Aver cura del legame sociale Tre modalità per prendersi

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Aver cura del legame sociale
Tre modalità per prendersi cura della società e di noi stessi
di Stefano Tomelleri
Professore di Sociologia Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
Università degli Studi di Bergamo
Sommario
La vita in comune richiede una particolare cura che interroga i fondamenti del legame
sociale. Esiste un legame tra la biografia delle persone e le più ampie cornici storiche di
cui sono parte, tra i turbamenti della vita emotiva interiore e le trasformazioni degli
assetti istituzionali di una società. Questo legame richiede una cura specifica, che
trascende la volontà del singolo soggetto, perché riguarda le molteplici attività che le
persone fanno le une insieme alle altre. Nel saggio si riflette su tre modalità di prendersi
cura del legame sociale: il gioco, la collaborazione e le istituzioni.
Parole chiave
Gioco, collaborazione, istituzioni, società, legame sociale
Summary
In our social life we need to explore the basis of social bonds with particular care.
People biography is linked with the greater historical frameworks they are part of ; as
there is a link between the disruptions of internal emotional life and the changes in the
institutional set-up of a society. This link needs a specific care, which goes beyond the
single individual’s will, because it deals with the various activities people do together
with other people. In the essay three modalities to take care of the social bonds are
proposed: playing, cooperating and the institutions.
Keywords
Playing, cooperation, institutions, society, social bond.
La cura richiede una particolare attenzione soprattutto da parte delle scienze sociali.
Non è consuetudine della sociologia occuparsi di questo tema, tradizionalmente
appannaggio della filosofia (si pensi alla Sorge di Heidegger), della psicoanalisi, della
pedagogia, o magari ossessione di geni sregolati e ribelli, come Michel Foucault, Ivan
Illich o, più di recente, Peter Sloterdijk. Tuttavia esiste una specificità sociologica della
cura che vorrei mettere in luce. Essa riguarda la natura del legame sociale e le modalità
di prendersi cura della società e quindi di noi stessi. Detto in termini più tecnici, e
quindi forse meno chiari, riguarda la relazione di circolarità tra la produzione della
soggettività e la produzione delle strutture, cioè tra interazioni sociali agite qui e ora e
paesaggi mentali culturalmente condivisi; tra turbamenti interiori e mutamenti di assetti
istituzionali. In fondo la dinamica non è poi tanto diversa da quella vichiana o
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addirittura rinascimentale, che accostava in affinità e reciproca mutualità il macrocosmo
e il microcosmo. Questa circolarità sarà oggetto di riflessione rispetto a tre differenti
modalità di prendersi cura della vita in comune: il gioco, la collaborazione e le
istituzioni.
1.1
Il gioco
Esiste un rapporto specifico tra il gioco e la cura, che poggia su due pilastri
fondamentali: la gratuità, vale a dire la radicale inutilità, o se si preferisce l’insensatezza
che sta all’origine sia del gioco e che della cura; e la fiducia, ovvero il sentimento che
produce la solidarietà.
Molti autori e studiosi di comportamento umano e animale, sostengono che il gioco si
possa spiegare tramite il bisogno di acquisire o trasmettere operazioni necessarie per la
sopravvivenza, altri sostengono che la cura risponda ad esigenze evolutive (Doni,
Tomelleri, 2011). Senza dubbio questa funzione “pedagogica” ed “evolutiva” è più che
evidente, basta tener presente l’animosità con cui si partecipa ai giochi, o l’ostinazione
con cui i partecipanti cercano di vincere una partita, o cercano di decidere quale
strategia adottare nelle fasi di gioco. Oppure, basta tener presente quanto il prendersi
cura gli uni degli altri costituisca una fonte inesauribile di benessere sociale. Tuttavia
non si gioca soltanto perché è vantaggioso, o per un tornaconto di qualunque genere,
adattivo, terapeutico, formativo, economico, ecc., (Boockok, Coleman, 1966), ma per il
piacere di giocare. La stessa cosa vale per la cura. Certo, prendersi cura degli altri può
risultare vantaggioso, ma la cura genera innanzitutto un sentimento di piacevolezza
condivisa (Sennett, 2012). Questo è il punto più importante. La nostra specie ha in
comune con altri mammiferi superiori una naturale predisposizione al gioco e alla cura.
Questa “naturale predisposizione” precede ogni altro tipo di interazione. Di per sé, anzi,
non sarebbe nemmeno “naturale”. È anzi quanto di più umano vi sia, per lo meno a
partire dalle riflessioni aristoteliche sulla felicità, che è possibile soltanto nei rapporti di
amicizia. Quel che sappiamo con i sensi e l’esperienza, è che giocare, curare e farsi
curare
sono esperienze in grado di procurare piacere. Ci espongono, e questa è la
peculiarità sociologica, alla relazione sociale, anche quando non vogliamo, anche
quando non ci sentiamo pronti e recalcitriamo.
Ci espongono a gestire il piacere e il dolore del nostro essere destinati al legame sociale.
Ciò implica una solidarietà precontrattuale, una predisposizione alla fiducia tra le
persone coinvolte (Collins, 2006). E veniamo al secondo pilastro alla base del rapporto
tra il gioco e la cura, la solidarietà.
1.2
La fiducia necessaria per giocare e prendersi cura
Che cosa fa sì che, a partire da uno sguardo, vero o immaginario, nasca una relazione di
fiducia che si trasforma poi in gioco o in azione di cura? Qual è il fondamento sociale
della fiducia? Che cosa fa sorgere di volta in volta la disponibilità a fidarsi o il desiderio
di chiedere la fiducia altrui? Non possiamo affermare che tali sentimenti si presentino
immancabilmente: in determinate condizioni, anzi, sono sistematicamente repressi,
addirittura la loro rimozione è enfatizzata dal senso comune (con proverbi come “fidarsi
è bene, non fidarsi è meglio”, ecc.). Sono necessarie speciali condizioni affinché si
produca la fiducia (Garfinkel 2004). Non bisogna infatti confondere il primato analitico
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dei valori con la situazione empirica, dove di volta in volta la solidarietà in base ai
valori condivisi può essere fluttuante e temporanea. Non è detto che vi sia sempre
fiducia, nella cura, così come non è detto che il gioco risulti sempre piacevole e
“funzioni” come meccanismo di sfogo e di rinforzo dei legami (Goffman, 2009). In
questi livelli elementari dell’esperienza sociale non esistono panacee o bacchette
magiche: ci si può rifiutare di giocare o giocare in maniera ostruzionistica, ostacolando i
vari livelli di partecipazione, così come possiamo decidere di non farci curare o di non
aver cura degli altri, o magari vivere con profondo disagio il rapporto di cura che si
organizza intorno a noi. Quel che conta è considerare che il gioco e la cura nascono da
una distinzione originaria, quella che trasforma il legame effimero e istantaneo della
simpatia o dell’empatia che proviamo gli uni per gli altri in un messaggio, che in verità
è una domanda: “Ci fidiamo?”. Se così stanno le cose, i meccanismi dell’esclusione
sociale non sono l’esito di una negoziazione fallita, ma sono parte integrante della
distinzione originaria che fa emergere il legame sociale (Girard, 1999). Tutto ciò
significa che non ci sono strutture normative esterne al gioco e alla cura, in grado di
garantirne il “funzionamento”: la dimensione precontrattuale della decisione di stare nel
legame sociale non è un accessorio, ma una qualità interna, la dinamica stessa della
collaborazione.
2.1 La collaborazione
L’azione di cura richiede la collaborazione, sia come disponibilità a farsi curare sia
come partecipazione attiva al prendersi cura. L'esperienza di molti anni di ricerca ha
portato alla luce una molteplicità di forme di collaborazione attive all'interno delle
organizzazioni e grazie alle quali si realizzano le attività concrete. Nonostante le
difficoltà, le persone sono ostinatamente collaborative, anche e anzi soprattutto quando
non se ne rendono conto. La quotidianità del lavoro è intessuta di pratiche ordinarie e
reiterate, che vedono persone, afferenti a comunità professionali e strutture
organizzative differenti, coordinarsi secondo modalità prevalentemente informali, anche
alterando le regole organizzative, per raggiungere obiettivi comuni. La collaborazione è
spesso il frutto di tentativi ed errori, aggiustamenti e approssimazioni, sopralluoghi e
interrogazioni. Essa richiede una mentalità collaborativa, dove testa e mano sono
collegate (Sennett 2012, pag. 9), ovvero una proprietà del legame sociale, ancora una
volta comune a molti mammiferi superiori: “ è un comportamento riconoscibile
immediatamente negli scimpanzé che si spulciano a vicenda, nei bambini che
costruiscono un castello di sabbia, o nei cittadini che impilano sacchi di sabbia contro
un’alluvione imminente ” (Sennett, 2012, pag. 15). In questa accezione, collaborare
significa unirsi per riuscire a fare qualcosa che non si riuscirebbe a fare da soli. La
collaborazione diventa un modo per prendersi cura gli uni degli altri. Si vive giorno per
giorno quel legame emotivo che porta a una qualche meta futura, dove l’azione si
struttura per diventare sostenibile nel lungo periodo, un’azione coordinata e prolungata
nel tempo che da fiducia nel futuro.
2.2
L’homo civicus
L’unione tra le persone è frutto di un calcolo razionale o, come nel caso del gioco, è
gratuita? La questione è tuttora ampiamente dibattuta e contrappone due visioni
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antropologiche e radicalmente opposte: da un lato i sostenitori della natura altruistica e
socievole delle persone, per i quali la collaborazione non è altro che la realizzazione di
una vocazione naturale (Cassano 2004, Cesareo, Vaccarini, 2006 ); dall’altro, chi
riconosce l’egoismo e la competitività come proprietà fondamentali dell’agire umane,
per cui la collaborazione non può che essere frutto di una decisione strategica finalizzata
al raggiungimento di un qualche fine al di là della portata del singolo (Ripamonti,
2011). Il dibattito ha una storia più che secolare, dal filosofo seicentesco Thomas
Hobbes all'economista Gary Becker, allievo di Milton Freedman, passando per Darwin
e Freud. Tuttavia la questione è ben lungi dall’essere dipanata una volta per tutte. Ad
entrambe le fazioni non mancano le argomentazioni per contrastare le tesi della parte
avversa, alimentando due visioni dell'essere umano che possiamo condensare in due
immagini: da un lato l’homo oeconomicus e dell'altro l’homo civicus. I seguaci della
teoria dell’homo oeconomicus inaugurata da Adam Smith sul finire del XVIII secolo e
rivisitata recentemente dagli economisti della scuola neoclassica, ritengono che gli
individui agiscano sempre e necessariamente all'interno di un mercato (quindi regolato
da norme di tipo commerciale) e che individui ed istituzioni tendano sempre ad attuare
comportamenti di tipo ottimizzante, al fine di massimizzare l'utile personale (Cesareo,
Vaccarini, 2006). Secondo questa prospettiva, quindi, la collaborazione compare nel
momento in cui uno o più attori sociali individuano in tale comportamento una qualche
sorta di vantaggio strategico rispetto agli attori concorrenti presenti sul mercato.
Numerose sono state le critiche a questo tipo di approccio. La principale riguarda il tipo
di razionalità implicata nelle teorie di matrice economica. Tali teorie assumono infatti
che gli attori siano in grado di valutare razionalmente tutte i fattori implicati nelle
decisioni economiche. Ciò sembra tuttavia contrastare con la crescente complessità dei
processi decisionali e con quella che Herbert Simon (1955) ha definito razionalità
limitata. Secondo l'economista e psicologo americano, infatti, gli esseri umani non sono
costituzionalmente in grado di massimizzare gli utili nelle decisioni poiché sono
impossibilitati a raccogliere ed elaborare tutte le informazioni che sarebbero necessarie
a tale fine.
Sul fronte dell’homo civicus, invece, alcuni autori, tra i quali il sociologo Titmuss e lo
stesso Sennett, ritengono che l’essere umano agisca sulla base di una necessità empatica
che lo spinge verso la convergenza dell'agire con l'agire altrui. In questa prospettiva
diviene rilevante anche il modello culturale di riferimento e, in particolare, il ruolo
giocato dalle istituzioni nel sollecitare comportamenti più o meno collaborativi ed
altruistici. Titmuss (1970) comparando il comportamento dei donatori di sangue in due
contesti socioculturali distinti (gli USA, in cui la donazione avviene secondo modalità
privatistiche e commerciali e il Regno Unito, in cui avviene su basi volontaristiche e
altruistiche), ritiene che le istituzioni abbiamo una influenza rilevante nell'influenzare il
profilo tendenzialmente egoistico o altruistico di una persona in una determinata società.
In tale prospettiva si viene a superare la tradizionale separazione tra natura e cultura in
nome di una convergenza tra la base antropologica e la specifica cultura locale. Va in
ogni caso messo in evidenza che l’aspetto “civico” della natura umana, la capacità
quindi di intessere legami significativi come cifra distintiva della nostra specie, sia in
intima corrispondenza con la capacità di giocare: non vi è nessun homo civicus,
insomma, dove non vi sia nessun homo ludens (Huizinga, 1946). Il che, ma non è questa
la sede, vale anche nelle fasi di decadenza: la patologia sociale che chiamiamo crisi,
oggi, si riflette per esempio nella diffusione capillare di ludopatie più o meno acute,
giochi d’azzardo e scommesse illecite che si amplificano come metastasi un po’
ovunque.
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3.1 Le istituzioni
Le istituzioni influenzano dunque le persone nel loro campo d’azione. Ma come lo
fanno? La sociologia ha dimostrato, da punti di vista teorici e metodologici differenti,
che le istituzioni sono modelli che legano insieme le persone nelle loro qualità di
occupanti varie posizioni, primariamente in termini di rapporti di potere, ma anche in
base alla vicinanza o distanza spaziale tra chi è coinvolto (Barbalet 1998; Cattarinussi
2006). Nella vita quotidiana ogni istituzione appare come un insieme di persone che
svolge una certa attività in un dato luogo, ma ciò che trasforma i comportamenti di un
uomo o una donna, spesso in modo inconsapevole, sono quelle più ampie cornici
simboliche e valoriali, che, in considerevole misura, sono più sentite che pensate. Le
istituzioni influenzano le persone perché coinvolgono le emozioni che esse provano in
una specifica situazione.
Il rapporto tra emozioni e istituzioni trasforma, in modelli comportamentali certi e
socialmente condivisi, la varietà indeterminata dell’agire sociale, ma soprattutto la
varietà della risonanza emotiva in fieri, fatta di aspetti fisici di una data situazione e dal
modo in cui gli scenari fisici, le parole e i gesti, evocano antichi simboli del potere e dei
possibili legami di appartenenza tra le persone che interagiscono (Turnaturi 2012).
Le istituzioni sono un artefatto dell’attività cognitiva ed emotiva degli uomini, e al
tempo stesso una struttura più ampia, che trascende la storia preesistente alla sua
realizzazione. Le istituzioni regolano la vita affettiva di uomini e donne in quanto
coinvolgono la dimensione processuale delle relazioni umane, secondo una logica di
mutua specificazione.
3.2
La mutua specificazione tra emozioni e istituzioni
La nozione di mutua specificazione rinvia agli studi dei processi di autonomia biologica
di Francisco Varela (1979). La mutua specificazione è una relazione tra dualità opposte
(essere/divenire, autonomia/controllo, natura/cultura) che si basa su una logica di
complementarità autoreferenziale e processuale secondo una precisa gerarchia di livelli
logici: un livello delle singole polarità e un secondo livello del processo di interazione
tra le polarità. Varela distingue la relazione di mutua specificazione da una relazione
dialettica di tipo classico. Il paradigma della dialettica classica si basa su un modello di
relazione di sintesi tra polarità opposte, secondo il principio di non contraddizione tra i
termini della relazione: ad esempio, la condizione di aut aut tra A e non A.
Diversamente, la nozione di mutua specificazione indica un rapporto di
complementarità circolare tra le componenti di un sistema. Secondo Varela, il rapporto
di mutua specificazione è adeguatamente rappresentato da un’implicazione
(imbrication) reciproca di livelli logici distinti, dove un termine della relazione emerge
(emerges) dall’altro. Ad esempio, la relazione preda/cacciatore in un sistema naturale
non opera con l’esclusione di uno dei due termini, ma genera un’unità a un livello
superiore, un dominio ecosistemico autonomo, dove ci sono complementarietà,
stabilizzazione e interazione reciproca.
Si tratta di due livelli logici distinti che si implicano a vicenda. Senza modelli condivisi
che regolano i rapporti sociali e di potere, non esisterebbe un modo per concordare o
meno su ciò che le persone provano o vivono in una data situazione. Le persone
definiscono realmente il loro campo d’azione usando semplicemente il linguaggio
ordinario di senso comune, ma non è necessario che prestino molta attenzione alla
precisa definizione di che cosa sta accadendo, purché vada tutto liscio, poiché possono
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dare per scontato che anche gli altri condividono, soprattutto su un piano emotivo, gli
stessi modelli di interpretazione della situazione (Manghi, 2000).
Il linguaggio ordinario delle emozioni non si riferisce perciò a dati oggettivi e obiettivi,
ma rappresenta degli indicatori di frames o re-frames, cioè di cornici interpretative
emotivamente significative, destinate a regolare i rapporti con gli altri: indicano
deferenza, accusa, accettazione, esclusione, e così via. Il fatto è che le persone mentre
seducono, convincono, accolgono, oppure umiliano chi sta loro intorno, quando cioè
stanno provando un’emozione, definiscono inevitabilmente anche un rapporto
gerarchico e di potere (orizzontale, verticale o più complesso) con le persone con cui
interagiscono (Dumouchel 2008). Il nesso tra emozioni ed istituzioni pone dunque la
questione del potere e della sua legittimità, non solo cognitiva, ma soprattutto emotiva.
3.3
Il fondamento delle istituzioni: il carisma
Tra gli studiosi delle scienze sociali è stato Max Weber, con la sua teoria politica, a
individuare e argomentare le basi emotive del potere e della sua legittimità. Tre sono i
motivi per i quali a un potere, secondo Weber, viene attribuito il carattere di legittimità:
la tradizione, l’affetto e la razionalità finalistica (Wertrationalität). Il problema è se sia
possibile trovare un’indicazione di un concetto più generale, unificante, in modo che i
tre elementi della motivazione connessi alla legittimità possano essere collegati tra loro.
Un principio di questo genere sarebbe presente nel concetto di carisma. Weber ha
riconosciuto non solo le diverse forme del potere e le differenti motivazioni che
legittimano una forma di potere, ma anche un unico principio unificatore. Ogni forma di
potere politico, religioso ed economico troverebbe la propria profonda legittimazione
nel carisma, ovvero nel legame emotivo tra dominatori e dominati. Weber ha
evidenziato come il riconoscimento, da parte dei dominati, dell’autorità dei dominatori
sia costitutivo anche del potere politico. Non solo nel caso particolare del carisma,
infatti, il potere politico si avvale del riconoscimento spontaneo da parte dei “ seguaci ”.
In generale, per Weber, come ha dimostrato Talcott Parsons in La struttura dell’azione
sociale del 1937, il principio unificatore di tutte le più diverse ragioni che legittimano
un’autorità è da ricercare nella forma del carisma, che si sintetizza nel principio di un
riconoscimento emotivamente fondato. Nessuna forma del potere (politico o sociale)
trascende i rapporti di reciprocità degli uomini senza che quelli che sono tenuti ad
obbedire riconoscano la legittimità ai dominatori di trascenderli. Le persone
attribuiscono alle istituzioni e alle altre persone che rivestono determinate posizioni
sociali un dato potere perché sentono di potersi affidare a loro. Tale affidamento è il
riconoscimento della legittimità del potere alla base di ogni istituzione.
3.4
La difesa delle istituzioni e la cura di noi stessi
Le persone affidano parte della loro vita alle istituzioni, che costituiscono quel punto
fermo nella vita di uomini e donne all’interno del flusso comunicativo ininterrotto che
chiamiamo società, attorno al quale si consolidano i legami sociali. Dall’altra parte, le
nostre emozioni, attraverso il continuo e incessante confronto con gli altri esseri umani,
possono condurre tanto alla conferma quanto alla scomunica o alla trasformazione delle
istituzioni.
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Il rapporto tra istituzioni e interazioni affettive rinvia alla logica circolare di un processo
dove le emozioni (il carisma, la fiducia, ecc.) sono la linfa generativa delle istituzioni,
che a loro volta svolgono il compito di dare un orientamento futuro stabile alle
emozioni altrimenti fluide e indeterminate.
La dimensione strutturante delle istituzioni non rinvia qui ad un’idea di struttura come
guida dell’agire degli uomini da un punto di vista esterno rispetto alle loro interazioni,
bensì rimanda a un’idea di struttura come parte del processo che contribuisce alla
strutturazione delle interazioni (Doni, Tomelleri, 2011). In altre parole, le istituzioni si
generano e si alimentano di ciò che tendono a contenere, nel doppio significato di
arginare e includere, ovvero di frenare e portare dentro di sé; esse si generano e si
alimentano di quell’incertezza delle interazioni umane che è tutt’uno con la condizione
di reciprocità della nostra vita affettiva. Le persone sentono di provare qualcosa in una
trama di rapporti reciproci mediati da modelli istituzionali socialmente riconosciuti e
condivisi (Tomelleri, 2004; Fuller, 2006).
Esiste dunque un rapporto di mutua specificazione tra i fondamenti del potere, le
istituzioni e le emozioni, che dipende dai modi che le persone hanno di prendersi cura
delle istituzioni di cui sono parte attiva. L’immagine socialmente diffusa di istituzioni,
instabili, incerte, lontane dalla vita quotidiana dei cittadini ha implicazioni anche nella
vita affettiva delle persone: sul loro modo di immaginare il futuro, il lavoro, il
matrimonio, la genitorialità, e così via (Tomelleri, 2009) .
Nella società italiana, le istituzioni stanno attraversando una crisi di legittimità (Magatti
2012). Le cause sono molteplici di matrice storica ed economica. Ad esse si sono
aggiunte, più recentemente, le condotte di certa classe dirigente avida di potere e
denaro, di governanti corrotti e di cittadini evasori. È un sentimento diffuso
nell’opinione pubblica italiana che siano stati ormai minati i fondamenti della legittimità
delle istituzioni, altamente differenziate in sistemi sociali autonomi e autoreferenziali
(economici, scientifici, religiosi, politici, famigliari). Le istituzioni hanno assunto
specificità parziali all’interno di una società segmentata e settoriale, dove in particolare
le singole istituzioni politiche, stato, associazioni sindacali, partiti politici,
organizzazioni di categoria hanno concreti problemi di rappresentanza della società
italiana.
A questo pericolo si può guardare in modi diversi, con indifferenza oppure con
interesse. L’analisi del rapporto tra emozioni e istituzioni qui abbozzata, concentra
l’attenzione sulla gravità e sulla tragicità di un simile fallimento. Le persone stanno
infatti vivendo, in modo largamente inconsapevole, una questione antropologica e
sociologica di importanza cruciale: la necessità di prendersi cura delle istituzioni di cui
sono parte. L’assenza di modelli socialmente condivisi, di valori, simboli del potere,
idee e credenze, espone le persone ad un’incertezza radicale, perché rende difficile la
condivisione di un criterio comune per mettersi d’accordo. L’incertezza si trasforma ben
presto in paura, perché ogni persona, in assenza di modelli condivisi, si sente legittimata
a rivendicare il proprio diritto individuale o vantaggio relativo, in quel gioco di rilanci
del desiderio umano, spesso propenso alla competizione, alla rivalità, al desiderio di
potere e di sopraffazione.
In conclusione: aver cura della società per essere generativi
La pluralità di intelligenze, conoscenze, saperi, relazioni, progetti, creatività che sono
presenti in ogni contesto sociale in quanto tempo e spazio della soggettività necessitano
per essere generative di coordinarsi nel lungo periodo. Il processo di generazione di
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valore è oggi alimentato soprattutto dal basso, attraverso l’iniziativa di singoli o di
gruppi (Magatti, 2012). Tuttavia questa capacità di intrapresa, di innovazione, di
promozione di idee, sotto forma di sperimentazioni, rischia spesso di restare
frammentata, di non generare fiducia nel futuro, di rimanere dispersa, troppo lontana
dalle istituzioni per attivare un cambiamento. Di qui la necessità di prendersi cura delle
istituzioni di cui siamo parte, cercando nella mentalità collaborativa e nello spirito
ludico, quelle azioni sociali in grado di connettere e ricomporre gli attori interessati alla
generazione di valore (economico, istituzionale, relazionale, sociale).
Bibliografia
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