1 Vertici / Quando l’Italietta faceva grande politica 1909: la strada per Tripoli passa per Racconigi E’ stato anche l’accordo italo-russo del 24 ottobre 1909 ad avviare l’Italia di Giolitti verso l’avventura coloniale in Libia nel 1911. Nell’antico castello sabaudo nel cuneese, lo zar Nicola II e Vittorio Emanuele III fissarono una linea comune per i Balcani e il Mediterraneo decretando di fatto l’ingresso dell’Italia, unita da meno cinquant’anni, tra le grandi potenze dell’epoca… Di Aldo A. Mola La cosiddetta “Italietta” di Giovanni Giolitti fu la stagione migliore anche per la politica estera del Regno d’Italia, sorto appena mezzo secolo prima. Anzi, proprio il 1911, l’anno del cinquantenario, fu coronato dalla dichiarazione della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica. La grande svolta iniziò due anni prima. Venne suggellata il 24 ottobre 1909 a Racconigi, in provincia di Cuneo, con lo “scambio di lettere” tra il ministro degli Esteri dell’Italia, Tommaso Tittoni, e quello dell’Impero di Russia, Alexander Petrowitsch Iswolsky. L’“accordo” non fu né un trattato né un patto. Volle avere e tenne un basso profilo, perché le tensioni tra le grandi potenze crescevano di giorno in giorno: tutti sapevano e sospettavano di tutti. Un atto formale di livello superiore avrebbe innescato reazioni a catena. Eppure, malgrado il tono apparentemente dimesso, quell’ accordo disse che l’Italia passava da spettatrice a protagonista della Grande Politica. Dal 1882 il regno d’Italia era legato dall’alleanza difensiva con gl’Imperi di Germania e di Austria-Ungheria, la cosiddetta “Triplice alleanza”, stipulata dopo che la Francia aveva imposto il proprio protettorato sulla Tunisia (trattato del Bardo,1881), fino a quel momento principale approdo di emigranti italiani per lavoro. La Triplice s’intrecciò da un lato con il Trattato fra i tre imperatori (Russia, Germania e Austria), nato per garantire la stabilità dell’Europa centro-orientale ma logorato dalla competizione tra Vienna e San Pietroburgo; e dall’altro con patti bilaterali tra singole potenze della Triplice e altri Stati, incluso quello tra l’Italia e la Gran Bretagna, che controllava il Mediterraneo da Gibilterra a Malta, Cipro e l’Egitto e bilanciava l’espansione imperialistica francese. Dal 1907 l’“Intesa cordiale” tra Gran Bretagna e Francia e quella tra Russia e Inghilterra sulla ripartizione delle zone d’influenza in Asia (specialmente sull’Afghanistan) riportò in primo piano i vecchi nodi della crisi europea. Con azioni aggressive e accordi segreti Francia, Gran Bretagna e Spagna (recentemente umiliata dalla perdita di Cuba e delle Filippine ma niente affatto rassegnata a scomparire dal novero delle potenze almeno di seconda fila), si spartivano la costa africana da Gibilterra a Suez. Non rimaneva che un tratto di costa: quello della Tripolitania e della Cirenaica, soggette all’Impero turco. Nel 1908 Vienna incorporò Bosnia ed Erzegovina (che già amministrava dalla pace di Santo Stefano, all’indomani della atroce guerra russo-ottomana, memorabile per gli orrori che la contrassegnarono). Secondo i neonati nazionalisti italiani l’annessione aveva violato l’articolo 25 del trattato di Berlino e avrebbe comportato “compensi” a risarcimento dell’Italia. Il governo di Roma, presieduto dal sessantaseienne Giovanni Giolitti con 2 Tommaso Tittoni ministro degli Esteri, condivise invece la valutazione delle altre capitali: incorporando le due regioni Vienna non aveva fatto altro che dare veste formale alla realtà. Dinnanzi all’annessione (niente affatto caduta dal cielo, bensì annunciata da un fittissimo scambio diplomatico), come in tutti i casi analoghi (e anche per molto meno) Gran Bretagna e Francia “protestarono”. Dietro Vienna tutti sapevano che vi era Berlino. La Russia invece non nascose la profonda irritazione nei confronti dell’Austria. Ai suoi occhi l’annessione costituiva una minaccia nei confronti del regno di Serbia, gli “slavi del sud”, quasi parte ideale (oltre che etnica) delle Russie. L’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina ebbe due altri risvolti. Francesco Giuseppe era imperatore d’Austria ormai da sessant’anni. In tutte le sue versioni (napoleonica, repubblicana, socialisteggiante, nazionalista,...) la Francia aveva sempre combattuto l’Impero asburgico. Il duello risaliva al Cinquecento, alle celebri battaglie tra Francesco I e l’Imperatore Carlo V. In odio a Vienna Luigi XIV aveva favorito persino i turchi. Improvvisamente, proprio quando tutti ne attendevano la morte, il vecchio imperatore ampliò i confini. La Bosnia e l’Erzegovina non erano certo il Lombardo-Veneto, però... erano anch’esse un altro passo della “marcia verso Oriente”. Inoltre fu chiaro il declino dell’Impero turco-ottomano. La Sublime Porta era preda di errori e contraddizioni. La sua debolezza era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno aveva fretta che crollasse nel timore che ne nascesse una guerra europea. Anzi, il movimento dei “giovani turchi” venne appoggiato da chi all’estero puntava a consolidare Costantinopoli fingendo di credere che essi fossero fautori di modernità, mentre avevano obiettivi militari ed erano pronti (come subito si vide) a sterminare le minoranze riottose (anzitutto armeni e curdi). In quello scenario nacque la svolta dell’ottobre 1909. Dopo accurata preparazione diplomatica, lo zar “Nicolò” II Romanov (come all’epoca era detto in italiano) arrivò in Italia. Non si recò nella Città di Pio X, che il Patriarca di Mosca non riconosceva né riconosce quale capo della cristianità, né in altre città emblematiche, quali Venezia o Bari. Per la sua visita, anche per motivi di sicurezza, venne scelta Racconigi o, più esattamente, il Castello Reale, a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria. Lo Zar vi arrivò in treno dalla Francia, percorrendo la linea Modane-Torino il 23 ottobre e ne ripartì due giorni dopo. Giolitti, che era anche ministro dell’Interno come in tutti precedenti e successivi governi nel trentennio 1892-1921, ottenne il capolavoro: i binari e ogni metro del percorso come della chilometrica cinta del Castello furono sorvegliati a vista ventiquattrore su ventiquattro ma nella forma più discreta. Lo Zar doveva sentirsi “ a casa”. E come a San Pietroburgo o a Mosca o in ogni sua residenza sapeva di essere sempre bersaglio di possibili attentati mortali, ma al tempo stesso doveva mostrarsi sereno e sicuro. Suo sonno, Alessandro II era stato dilaniato da una bomba che ne aveva fatto esplodere il corpo sotto gli occhi del figlio, Alessandro III. Innumerevoli erano stati i tentativi di assassinarlo dall’ascesa al trono. Ma anche Vittorio Emanuele III non passava certo giorni tranquilli. Suo padre, Umberto I, era stato ucciso a revolverate da Gaetano Bresci il 29 luglio 1900. Per il caldo afoso non aveva indossato la maglia corazzata che gli veniva imposta come protezione. Anche il quarantenne re italiano sapeva che prima o poi poteva giungere la sua ora. Anarchici, massimalisti, repubblicani devoti alla memoria di Guglielmo Oberdan e anche clericali fanatici costituivano una minaccia continua, come si vide con l’attentato di Antonio D’Alba il 14 marzo 1912. Le carte della Real Casa (in massima parte tuttora inesplorate) documentano che la sicurezza del sovrano era garantita solo dalla quotidiana stretta vigilanza: vulnerabile però con un re che guidava di persona l’autovettura per le vie di Roma, incontrava affabilmente contadini e montanari e s’intratteneva a colloquio con chiunque nelle sue innumerevoli visite alle centinaia di comuni grandi e piccoli, a mostre, 3 congressi, sagre... Tra il 23 e il 25 ottobre 1905 l’incontro di Racconigi filò liscio. Al suo termine Giolitti tirò un grande sospiro di sollievo e ne scrisse i resoconto alla moglie, Rosa Sobrero, “Gina”, in lettere tuttora inedite. Il 24 ottobre 1909, i ministri degli Esteri Tittoni e Iswolsky si scambiarono “lettere” che segnarono la svolta: Italia e Russia si sarebbero consultate sulla sorte dei Balcani. L’accordo di Racconigi non cancellò la Triplice ma ne precisò i contorni. Il tramonto della Sublime Porta di Costantinopoli non doveva danneggiare né San Pietroburgo né le legittime aspirazioni italiane alla libertà nell’Adriatico e alla sua pacifica espansione sull’ “altra riva”, a cominciare da Albania e Montenegro. Alla base degli accordi di Racconigi vi furono gl’interessi oggettivi permanenti di due potenze e dei rispettivi popoli e soprattutto la personalità dei sovrani. Vittorio Emanuele III conosceva Nicola II dal 1896. Aveva sposato Elena di Montenegro, che si era formata proprio a San Pietroburgo. Nel 1902 in una visita di Stato all’Impero Russo il re d’Italia aveva posto le premesse per nuovi scenari. Nell’occasione conferì il Collare dell’Annunziata, che comportava il rango di “cugino del re”, a diversi granduchi e principi russi: Giorgio, Giorgio Romanowsky, Costantino, Alessandro, Dimitri... A Racconigi Nicola II non portò con sé la zarina, Alice di Assia. Perciò nella foto ricordo a fianco della regina sedette la contessa Guicciardini. Forse per vincere l’emozione, al primo scatto la contessa non seppe trattenere una vera e propria risata. Perciò tutti dovettero rimettersi in posa: Vittorio Emanuele III con il cappello a larghe tese sulle gambette e i piedi incrociati, lo Zar, rabbuiato, con un cappello di pelliccia nella destra e la sinistra sul ginocchio, la regina Elena con l’occhio appena sorridente volto quasi a controllare la Guicciardini, serissima. Tra le due file di personalità accalcate alle spalle dei Reali v’era anche il generale Vittorio Asinari di Bernezzo. Aveva combattuto gli austriaci nella Terza guerra d’indipendenza (1866) e vi era stato gravemente ferito. Era un militare all’antica. Due settimane dopo, l’11 novembre 1912, il “vecchio e valoroso soldato” (come di lui scrisse Vittorio Emanuele III per sottrarlo a Giolitti) pronunciò un breve discorso nella sala convegni della caserma di artiglieria di Brescia. Disse di immaginare il Re che dal Gran Sasso sventolando il tricolore volgeva lo sguardo ad oriente dove tante città sorelle guardavano “desiose” al Leone di San Marco aspettando la loro liberazione. Non inventava nulla. Erano i versi di una famosa poesia di Giosue Carducci. Ma pronunciate in quella sede e proprio all’indomani dell’incontro di Racconigi quelle parole andavano oltre l’irredentismo. Suonavano come vera e propria dichiarazione di guerra contro l’Austria-Ungheria. Il presidente del Consiglio chiese l’immediato collocamento a riposo dell’ufficiale. Il Re tergiversò ma nel volgere di poche ore si adeguò. L’Italia stava facendo Grande Politica. Per capirlo basta scorrere l’elenco dei Collari dell’Annunziata conferiti in quei mesi: Kuni Kuniyoshi e Fushimi Hiroyasu, principi del Giappone; Zaifeng, reggente dell’Impero di Cina; lo stesso Fallières presidente della repubblica di Francia; Alessio, Granduca ereditario di Russia... Il 25 settembre fu la volta del principe del Siam, Somdet Chao Phra. Non tutti si riconoscevano nella Santissima Annunziata. Tutti però vedevano la potenza dell’Italia che mezzo secolo dopo l’unità, forte anche dell’accordo di Racconigi, compì il grande balzo sulla Quarta Sponda e proclamò la propria sovranità sulla Libia. Fu il capolavoro di Giolitti. Il 24 ottobre 1909 a Racconigi il Vecchio Piemonte offrì quinte solenni per la Grande Storia. Era la terra di Joseph de Maistre, autore delle “Serate di San Pietroburgo”, di Cesare Balbo, di Silvio Pellico e molti altri che, con Alessandro Manzoni, a lungo hanno additato l’unità dei cristiani quale fondamento dell’Europa, dall’Atlantico agli Urali: il loro era un cristianesimo nutrito di pensiero greco-latino e ormai conciliato con i Lumi, con il liberalismo e la democrazia. Il centenario dell’incontro di Racconigi è passato quasi inosservato. Eppure Mosca ha siglato 4 con patti d’importanza storica con le due Rome, sia la capitale dello Stato sia la Città del Vaticano. Se ne vedranno i frutti nel volgere del tempo. Lo stesso silenzio avvolge l’imminente centenario dell’impresa di Libia (settembre 2011), offuscato dalla chiacchiere dispersive sul 150° della nascita del Regno d’Italia. Aldo A. Mola [email protected] Mettiamolo in una dida: (*) Importanti documenti inediti sulla politica estera dei governi italiani del primo Novecento sono in Giovanni Giolitti, Il Carteggio (1877-1928), a cura di Aldo A. Mola e Aldo G. Ricci, Foggia, Bastogi, tomi 2 (2009-2010), pp.1056-1040. Fondamentale è il saggio di GianPaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. BOX L’ACCORDO DI RACCONIGI – 24 ottobre 1909 I ministri degli Esteri Tommaso Tittoni e Iswolsky si scambiarono un documento nel quale si legge che: 1- La Russia e l’Italia devono adoprarsi in primo luogo al mantenimento dello statu quo nella Penisola dei Balcani. 2- Per ogni eventualità che potesse nascere nei Balcani, esse appoggeranno il principio di nazionalità, mediante lo sviluppo degli Stati Balcanici, ad esclusione di ogni dominio straniero. 3- Le due potenze si opporranno, agendo di conserva, ad ogni azione contraria ai fini espressi; per ‘azione comune’ si intenderà un’azione diplomatica, ogni azione d’indole diversa dovendo naturalmente restare riservata ad un’intesa ulteriore. 4- Se la Russia e l’Italia intendessero stipulare per l’Oriente europeo nuovi accordi con una terza potenza, oltre quelli attualmente esistenti, ognuna di esse non potrà farlo che con la partecipazione dell’altra. 5- L’Italia e la Russia si impegnano a considerare con benevolenza l’una gli interessi russi nella questione degli Stretti, l’altra gli interessi italiani in Tripolitania e Cirenaica”. L’importanza dell’accordo fu chiara negli anni immediatamente successivi: dall’impresa di Libia alla scelta della neutralità dell’Italia allo scoppio della Grande Guerra. Esso non conteneva il passaggio dalla Triplice Alleanza all’intervento, poi voluto da Salandra e 5 Sonnino senza una fondata previsione della durata del conflitto e delle sue possibili conseguenze. (A.A.M.)