cogliesse l’oggetto, l’informazione, tramite la percezione, men che meno
si potrebbero avere schemi, immagini, ecc., se non potessimo immagazzinare i da
attraverso il processo percettivo;
-
Motorie, abilità che permettono l’acquisizione di uno schema corporeo, della
coordinazione in generale e dell’orientamento spaziale;
-
Percettivo-motorie, capacità che riguardano la coordinazione oculo-manuale e
l’integrazione spazio-temporale;
-
Linguistiche, riguardano, invece, la funzionalità dell’apparato bucco-fonatorio, la
produzione e la comprensione del linguaggio;
-
Attentive e mestiche, riguardano il mantenimento dell’attenzione e lo sviluppo della
memoria.
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L’apprendimento può essere distinto, inoltre, in formale, non formale e informale, con il
termine formale ci si riferisce a tutto ciò che viene appreso all’interno di un sistema di istruzione e
formazione; con il termine non formale ci si riferisce, invece, a quel processo di trasmissione dei
saperi che avviene all’esterno dei sistemi riconosciuti di istruzione e formazione; con il termine
informale, infine, si fa riferimento ad un cantiere inesauribile di saperi dove molto rilievo ha
l’acquisizione contestualizzata di abilità da parte dell’individuo attraverso il sistema di relazioni che
il soggetto va costruendosi.
L’apprendimento formale riguarda un tipo di apprendimento che può essere definibile come
obbligatorio, strutturato e sequenziale, valutato, guidato, controllato, ecc.; mentre un apprendimento
informale è volontario, casuale, non valutato, guidato dal soggetto stesso, extrascolastico, centrato
su chi apprende, derivato dall’esperienza, ecc.
Molto spesso questo tipo di apprendimento (informale) viene trascurato e sottovalutato,
benché costituisca la prima forma di apprendimento.
Molteplici sono gli studiosi che hanno elaborato delle teorie sull’apprendimento, che di volta
in volta hanno dato una diversa definizione dell’apprendimento:
-
come effetto dell’associazione stimolo-risposta e come acquisizione di
abitudini (comportamentismo);
-
come processo di riproduzione della realtà nella mente (cognitivismo);
-
come processo di costruzione soggettiva per assimilazione e accomodamento
(costruttivismo).
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Il comportamentismo
Il comportamentismo nasce ufficialmente nel 1913 anno in cui lo psicologo statunitense John
Broadus Watson, docente della Hopkins University scrisse un articolo, considerato il manifesto
programmatico del nascente movimento, intitolato “La psicologia dal punto di vista
comportamentista” in Psychological review.
In questo scritto Watson si è opposto alla psicologia tradizionale che fonda il suo principio su
‘concetti mentalistici’ come la coscienza, l’attività del pensiero, l’espressione di emozioni e
sentimenti, l’introspezione soggettiva; spostando l’attenzione sullo studio del comportamento
oggettivo dei soggetti attraverso rigorose procedure sperimentali.
La scuola comportamentista domina la cultura psicologica statunitense dagli inizi del XX
secolo fino agli anni ‘50 e ‘60. Il fondamento del behaviorismo è nell’associazionismo o meglio ad
un determinato stimolo succede una determinata risposta. «Per i behaviouristi la nozione di
“comportamento” nasce dall’insieme delle reazioni adattative oggettivamente osservabili, che un
organismo innesca in risposta a degli stimoli, anch’essi oggettivamente osservabili provenienti
dall’ambiente»2.
Il manifesto del comportamentismo nega qualsiasi elemento di innatismo ed ereditarietà
dell’individuo. La formazione dell’uomo si ha soltanto nel rapporto continuo di risposte oggettive e
concrete agli eventi proposti dall’ambiente, pertanto la mente veniva considerata una black box o
anche una tabula rasa da riempire.
«Per i behavioristi, l’apprendimento è un cambiamento di comportamento. Esiste un
apprendimento nel momento in cui l’individuo dà una risposta corretta (manifesta un
comportamento previsto) a un dato stimolo.
I comportamenti sono determinati dalle condizioni ambientali, poiché i behavioristi ritengono
che l’essere umano sia un essere passivo, e che sia sufficiente manipolare le condizioni ambientali
per ottenere i comportamenti voluti»3.
Colui che per la prima volta ha utilizzato l’elaboratore nell’ambito educativo è stato Burrhus
Frederic Skinner, massimo rappresentante del comportamentismo.
2
Doré S., Bisque J., Le concept d’environment d’apprentissage informatisé, in «Revue de l’Education à Distance», vol.
13, n. 1, Ottawa 1998.
3
Doré S., Bisque J., Le concept d’environment d’apprentissage informatisé, op. cit.
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Nel 1954 Skinner pubblicò il primo articolo di rilievo sull’istruzione programmata il cui
titolo era La scienza dell’apprendimento e l’arte di insegnare in cui propone un parallelismo tra gli
studi di laboratorio sulle modifiche del comportamento degli animali e le pratiche che avrebbero
potuto migliorare l’insegnamento-apprendimento, lavoro che dette il via ad una vasta fioritura di
studi sull’istruzione programmata e sull’impiego di macchine nei processi di apprendimento.
La teoria di Skinner è riassunta in maniera concisa in Verbal Behavior, in cui egli scrive:
«Gli uomini agiscono sul mondo mutandolo e, a loro volta, vengono mutati dalle conseguenze delle
loro azioni»4 da ciò si deduce una forte familiarità con il pragmatismo, infatti, «è essenziale capire
che un allievo non assorbe passivamente il sapere, ma che deve giocare un ruolo attivo e che questo
ruolo attivo non si risolve nel parlare. Sapere significa agire con efficacia, contemporaneamente sia
sul piano verbale che su quello non verbale» 5.
L’assunto del Comportamentismo era incentrato sul “comportamento”; questa corrente
psicologica si basa sugli studi del fisiologo russo Ivan Petrovič Pavlov che con gli esperimenti con i
cani evidenziò come ad un determinato stimolo succedeva una determinata risposta in particolare al
suono del campanello (stimolo) succedeva la salivazione o meglio il senso di fame (risposta).
Intanto occorre partire dal presupposto che gli studi pavloviani sono connessi alla teoria
dell’evoluzione della specie di Darwin che ha dimostrato che tra l’uomo e l’animale esiste una sorta
di continuità naturale alla quale va aggiunta la componente qualitativa. Da ciò sembra deducibile
che i meccanismi psicobiologici, che esistono negli animali, si ritrovino in qualche forma anche
nell’essere umano. Pertanto Pavlov sostiene che molti collegamenti biologici siano innati e che il
loro funzionamento avvenga in maniera automatica.
Le ricerche di Pavlov (proseguite da Watson negli USA) partirono dalla constatazione che i
cani producevano saliva non solo mentre s’introduceva del cibo nella loro bocca, ma anche alla
semplice vista del cibo o dello sperimentatore che solitamente li nutriva. Pavlov intuì che questa
reazione non era un riflesso biologico innato, ma appreso. Egli sottopose i suoi cani ad un
esperimento che prevedeva dapprima una stimolazione attraverso il suono di un campanello, senza
che ciò provocasse salivazione (stimolo neutro); poi introdusse del cibo nella loro bocca, e ciò
comportò salivazione (riflesso incondizionato); poi ripeté i due stimoli in successione ovvero il
suono del campanello e il cibo; alla fine notò che i suoi cani cominciarono a salivare al solo suono
del campanello determinando il cosiddetto riflesso condizionato.
4
Skinner B.F., Verbal behaviour, (trad. it.) Il comportamento verbale, Armando, Roma 1976, p. 47.
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Pavlov intuì che il suono del campanello disgiunto dalla consegna della carne conduceva al
“fenomeno dell’estinzione” ovvero la salivazione tendeva a scomparire; se, invece, l’esperimento
veniva interrotto e ripreso successivamente, si verificava il “recupero spontaneo” della risposta
precedente o meglio il suono del campanello provocava la salivazione; se lo sperimentatore usava
un suono diverso quindi più o meno intenso rispetto a quello originario, si verificava il “fenomeno
della generalizzazione” e quindi la salivazione si verificava ugualmente; in ultima analisi se invece
si dava la carne solo col suono più forte e non con quello più debole si generava “il fenomeno della
discriminazione”, infatti, al sentire un suono diverso il cane non produceva salivazione.
Tutto questo studio si incentra sul binomio Stimolo-Risposta senza considerare la variabile
Organismo e quindi senza considerare i processi mentali che sottendono il comportamento e che
variano da soggetto a soggetto. Infatti, i comportamentisti ritenevano che la mente fosse una black
box quindi qualcosa di insondabile se non attraverso il comportamento.
Skinner negli anni ‘40 realizzò una vera e propria sperimentazione didattica che prese il
nome di “Istruzione programmata” sviluppata attraverso le cosiddette teaching machines
(macchine per insegnare). Secondo Skinner il metodo più efficace per apprendere consisteva nel
presentare situazioni, contenuti ed esperienze secondo una precisa programmazione in grado di
stimolare l’apprendimento e, quindi, favorire la comprensione attraverso l’eliminazione dell’errore.
Skinner aveva anche compreso che la verifica dovesse, per essere efficace, avere un riscontro
immediato.
Per certi versi questo tipo di strutturazione del percorso di insegnamento-apprendimento
riprende quella che oggi viene definita programmazione didattica dove i termini: condizioni, scopi,
obiettivi, strutturazione, tempi, nodi concettuali, verifica, fanno parte ormai del bagaglio culturale di
ogni docente, quindi, anche se questo approccio skinneriano è stato bersaglio di molte critiche ha
comunque sviluppato delle procedure che sono state conservate e ancora in qualche misura
utilizzate.
Per Skinner è necessaria sia una buona conoscenza della materia da insegnare così come
l’analisi dei nessi tra le varie nozioni sia la conoscenza degli allievi; lo studioso, infatti, sostiene che
«Niente è più estraneo al cammino di Skinner dell’idea di costruire un programma alla base della
sola analisi della materia da insegnare senza riferimenti sperimentali al soggetto che deve
5
Skinner B.F., The technology of teaching, (trad. it.) La tecnologia dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 1970, p. 44.
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apprenderla» 6 se ciò da un lato sembrerebbe dare un ruolo centrale all’allievo d’altra parte lo
studioso non considera l’ipotesi che possa esserci qualcosa che ostacoli l’apprendimento. Inoltre, la
volontà di evitare gli errori nell’insegnamento programmato conduce alla riduzione dell’attività
mentale dell’allievo in quanto molte volte la domanda si basa su informazioni date immediatamente
prima, provocando una risposta meccanica, ciò conduce a minimizzare l’attività mentale
dell’allievo.
Pertanto si rimprovera a Skinner di aver disumanizzato l’apprendimento, di aver sostituito
l’uomo con la macchina, di aver robotizzato l’apprendimento determinando un livellamento delle
conoscenze negli individui. Richelle dimostra che la maggior parte delle critiche nei confronti di
Skinner risultano essere fondate su malintesi e a tal proposito sostiene che «la prospettiva adottata
da Skinner sia, forse più di ogni altra cosa, esplicitamente attenta all’individualizzazione
dell’istruzione, all’adattamento dell’insegnamento alle particolarità di ciascuno»7.
Richelle, per sottolineare questa posizione di Skinner, riporta delle citazioni estratte dal testo
La tecnologia dell’insegnamento: «Forse la grande e sola origine dell’inefficienza del nostro
sistema educativo è l’incapacità di tener nel debito conto le differenze tra allievo ed allievo. […] la
prassi più comune è tuttora quella di formare grandi gruppi di allievi che procedono insieme alla
stessa rapidità occupandosi in gran parte dello stesso materiale, e che devono raggiungere lo stesso
livello per la promozione da una classe ad una classe successiva. La rapidità è regolata sull’allievo
medio o mediocre. Quelli che potrebbero progredire più in fretta perdono così ogni interesse e
sprecano il loro tempo; quelli che dovrebbero avanzare più lentamente rimangono indietro e
perdono anch’essi l’interesse, sia pure per il motivo opposto»8. Per ciò che concerne la
disumanizzazione dell’insegnamento e il ruolo del docente che perde la sua centralità, Skinner
sostiene che «una tecnologia dell’insegnamento innalza la dignità dell’insegnante come uomo»9
pertanto tutte le critiche nei confronti del comportamentista riguardanti la posizione subordinata che
avrebbe l’insegnante rispetto all’introduzione delle tecnologie, risultano infondate.
Ora cerchiamo di approfondire i principi dell’istruzione programmata e in particolare il
processo di compilazione di un programma che rappresenta l’ultima fase dell’applicazione
dell’istruzione programmata. Un qualsiasi programma, lineare (Skinner) ramificato (Pressey o
Crowder) deve essere strutturato in una serie di piccole unità informative (frames) seguite da brevi
6
Richelle M., Skinner ou péril behavioriste, op. cit., p. 153.
Ivi, p. 161.
8
Skinner B. F., La tecnologia dell’insegnamento, op. cit., p. 305.
7
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domande di verifica. Nella maggior parte dei programmi le domande di verifica (item) sono a scelta
multipla ma non si escludeva la possibilità di inserire domande del tipo Sì/No oppure a
completamento.
I programmi skinneriani sono quasi sempre caratterizzati da moltissimi frames informativi
estremamente precisi e da domande di verifica quasi sempre a completamento.
Schema di un programma di Skinner: una lunga sequenza di brevi frames istruzionali intervallati da
completamenti a cura dello studente.
Il metodo mira a presentare una materia suddivisa in frames e per ogni segmento di contenuto
si determina un feed back ovvero una informazione di ritorno sull’esattezza della risposta. Se la
sequenza dell’apprendimento è stata programmata in maniera corretta la percentuale degli errori
non supera il 5%. L’istruzione programmata si basava sulla somministrazione di domande a scelta
multipla, alla risposta dell’allievo si aveva subito la soluzione nel caso in cui fosse sbagliata si dava
la possibilità di scegliere nuovamente tra le risposte dando vita ad un feed back continuo allievomacchina. Secondo la visione skinneriana, la macchina per insegnare è un ausilio che permette di
creare le condizioni per l’apprendimento quali la focalizzazione dell’attenzione dell’allievo su una
determinata parte della disciplina da acquisire; la possibilità di rispondere ad ogni frames
istruzionale ed infine la conoscenza immediata della validità della risposta.
Skinner ha sviluppato la teoria del “rinforzo positivo” e del “rinforzo negativo”; lo studioso
sosteneva che ogni comportamento è conseguente ad un rapporto stimolo-risposta. I rinforzi positivi
tendono a rafforzare i comportamenti desiderati, quelli negativi a scoraggiare quelli non desiderati.
Se un’azione ha prodotto un effetto positivo (ricompensa) egli tenderà a ripetere quel
comportamento, mentre se un’azione ha avuto conseguenze negative (punizione) si osserverà un
incremento di risposte alternative a quella responsabile della punizione. Il rinforzo sarebbe, dunque,
la chiave della produzione e del controllo del comportamento.
9
Ivi, p. 322.
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A tal proposito molto importante è la “tecnica dello shaping”. Skinner, nei suoi esperimenti,
ha eliminato il rinforzo negativo in quanto ciò poteva avere delle ripercussioni sfavorevoli sul piano
emozionale. La tecnica del modellamento consiste, una volta scelto il comportamento finale
desiderato, nell’individuare delle tappe intermedie, ognuna delle quali rappresenta un progressivo
avvicinamento alla realizzazione del comportamento complesso. In ciascuna di queste sezioni di
comportamento si interviene somministrando i rinforzi solo a quelle risposte ovvero atti
comportamentali, che vanno nella direzione voluta e non rinforzando le risposte divergenti
all’obiettivo prepostosi.
Infine riassumiamo i principi dell’istruzione programmata:

progressione per piccoli passi in cui il compito deve essere diviso in porzioni
semplici facilmente risolvibili e poste in una successione logica;

progressione graduata in cui le difficoltà aumentano progressivamente;

verifica immediata, l’allievo deve poter ricever immediatamente la
segnalazione di rinforzo per acquisire fiducia nelle proprie capacità;

progressione personale tenere conto dei ritmi individuali e quindi temporali
degli allievi.
I punti deboli di questo metodo riguardano l’impossibilità di uno sviluppo di creatività
dell’allievo, non potendosi allontanare dal tracciato definito dall’insegnante, e la linearità del
percorso di apprendimento, tutto impostato sulla sequenzialità Stimolo-Risposta.
Una correzione a questa rigida sequenzialità fu apportata da Crowder che sostituì al
programma lineare di Skinner il programma ramificato. Questa variante permetteva una maggiore
flessibilità; il materiale didattico risultava più organizzato l’allievo poteva evitare di leggere le
spiegazioni aggiuntive alle risposte esatte e rivedere solo i concetti non ancora acquisiti.
Nel programma ramificato di Crowder l’allievo inizia con il primo frame istruzionale, al
quale segue una domanda a scelta multipla con quattro alternative; se l’allievo risponde in maniera
esatta (risposta A) passa al frame successivo mentre in caso di errore (risposte B, C, D) viene
rimandato ad un percorso istruzionale per recuperare l’errore.
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Schema del programma ramificato di Crowder: una sequenza di brevi frames istruzionali intervallati da domande
e percorsi di recupero.
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Il Cognitivismo
Le critiche più significative mosse dai Cognitivisti al Comportamentismo fu la scarsa
attenzione prestata alle dinamiche dei processi mentali e a tutto ciò che sottendeva l’elaborazione
cognitiva della mente. Per maggiore chiarezza possiamo dividere questo nuovo paradigma
cognitivista in una prima e una seconda generazione.
Sia il comportamentismo che il cognitivismo di prima generazione nascono dal “paradigma
oggettivista” che presuppone l’esistenza di una realtà esterna e oggettiva che nella pratica
dell’insegnamento si traduce come trasmissione di conoscenze ed abilità, attraverso l’uso delle
consunte metafore del “travaso” di saperi e della famigerata “tabula rasa” sulla quale “incidere” il
sapere.
Il cambiamento radicale si ha con il Cognitivismo di seconda generazione che prende le
distanze sia dal Comportamentismo sia da un certo Cognitivismo modello H.I.P. (Human
Information Processing), detto appunto di prima generazione.
Secondo il quale la mente era concepita come un elaboratore di informazioni che ha
un’organizzazione prefissata di tipo sequenziale. Il computer era visto come una sorta di sostituto
dell’insegnante (un tutor che presenta i problemi, decide della validità delle risposte del soggetto,
ecc.).
È nel corso degli anni ‘80 che diventano sempre più forti i segni di insoddisfazione verso
questo quadro teorico che concepiva la conoscenza come acquisizione-elaborazione di
informazioni, che prevedeva un modello didattico e di apprendimento di tipo sequenzialecurricolare e proponeva un modello tecnologico (computer-docente tutor-istruttore). Tutto questo
impianto teorico-pratico comincia a vacillare.
L’idea che la conoscenza scientifica rappresentasse un mondo esterno, oggettivo, misurabile
venne messa in discussione anche nell’ambito delle teorie dell’educazione; si fa più diffusa l’idea
che il mondo sia una costruzione derivata dalla nostra esperienza o che comunque tra soggetto ed
oggetto esistano forme di “solidarietà”, di comunicazione più profonda. Questi elementi si sono
raccolti in una sorta di cognitivismo di seconda generazione, che nel dibattito internazionale è
designato ormai come “costruttivismo”.
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Il cognitivismo di seconda generazione nasce da una intersecazione di diverse branche di
studi che vanno dalla psicologia cognitiva alla intelligenza artificiale, cibernetica, filosofia della
mente, linguistica. Nella sua più generale accezione, la psicologia cognitiva intesa come studio
psicologico dei processi cognitivi, ha radici profonde ed antiche. Se si restringe la riflessione al
Ventesimo secolo, si può rilevare come negli anni Venti e Trenta si siano sviluppate non poche
impostazioni psicologiche, che affondano le loro radici nel cognitivismo.
I contributi più noti sono quelli della psicologia della Gestalt sulla percezione e sul pensiero
produttivo, gli studi di Bartlett sulla memoria, le molteplici indagini svolte da Piaget sulle strutture
mentali e la loro genesi e quelle riconducibili a Vygotskij e ai suoi allievi Lurija e Leontiev.
Impostazioni più attente e inerenti ai problemi relativi all’acquisizione dei saperi, e in
generale della conoscenza nella scuola, sono state sviluppate, negli anni Cinquanta e Sessanta, da
Bruner e da Ausubel.Un punto di svolta significativo si ha con gli studi sull’Intelligenza Artificiale
e sulle modalità i funzionamento del computer, in quanto questi studi hanno consentito di
rappresentare la mente umana utilizzando la metafora dell’uomo come elaboratore di informazioni,
con la positiva conseguenza di favorire la nascita di un nuovo quadro teorico per lo studio dei
processi della vita mentale dell’uomo e di nuove forme metodologiche di ricerca e di verifica in
questo campo. Una riflessione importante ai fini didattici è scaturita dalla constatazione, effettuata
verso la fine degli anni sessanta, che non era possibile assegnare al computer compiti
eccessivamente generali e quindi si dovette constatare che era praticamente impossibile tentare di
simulare processi di pensiero troppo elaborati accentuando in tal modo l’interesse per ambiti molto
più specifici di conoscenza e competenza e per situazioni e contesti particolari. A livello
pedagogico se ne deduceva, conseguentemente, che nella progettazione didattica non fosse
opportuno puntare a sviluppare strutture intellettive generali capaci di esplicare il loro
funzionamento in ogni contesto e tipo di questioni con l’implicita critica all’ipotesi di poter fornire
capacità e competenze indipendentemente da contesti di conoscenza specifici.
I successi che nel frattempo venivano conseguiti dalla scienza cognitiva nell’ambito
dell’Intelligenza Artificiale suscitavano notevoli aspettative in educazione, rinforzando in sostanza
un orientamento razionalistico, alla base del quale sono individuabili alcune idee di fondo, ovvero
che la conoscenza:

è rispecchiamento della realtà,

è formalizzabile,

può essere articolata in sotto-conoscenze,
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 è implementabile attraverso una macchina.
Sull’onda dell’entusiasmo suscitato dai successi conseguiti dall’Intelligenza Artificiale gli
studiosi hanno cercato di realizzare uno dei sogni più ambizioni cui l’uomo potesse aspirare, quello
di “ricreare la mente”, cioè di dar vita ad una macchina “intelligente” in grado di simulare
comportamenti umani.Sul tema si sono impegnati scienziati del calibro di Turing, Newell,
McCarthy, Simon e Minsky riportando inizialmente risultati entusiasmanti come quello di
consentire ad un computer di battere un campione di scacchi. I veri problemi sono nati quando gli
scienziati si sono cimentati con la necessità di fornire al computer la capacità di “comprendere” il
linguaggio umano, come ad esempio una frase o un testo, procedere ad elaborare una sintesi
attraverso una parafrasi adeguata. Insomma il computer trovava un ostacolo insormontabile di
fronte alla necessità di interpretare una metafora o un significato ambiguo in quanto non era in
grado di comprendere le assunzioni implicite che stanno al di là del testo. Una vera e propria
revisione teorica e metodologica all’interno del cognitivismo si ebbe con Ulric Neisser 10; le sue
riflessioni contribuirono in maniera significativa alla nascita del cognitivismo di seconda
generazione articolando l’impianto teorico attorno al concetto di persona legata inscindibilmente
alla sua dimensione biologica, alla sua storia evolutiva, al suo contesto sociale, a quello culturale e a
quello tecnologico.Con il Cognitivismo si pone l’attenzione sui processi del pensiero come oggetto
di indagine e di riflessione enfatizzando la componente ambientale come elemento determinante per
l’attività cognitiva; quest’ultima viene vista come uno scambio attivo con gli stimoli ambientali, che
vengono percepiti, selezionati, trasformati, elaborati e poi usati nelle scelte e nelle decisioni.Il
passaggio da una visione associazionistica ad una in cui si privilegia la costruzione e la
elaborazione mentale è stato determinato dagli studi di Neisser considerato il primo teorico che
formulò esplicitamente i principi del cognitivismo.Neisser rifondò la definizione dei processi di
memoria che erano fino ad allora considerati processi di accumulo di dati prodotti per via
associativa e meccanica e indipendenti da altre dimensioni dell’uomo quali il linguaggio, la
motivazione, il pensiero. Egli dimostrò che l’individuo non si limita ad associare dati ma li inserisce
in schemi, in strutture cognitive che consentono di costruire un sistema organizzato di significati.
Ciò ha contribuito alla descrizione della mente umana come sistema complesso in cui le
informazioni e i dati di esperienza vengono elaborati, collegati, selezionati favorendo la
10
Neisser U., Cognition and reality. Principles and implications of cognitive psychology, Freeman, S. Francisco 1976.
(tr. it.) Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna 1981.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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riorganizzazione mentale e le sue risposte. Il cognitivismo in questo modo pone in primo luogo
l’organismo e la sua capacità di rielaborare sensazioni e informazioni contrariamente alla posizione
comportamentista.L’attività organizzatrice della mente si avvale di schemi in cui si collocano i
nuovi dati che vengono continuamente trasformati dalle nuove informazioni. Ciò significa che ogni
nuova informazione è messa a confronto con le informazioni pre-esistenti e dal rapporto dinamico
con esse trae valore e significato.
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Approccio cognitivista: da Piaget a Gardner
Il modello cognitivista trova la sua giustificazione teorica nell’analisi sviluppata dalle teorie
epistemologico-genetiche. In questo ambito si fonda la spiegazione dei processi cognitivi e le fasi
del loro sviluppo dall’infanzia all’età adulta. Questo modello è stato introdotto da Jean Piaget che
consente, in tal modo, di comprendere il costituirsi del pensiero nelle sue espressioni più evolute.
Piaget ha dedicato particolare attenzione alla problematica legata allo sviluppo del soggetto
rappresentando ancora oggi un significativo punto di riferimento per chi si appresta ad affrontare gli
studi legati alle teorie dell’apprendimento.Piaget ha elaborato la concezione di strutture e schemi di
funzionamento cognitivo deputati all’elaborazione dell’informazione; in un’opera molto importante
L’introduzione all’Epistemologia genetica introduce la scienza della conoscenza biologica e
propone di studiare le forme e i modi del processo conoscitivo e le leggi del suo sviluppo; egli
sostiene, a tal proposito, che le “strutture del sapere” si sono sedimentate nel tempo e si sono
“impregnate” nell’uomo secondo la teoria dell’evoluzione della specie darwiniana che ha portato ad
una selezione naturale della “specie idee” o meglio una maggiore definizione delle strutture
cerebrali; ne consegue, quindi, che nell’uomo sono sopravvissute solo le “idee” che hanno facilitato
la sua esistenza, il suo vivere.Quindi accanto alla selezione naturale della specie si è avuta anche la
selezione biologica delle idee che si è gradualmente definita generando una mappa genetica di tutte
le strutture che si sono sedimentate nel corso del tempo e che hanno permesso all’uomo di
sopravvivere e dominare l’ambiente circostante.Lo sviluppo appare pertanto come un continuo
processo di “assimilazione”, “accomodamento” ed “equilibrio”, che mette il bambino nella
condizione di adattarsi all’ambiente accogliendo informazioni nuove all’interno di schemi mentali
pre-esistenti, modificandoli e raggiungendo un nuovo e più maturo equilibrio tra conoscente e
conosciuto.In particolare Piaget si è dedicato allo studio sistematico dell’evoluzione delle strutture
cognitive, dal bambino fino all’adulto 11. Per descrivere lo sviluppo cognitivo 12 si serve delle
“funzioni” e delle “strutture”.
11
Questo adattamento continuo all’ambiente si evolve attraverso delle fasi o stadi. Lo studioso perseguì questo obiettivo
attraverso un metodo di ricerca sperimentale di tipo clinico, basato cioè sullo studio sistematico di un piccolo numero di
soggetti, ponendosi in una situazione di osservazione partecipata, egli infatti parlava con i bambini, li interrogava, non
nascondeva la sua curiosità rispetto ai loro percorsi mentali.
12
Quando Piaget parla di sviluppo cognitivo si riferisce, in modo particolare, alle quattro fondamentali categorie di
conoscenza: lo spazio, il tempo, il numero, la causalità.
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Le “funzioni” riguardano l’adattamento dell’individuo all’ambiente, a sua volta
l’adattamento si scinde in due processi contemporanei che sono l’assimilazione e l’accomodamento.
L’assimilazione indica la tendenza ad incorporare ogni dato nuovo all’interno di schemi che
l’individuo già possiede e che non vengono modificati dall’incontro con nuovi stimoli.
L’accomodamento è invece il processo inverso, per cui lo schema o struttura, si modifica per
accogliere i nuovi oggetti di esperienza.
Ogniqualvolta il bambino generalizza un comportamento già acquisito a situazioni diverse si
ha assimilazione, mentre quando il bambino è costretto a modificare un suo schema per adeguarlo
ad una esperienza nuova e diversa si realizza un accomodamento.
Per quanto concerne le “strutture”, Piaget individua degli stadi strettamente collegati con lo
sviluppo biologico che sarebbe alla base dell’apprendimento, infatti, solo se nel soggetto si
raggiunge una determinata maturazione strutturale-biologica si possono ottenere determinati
apprendimenti e conseguentemente solo se le strutture caratteristiche di ogni stadio si sono formate
si possono “plasmare” le strutture successive.
Pertanto lo sviluppo mentale del bambino per Piaget si dispiega dall’infanzia all’adolescenza
attraverso quattro stadi fondamentali: lo stadio senso-motorio, lo stadio pre-operatorio, lo stadio
operatorio-concreto, lo stadio logico-formale 13.
Stadio senso-motorio, si sviluppa dalla nascita ai 2 anni circa, durante questa fase il
bambino costruisce le prime forme di conoscenza secondo una sequenza obbligata, e giunge, in tal
modo alle prime modalità di interazione con l’ambiente. Pertanto la mente del bambino opera
attraverso rappresentazioni interne che non richiedono una corrispondenza immediata con oggetti e
persone.
Riportando un esempio classico è possibile mostrare che il sistema di prensione degli oggetti
in questo stadio (oggetti tondi, quadrati o sottili) sviluppa una continua ricerca di equilibrio; infatti,
il bisogno di ritrovare l’equilibrio induce il bambino a nuovi tentativi, nel corso dei quali lo schema
di prensione si modificherà, “accomodandosi” agli aspetti nuovi che l’esperienza ha presentato,
articolandosi in diversi schemi di prensione.
Stadio pre-operatorio (da 2 a 7 anni) permette al bambino di passare dalla prima alla
seconda infanzia e di acquisire concetti come quello di numero e di casualità, ma non è in grado di
usarli in modo sistematico e logico. In questo stadio di sviluppo cognitivo, Piaget sottolinea la
13
Piaget J., Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino 2000.
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capacità dei bambini di distinguere le “azioni” dalle “operazioni”; le prime sono irreversibili nel
tempo; le seconde invece sono reversibili. Ad esempio il bambino, a questo livello, riesce a
distinguere una casa più grande da una più piccola. In altre situazioni, come per esempio
l’invarianza della quantità d’acqua nel passaggio da due recipienti diversi, il bambino incontra
molte difficoltà di comprensione.
Egli intuisce, quindi, che i bambini allo stadio pre-operatorio riconoscono solo gli aspetti
qualitativamente irreversibili degli oggetti, trascurando la reversibilità degli aspetti quantitativi i
quali necessitano di un’astrazione numerica che, come la logica matematica, è reversibile.
Stadio operatorio-concreto (dai 7 agli 11 anni) durante il quale il bambino si è impadronito
di quelle nozioni causali e quantitative. In questa fase si conquista la capacità di compiere
operazioni mentali sugli oggetti utilizzando i concetti di numero, peso, volume. Inoltre è capace di
classificare e trasformare la realtà tenendo presente la nozione di spazio e tempo ma sempre
attraverso un procedimento che si serve di schemi di azione e di comportamento.
Stadio logico-formale (dagli 11 ai 15 anni) nel quale si completa lo sviluppo mentale del
bambino. Egli sarà in grado di compiere operazioni mentali indipendentemente dal riferimento a
oggetti e persone concrete, utilizzando concetti e simboli. Ed è solo da una sintesi dei due tipi di
reversibilità che può derivare la possibilità di una logica formale e di un pensiero combinatorio ed
ipotetico-deduttivo. In questo stadio si completa lo sviluppo mentale del bambino esso è
caratterizzato da una maturazione decisa del pensiero logico, del linguaggio e della socializzazione.
Il fanciullo interpreta con sempre maggiore sicurezza i meccanismi che sono alla base della vita e
diventa capace di ragionare su elementi astratti (ipotesi, principi, leggi, deduzioni), è il periodo del
“pensiero astratto”. «Mentre il bambino dello stadio delle operazioni concrete scopre i vari tipi di
associazione attraverso il confronto dei contenuti reali della sua esperienza, l’adolescente nello
stadio delle operazioni formali è in grado di pensare a tutte le combinazioni possibili per sottoporle
a verifica in seguito»14.
Con il pensiero operatorio-formale il soggetto è in grado di ragionare a livello simbolico e,
quindi, gli oggetti ora vengono costruiti mentalmente; le operazioni che nelle fasi precedenti
dovevano essere espletate sul piano fisico, ora vengono “interiorizzate” e costituiscono le
operazioni logiche fondamentali della conoscenza umana.
14
Ceruti M., La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 153-154.
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La riflessione piagetiana è tutta incentrata su una analisi dello sviluppo degli stadi evolutivi
e delle strutture biologiche del bambino. «In questo senso Piaget studia la psicogenesi in quanto
processo che tende alla costruzione di strutture formali dell’intelligenza sempre più equilibrate, vale
a dire dotate di una reversibilità operatoria interna sempre maggiore, che le emancipa
progressivamente da ogni dipendenza temporale»15.
Piaget delinea l’originalità del suo approccio che, tralasciando ogni problema di misurazione
quantitativa, si propone di enucleare i caratteri qualitativi dello sviluppo. Problemi di natura
specificamente qualitativa sono appunto la determinazione delle strutture caratterizzanti i vari livelli
di sviluppo mentale, come pure la determinazione dei meccanismi e delle modalità di passaggio da
una struttura ad una successiva.
La questione centrale concerne, dunque, la natura dei mutamenti che intercorrono tra le
successive tappe dello sviluppo cognitivo.
Si tratta di valutare se questi siano di ordine qualitativo, poiché introducono effettive e
globali novità nella “forma” delle conoscenze, oppure costituiscano soltanto (come ritiene
l’epistemologia classica) dei progressi di ordine quantitativo, valutabili quindi in modo continuo
con riferimento ad una scala di parametri.
La risposta di Piaget, sin dalle prime indagini psicologiche, è orientata verso la prima
direzione. Il compito dello studio genetico dell’intelligenza è allora, in tale prospettiva, quello di
carpire in che modo tali strutture si originino attraverso una genesi temporale caratterizzata da tappe
in cui la reversibilità operatoria si costruisce progressivamente.
Piaget osservò nel bambino che esplora progressivamente l’ambiente le stesse facoltà di
adattamento delle specie evolutive e affrontò il problema biologico dell’intelligenza, orientandosi
verso lo studio degli schemi senso motori in cui ogni azione, ripetendosi su oggetti diversi, si
generalizza e si affina attraverso il gioco dialettico delle “assimilazioni”, che consentono di
incorporare all’azione oggetti nuovi e ulteriori “adattamenti”, i quali permettono allo stesso tempo
di adattare l’azione alle condizioni particolari. É nell’azione che nasce il pensiero.
Piaget si rese conto che l’adattamento del bambino all’ambiente non è mai una semplice
reazione a quest’ultimo, ma piuttosto un processo attivo, nel corso del quale il bambino risolve i
problemi: dapprima facendo appello alle proprie capacità senso-motorie, poi, al termine di una
lunga evoluzione, raggiunge l’intelligenza delle operazioni astratte e della logica formale.
15
Ivi, pp. 183-184.
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L’elaborazione della nozione di “stadio di sviluppo” vuole costituire, a questo punto, uno
strumento adeguato per l’analisi della psicogenesi intesa come storia di successivi e determinabili
mutamenti qualitativi nelle strutture dell’intelligenza e nelle forme di codificazione dell’esperienza.
Piaget distingue, allora, lo sviluppo intellettivo dallo sviluppo del linguaggio, in riferimento
alla discontinuità che si manifesta nel primo caso rispetto alla sostanziale continuità che appare nel
secondo 16. Lo studioso differenzia nettamente i risultati del funzionamento dell’intelligenza dalle
modalità del funzionamento stesso (per ogni stadio); quindi, rispetto ad ogni conoscenza, viene fatta
una chiara distinzione fra struttura e contenuto. Nel primo caso sono in discussione le proprietà
organizzative e formali dell’intelligenza a un determinato stadio di sviluppo. Nel secondo si fa
invece riferimento ai risultati dei processi cognitivi, cioè a quello che appare di un processo
cognitivo del soggetto.
Quando Piaget parla di sviluppo cognitivo si riferisce, in modo particolare, alle quattro
fondamentali categorie di conoscenza: lo spazio, il tempo, il numero, la causalità.
Gli apporti alla pedagogia che derivano dalla teoria degli stadi dello sviluppo cognitivo sono
di notevole importanza in quanto, le caratteristiche socio-antropologiche di questo nuovo modello
teorico, ribaltano lo stereotipo della dipendenza e della fragilità infantile, e propongono l’immagine
del bambino come capace di pensiero produttivo e di notevoli performances cognitive 17. Infatti,
poiché il soggetto si evolve mentalmente attraverso determinati stadi (qualitativamente e
strutturalmente diversi, come conseguenza della maturazione biologica, del suo sforzo di
organizzare l’esperienza e le sue interazioni sociali), si può stabilire se un bambino procede
normalmente nello sviluppo, controllando se le “competenze operative” sono adeguate allo stadio
corrispondente alla sua età, invece di calcolare il suo “quoziente intellettivo” 18. «Piaget è
consapevole che i tre grandi stadi evoluti dell’uomo non possono essere solo il risultato di fattori
“esterni” al sistema cognitivo, come la crescita organica e la maturazione del complesso formato dal
sistema nervoso e dai sistemi endocrini; l’esercizio e l’esperienza acquisita nell’azione effettuata
sugli oggetti, sia sensomotoria che logico-matematica; le interazioni e le trasmissioni sociali»19.
La spiegazione dello sviluppo deve tener conto di queste due dimensioni, l’una ontogenetica
l’altra sociale (nel senso della trasmissione del lavoro successivo delle generazioni), e il problema si
16
Ivi, pp. 140-141.
Cfr. Acone G., Intersezioni Pedagogiche, Edisud, Salerno 1989, p. 155.
18
Minichiello G., Nuova razionalità e processi educativi, Morano, Napoli 1988, pag. 81.
19
Ivi, p. 89.
17
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pone, in termini parzialmente analoghi nei due casi, poiché è quello del meccanismo interno di ogni
costruttivismo.
Tale meccanismo interno (ma senza possibile riduzione al solo innatismo e senza piano
prestabilito perché c’è costruzione reale) è, infatti, osservabile durante ogni costruzione parziale e
ogni passaggio da uno stadio al seguente; è un processo di equilibrazione, non nel senso di semplice
equilibrio delle forze (come in meccanica), ma nel significato, oggi preciso grazie alla cibernetica,
di autoregolazione, vale a dire di una serie di compensazioni attive del soggetto in risposta alle
perturbazioni esteriori e di un atteggiamento contemporaneamente retroattivo (sistemi a catene o
feedbacks) e anticipatore che costituisce un sistema permanente di tali compensazioni 20.
Quindi il maggior grado di interazione che caratterizza ogni stadio cognitivo rispetto al
precedente è tradotto da Piaget nei termini di equilibrio. Ogni nuova struttura possiede inoltre una
particolare forma di equilibrazione maggiorante. Essa consiste in una crescente reversibilità delle
strutture operatorie e in una progressiva integrazione nel sistema cognitivo delle possibili
perturbazioni al suo equilibrio, che da fattori esterni ostacolanti diventano fattori interni prevedibili
e anticipabili.
Un elemento determinante nei processi cognitivi riguarda il ruolo del linguaggio, la sua
influenza è stata evidenziata da importanti cognitivisti, tra i quali Bruner, che pur accettando le tesi
di Piaget e partendo da esse, affronta le riflessioni di Vygotskij circa la funzione determinante del
linguaggio nello sviluppo cognitivo dei giovani. Egli, infatti, scrive: «ricordo in particolare gli
incontri con Aleksandr Lurija, vivace sostenitore delle teorie “storico-culturali” di Lev Vygotskij
sullo sviluppo. I suoi entusiasmatici argomenti a favore del ruolo del linguaggio e della cultura nel
funzionamento della mente finirono presto per far vacillare la mia fede nelle teorie più autonome e
formalistiche del grande Jean Piaget, teorie che lasciavano pochissimo spazio al ruolo qualificante
della cultura nello sviluppo mentale»21.
Il linguaggio, che Vygotskij vede come elemento di rappresentazione della realtà e quindi in
grado di produrre simbolizzazione e di esercitare finanche la funzione di controllo motorio, viene
riconsiderato da Bruner, il quale attribuisce alla cultura la funzione di elemento centrale dello
sviluppo del fanciullo in quanto «proprio quelle predisposizioni che riteniamo innate richiedono
molto spesso, per prendere forma, l’intervento di un sistema di notazione largamente condiviso,
quale ad esempio il linguaggio. Malgrado le nostre doti innate, pare che possediamo quella che
20
Cfr. Piaget J., Inhelder B., La Psicologia del bambino, Einaudi, Torino 1970, pp. 133-134.
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Vygotskij chiama “area di sviluppo prossimale” cioè la capacità di riconoscere altre possibilità non
riconducibili a quella dotazione»22.
È nel momento in cui agisce socialmente con il linguaggio, che egli si appropria di nuovi
strumenti cognitivi che gli serviranno ad alimentare l’“agire linguistico interiore” che gli permetterà
di risolvere in maniera autonoma problemi analoghi a quelli precedentemente affrontati con altri 23.
Vygotskij nei suoi studi aveva individuato la possibilità di realizzare le condizioni
favorevoli all’apprendimento quando le sollecitazioni intervengono nell’area della zona di sviluppo
prossimale. Questa constatazione nasceva dall’esperimento nel quale aveva sottoposto a bambini di
varie età test e compiti che reputava fossero adatti alla loro età mentale, anche in relazione ai loro
studi. Dai risultati ottenuti si era visto che i soggetti erano in grado di comprendere i problemi e
risolverli.
In seguito, venivano sottoposti a problemi sempre più complessi i quali corrispondevano a
età mentali e studi superiori. Dal risultato delle prove Vygotskij fu in grado di affermare che i
soggetti riuscivano a comprendere i compiti solo con l’aiuto dell’insegnante.
«Ciò che è fondamentale nell’apprendimento è proprio il fatto che il bambino apprende cose
nuove. Perciò l’area di sviluppo prossimo, che definisce questo campo di passaggio accessibile al
bambino, è proprio l’elemento più significativo in relazione all’apprendimento e allo sviluppo». 24
Connesse alla zona di sviluppo prossimale Vygotskij individua due livelli: il livello dello sviluppo
reale il quale si riferisce a tutte quelle funzioni che sono già in possesso degli studenti ed il livello
dello sviluppo potenziale che determina tutte quelle funzioni che gli studenti possono sviluppare
grazie al sostegno degli adulti oppure collaborando con coetanei più esperti.
In definitiva, la zona di sviluppo prossimale è «la distanza tra il livello dello sviluppo reale,
determinato dalla capacità dei soggetti di risolvere indipendentemente un problema, e il livello di
sviluppo potenziale, determinato dalla capacità di saper risolvere un problema sotto la guida
dell’insegnante o in collaborazione con altri studenti più capaci»25.
La zona dello sviluppo prossimale che definisce quelle funzioni che non sono ancora mature
ma sono in un processo di maturazione potrebbero essere chiamate «i “boccioli” o i “fiori” dello
21
Bruner J. S., La cultura dell'educazione, Feltrinelli, Milano 1997, p. 11.
Ivi, p. 31.
23
Varisco B. M., Nuove tecnologie per l’apprendimento, Garamond, Roma 1998, pp. 43-45.
24
Vygotskij S. L., Pensiero e linguaggio, Editori Laterza, Bari 2000.
25
Ivi, p. 34.
22
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sviluppo […]. Il livello reale di sviluppo caratterizza lo sviluppo mentale retrospettivamente, mentre
la zona di sviluppo prossimale caratterizza prospettivamente lo sviluppo»26.
Su tale assunto Vygotskij costruisce il suo ideale di educazione, sia scolastica che informale,
basata sul livello potenziale dei bambini piuttosto che su quello reale, «l’unico buon apprendimento
è quello in anticipo allo sviluppo».
Ciò significa che in tale zona, un problema che non viene risolto dallo studente
autonomamente può essere da lui stesso risolto attraverso lo scaffolding dialogico con qualcuno più
competente di lui. Gli esperimenti condotti da Vygotskij condussero lo scienziato russo a risultati
opposti a quelli ottenuti da Piaget.
Secondo Piaget il legame che unisce tutte le caratteristiche specifiche della logica infantile è
l’egocentrismo, che sarebbe una posizione intermedia tra il pensiero autistico e quello controllato
(adulto). Il pensiero del bambino sarebbe originariamente autistico e solo con la pressione sociale
diventerebbe realistico: questo perché ciò che interessa al bambino è la soddisfazione di piaceri, in
antitesi al principio di realtà. Piaget avrebbe preso da Freud l’idea che il principio del piacere
preceda quello di realtà; l’idea che il piacere sia una forza vitale indipendente.
Vygotskij, invece, afferma che lo sforzo per ottenere la soddisfazione di un bisogno e lo
sforzo per adattarsi alla realtà non sono separabili né opponibili, altrimenti c’è patologia.
Piaget sostiene che il gioco (immaginazione) è la legge suprema dell’egocentrismo fino a 78 anni. Vygotskij, invece, sostiene che la funzione primaria del linguaggio nei bambini e negli
adulti è la comunicazione. Il primo linguaggio è quello sociale (globale e plurifunzionale); in
seguito le funzioni si differenziano, cioè si egocentrizzano, permettendo allo sviluppo del pensiero e
del linguaggio d’interiorizzarsi. In altre parole il linguaggio diventa anche egocentrico, ma resta
sociale, poiché l’egocentrismo rappresenta soltanto un’interiorizzazione di forme di comportamenti
sociali. Nell’adulto c’è il linguaggio interiore (linguaggio egocentrico in profondità), che si sviluppa
all’inizio dell’età scolare.
Vygotskij poté constatare che di fronte alle difficoltà il coefficiente del linguaggio
egocentrico aumentava, ma proprio perché con esso il bambino realizzava un processo di presa di
coscienza che lo portava, in un modo o nell’altro, a cercare una soluzione del problema.
Secondo Vygotskij la differenza, sotto questo aspetto, tra l’adulto e il bambino, è che il
linguaggio egocentrico del bambino è stato ormai così assimilato dall’adulto che non si manifesta
26
Ivi, p. 54.
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più come tale. Piaget direbbe che la mancata manifestazione del linguaggio egocentrico deriverebbe
dalla sua scomparsa, ma in realtà esso è stato solo “interiorizzato”.
L’egocentrismo rappresenta, dunque, quell’impulso che consente di evadere dal
conformismo sociale che per sua natura è ripetitivo. Secondo Piaget, al contrario, il bambino
sarebbe diventato un adulto nel momento in cui abbandonava il piacere egocentrico per far proprio
il dovere sociale.
Vygotskij definisce il pensiero autistico come il risultato del pensiero realistico di Piaget,
poiché quest’ultimo pretende che il pensiero realistico (distaccandosi da bisogni-interessi-desideri)
sia “puro”, cioè in grado di indagare la verità per se stessa. Sempre secondo Vygotskij nel momento
in cui il pensiero realistico di Piaget presume di appagare con la fantasia i bisogni frustrati della vita
si trasforma in autistico (la logica separandosi dalla vita conduce all’irrazionalismo).
Entrambi gli studiosi hanno considerato nel bambino una elaborazione del linguaggio del
tutto specifica. Per Piaget il linguaggio egocentrico rappresenta il punto di partenza per il
consolidamento strutturale del linguaggio successivo. Lo psicologo considera tale linguaggio
egocentrico come il modo per colloquiare con sé stesso e persiste fino ai sette anni circa. Infatti, in
seguito, il linguaggio egocentrico sparisce e al suo posto subentra il linguaggio socializzato.
Vygotskij, al contrario, sostiene che anche il linguaggio egocentrico sia socializzato e si
trasforma solo successivamente in linguaggio interiorizzato.
Ciò significa che nella mente umana è presente una sorta di codice interno, che, in base alla
personale esperienza percettiva, effettua una suddivisone e una classificazione delle possibili
percezioni. «Qui abbiamo un processo [...] dall’esterno all’interno, un processo di volatilizzazione
del linguaggio nel pensiero. Da qui la struttura di questo linguaggio e tutte le sue differenze rispetto
alla struttura del linguaggio esterno» 27.
Vygotskij sostiene che lo studio del linguaggio egocentrico del bambino è di estrema
importanza perché esso rappresenta l’embrione del linguaggio interno dell’adulto. A tal proposito in
Pensiero e Linguaggio scrive «[...] il linguaggio per sé non può affatto trovare la sua espressione
nella struttura del linguaggio esterno, completamente diverso per la sua natura; la forma di
linguaggio, che è del tutto particolare per la sua struttura [...] deve avere necessariamente una sua
forma d’espressione speciale, poiché il suo aspetto fasico cessa di coincidere con l’aspetto fasico
27
Vygotskij L. S., Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Mecacci L. (a cura di), Laterza, Bari 1990, p. 347.
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del linguaggio esterno» 28.
Piaget non prende in considerazione i fattori culturali che condizionano le risposte del
bambino (cioè le acquisizioni anteriori, ovvero l’appartenenza a un gruppo, ceto sociale…). Gli
interessa soltanto descrivere le differenze del comportamento mentale del bambino, a seconda delle
età, rispetto al comportamento mentale dell’adulto.
In relazione, infine, alla teoria dell’intelligenza, Piaget sottolinea il contributo dato dallo
strutturalismo che riconosce l’esistenza di “strutture operatorie” e prende le distanze sia dalle
concezioni associazionistiche sia da quelle della Gestalt (le quali riconoscono l’esistenza delle
strutture, ma le riducono tutte a un unico tipo, quello della percezione). La specifica caratteristica
delle strutture intellettuali è stata individuata grazie all’analisi psicogenetica (cioè alla
ricostruzione del loro processo di formazione): esse sono il risultato di una costruzione graduale da
parte del soggetto. Tale concezione dello sviluppo dell’intelligenza è definito anche
“costruttivismo”. «I lavori sulla formazione delle operazioni intellettuali a partire dalle regolazioni
preoperatorie e sensorio-motrici, sul ruolo degli squilibri o contraddizioni, o delle riequilibrazioni
per mezzo di nuove sintesi e di superamenti, in una parola l’intero costruttivismo che caratterizza
la costruzione progressiva delle strutture conoscitive»29.
Nell’analisi dei processi di apprendimento Bruner ha seguito gli studi di Piaget, per cercare
successivamente di “ampliarne” la prospettiva attraverso la decisiva influenza dei fattori socioculturali rispetto a quelli genetici.
Anche per Bruner esistono gli stadi ma a differenza di Piaget essi si evolvono lungo tutto
l’arco della vita senza precise scansioni biologiche e temporali. Bruner distingue tre fasi: la “fase
operativa” in cui prevale la rappresentazione motoria dell’esperienza mentre nella “fase iconica”
predomina l’applicazione di schemi visivi alla realtà, che dipendono dall’organizzazione
sensoriale-percettiva. Quindi si ha una organizzazione mentale della realtà (oggetto concreto – idea
dell’oggetto); infine la fase della “rappresentazione simbolica” si avvale del sistema simbolico del
linguaggio per esprimere concetti e categorizzazioni. Dopo una concezione basata sulla teoria
piagetiana Bruner propone una visione vicina a quella di Vygotskij sia per l’importanza che dà alla
matrice socio-culturale sia per la forte importanza che attribuisce al linguaggio.A tal proposito
Bruner attribuisce un ruolo determinante al “pensiero narrativo”, e al ruolo che svolge la parola
nell’interpretazione del mondo.
28
Ivi, p. 354.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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La narrazione è, infatti, considerata da Bruner come un “modello mentale” cioè una
“articolazione” del pensiero che determina conseguentemente una organizzazione della realtà
rendendola realtà interpretata; andando oltre gli aspetti logici e sistematici della vita mentale così
come venivano presentati da Piaget. Le fasi dell’apprendimento per Bruner sono la capacità
d’azione, alla quale segue la riflessione, la condivisione e infine la cultura. In particolare la
riflessione e conseguentemente l’apprendimento per Bruner sono legati inscindibilmente con
l’interpretazione. Bruner propone, contro un modello scolastico basato su un apprendimento
individualizzato e incentrato esclusivamente su se stesso, il metodo della narrazione, e dell’attivo
coinvolgimento personale nel percorso formativo.
Narrare i fatti diventa già un modo di interpretarli: la narrazione include non solo il
conoscere ma prevede l’applicazione delle regole e degli schemi tra una molteplicità di modelli.
La psicologia culturale cerca di trovare una soluzione ad alcune incongruenze della
psicologia cognitiva di Piaget, che per fornire una spiegazione delle diverse fasi di sviluppo del
bambino ipotizza dei “salti” logico strutturali, ponendo l’attenzione sul fatto che l’intelligenza non è
un fenomeno meramente individuale, ma rappresenta il prodotto dell’interazione con gli altri,
ramificandosi sempre più tramite l’esperienza, la lettura, gli strumenti di cui si dispone e le persone
con le quali ci si rapporta. In secondo luogo l’intelligenza è localizzata, essa cioè nasce in occasione
di una specifica esperienza, ed è per questa ragione che il bambino una volta che l’ha acquisita non
è immediatamente in grado di generalizzarla ad altri contesti.
Secondo Bruner l’orientamento biologico non può non richiamarsi a quello culturale per
comprendere il funzionamento e l’essenza della mente umana. Secondo lo psicologo culturale si
può infatti concludere che: «se è vero che la mente crea la cultura, anche la cultura crea la mente» 30.
In base a tale orientamento la mente viene intesa come un “organo intersoggettivo” il cui
sviluppo è favorito dal contatto con gli altri individui. Bruner sostiene che anche in questo contesto
il pensiero narrativo ricopre un ruolo estremamente importante nei processi di apprendimento: è
proprio infatti la narrazione che consente al bambino di partire dal sé e di relazionarsi con gli altri, e
con le cose del mondo circostante in modo partecipativo.
Questa comprensione partecipativa è, al contrario, completamente assente nel bambino
autistico, per il quale la narrazione non ha senso, in quanto egli non percepisce in nessun modo che
le persone che lo circondano possano somigliargli o condividere i suoi pensieri.
29
Piaget J., Le scienze dell’uomo, Laterza, Bari 1983 (3^ ed.), p. 73.
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La mente non rappresenta dunque un mero organo il cui sviluppo avviene tramite tappe
biologicamente cadenzate e determinate, ma è altresì influenzata dall’atteggiamento di altre menti.
Al di là della fase mimetica, cioè della propensione del soggetto a imitare o apprendere dai
comportamenti delle altre persone con le quali entra in contatto, un’altra cosa che separa il soggetto
dai primati superiori è il linguaggio, cioè la peculiare capacità, dell’uomo per Chomsky e Fodor
innata, di dimostrare una specifica sensibilità «a cogliere la struttura lessicale-sintattica di ogni
linguaggio naturale» 31
Secondo Bruner è, e sarà impossibile definire se nel genoma dell’uomo risiede il segreto
dell’“organo del linguaggio”: non si tratta di effettuare una distinzione tra innatismo e antiinnatismo ma di considerare come il linguaggio sia reso possibile.
Non solo esistono molti modi di usare la mente, e dunque di conoscere e costruire
significati, ma svolgono funzioni differenti a seconda delle diverse situazioni. Ma questi modi di
utilizzare la mente possono funzionare, spesso anzi possono addirittura esistere, solo se si
acquisisce la padronanza dei sistemi simbolici e dei registri linguistici propri di una cultura anche se
non tutte le persone acquisiscono lo stesso livello di padronanza.
Secondo Gardner certe attitudini che definisce frames of mind (strutture mentali) hanno una
base innata e universale come ad esempio la capacità di occuparsi di rapporti quantitativi, di
sottigliezze linguistiche, di specifici movimenti del corpo nella danza, o di intuire i sentimenti degli
altri.
A tal proposito studi in campo psicologico e fisiologico hanno accertato che la mente riflette
la struttura del cervello: una struttura a moduli costituita da facoltà separate.
Gardner, infatti, sostiene che «tutto ciò che avviene nella mente sia prodotto dal cervello [...]
da un cervello situato in un corpo umano che si sviluppa in un ambiente umano in perenne
cambiamento [...]. Il cervello non si trova in un vuoto. È in un corpo che, a sua volta, vive in una
cultura. Il cervello può svilupparsi in un’enorme varietà di culture ma una volta che lo sviluppo
neurale sia incominciato (e cioè dopo poco il concepimento), la cultura in cui gli accade di vivere
diventa una determinante decisiva della sua struttura e della sua organizzazione» 32.
Secondo Gardner non possediamo una intelligenza unica; infatti, lo studioso ha individuato
nove intelligenze ognuna con una sua caratteristica ed unicità. Le intelligenze gardneriane sono:
30
Bruner J. S., La cultura dell’educazione, op. cit., p. 180.
Ivi, p. 198.
32
Gardner H., Sapere per comprendere. Discipline di studio e disciplina dela mente, Feltrinelli, Milano 1999 p. 79.
31
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logico matematica, linguistico-verbale, musicale, corporale o cinestetica, spaziale, sociale,
intrapersonale, naturalistica o ecologica ed infine esistenziale.
L’intelligenza logico-matematica è connessa con l’abilità di analizzare i problemi, di fare
operazioni matematiche e ragionare in maniera efficace. L’intelligenza logico-matematica prevede
una grande sensibilità verso principi e relazioni, ed è connessa con l’abilità nel valutare oggetti
concreti o astratti.
L’intelligenza linguistico-verbale riguarda la capacità di usare le parole in modo
appropriato. Questa intelligenza include la padronanza nel manipolare la sintassi o la struttura del
linguaggio, e la capacità di saper spiegare, insegnare e apprendere verbalmente e la capacità di
usare il linguaggio per raggiungere determinati scopi.
L’intelligenza cinestetica-corporale è il potenziale di usare al meglio il corpo per esprimere
idee e sentimenti e riguarda il controllo dei movimenti del corpo e quindi la facilità con cui si usano
le mani per produrre o trasformare qualsiasi cosa. Questa intelligenza è connessa con specifiche
abilità fisiche quali la coordinazione, la flessibilità e la velocità.
L’intelligenza visivo-spaziale è l’abilità a percepire il mondo visivo/spaziale in maniera
accurata ed è la capacità di riconoscere, manipolare e orientarsi nello spazio così come operare
trasformazioni sulle percezioni visive; essa implica sensibilità verso il colore, la linea, la forma,
includendo anche la capacità di visualizzare e rappresentare le idee attraverso la formazione di
immagini mentali (memoria visiva).
L’intelligenza musicale è legata alla capacità di percepire, discriminare, trasformare ed
esprimere forme musicali e all’abilità di riconoscimento, creazione e riproduzione di suono, ritmo,
musica, toni e vibrazioni. Essa si può anche esprimere attraverso l’apprezzamento per la struttura
della musica e del ritmo.
L’intelligenza intrapersonale nasce dal riconoscimento di sé e dalla capacità di capire se
stessi, i propri desideri, le proprie attitudini e soprattutto di usare queste conoscenze, attraverso
processi metacognitivi, per regolare la propria vita. Avere consapevolezza della coscienza dei propri
stati d’animo; capacità per l’autodisciplina, l’autostima; concentrazione mentale; coscienza e
discriminazione della gamma delle proprie emozioni sono tutti elementi determinanti
dell’intelligenza intrapersonale.
L’intelligenza interpersonale o sociale è l’abilità di percepire e interpretare gli stati d’animo,
i sentimenti, i temperamenti altrui nonché di lavorare in modo efficace con gli altri come il saper
creare e mantenere la “sinergia” comunicativa verbale e non verbale.
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Nel 1995, sulla base di nuovi dati, introdusse un’ottava intelligenza, quella naturalistica o
ecologica, che permette il riconoscimento e la categorizzazione di oggetti naturali. La
manifestazione dell’intelligenza naturalistica si esprime nel soggetto attraverso una intensa
comunione con la natura, una sensibilità verso flora e fauna, l’attenzione per gli animali e per la
cura di piante e fiori, l’interesse per l’ecologia in tutte le sue manifestazioni.
Gardner, recentemente, ha ipotizzato l’esistenza di una nona intelligenza, quella esistenziale.
Essa concerne la capacità di saper riflettere sulle tematiche fondamentali della nostra esistenza e la
propensione al ragionamento astratto per categorie concettuali universali.
Egli dice che compito e funzione di ognuna delle intelligenze è quella di favorire e
sviluppare il prodursi della “funzione simbolica”. Lo sviluppo della intelligenza, per Gardner, si
realizza secondo ondate, canali e correnti di simbolizzazione. «Evidentemente Piaget, Bruner e
Gardner sono la dimostrazione – con moduli diversi nei particolari e nei dispositivi teorici-pratici e
applicativi – che la sequenza azione-operazione (iconicità digitale-simbolizzazione) costitutiva di
ogni forma di costruzione da parte del soggetto cognitivo della sua interfaccia con la realtà (e con la
virtualità/apparenza). Gardner articola canali e onde di sviluppo simbolizzante, là dove Piaget e
Bruner propendono per uno schema tendenzialmente mono-processuale e gerarchizzante: ma la
direzione-meta è la simbolizzazione-ipersimbolizzazione» 33.
Partendo dalla consapevolezza che esiste una stretta relazione tra linguaggio e pensiero,
molti psicologi si sono interessati all’analisi di tale rapporto al fine di comprendere le modalità di
tale relazione e discutendo quale delle due funzioni sia prevalente. Il dibattito diede origine a
differenti ipotesi:
In base alla teoria comportamentistica 34 sussiste uno stretto legame tra pensiero e linguaggio
tanto da poter affermare che non esiste nessuna differenza tra di essi, vale a dire che il pensiero
rappresenta un atteggiamento verbale interiorizzato, il linguaggio viene ad essere considerato come
un’attività motoria acquisita col condizionamento operante dando vita ad un apprendimento
semantico.
Molti studiosi ritengono che il comportamentismo riprende il nominalismo empirico di
Locke: i concetti rappresentano delle etichette verbali applicate a categorie di oggetti, per l’autore
infatti, all’origine delle idee c’è l’esperienza, partendo, quindi, dal presupposto che l’anima sia
33
Acone G., Dimensioni teoriche di una paideia della multimedialità e della cultura del reale/virtuale, in AA. VV.,
“Multimedialità, cultura, educazione”, La Scuola, Brescia 1995, p. 18.
34
Skinner B. F., Verbal Behavior, Appletown Century Crofts, N.Y. 1957.
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“tabula rasa”, cioè che non abbia idee innate, egli sostiene che l’infinita varietà dei nostri pensieri,
delle nostre conoscenze, cioè le nostre idee derivano dall’esperienza. Quindi ogni uomo, per Locke,
comincia ad avere idee quando ha una qualsiasi sensazione. In contrapposizione a questa visione del
comportamentismo sarà lo stesso Skinner ad evidenziarne la differenza: «L’idea che la conoscenza
consista in impressione dei sensi e in concetti derivati da queste espressioni era già, evidentemente ,
quella dell’empirismo britannico e ancora condivisa da molti. Ma altri, tra cui io, pensano che
questa concezione sia incapace di rappresentare correttamente la conoscenza umana. Anche l’idea
più semplice non è, come supponeva Locke, un assemblamento di materiali sensoriali in risposta ad
una stimolazione. Supporre che la conoscenza fisica esista nella mente del fisico sotto forma di
materiale psichico o mentale – come il modo in cui io guardo il mondo – mi pare del tutto
assurdo» 35.Il determinismo linguistico di Whorf concepisce il pensiero e il comportamento come
determinati dal linguaggio 36, esso rappresenta una sorta di stampo per i processi logici e percettivi:
la lingua, con le sue strutture, determina, infatti, la maniera di pensare e di percepire il mondo
(“relativismo linguistico”). Il linguaggio non consente all’uomo solo di comunicare con gli altri e
con se stesso, ma, come sostengono i teorici della relatività linguistica E. Sapir e B. Whorf, anche di
«forgiare l’intera visione del mondo»37. Scrive B. Whorf che «Il sistema linguistico di sfondo (in
altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per
esprimere le idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida all’attività mentale
dell’individuo»38.Il mondo si presenta, dunque, come un flusso di impressioni che deve essere
predisposto dalla mente e ciò vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema
linguistico della mente.
In questa teoria sono contenuti due principi: il primo è che la lingua determina il pensiero
(determinismo linguistico), il secondo è che ogni lingua realizza una visione del mondo definita,
cioè i sistemi cognitivi delle persone che parlano lingue diverse sono diversi (relativismo
linguistico). Questa considerazione riflette il pensiero di Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio
significano i limiti del mio mondo” 39.
35
Richelle M., Skinner ou le pèril behavioriste, Mordaga, Bruxell 1977, p. 130.
Whorf B. L., Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino 1970.
37
Chase J., Il potere delle parole, Bompiani, Milano 1966.
36
38
Whorf B. L., Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino 1970, p. 169.
39
Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, Boringhieri, Torino 1970, p. 163.
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Il linguaggio si pone in un rapporto di dipendenza con il pensiero (cognitivismo di Piaget),
dunque, si pone come un sottosistema all’interno di una più totale capacità cognitiva, la “capacità
simbolica”, ma sia il linguaggio che il pensiero dipendono dall’intelligenza stessa, che precede il
linguaggio ed è indipendente da esso 40. Per Piaget, quindi, il linguaggio dipende dal pensiero che ne
guida lo sviluppo: egli, infatti, nel ritenere che vi sia un’intima correlazione ra pensiero e
linguaggio, individua in quest’ultimo una delle forme in cui si manifesta la conoscenza. Piaget
afferma, infatti, che tra il linguaggio esiste così un cerchio genetico tale che l’uno dei due terminasi
appoggia necessariamente all’altro in una forma solidale e in una azione reciproca.
Secondo la psicologia sovietica rappresentata da Vygotskij originariamente linguaggio e
pensiero sono indipendenti, hanno, cioè, sequenze evolutive autonome, ma successivamente si
integrano in un processo di reciproco influenzamento e potenziamento. Linguaggio e pensiero,
inizialmente indipendenti, avrebbero, quindi, una successione evolutiva autonoma in cui il primo ha
una funzione di comunicazione e di rappresentazione, il secondo una funzione di adattamento e di
rappresentazione. Il linguaggio è, dunque, sociale, acquista, infatti, una funzione regolatrice del
pensiero, che si trasforma così in una costruzione sociale e interiorizzandosi, diventa individuale (e
lo stesso sociale diventa individuale). Secondo l’ipotesi vygotskijana il pensiero non è
semplicemente espresso in parole, ma viene ad esistere attraverso di esse 41.
In base all’ipotesi di Bruner il linguaggio è un processo cognitivo, pertanto è pensiero.
Bruner intende il rapporto linguaggio-pensiero come un’attività cognitiva in evoluzione in cui vi è
corrispondenza tra sviluppo intellettivo in senso piagetiano e sviluppo linguistico. Per lo studioso,
dunque, la sintassi linguistica non solo darebbe consistenza al pensiero cognitivo, ma sarebbe in
rapporto con la qualità delle capacità cognitive: pertanto una persona che dispone di una sintassi
mediocre ha anche delle capacità cognitive scadenti. Ciò non significa, però, che il linguaggio
“dipenda dal pensiero né che il pensiero sia linguaggio” 42 bensì che il linguaggio è pensiero
oggettivato verbalmente.
Bruner è giunto ad elaborare una analisi legata alla psicologia culturale anche grazie alla sua
grande sensibilità per i temi del multiculturalismo, dell’integrazione e delle eguali opportunità per i
40
Canestrari R., Psicologia generale e dello sviluppo, Editrice CLUEB, Bologna 1984.
Vygotskij L. S., Thought and language, The MIT Press, Cambridge, Mass. 1962. (trad. it.) Pensiero e linguaggio,
Giunti- Barbera, Firenze 1974.
41
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soggetti delle classi svantaggiate: e si comprende la sua insistenza sulla scuola come strumento e
organo privilegiato per il miglioramento e la radicale trasformazione dell’educazione e della
società. L’ipotesi di Bruner nel libro La cultura dell’educazione 43 consiste nel trovare un punto
d’incontro tra due teorie della mente: il “computazionalismo” ed il “culturalismo”. Il
computazionalismo lavora essenzialmente su informazioni in ingresso “ben formulate”, precise e
non ambigue e sulla base di operazioni di calcolo “produce” operazioni e comportamenti
conseguenti. Il culturalismo, partendo dall’osservazione che la mente umana è chiamata a
comportarsi in un ambiente molto più caotico e ambiguo, sostiene che la conoscenza e
l’apprendimento dell’uomo avvengano in maniera meno formalizzata e meno formalizzabile di
quanto sostenga il modello computazionale.
La tesi centrale del culturalismo è che, se i significati risiedono nella nostra mente, è altresì
vero che essi «hanno origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati» 44. Bruner afferma:
«[…] nello studio dell’uomo il problema non è solo quello di capire i principi causali della sua
biologia e della sua evoluzione, ma di capirli alla luce dei processi interpretativi impliciti nel fare
significato. Non tener conto delle limitazioni biologiche del funzionamento umano è peccare di
superbia. Sottovalutare il potere della cultura di plasmare la mente umana e rinunciare ad assumere
il controllo su questo potere è commettere un suicidio morale. Una psicologia ben formulata ci può
aiutare a evitare entrambi questi disastri»45.
Per Bruner il culturalismo o la psicologia culturale è il modello mentale più adatto ad
un’efficace metodologia educativa.
Dichiara Jerome Bruner: «... la conoscenza di una «persona» non ha sede esclusivamente
nella sua mente, in forma «solistica», bensì anche negli appunti che apprendiamo e consultiamo sui
nostri Notes, nel libri con brani sottolineati che sono nel nostri scaffali, nei manuali che abbiamo
imparato a consultare, nelle fonti di informazioni che abbiamo caricato nel computer, negli amici
che si possono rintracciare per richiedere un riferimento o un’informazione, e cosi via quasi
all’infinito giungere a conoscere qualcosa in questo senso è un’azione sia situata sia distribuita.
Trascurare questa natura situazionale e distribuita della conoscenza e del conoscere significa
perdere di vista non soltanto la natura culturale della conoscenza, ma anche la natura culturale del
42
Canestrari R., Psicologia generale e dello sviluppo, op., pag. 307.
J. S., La cultura dell’educazione, op. cit., pp. 233.
44
Ivi, p. 17.
45
Ivi, p. 198.
43
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processo di acquisizione della conoscenza»46.
Secondo Bruner l’apprendimento è essenzialmente attività che si svolge insieme agli altri,
attraverso le conversazioni, da confronti, da dibattiti e da discussioni (pianificate e strutturate o
anche libere) tra studenti, tra pari, tra colleghi, tra esperti e tra docenti.
L’intervento di Bruner rappresenta il tentativo di spostare la programmazione istruttiva
dall’oggettivazione dei metodi, di matrice skinneriana, alla oggettivazione dei contenuti. Quindi
quello che Bruner sostiene riguarda la struttura profonda della disciplina e non dei contenuti
specifici che non svolgono un ruolo di promozione delle operazioni mentali.
Infatti Bruner afferma che il possesso/acquisizione di una disciplina da parte dei degli
allievi, qualsiasi sia l’età si ha solo quando si acquisisce lo schema strutturale della disciplina o
meglio quando il problema della disciplina viene finalizzato alla comprensione dei principi che
sono alla base della struttura della disciplina stessa.
Il nucleo centrale che si evince riguarda la ricerca delle strutture fondamentali delle
discipline di studio. Questa impostazione rappresenta la prima importante indicazione metodologica
delle strutturalismo didattico (quindi antinozionistico).
La seguente frase di Bruner sintetizza bene la sua linea pedagogica: «L’educazione tende a
sviluppare la sensibilità e la forza della mente»47. E mentre la «sensibilità» (valori, costumi e altri
elementi della cultura di un popolo) è soddisfatta dai processi sociali cui un fanciullo partecipa, solo
l’istruzione può contribuire decisamente a migliorare i processi intellettivi che fanno dell’uomo un
innovatore, capace di adattarsi creativamente alle trasformazioni senza subirne i condizionamenti.
[...] Così, l’insegnamento dovrebbe tendere prima a far intuire la struttura fondamentale delle
discipline e poi a farne prendere consapevolezza, almeno per quello che serve a padroneggiarle
operativamente» 48.
In questa analisi il processo di apprendimento non è visto come un travaso di conoscenze dal
docente all’allievo ma è visto come un impegno attivo da parte dei discenti a costruire la propria
conoscenza; queste riflessioni determinano e rappresentano gli aspetti fondanti del costruttivismo.
46
Bruner J. S., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 104-105.
Bruner J. S., La cultura dell’educazione, op. cit.
48
Santoni R., Storia sociale dell’educazione, Principato editore, Milano 1979, pp. 698-702.
47
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