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2016/1
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
ISSN 2240-7243
€ 72,00 (abbonamento)
G. Giappichelli Editore
Rivista trimestrale - I - 2016
2016/1
Immigrazione,
diritto alle relazioni familiari
e tutela dei soggetti deboli
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VARIAZIONI SU TEMI
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con la presentazione di opinioni differenti, invitando autori di diversi orientamenti a scrivere sul medesimo
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all’inquadramento teorico e alle implicazioni operative e con la considerazione della discussione presente
nella giurisprudenza, soprattutto di merito. La seconda sezione, più sintetica e breve, tratterà temi estranei
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SOMMARIO
2
Editoriale
Giulia Sarnari
Focus
4
16
25
35
41
51
61
68
76
84
I familiari dei cittadini dell’Unione europea: inquadramento generale del tema
Elisa Chiaretto
I familiari dei cittadini dell’Unione europea: le principali questioni che si pongono nella
pratica
Giulia Perin
Cittadini stranieri e diritto alla residenza
Anna Brambilla
Cosa cambia con la nuova legge sulla cittadinanza?
Bruno Barel
I procedimenti per il riconoscimento dell’apolidia
Marinella Corsaro
L’abuso dei negozi familiari nel diritto dell’immigrazione
Paolo Morozzo della Rocca
La resilienza delle donne migranti e il coraggio del loro espatrio
Federica Panizzo
Stranieri minorenni: dispositivi normativi ed intensità delle tutele
Claudio Cottatellucci
Minori stranieri non accompagnati: difficoltà e prospettive di accoglienza
Gabriella de Strobel
Danno alla persona, danno da morte e diritto al risarcimento del danno del familiare
straniero
Roberta S. Bonini
© Copyright 1995 - AIAF
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI
AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
Trimestrale – reg. Trib. Milano 24 settembre 2013, n. 288
G. Giappichelli Editore - 10124 Torino
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ISSN 2240-7243
Anno XX, n. 1
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Finito di stampare nel mese di aprile 2016
Direttore Responsabile
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Redazione
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1
AIAF RIVISTA 2016/1
EDITORIALE
Giulia Sarnari
Avvocato in Roma
L’esigenza di riconoscere e tutelare con sempre maggior estensione e concretezza il diritto di
ogni individuo ad avviare liberamente le proprie relazioni familiari e a mantenerle in concreto,
fa i conti con l’aumento dei flussi migratori, fenomeno che pone all’attenzione dei giuristi una
congerie di fattispecie che evidenziano come non sempre colui che “liberamente circola” nello
spazio europeo riesca a realizzare anche il diritto di avere con sé i propri familiari. L’ Avv. Elisa
Chiaretto e l’Avv. Giulia Perin trattano entrambe, sotto profili diversi, dei diritti dei familiari
dei cittadini dell’Unione europea, l’Avv. Anna Brambilla affronta il tema del diritto alla residenza del cittadino straniero in Italia, evidenziando come la iscrizione anagrafica nelle liste della
popolazione residente sia il presupposto per un “buon vivere” la vita privata e la relazione familiare, perché consente l’esercizio di molti diritti civili e politici e l’accesso anche a molte prestazioni sociali, mentre il Prof. Bruno Barel esamina il disegno di legge sull’acquisto della cittadinanza, per il quale vi è grande attesa; unitamente alla trattazione del diritto alla cittadinanza,
non poteva mancare un approfondimento sul tema del riconoscimento dello status di apolide,
che l’Avv. Marinella Corsaro sviluppa nel suo articolo, con riguardo anche agli aspetti procedurali. Tali autori ci offrono un puntuale inquadramento del diritto di un soggetto straniero nel
poter stare nel nostro paese in ragione di un vincolo familiare, ma il Prof. Paolo Morozzo della
Rocca pone l’attenzione sul fatto che la costituzione dei negozi che determinano lo status familiare può essere, al pari di altri negozi giuridici, anche oggetto di simulazione, oppure configurarsi come costituzione di negozi “di comodo”, esclusivamente preordinati a scopi estranei alla
“causa familiare”, e come la imminente introduzione anche nell’ordinamento giuridico italiano
delle cosiddette unioni civili – nonché delle “altre convivenze” registrate – “suggerisca una riflessione sulle possibilità di abuso delle medesime a fini immigratori”.
Poiché il momento storico che stiamo vivendo è caratterizzato da una sempre più corposa presenza di donne e minori migranti, come evidenzia l’Avv. Federica Panizzo, in questo numero
della rivista non poteva mancare anche una riflessione dedicata alla evoluzione della disciplina
giuridica di protezione che riguarda le donne e i minori.
L’Avv. Panizzo tratta della «resilienza delle donne migranti e del coraggio del loro espatrio»,
delle garanzie internazionali dello status delle donne migranti e della loro tutela nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mentre l’Avv. Gabriella De Strobel inquadra nel dettaglio la drammatica questione dei minori non accompagnati presenti in maniera
crescente nel nostro paese. Il Dott. Claudio Cottatellucci che ricompone sul punto il c.d. dialogo tra le Corti (che «consente di comprendere come si sia andato riconfigurando il sistema
normativo in materia di immigrazione in maniera crescente nell’ultimo decennio: la circolazio2
EDITORIALE
ne degli argomenti giuridici tra le Corti ed un circuito di mutua alimentazione tra legislatore,
almeno certamente quello europeo, e Corti, contribuiscono a delineare uno scenario assolutamente nuovo rispetto al passato, ben più ampio dei confini nazionali), affronta anche la sensibile questione della espulsione del minore straniero in applicazione dell’art. 31, d.lgs. n.
286/1998, unica tra le disposizioni contenute nel Titolo IV del suddetto corpo normativo che
ha conservato la formulazione originaria, non toccato né dagli interventi del legislatore, né dal
giudice delle leggi.
La Dott. Roberta S. Bonini, affronta, infine, la tematica del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno allo straniero e al familiare dello straniero, quale diritto fondamentale dell’uomo che, in quanto tale, non può essere più sottoposto alla condizione di reciprocità inoltre
illustra come nell’ambito delle controversie risarcitorie per violazione di diritti fondamentali,
anche con riguardo alla effettiva liquidazione del quantum, la Suprema Corte garantisca allo straniero la stessa tutela accordata al cittadino italiano.
3
AIAF RIVISTA 2016/1
I FAMILIARI DEI CITTADINI DELL’UNIONE EUROPEA: INQUADRAMENTO
GENERALE DEL TEMA
Elisa Chiaretto
Avvocato in Padova
Professore a contratto di diritto dell’Unione europea presso Università degli Studi di Padova
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo di riferimento. – 3. Il diritto del cittadino di un paese terzo a
risiedere nell’Unione europea in quanto familiare di cittadino dell’Unione. – 4. La categoria degli “altri” familiari. –
5. (Segue). Il minore affidato con kafalah al cittadino italiano (o dell’Unione europea). – 6. Il diritto “derivato” al soggiorno dei familiari di un cittadino dell’Unione. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Uno dei criteri per misurare la strada compiuta verso l’integrazione europea o, per meglio dire,
per valutare la qualità e l’intensità dell’integrazione realizzata, è, senza dubbio, quello della libera circolazione delle persone che agiscono nello spazio nel quale tale processo si realizza.
Del resto, la stessa nozione di mercato comune – l’entità dalla quale prende le mosse il processo integrativo in questione – implica la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione dei fattori della produzione, incluse le persone dedite ad un’attività economica.
Al fine di realizzare tale obiettivo, ai sensi dell’art. 3, lett. c) del Trattato istitutivo della Comunità europea 1, l’azione della Comunità comportava «l’eliminazione, tra gli Stati membri, degli
ostacoli alla libera circolazione ... delle persone».
Progressivamente si è aperta la possibilità di utilizzare lo spazio comune non solo per l’esercizio
di attività economiche, ma indipendentemente dallo svolgimento di una attività lavorativa anche per la realizzazione di fini personali che trascendono questa dimensione materiale. Punto
di arrivo di tale evoluzione è stato l’accoglimento nello stesso Trattato CE della nozione di cittadinanza dell’Unione europea alla quale si ricollega la libertà di circolazione (artt. 20 e 21
TFUE).
È evidente però che per rendere effettiva la libertà di circolazione enunciata nel Trattato era
necessario prevedere specifici strumenti volti a rimuovere gli ostacoli che possono derivare dalla situazione di disagio personale in cui potrebbe trovarsi il cittadino di uno Stato membro sta-
1
Sostituito nella sostanza – in seguito alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona in vigore dal 1º dicembre 2009 –
dagli artt. da 3 a 6 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
4
FOCUS
bilito in un altro Stato membro a motivo della disgregazione del suo nucleo familiare e del
mancato riconoscimento del suo “status familiare” (matrimonio, unione civile, nome, ecc.). Al fine di rimuovere i suddetti ostacoli e per evitare che gli stessi potessero essere una remora ad
utilizzare la libertà di circolazione che il Trattato assicura, sono state in generale emanate da un
lato le norme dell’Unione il cui scopo è quello di consentire il ricongiungimento familiare e,
dall’altro lato, la normativa tendente all’uniformazione del diritto internazionale privato e processuale 2. Tale ultimo aspetto, che non sarà considerato nell’ambito del presente lavoro, risulta
fondamentale ai fini della piena realizzazione della libera circolazione delle persone che richiede a sua volta, ad esempio, la libera circolazione delle decisioni giudiziarie in materia civile, in
generale, e in materia familiare, in particolare.
2. Il quadro normativo di riferimento
La disciplina applicabile nel caso di coesione dei cittadini dell’Unione con i loro familiari (tanto cittadini dell’Unione che cittadini di paesi terzi) è attualmente contenuta nella Direttiva
2004/38/CE del 29 aprile 2004 3, recepita in Italia con d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 4. Rileva
inoltre ai fini del presente lavoro anche, in particolare, la disposizione relativa alla “Famiglia dei
lavoratori” che siano cittadini europei contenuta nel Reg. n. 492/2011 (art. 10) 5. Le modalità
di ingresso e soggiorno dei familiari di un cittadino di paese terzo che risieda regolarmente in
uno Stato membro sono invece disciplinate dalla Direttiva 2003/86/CE del 22 settembre
2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare 6 recepita con d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5,
che ha comportato la modifica delle disposizioni pertinenti contenute nel d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286 (artt. 28 ss.) 7. Vi sono quindi in linea di principio due differenti fonti normative (d.lgs.
n. 30/2007 e artt. 28 ss. T.U. sull’Immigrazione) che disciplinano la materia a seconda che i
soggetti che chiedono di ricongiungersi con i loro familiari siano cittadini dell’Unione (che abbiano esercitato il diritto di libera circolazione) o cittadini di paesi terzi. Si deve inoltre considerare che le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 30/2007, quindi la normativa dell’Unione, si applicano anche ai familiari di cittadini italiani (che non abbiano la cittadinanza italiana) se più favorevoli rispetto ad altre normative quali quelle contenute nel sopra menzionato d.lgs. n. 286/1989
2
Tali atti sono oggi adottati sulla base del Titolo V del TFUE rubricato “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” il cui Capo
III riguarda la “Cooperazione giudiziaria in materia civile”.
3
Direttiva 2004/38/CE «relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/
CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE»,
in G.U. Un. Eur. del 30 aprile 2004, n. L 158/77.
4
Il d.lgs. n. 30/2007 è stato modificato a più riprese con: d.lgs. 28 febbraio 2008, n. 32; d.l. 23 giugno 2011, n. 89 convertito con l. 2 agosto 2011, n. 129; l. 6 agosto 2013, n. 97 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” – 4 settembre 2013.
5
Reg. (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, in G.U. Un. Eur. del 27 maggio 2011, n. L 141/1. Tale atto sostituisce il precedente Reg.
(CEE) n. 1612/68 del Consiglio del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (G.U. Com. Eur. del 19 ottobre 1968, n. L 257) già modificato per effetto della Direttiva 2004/38.
6
G.U. Un. Eur. del 3 ottobre 2003, n. L 251/12. Sul tema si vedano tra gli altri: A. PASCALE-M. PASTORE, Il recepimento delle
direttive sul ricongiungimento familiare e sui soggiornanti di lungo periodo, in Dir., imm. e citt., 2007, 1, p. 13; P. MOROZZO
DELLA ROCCA, Il diritto all’unità familiare in Europa tra “allargamento” dei confini e “restringimento” dei diritti, in Dir., imm. e citt.,
2004, 1, p. 63 ss.
7
Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, in
G.U. 18 agosto 1998, n. 191.
5
AIAF RIVISTA 2016/1
in materia di unità familiare (art. 23, d.lgs. n. 30/2007) 8. È opportuno a tale riguardo precisare
che anche se, a seguito della modifica apportata con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112 9 (art. 37) all’art. 1 del T.U. sull’Immigrazione, in generale le norme sull’immigrazione non si applicano ai
cittadini di Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione
dell’ordinamento comunitario (tra cui il menzionato art. 23, d.lgs. n. 30/2007), è rimasta immutata la disposizione di cui all’art. 28 del suddetto Testo Unico volto a disciplinare la materia
della coesione familiare ove si prevede che ai familiari stranieri di cittadini italiani o dell’Unione
si applica la normativa europea in materia di libera circolazione e soggiorno (d.lgs. n. 30/2007)
fatte salve le disposizioni «più favorevoli del presente testo unico o del regolamento di attuazione». Si deve quindi ritenere che il d.lgs. n. 30/2007 sia il testo di carattere generale che disciplina la condizione del familiare del cittadino europeo ed italiano, ma che sia cedevole in
presenza di disposizioni contenute in altre normative nazionali, quali il T.U. sull’Immigrazione,
se più favorevoli.
Si consideri infine che in certe circostanze il diritto al soggiorno del cittadino di uno Stato non
membro dell’Unione europea può farsi valere in quanto costituisce una modalità di attuazione
del diritto al ricongiungimento familiare che a sua volta si realizza in quanto lo Stato è tenuto a
rispettare la vita privata e familiare. In tali casi, come è noto, rileva l’art. 8 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) 10 che tutela, tra l’altro, il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita familiare, così come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale diritto fa parte dei diritti fondamentali
garantiti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea che, seppur al fine precipuo di garantire
per tale via la libera circolazione dei cittadini dell’Unione 11, ha contribuito a rafforzare l’unità
familiare delle coppie miste presenti nel territorio europeo richiamando nelle sue sentenze
l’art. 8 CEDU 12. Di recente tale tutela si è ulteriormente rafforzata con l’analoga previsione
contenuta nell’art. 7 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea 13 che, in seguito
alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona (in vigore dal 1° dicembre 2009), ha lo stesso
valore giuridico dei Trattati (art. 6 TUE).
8
Rileva a tale riguardo anche l’espresso divieto di “discriminazione a rovescio” contenuto nella l. 24 dicembre 2012, n. 234
“Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea” (art. 32, 1° comma, lett. i) e art. 53) secondo cui: «Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al
trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea».
9
Convertito con modifiche in l. 6 agosto 2008, n. 113.
10
Tale Convenzione venne firmata a Roma, il 4 novembre 1950.
11
Autorevole dottrina ha in effetti sottolineato che le finalità della Corte di Giustizia, differentemente dagli organi di Strasburgo sarebbero «più di carattere economico che sociale e culturale». L. DE GRAZIA, Il diritto al rispetto della vita familiare nella
giurisprudenza degli organi di Strasburgo: alcune considerazioni, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2002, p. 1088.
12
La sentenza Carpenter dell’11 luglio 2002 (causa C-60/00, in Racc., 2002, pp. I-6279) rappresenta una delle prime pronunce in cui la Corte afferma che la decisione di espellere la moglie di un cittadino di uno Stato membro che esercita il diritto alla libera prestazione dei servizi costituisce «un’ingerenza nell’esercizio (di quest’ultimo) ... al rispetto della sua vita familiare ai sensi dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (par. 41).
13
«Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni» (art. 7). La Carta fu proclamata a Nizza da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione il 7 dicembre 2000, in
G.U. Com. Eur. del 18 dicembre 2000, n. C 364. Successivamente un testo modificato venne proclamato, dalle stesse istituzioni, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, in G.U. Un. Eur. del 14 dicembre 2007, n. C 303.
6
FOCUS
3. Il diritto del cittadino di un paese terzo a risiedere nell’Unione europea in quanto familiare di cittadino dell’Unione
Il diritto al soggiorno in uno Stato membro dell’Unione può essere assicurato a cittadini di Stati terzi direttamente dal diritto dell’Unione, quindi anche a prescindere da un autonomo titolo
di soggiorno che essi abbiano in base al diritto dello Stato medesimo 14. Tale diritto però viene
riconosciuto in considerazione del rapporto che queste persone hanno con cittadini europei che
facciano uso della libertà di circolazione.
Ne discende che i familiari dei cittadini dell’Unione europea godono di uno “status privilegiato” rispetto agli altri cittadini di paesi terzi in considerazione del vincolo familiare con cittadini
europei 15. In virtù di tale condizione essi possono vedersi rilasciata in un primo tempo una “carta
di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione” con validità di cinque anni dalla data del
rilascio (artt. 10 e 11, Direttiva 2004/38; art. 10, d.lgs. n. 30/2007) e, successivamente, una
volta decorsi i cinque anni, una “carta di soggiorno permanente” (art. 20, Direttiva 30/2004;
art. 17, d.lgs. n. 30/2007) 16. È quindi fondamentale individuare quali soggetti possono rientrare nella categoria dei “familiari” in base alla Direttiva 2004/38/CE e al d.lgs. n. 30/2007 che
aveva il compito di adattare le “definizioni” contenute nell’atto comunitario (artt. 2 e 3, Direttiva 2004/38) alla normativa vigente in Italia.
La Direttiva adotta una definizione di famiglia più ampia di quella tradizionale in modo tale da
tenere conto dell’evoluzione dell’istituto familiare che si registra in molti Stati europei, riconoscendo il diritto al ricongiungimento non soltanto al “coniuge” del cittadino dell’Unione, ma anche al «partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base
della legislazione dello Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante» (art. 2, lett. b). Tale disposizione è stata interamente re-
14
La Corte ha affermato (sent. 25 luglio 2008, causa C-127/08, Metock, in Racc., 2008, pp. I-203) che la Direttiva 2004/38
non prescrive che il cittadino dell’Unione abbia già costituito una famiglia nel momento in cui si trasferisce nello Stato
membro ospitante affinché i suoi familiari, cittadini di paesi terzi, possano godere dei diritti istituiti da tale Direttiva. Ne discende che qualora il cittadino dell’Unione contragga matrimonio nello Stato ospitante, al coniuge cittadino di paese terzo
dovrà essere riconosciuto il diritto di soggiorno ai sensi della Direttiva 2004/38 e ciò anche qualora questi non risiedesse
legalmente in un altro Stato membro. Nel caso di specie si trattava di 4 ricorsi promossi da altrettante coppie miste contro
il Governo dell’Irlanda che si era rifiutato di accordare il diritto di soggiorno ai rispettivi coniugi cittadini di paesi terzi di
cittadini dell’Unione, che avevano contratto matrimonio in Irlanda dove soggiornavano in condizione di irregolarità; per
due di essi era già stata disposta l’espulsione prima del matrimonio. Si consideri che la Corte costituzionale con sent. 20 luglio 2011, n. 245 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 116, 1° comma, c.c., come modificato dall’art. 1, 15°
comma, l. 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) che ha posto quale condizione per l’effettuazione delle pubblicazioni di matrimonio da parte dell’Ufficiale di stato civile nei casi in cui uno o entrambi i nubendi siano
cittadini stranieri, l’esibizione da parte di questi della documentazione attestante la regolarità del soggiorno nel territorio
italiano.
15
Su punto si veda la citata sentenza Metock (p. 73). La Direttiva 2004/38 distingue tra due categorie di soggiorno in base
alla durata. Il soggiorno sino a tre mesi non richiede alcuna condizione e formalità, salvo il possesso di un documento di
identità valido (art. 6, Direttiva 2004/38 e art. 6, d.lgs. n. 30/2007). Il soggiorno superiore a tre mesi è subordinato, in generale, ad una serie di condizioni (art. 7, Direttiva 2004/38 e art. 7, d.lgs. n. 30/2007) quali il requisito di essere lavoratore
subordinato o autonomo ovvero di essere iscritto presso un istituto per motivi di studio o formazione professionale, di
avere la disponibilità di risorse economiche sufficienti e di una assicurazione malattia. Il diritto di soggiorno viene esteso al
familiare che accompagna o raggiunge il cittadino europeo che soddisfa le predette condizioni.
16
L’art. 14, d.lgs. n. 30/2007 (v. art. 16, Direttiva 2004/38) attribuisce il diritto di soggiorno permanente al cittadino europeo (e al familiare cittadino di paese terzo) che ha soggiornato «legalmente e in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale». Una volta acquisito, il diritto di soggiorno permanente si perde soltanto a seguito di assenze dal territorio nazionale di durata superiore di due anni consecutivi (art. 14, par. 4, d.lgs. n. 30/2007 e art. 16, par. 4, Direttiva
2004/38).
7
AIAF RIVISTA 2016/1
cepita nel d.lgs. n. 30/2007 (art. 2, lett. b) anche se, come noto, non ha potuto trovare sinora
applicazione in Italia se si considera che ad oggi non esiste alcuna regolamentazione in materia 17
con la conseguenza che il partner convivente che abbia contratto con un cittadino europeo un’unione civile registrata non può vantare un “diritto al soggiorno” ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n.
30/2007, ma rientra nella categoria degli “altri familiari” (di cui all’art. 3, d.lgs. n. 30/2007), di cui
si dirà oltre, il cui ingresso e soggiorno può unicamente essere “agevolato”.
Relativamente invece alla nozione di “coniuge” si deve dare conto della sentenza del Tribunale
di Reggio Emilia del 13 febbraio 2012 (si veda anche Trib. Pescara, ord. 15 gennaio 2013) che
ha riconosciuto il diritto ad ottenere una carta di soggiorno «di familiare di un cittadino
dell’Unione» (art. 10, d.lgs. n. 30/2007) ad un cittadino uruguayano che aveva contratto in
Spagna un matrimonio con un cittadino italiano dello stesso sesso. Per giungere a tale conclusione il Tribunale ha utilmente richiamato, oltre alla giurisprudenza rilevante in materia 18, l’art.
9 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha individuato in capo ad ogni
persona “il diritto di sposarsi e costituire una famiglia”, senza alcuna limitazione alle sole coppie di diverso genere 19. In buona sostanza nonostante ogni paese membro dell’Unione mantenga la propria autonomia quando di tratti di regolamentare la materia della famiglia in ambito interno «si deve ritenere che una volta che sia comprovato, nella specie in via documentale,
che si sia formata un’unione matrimoniale in un Paese dell’Unione, la libera circolazione del
cittadino e del suo familiare debba essere garantita a prescindere dalla legge nazionale dei coniugi» 20. Non rileverebbe, ai fini del rilascio della carta di soggiorno al familiare ai sensi dell’art.
10, d.lgs. n. 30/2007, la mancata trascrizione del matrimonio in Italia se si considera che il decreto in esame non lo richiede (sul punto sentenza Tribunale di Pescara, cit.) 21.
Rientrano nella categoria dei familiari ai sensi dell’art. 2 del decreto in esame anche i «discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner (...)» nonché «gli
ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner (...)» (art. 2, lett. b), d.lgs. n. 30/2007).
Si deve a tale riguardo evidenziare che le nozioni giuridiche contenute nel diritto dell’Unione
devono essere interpretate in modo autonomo tenendo conto del sistema in cui sono inserite.
Non essendovi una nozione comunitaria di “discendente” è utile in tali casi fare riferimento a
una Comunicazione della Commissione «concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE» (COM(2009)313 del 2 luglio 2009) ove si precisa che la nozione di discendente si estende anche «agli adottati/adottandi e ai minori sottoposti a tutela/tutori permanenti. I minori in affidamento e i genitori affidatari che hanno l’affidamento temporaneo possono beneficiare dei diritti previsti dalla direttiva a seconda dell’intensità del legame caso per caso».
17
Sul punto si veda il d.d.l. AS 2081 relativo alla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, approvato con voto di fiducia da parte del Senato della Repubblica il 25 febbraio 2016. Il testo è ora alla Camera.
18
Sentenza Corte EDU, Schalk and Kopf v. Austria, 24 giugno 2010; Cass. pen. 19 gennaio 2001, n. 1328; Corte cost. 15
aprile 2010, n. 138. Si veda anche la successiva sentenza della Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170.
19
F. MOSCONI-C. CAMPIGLIO, Il riconoscimento del matrimonio omosessuale alla luce di recenti pronunce, in Dit., imm. e citt.,
2012, 1, p. 73 ss.
20
Sul punto si veda anche la Circolare del Ministero dell’Interno 26 ottobre 2012, n. 8996.
21
Come noto la questione della trascrivibilità nei registri di Stato Civile del matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero è stata affrontata dai Trib. Grosseto, ord. 9 aprile 2014 e di Milano con decreto 2 luglio 2014. Tali Tribunali dopo aver richiamato le pronunce rilevanti in materia, oltre a quelle già menzionate (Cass. n. 4184/2012 e Corte cost.
n. 170/2014), sono pervenuti alla conclusione di ammettere la trascrizione il primo e di escluderla il secondo. L’ordinanza
del Tribunale di Grosseto è stata annullata per motivi formali e, a seguito del ricorso per riassunzione, è stata confermata in
data 17 febbraio 2015 con decreto del medesimo Tribunale.
8
FOCUS
Rileva a tale riguardo una sentenza del 10 giugno 2015 con cui il Tribunale di Vicenza accogliendo il ricorso presentato da un cittadino italiano che aveva regolarmente adottato due minori del Ghana, ha annullato i provvedimenti di diniego del visto di ingresso per ricongiungimento familiare emessi dalla Ambasciata italiana ad Accra, disponendone il rilascio immediato.
Per altri versi, con un decreto del 24 ottobre 2014, la Corte d’Appello di Catania ha interpretato la nozione di familiare contenuta nell’art. 31, d.lgs. n. 286/1998 22 – che si riferisce al figlio
minore dello straniero con questo convivente –, facendo riferimento alla disposizione in esame
(art. 2, lett. b), d.lgs. n. 30/2007) con la quale si prevede, in particolare, che sono familiari dello
straniero coniugato con un cittadino dell’Unione anche i discendenti del cittadino dell’Unione
inferiori ad anni ventuno. Per tale via la Corte giunge ad autorizzare la permanenza in Italia del
richiedente (cittadino albanese), unito in matrimonio con la madre della minore (cittadina rumena), ma che non risultava essere legato da alcun rapporto di parentela con la bambina 23.
Quanto alla categoria degli “ascendenti” (che siano a carico del cittadino dell’Unione o del coniuge), si deve evidenziare che, alla luce della sentenza Chen della Corte di Giustizia 24 la stessa
deve comprendere anche l’ipotesi inversa in cui sia il cittadino dell’Unione (minore di età) a
carico dell’ascendente (genitore) che sia cittadino di un paese terzo. La Corte ha infatti precisato che il cittadino di un paese terzo acquista il diritto al soggiorno in uno Stato membro
nell’ipotesi in cui ivi soggiorni un figlio minorenne, cittadino di uno Stato membro, che lo stesso deve accudire. Si tratta di un diritto derivato da quello del minore che, qualora non venisse
riconosciuto, priverebbe di qualsiasi effetto utile il diritto di soggiorno di quest’ultimo che,
all’evidenza, necessita delle cure del genitore 25.
La Corte, nella sentenza Zambrano del 2011, ha inoltre ritenuto che in particolari circostanze il
diritto al ricongiungimento debba essere riconosciuto anche nei casi in cui il figlio minore non
abbia esercitato la libertà di circolazione 26.
Analogo principio, come si vedrà meglio in seguito, è stato dalla Corte affermato con riguardo
22
Tale disposizione fa espresso rifermento al “figlio minore dello straniero con questi convivente” e soggiornante in Italia e
prevede al 3° comma che «Il Tribunale per i minorenni per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore (...) può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato (...)».
23
La Corte ha ritenuto che «se pur la definizione normativa di “familiare” straniero non consente l’applicazione analogica
a casi non previsti, nessuna regola di ermeneutica legale ne vieta l’interpretazione estensiva, specialmente quando sia
l’unica costituzionalmente orientata e conforme ai principi affermati nelle norme sovranazionali, pattizie o provenienti da
fonti dell’Unione europea». Rileva in tale caso il principio contenuto all’art. 28, d.lgs. n. 286/1998 secondo cui in ogni situazione in cui venga in rilievo l’interesse del minore deve esserne assicurata la prevalenza sugli eventuali interessi confliggenti, conformemente a quanto previsto nell’art. 3, 1° comma della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre
1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176.
24
Sent. 19 ottobre 2004, causa C-200/02, in Racc., 2004, pp. I-9925. Si trattava di una bambina, figlia di cittadini cinesi,
che aveva acquistato, essendo nata in Irlanda, la cittadinanza irlandese. Madre e figlia si erano successivamente trasferite
nel Regno Unito e la Corte afferma che il diritto di soggiorno in tale Stato doveva essere riconosciuto anche alla madre.
All’epoca l’Irish Nationality and Citizenship Act del 1956 permetteva ai nati in Irlanda di avere cittadinanza irlandese. Tale
normativa, anche in seguito alla pronuncia resa nel caso Chen, è stata successivamente modificata al fine di prevedere un
ius soli condizionato dalla previa residenza di uno dei genitori in Irlanda.
25
Il Tribunale di Roma, richiamando espressamente la sentenza Chen della Corte di Giustizia, con ordinanza del 26 novembre 2012 ha riconosciuto il diritto di un cittadino ugandese a soggiornare in Italia quale convivente dei figli minori.
Nel caso di specie i minori risultavano a carico della madre che provvedeva al sostentamento dell’intero nucleo familiare.
26
Sentenza Zambrano dell’8 marzo 2011, causa C-34/09. La Corte, non applicandosi al caso di specie la Direttiva
2004/38, ha rilevato che l’art. 20 TFUE deve essere interpretato nel senso che «osta a che uno Stato membro, da un lato
neghi al cittadino di uno Stato terzo, che si faccia carico dei propri figli in tenera età, cittadini dell’Unione, il soggiorno nello Stato membro di residenza di questi ultimi, di cui essi abbiano la cittadinanza, e, dall’altro lato, neghi al medesimo cittadino di uno Stato terzo un permesso di lavoro, qualora decisioni siffatte possano privare detti figli del godimento reale ed
effettivo dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione».
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ai figli minori che, allo scopo di completare gli studi, rimangono – con l’altro genitore qualunque sia la nazionalità – nello Stato nel quale il genitore cittadino dell’Unione ha in precedenza
risieduto.
La nozione di “familiare a carico” cui si fa riferimento nella disposizione in esame, deve essere
ricostruita alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia la quale ha precisato che la condizione di familiare “a carico” deriva da una situazione di fatto caratterizzata dalla circostanza
che il sostegno materiale del familiare è garantito dal cittadino dell’Unione o dal coniuge/partner 27. Come precisato anche nella Comunicazione della Commissione del 2 luglio 2009 sopra
menzionata, la condizione di familiare a carico non presuppone un diritto agli alimenti e, inoltre, non è necessario esaminare se l’interessato sia in teoria in grado di provvedere a se stesso,
ad esempio svolgendo un’attività lavorativa. Sarà necessario valutare se, alla luce delle sue condizioni finanziarie e sociali, il familiare del cittadino dell’Unione necessita di un sostegno materiale per sopperire ai suoi bisogni essenziali nello Stato di origine o nello Stato di provenienza
nel momento in cui chiede di raggiungere il cittadino dell’Unione e, quindi, non nello Stato
membro ospitante in cui soggiorna il cittadino dell’Unione. A tale riguardo la Corte di Giustizia in una sentenza del 16 gennaio 2014 (causa C-423/12, Reyes) ha precisato che il fatto che
un familiare sia considerato, alla luce di circostanze personali quali l’età, le qualifiche professionali e lo stato di salute, dotato di ragionevoli possibilità di trovare un lavoro e, inoltre, intenda
lavorare nello Stato membro ospitante, resta irrilevante ai fini della interpretazione di essere “a
carico” 28.
4. La categoria degli “altri” familiari
Il legislatore europeo ha delineato una netta distinzione tra i familiari del cittadino dell’Unione
sopra esaminati e definiti all’art. 2 della Direttiva 2004/38/CE (art. 2, d.lgs. n. 30/2007) che
godono, alle condizioni previste nella Direttiva, di un diritto di ingresso e di soggiorno nello
Stato membro ospitante e gli “altri familiari” indicati all’art. 3, par. 2, 1° comma, lett. a), della
Direttiva «il cui ingresso e soggiorno devono unicamente essere agevolati da tale Stato membro» 29. La Direttiva impone però agli Stati di prevedere che gli “altri familiari” ottengano una
decisione sulla loro domanda che sia fondata su un esame approfondito della loro situazione
personale e che sia motivata in caso di rifiuto 30.
La categoria in esame comprende il familiare che «è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell’Unione (...) o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente» 31 e ancora il «partner con cui il cittadino dell’Unione abbia
una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale». In relazione a tale
ultima categoria di familiari si deve evidenziare che sino alla l. n. 97/2013 (legge europea 2013) il
27
Sent. 9 gennaio 2007, causa C-1/05, Jia, in Racc., pp. I-1 e sent. 18 giugno 1987, causa 316/85, Lebon, in Racc., p. 2811.
Ci si riferiva nel caso di specie alla categoria del discendente a carico di età pari o superiore a 21 anni di cui all’art. 2, punto 2, lett. c) della Direttiva, disposizione recepita all’art. 2, lett. b), punto 3, d.lgs. n. 30/2007.
29
Sul punto si veda la sentenza della Corte Giust. 5 settembre 2012, causa C-83/11, Rahman, p. 19.
30
Art. 3, par. 2, Direttiva 2004/38/CE e art. 3, par. 3, d.lgs. n. 30/2007.
31
Il Tribunale di Torino con ordinanza 21 settembre 2013 ha ammesso il ricongiungimento del figlio maggiorenne di nazionalità marocchina di cittadina italiana ai sensi dell’art. 3, 2° comma, d.lgs. n. 30/2007, essendo questi affetto da grave
patologia psichiatrica e, quindi, a totale carico della madre che inviava periodicamente al figlio somme di denaro per consentirgli di far fronte alle sue esigenze di vita. Si vedano anche: App. Venezia, decreto 19 gennaio 2009; Cass. 7 settembre
2011, n. 18384.
28
10
FOCUS
d.lgs. n. 30/2007 richiedeva che la relazione stabile fosse «debitamente attestata dallo Stato del
cittadino dell’Unione» in tal modo escludendo tutte le situazioni in cui la relazione stabile fosse attestata solo da uno Stato diverso da quello di appartenenza del cittadino UE. Si consideri il
caso del partner straniero del cittadino italiano, che non avrebbe potuto beneficiare della coesione familiare visto che l’Italia non si è ad oggi dotata di un sistema di registrazione o documentazione ufficiale delle unioni civili. La modifica intervenuta, facendo venir meno la suddetta limitazione relativa al mezzo di prova che ne circoscriveva la provenienza allo Stato del cittadino dell’Unione, adegua il d.lgs. n. 30/2007 (art. 3, 2° comma, lett. b) a quanto prescritto nella
Direttiva 2004/38 (art. 3, par. 2, lett. b) evitando una procedura di infrazione da parte della
Commissione europea. Come si è sopra accennato si evidenzia inoltre che si può far rientrare
nella categoria degli “altri familiari” anche il partner convivente che abbia contratto con un cittadino europeo un’unione civile registrata parificata al matrimonio di cui all’art. 2 d.lgs. n. 30/2007,
il cui ingresso potrà quindi essere solo “agevolato” in quei paesi che non prevedono un istituto
assimilabile all’unione registrata.
5. (Segue). Il minore affidato con kafalah al cittadino italiano (o dell’Unione europea)
In una pronuncia del 2013 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno qualificato il minore affidato con kafalah 32 al cittadino italiano come “altro familiare” ai sensi dell’art. 3, d.lgs.
n. 30/2007 (Cass., S.U., 10 luglio 2012-16 settembre 2013, n. 21108) enunciando il seguente
principio di diritto: «Non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale,
per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse di minore cittadino extracomunitario affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel Paese di provenienza
con il cittadino italiano ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito» 33. La Corte, come già precisato, esclude che il minore affidato con kafalah (giudiziale) possa essere considerato “discendente” ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 30/2007 perché tale nozione implica «un rapporto parentale, fondato sulla realtà biologica o anche solo su
quella giuridica dell’adozione legittimante», ritenendo invece che se le condizioni previste all’art. 3, d.lgs. n. 30/2007 sopra menzionate sono soddisfatte, il ricongiungimento non possa essere negato. In tal modo la Suprema Corte, pur facendo rientrare tali ipotesi nell’ambito dell’art. 3, d.lgs. n. 30/2007 (che prevede una mera agevolazione all’ingresso), riconosce un diritto
al ricongiungimento (attribuito dalla Direttiva 2004/38 solo ai familiari di cui all’art. 2) che nasce sia nell’ipotesi in cui il minore affidato con kafalah e i cittadini italiani hanno vissuto insieme nel Paese in cui l’affidamento è stato disposto oppure nel caso in cui, pur non essendovi stata convivenza, il minore sia a carico del cittadino italiano, o ancora se gravi motivi di salute del
32
La kafalah è un istituto vigente in paesi in cui la religione musulmana ha un impatto preponderante nel tessuto sociale
mediante il quale – stante il divieto coranico dell’adozione – si consente ad una coppia di coniugi o a una persona singola,
di assistere minori orfani o comunque abbandonati con l’impegno di mantenerli, educarli, istruirli fino alla maggiore età.
L’affidato non entra a far parte giuridicamente della famiglia che lo accoglie e all’affidatario non vengono conferiti poteri di
rappresentanza o di tutela che rimangono attribuiti alle pubbliche autorità competenti. Si distingue in generale tra la kafalah c.d. “pubblicistica” e la kafalah c.d. “convenzionale”: nella prima vi è un provvedimento emesso all’esito di una procedura giudiziaria; la seconda origina invece da un accordo tra affidanti e affidatari soggetto ad omologazione da parte di una
autorità giurisdizionale. Per un approfondimento si veda: A. VANZAN-L. MIAZZI, Kafala e protezione del minore in Italia, in
Dir., imm. e citt., 2004, 2, p. 75 ss.
33
Si veda: A. LANG, Le Sezioni Unite chiariscono quando la kafalah è presupposto per il ricongiungimento familiare del cittadino
italiano, in Dir., imm. e citt., 2013, 2, p. 91 ss.
11
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minore richiedano che sia assistito personalmente dal cittadino italiano affidatario. Pare interessante evidenziare che la Corte, non ha ritenuto di dover applicare al caso di specie la disciplina di maggior favore contenuta nel T.U. sull’Immigrazione (art. 29, 2° comma) che, ai fini
del ricongiungimento familiare (dei cittadini di paesi terzi) equipara i «minori adottati o affidati o sottoposti a tutela» ai figli, e che ha consentito in via generale il ricongiungimento del
minore affidato con kafalah (quindi affidato) col richiedente che sia cittadino di un paese terzo 34. Si è già precisato che l’equiparazione operata dall’art. 29 T.U. sull’Immigrazione non è
espressamente prevista nella Direttiva 2004/38 e, quindi, nel d.lgs. n. 30/2007, in tal modo rendendo più problematica, come dimostra la pronuncia in esame, la questione del ricongiungimento del cittadino dell’Unione europea (o italiano) col minore che sia “affidato”. La Corte di
Cassazione, infatti, nella pronuncia in esame afferma che poiché l’art. 29 T.U. sull’Immigrazione che consente il ricongiungimento anche di minori affidati in kafalah è applicabile solo agli
stranieri «non può neppure procedersi ad ulteriore estensione della norma, fino a ricomprendervi il ricongiungimento a cittadini italiani, per effetto della clausola di salvaguardia, che fa
salva l’applicazione delle norme più favorevoli, contenuta nel co. 2 dell’art. 28 del d.lgs. n.
286/1998 (e nell’art. 23 del d.lgs. n. 30 del 2007) dovendosi la norma intendersi riferita solo
alle modalità del ricongiungimento e non all’individuazione dell’ambito dei familiari in favore
dei quali tale provvedimento è ammissibile» 35. Alcune delle problematiche che si sono registrate con riguardo all’ingresso dei minori con kafalah potrebbero trovare una soluzione con la
ratifica in Italia della Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 concernente la competenza, la
legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità
genitoriale e di misure di protezione dei minori che, unitamente alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989 (art. 20), riconosce la kafalah come uno strumento
idoneo di protezione del minore. Come è noto, con notevolissimo ritardo 36, è stata recentemente pubblicata la l. 18 giugno 2015, n. 101 di autorizzazione alla ratifica “semplice” cioè priva di norme di adeguamento alla Convenzione dell’Aja e il 30 settembre 2015 l’Italia ha provveduto al deposito del proprio strumento di ratifica della Convenzione che, come previsto dal
suo art. 61, par. 2, lett. A), è entrata in vigore per il nostro paese il 1 gennaio 2016. Ad oggi il
Parlamento non è però riuscito ad adottare le norme preposte all’attuazione del regime convenzionale nell’ordinamento italiano (relative ad esempio alla kafalah) e il disegno di legge finalizzato a tale scopo (atto Senato n. 1552 bis) rimane allo studio della Commissione Giustizia
del Senato 37.
34
Si consideri infatti che la Corte di Cassazione, secondo un orientamento consolidato riconducibile alla sent. 20 marzo
2008, n. 7472 (seguita da Cass. n. 18174 e n. 19734/2008 e n. 1908/2010), ha ammesso il ricongiungimento e quindi il rilascio del visto di ingresso a minori di cittadinanza marocchina con cittadini marocchini regolarmente residenti in Italia ai
quali siano stati affidati con kafalah c.d. pubblicistica.
35
La Cass. civ., Sez. I, con sent. 2 febbraio 2015, n. 1843 ha esteso la soluzione cui è pervenuta la Corte nel 2013 anche alla
kafalah c.d. convenzionale.
36
L’Italia ha sottoscritto la Convenzione nell’aprile 2003 (con un ritardo di 7 anni) in forza della decisione n. 2003/93/CE
del Consiglio del 19 dicembre 2002 (art. 3) ed era tenuta alla ratifica della stessa in forza della decisione del Consiglio 5
giugno 2008, n. 431 (art. 3). L’esame parlamentare è stato avviato solo nel 2011 e il 17 settembre 2013 il Governo ha presentato alla Camera il disegno di l. n. 1589 per la ratifica e l’esecuzione della Convenzione che è stato approvato con alcune
modifiche dal Parlamento il 25 giugno 2014. Il testo è stato profondamente modificato nel corso dell’esame (10 marzo
2015) al Senato al punto che sono state stralciate le disposizioni finalizzate ad adeguare la normativa italiana alla kafalah.
37
In quella sede non si è ad oggi registrato alcun progresso dalla seduta del 21 luglio 2015 che ha disposto una serie di audizioni.
12
FOCUS
6. Il diritto “derivato” al soggiorno dei familiari di un cittadino dell’Unione
La Direttiva 2004/38 riconosce ai “familiari” cittadini di paesi terzi (e dell’Unione), come sopra individuati, diritti di ingresso e soggiorno in uno Stato membro che però non sono, in base
alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, diritti autonomi di tali cittadini, bensì diritti derivati dall’esercizio della libertà di circolazione da parte del cittadino dell’Unione (loro
familiare). I familiari possono infatti “accompagnare” o “raggiungere” il cittadino dell’Unione
(per un periodo superiore ai tre mesi) nello Stato membro in cui egli si sia stabilito per poter
godere di un diritto di soggiorno unicamente in detto Stato (art. 7 della Direttiva); non vi è
cioè un obbligo a carico dei coniugi di coabitazione sotto lo stesso tetto 38, bensì, in generale,
quello di rimanere entrambi nello Stato membro ospitante 39. E in effetti la Direttiva 2004/38 e,
conseguentemente, il d.lgs. n. 30/2007 non prevedono il requisito della convivenza ai fini della
regolarità del soggiorno del familiare del cittadino dell’Unione 40. Da ciò discende che il diritto
al soggiorno del familiare dipende, in particolare sotto il profilo della sua durata, da quello
“primario” attribuito al cittadino di uno Stato membro. La Direttiva 2004/38 giunge però a riconoscere, in presenza di determinate condizioni (non richieste nel caso si tratti di familiari
che siano cittadini dell’Unione), il diritto del familiare (cittadino di un paese terzo) di ottenere
un diritto al soggiorno autonomo 41. Si prevedono infatti ipotesi in cui il divorzio 42 e l’annullamento del matrimonio 43 o il decesso del cittadino dell’Unione (art. 12, par. 2, Direttiva e art.
38
La Corte di Giustizia nella sentenza Diatta del 13 febbraio 1985 (causa 267/83, in Racc., p. 585), interpretando l’art. 10,
ora abrogato, del Reg. n. 1612/1968, ha affermato che quest’ultimo, «disponendo che il familiare del lavoratore migrante
ha il diritto di stabilirsi con il lavoratore, non esige che il familiare di cui trattasi vi abiti in permanenza» (p. 18).
39
Si vedano sul punto le seguenti sentenze della Corte di Giustizia: 10 luglio 2014, causa C-244/13, Ogieriakhi, p. 39; 8
novembre 2012, causa C-40/11, Iida, pp. 63 e 64. Il cittadino europeo che ha esercitato la libertà di circolazione può acquistare anche nei confronti dello Stato di origine determinati diritti. Si pensi al diritto di ricongiungersi con il coniuge cittadino di uno Stato terzo – che non avrebbe diritto a soggiornare nello Stato in questione – sulla base del fatto che il cittadino dell’Unione abbia esercitato la libertà di circolazione (sent. 7 luglio 1992, causa C-370/90, Singh, in Racc., 1992, pp. I4265). Sul punto anche le seguenti sentenze: 12 marzo 2014, causa C-456/12, O; 12 marzo 2014, causa C-457/12, S.
40
Si consideri a tale riguardo che l’art. 35, Direttiva 2004/38 prevede espressamente che «gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare un diritto conferito dalla presente direttiva, in caso di abuso di
diritto o frode, quale ad esempio un matrimonio fittizio (...)». Si vedano: Trib. Genova, ordinanza del 16 giugno 2015;
Cass. 12 febbraio 2015. In tale ultima sentenza la Corte ha affermato che «il requisito della effettiva convivenza è del tutto
estraneo alla disciplina normativa del d.lgs. n. 30 del 2007, mentre permane vigente, anche perché espressamente previsto
dall’art. 35 della direttiva 2004/38/CE, il divieto di abuso del diritto e di frode, realizzabile mediante matrimoni fittizi contratti all’esclusivo fine di aggirare la normativa pubblicistica in tema d’immigrazione (Cass. 17346/10; Cass. 12745/13)».
41
Il familiare che sia cittadino di uno Stato membro dovrà soddisfare le condizioni richieste dalla Direttiva 2004/38 in via
generale ovvero disporre di risorse sufficienti e di un’assicurazione malattia ai sensi dell’art. 7, Direttiva 2004/38 (art. 7,
d.lgs. n. 30/2007) oppure deve aver acquisito un diritto al soggiorno permanente ai sensi degli artt. 16 e 17, Direttiva (artt.
14 e 15, d.lgs. n. 30/2007).
42
Nella già menzionata sentenza Diatta la Corte aveva chiarito che «il vincolo coniugale non può considerarsi sciolto fintantoché non vi sia stato posto fine dalla competente autorità. Ciò non avviene nel caso dei coniugi che vivono semplicemente separati, nemmeno quando hanno l’intenzione di divorziare in seguito», p. 20.
43
V. considerando 15 e art. 13, par. 2, Direttiva 2004/38. Conformemente alla Direttiva – e omettendo di indicare il riferimento allo scioglimento dell’unione registrata – nell’art. 12, 2° comma, d.lgs. n. 30/2007 si enumerano le condizioni a cui
è sottoposta la conservazione del diritto di soggiorno del coniuge (cittadino di un paese terzo) che non abbia già acquisito
il diritto di soggiorno permanente. Si prevede che si debbano verificare una delle seguenti condizioni: «a) il matrimonio è
durato almeno tre anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale, prima dell’inizio del procedimento di divorzio o
annullamento; b) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro ha ottenuto l’affidamento dei figli del cittadino dell’Unione in base ad accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria; c) l’interessato risulti parte offesa in procedimento penale, in corso o definito con sentenza di condanna, per reati contro la persona commessi in ambito familiare; d) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro beneficia, in base ad un accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria, di un diritto di visita al figlio minore, a condizione che l’organo giurisdizionale ha ritenuto che le visite devono obbligatoriamente essere effettuate nel territorio nazionale, e fino a quando sono considerate necessarie». Tali disposizioni rap-
13
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11, par. 2, d.lgs. n. 30/2007) non comportano la perdita del diritto al soggiorno. Tali disposizioni non contengono però alcun riferimento all’ipotesi della “partenza” del coniuge (cittadino
dell’Unione) dallo Stato ospitante con la conseguenza che il familiare (cittadino di un paese
terzo) potrebbe in tali casi perdere il proprio diritto di soggiorno in tale Stato. In una sentenza
recente la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di chiarire come le disposizioni in esame debbano essere applicate nell’ipotesi in cui il cittadino dell’Unione, si rechi da
solo in uno Stato membro diverso da quello in cui ha risieduto per qualche anno con il coniuge
e ivi instauri una procedura di divorzio 44. Nel caso in esame, ove non veniva posta la questione
relativa all’affidamento o diritto di visita di figli, rilevava quindi la disposizione di cui all’art. 13,
par. 2, 1° comma, lett. a) della Direttiva (art. 12, 2° comma, lett. a), d.lgs. n. 30/2007) in base
alla quale il divorzio non comporta «la perdita del diritto di soggiorno dei familiari di un cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro» se il matrimonio è durato
«almeno tre anni, di cui almeno uno nello Stato membro ospitante, prima dell’inizio del procedimento giudiziario di divorzio (...). Vengono in tal modo tutelati gli interessi dei coniugi cittadini di paesi terzi nello Stato membro ospitante che possono presentare istanza senza essere
esposti al rischio di perdere il loro diritto di soggiorno. Tale esigenza di tutela viene però meno
con la partenza del coniuge dallo Stato ospitante; infatti secondo la Corte la “partenza” del cittadino dell’Unione ha già comportato la perdita del diritto di soggiorno del coniuge cittadino
del paese terzo ed una istanza di divorzio successiva non può determinare il ripristino di tale
diritto, dal momento che l’art. 13 di cui sopra si riferisce solamente al “mantenimento” di un
diritto di soggiorno sussistente (punto 68), ma non di un ripristino di un diritto di soggiorno
precedentemente estinto. Ne consegue che la summenzionata disposizione non è applicabile
nell’ipotesi in cui l’inizio del procedimento giudiziario di divorzio sia preceduto dalla partenza
del coniuge cittadino dell’Unione dal detto Stato membro (p. 70)» 45. La situazione è diversa
nel caso in cui ricorrano le rigorose condizioni poste dall’art. 12, par. 3, Direttiva 2004/38 (art.
11, 4° comma, d.lgs. n. 30/2007) 46. Secondo tale disposizione, l’altro coniuge, qualora resti nello Stato membro ospitante con i figli del cittadino dell’Unione allontanatosi, mantiene il proprio diritto di soggiorno in tale paese fintantoché i figli non abbiano terminato gli studi in un
presentano un effettivo superamento del regime precedente che consentiva il venir meno del diritto di soggiorno del coniuge, cittadino di un paese terzo, per effetto del divorzio. Sulla permanenza del diritto di soggiorno del coniuge in caso di
matrimonio di durata almeno triennale (art. 13, par. 2, lett. a), Direttiva 2004/38 e art. 12, 2° comma, lett. a), d.lgs. n.
30/2007) si vedano le seguenti pronunce: Cass. 20 settembre 2010, n. 19893; Trib. Pistoia 15 gennaio 2014. In tale ultimo
caso il Tribunale ha riconosciuto il diritto al mantenimento del soggiorno a favore della ricorrente anche in presenza di
matrimonio durato meno di tre anni, trattandosi di interruzione della vita familiare determinata da episodi di violenza ed
altre condotte contrarie alla solidarietà familiare.
44
Sent. 16 luglio 2015, causa C-218/14, Kuldip Singh, si trattava di tre casi in cui i matrimoni erano falliti dopo che i coniugi avevano rispettivamente vissuto in Irlanda per almeno 4 anni e le cittadine dell’Unione avevano lasciato tale paese senza
i rispettivi coniugi (cittadini di paesi terzi) instaurando poi, rispettivamente in Lettonia, nel Regno Unito e in Lituania, un
procedimento di divorzio.
45
L’avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni presentate il 7 maggio 2015 giunge ad ipotizzare in tali casi la possibilità che si verifichi un “divorzio fittizio” quale pendant del “matrimonio fittizio”, ovvero casi in cui il cittadino di un paese
terzo instauri un procedimento di divorzio solo per fondare, nella previsione della partenza prossima del suo coniuge, un
proprio diritto di soggiorno nello Stato ospitante ai sensi dell’art. 13, Direttiva 2004/38. Tale eventualità sarebbe però poco probabile nella pratica se si considera che il cittadino di un paese terzo può comunque acquisire dopo cinque anni il diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’art. 16, par. 2, Direttiva 2004/38. Si consideri in ogni caso che il diritto nazionale può riconoscere in tali circostanze una tutela più estesa (in questo senso v. sent. 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, p.
60). Nelle tre controversie di cui al procedimento in esame i ricorrenti, dopo il divorzio, hanno infatti ottenuto, in forza del
diritto nazionale, un permesso temporaneo rinnovabile di soggiorno e lavoro in Irlanda che ha loro consentito di continuare a soggiornare legalmente in tale Stato.
46
Analoga previsione era contenuta nel Reg. n. 1612/1968 (art. 12) ora sostituito dal menzionato Reg. n. 492/2011 (art. 10).
14
FOCUS
istituto scolastico in tale Stato, a condizione che egli ne abbia l’effettivo affidamento. In tal caso
i figli hanno un diritto autonomo al soggiorno che si protrae, in generale, fino al compimento
della maggiore età 47 e il genitore che ne ha l’affidamento ha in tali casi un diritto (derivato da
quello dei figli) di rimanere nello Stato membro ospitante 48.
7. Considerazioni conclusive
L’analisi svolta ha evidenziato che l’elemento che sembra caratterizzare il diritto di libera circolazione è la sua opponibilità, in via generale, agli Stati dei quali il cittadino europeo non possiede la cittadinanza 49.
Rileva a questo riguardo, ad esempio, la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che, richiamando la normativa europea e la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione, ha ammesso il ricongiungimento con il coniuge dello stesso sesso. Quanto ai casi analizzati relativi al riconoscimento di unioni diverse dal matrimonio, la Direttiva 2004/38 “forza” i sistemi giuridici nazionali come quello italiano (ad oggi non dotato di una normativa volta al riconoscimento delle
forme di convivenza diverse dal matrimonio) inducendo il legislatore ad un intervento nel senso di sanare il trattamento parzialmente discriminatorio che attualmente si rileva. Si pensi al caso di una persona che ha contratto un’unione registrata con un cittadino dell’Unione e che può
essere riconosciuta come “familiare” solo in quegli Stati membri che regolamentano tali unioni.
47
Si consideri che in base ad una pronuncia della Corte Giust. 8 maggio 2013 (causa C-129/11, Alarape), – che ha confermato quanto già precisato nella sent. 23 febbraio 2010, causa C-480/08, Texeira, in Racc., 2010, pp. I-1107, p. 86 – il diritto al soggiorno del genitore può in taluni casi essere riconosciuto anche dopo che il figlio ha raggiunto la maggiore età
«se il figlio continui a necessitare della presenza e delle cure del genitore per poter proseguire e terminare i propri studi»
(p. 28).
48
In tali casi la Corte ha precisato che in base all’art. 12, Reg. n. 1612/1968 (ora art. 10, Reg. n. 492/2011) il diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante dei figli che vi seguono gli studi e del genitore che ne ha l’effettivo affidamento non è
subordinato alla condizione di disporre di risorse sufficienti e di una assicurazione malattia completa. Tale soluzione, come ha
rilevato la Corte, è oggi confortata dalla previsione di cui all’art. 12, n. 3, Direttiva 2004/38. V. sent. 23 febbraio 2010, causa C310/08, Ibrahim, in Racc., 2010, pp. I-1065, pp. 56 e 57.
49
Si consideri che l’importanza della libertà di circolazione deriva anche dalla solenne affermazione che di essa ha fatto la
Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione (art. 45).
15
AIAF RIVISTA 2016/1
I FAMILIARI DEI CITTADINI DELL’UNIONE EUROPEA: LE PRINCIPALI
QUESTIONI CHE SI PONGONO NELLA PRATICA
Giulia Perin
Avvocato in Roma
Sommario: 1. Di cosa parliamo. – 2. La normativa europea si applica anche ai familiari dei cittadini italiani. – 3. Le
differenze di regime rispetto al sistema del ricongiungimento familiare per cittadini di Paesi terzi. – 4. Di quali familiari parliamo? – 5. La nozione di familiare “a carico”. – 6. Gli altri familiari previsti dall’art. 3, par. 2, della Direttiva 2004/38. – 7. E il convivente? – 8. I figli che hanno iniziato un percorso di studi in Italia. – 9. I genitori di minori presi in carico dai Servizi sociali. – 10. Conclusioni.
1. Di cosa parliamo
Immaginiamo di avere trovato lavoro in un Paese straniero.
Nel decidere se accettare o meno l’offerta, una delle prime questioni che ci porremo è se i nostri familiari potranno venire con noi o, quanto meno, raggiungerci in un secondo momento.
È questa una delle domande fondamentali che si pone chi intenda varcare i confini nazionali:
tanto maggiori saranno le possibilità di realizzare anche all’estero la propria vita familiare, tanto
meno difficile apparirà la scelta da compiersi.
In questo articolo, cercherò di rispondere alla domanda: quali familiari possono accompagnare
o raggiungere il cittadino europeo che intenda trasferirsi in Italia?
Quali sono le questioni che risultano più dibattute nella pratica applicazione? Quali le questioni ancora aperte?
Conviene subito anticipare che, da un punto di vista normativo, le stelle polari in materia sono
tre: la Direttiva 2004/38, che regola a livello europeo la libera circolazione e il soggiorno dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari, il d.lgs. n. 30/2007, che ha dato attuazione a tale Direttiva in Italia, e, last but not least, le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
2. La normativa europea si applica anche ai familiari dei cittadini italiani
La normativa che verrà esaminata non interessa solo i familiari dei cittadini europei, ma anche i
familiari dei cittadini italiani che intendano con gli stessi ricongiungersi in Italia.
Il legislatore italiano, infatti, ha espressamente esteso la disciplina europea anche ai familiari dei
16
FOCUS
cittadini italiani per evitare discriminazioni “a rovescio”, discriminazioni che sarebbero risultate costituzionalmente illegittime 1.
Nonostante la chiarezza della normativa, fino a qualche anno fa, si è assistito a qualche resistenza da parte della giurisprudenza di legittimità a riconoscere la piena applicabilità della disciplina in esame anche ai familiari dei cittadini italiani. Fortunatamente, tale orientamento appare definitivamente superato ed è ormai pacifico il diritto dei familiari dei cittadini italiani di
invocare la disciplina europea.
Come è evidente, si tratta di una platea amplissima, se si pensa, ad esempio, che ogni straniero
che sposi un italiano rientra nell’orbita di attrazione della disciplina in esame, immediatamente
uscendo dal novero dei destinatari della normativa che disciplina l’ingresso e il soggiorno dei
cittadini dei Paesi terzi e dei loro familiari 2.
3. Le differenze di regime rispetto al sistema del ricongiungimento familiare per cittadini di
Paesi terzi
Si è detto che gli stranieri che abbiano una relazione familiare rilevante con un cittadino europeo o italiano escono dal perimetro applicativo della normativa sull’immigrazione, per entrare
a pieno diritto tra i destinatari della normativa sulla libera circolazione e soggiorno dei cittadini
dell’Unione e dei loro familiari.
Non è una differenza di poco conto.
Per una cittadina senegalese, non sarà, infatti, lo stesso essere sposata con un proprio connazionale che vive in Italia o con un cittadino europeo o italiano che pure risieda nel nostro Paese.
Nel primo caso, per giungere in Italia, dovrà seguire il procedimento di ricongiungimento familiare disciplinato dal T.U. sull’Immigrazione, che prevede ad esempio, che il suo ingresso per
motivi familiari in Italia possa essere autorizzato solo se il marito abbia un reddito minimo di
un certo importo e disponga di un alloggio idoneo. Nel secondo caso, invece, il marito europeo
non dovrà dimostrare di percepire un reddito minimo, essendo sufficiente che provi di avere
un lavoro 3, quale che sia l’importo della sua retribuzione. In questo caso, l’Amministrazione italiana non potrà subordinare il diritto all’ingresso e al soggiorno del familiare alla verifica dell’idoneità dell’alloggio in Italia.
Altrettanto significativamente il procedimento per il ricongiungimento familiare sarà semplificato al massimo: sarà sufficiente che la moglie porti all’Ambasciata italiana del luogo di residenza l’atto di matrimonio per ottenere il visto di ingresso 4, senza la necessità che il cittadino europeo ottenga preventivamente un nulla osta al ricongiungimento in Italia, come previsto per i
cittadini stranieri 5.
1
Dispone, infatti, l’art. 23, d.lgs. n. 30/2007: «le disposizioni del presente decreto legislativo, se più favorevoli, si applicano
ai familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana».
2
D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
3
O di trovarsi in un’altra delle fattispecie indicate dall’art. 7, Direttiva 2004/38, riprodotte dall’art. 7, d.lgs. n. 30/2007.
4
Per conoscere l’esatta procedura che l’Ambasciata italiana dovrà seguire in tale caso, si rinvia al Messaggio del Ministero
degli Affari Esteri del 6 agosto 2013, avente ad oggetto: «Abrogazione dell’obbligo di visto nazionale (tipo d) per “motivi familiari” a favore dei familiari di cittadini UE di cui all’art. 2, comma 1, lettera b) del d.lgs. 30/2007, fino in uso ai fini di
soggiorni di lunga durata (oltre i 90 giorni). Importanti novità operative».
5
Artt. 28 ss., d.lgs. n. 286/1998.
17
AIAF RIVISTA 2016/1
Dunque, sia sotto il profilo procedurale che sotto il profilo sostanziale, il familiare del cittadino
europeo gode di un trattamento assai più favorevole di quello riservato al familiare del cittadino di un Paese terzo.
4. Di quali familiari parliamo?
Quelle fin qui descritte non sono le uniche significative differenze tra i due regimi aventi per
destinatari, da un lato, i familiari di cittadino europeo/italiano, dall’altro, i familiari di cittadino
di Paese terzo.
Un’altra fondamentale differenza riguarda la stessa definizione dei familiari titolari del diritto
all’ingresso e al soggiorno.
Invero, se leggiamo l’art. 2 della Direttiva CE 2004/38, vediamo che la normativa europea ha
optato per un elenco ampio di familiari 6.
Partiamo dalla definizione di figli. Quando i figli hanno diritto ad accompagnare o a raggiungere il genitore? Quali sono le condizioni che devono integrare?
La normativa prevede che, fino ai 21 anni, i figli possono ricongiungersi ai genitori senza alcuna
altra condizione. Se si considera che in tutti i Paesi europei, la maggiore età si raggiunge ai diciotto anni, si vede come l’Unione europea abbia ritenuto di agevolare l’unità familiare anche sotto questo profilo.
Ma ciò che più conta è che anche i figli che abbiano superato i 21 anni hanno diritto a ricongiungersi ai genitori che vivono in Italia purché risultino “a carico”.
Anche sotto questo aspetto, la normativa in esame è estremamente più favorevole di quella riservata al ricongiungimento familiare dei cittadini stranieri: in questo caso, dopo il compimento della maggiore età, non è più possibile ottenere il ricongiungimento dei propri figli, salvo che
questi si trovino in condizioni di “invalidità totale” 7.
I figli del cittadino europeo, invece, o i figli del coniuge del cittadino europeo avranno diritto a
raggiungere il genitore (o il coniuge del genitore) anche ben oltre i 21 anni in tutti i casi in cui
possano definirsi “a carico”.
5. La nozione di familiare “a carico”
Conviene soffermarsi sulla nozione di familiare “a carico”, dal momento che essa è una delle
più controverse nella pratica applicazione.
6
L’art. 2 della suddetta direttiva, intitolato “Definizioni”, prevede quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
1) “cittadino dell’Unione”: qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro;
2) “familiare”:
a) il coniuge;
b) il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato
membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante;
c) i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner;
d) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b. [...]».
7
L’art. 29, d.lgs. n. 286/1998 prevede che lo straniero possa chiedere il ricongiungimento dei figli maggiorenni a carico,
«qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato
di salute che comporti invalidità totale».
18
FOCUS
Di tale nozione la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è trovata ad occuparsi recentemente nella causa Flora May Reyes 8.
Flora May Reyes è una cittadina filippina di ventisette anni, nata e cresciuta nelle Filippine. Al
suo mantenimento ha sempre provveduto la madre, trasferitasi in Europa da più di vent’anni e
ormai cittadina tedesca. La madre vive dal 2009 in Svezia con il marito, cittadino norvegese che
gode di una elevata pensione che destina in parte al mantenimento della famiglia della moglie.
Nel 2011, Flora May Reyes faceva ingresso nello spazio Schengen e chiedeva alle autorità svedesi il rilascio di una carta di soggiorno come discendente “a carico” di cittadino dell’Unione, ai
sensi dell’art. 2, par. 2, lett. c) della Direttiva 2004/38.
Tanto l’ufficio immigrazione quanto il giudice di primo grado respingevano tale domanda, osservando che, benché la sig.ra Reyes fosse stata costantemente mantenuta dai familiari residenti in Svezia, il mero fatto del regolare sostegno economico non poteva considerarsi sufficiente a
qualificarla come discendente a carico.
Secondo le autorità svedesi, in ragione della sua età e della sua formazione come ausiliaria infermiera, la giovane avrebbe potuto trovare un impiego nel suo Paese e cessare, dunque, di dipendere dalle rimesse europee.
Inoltre, la sig.ra Reyes aveva manifestato l’intenzione di cercare un lavoro una volta ottenuto il
diritto al soggiorno in Svezia: per le autorità svedesi, con l’inizio di un’attività lavorativa, la ragazza avrebbe perso la qualifica di familiare a carico e, conseguentemente, il diritto al soggiorno
nel Paese membro.
È per chiarire il rilievo rivestito dalle prospettive di lavoro del familiare a carico nel Paese di
provenienza e in quello di destinazione che la Corte d’Appello di Stoccolma propone rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Riprendendo quanto già affermato nel 1987 con la sentenza Lebon, la Corte di Giustizia ribadisce che «il fatto che un cittadino dell’Unione effettui regolarmente, per un periodo considerevole, il versamento di somme di denaro al proprio discendente, necessario a quest’ultimo per
sopperire ai suoi bisogni essenziali nello Stato d’origine 9, è idoneo a dimostrare la sussistenza
di una situazione di dipendenza reale di tale discendente rispetto a detto cittadino» 10; «per
contro, non è necessario stabilire quali siano le ragioni di tale dipendenza e, quindi, del ricorso
a detto sostegno» 11.
In base a questo insegnamento, avrà diritto ad essere qualificato come discendente a carico non
solo il figlio che dopo i 21 anni sia ancora mantenuto dai genitori per ragioni di salute, ma anche quello che, pur essendo astrattamente idoneo al lavoro, abbia deciso di proseguire gli studi
per raggiungere un grado più elevato di istruzione.
Si dirà di più: anche il figlio “fannullone”, se mantenuto dai genitori, avrà diritto al soggiorno
quale familiare a carico: per la Corte di Giustizia, le autorità dei Paesi membri non possono
chiedere al familiare interessato di provare di non avere alternative alla dipendenza.
L’interpretazione fornita dalla Corte costituisce attuazione del «principio secondo cui le di-
8
Sent. 16 gennaio 2014, C-423/2012, Flora May Reyes c. Migrationsverket.
Questo inciso serve ad escludere dai beneficiari del diritto al soggiorno i familiari che abbiano risorse sufficienti per mantenersi. Si pensi al figlio che abbia ereditato una cospicua eredità e che intenda raggiungere il genitore che vive in Europa.
Dopo i 21 anni, le autorità dello Stato membro di accoglienza potranno negare il diritto al soggiorno. Lo stesso varrà per i
genitori che, rimasti nel Paese di origine, godano di una pensione elevata o comunque sufficiente «per sopperire ai loro bisogni essenziali nello Stato di origine».
10
Punto 24 della sentenza.
11
Punto 23.
9
19
AIAF RIVISTA 2016/1
sposizioni che, come la direttiva 2004/38, sanciscono la libera circolazione dei cittadini dell’Unione [...] vanno interpretate in senso estensivo» 12.
A ben vedere, la scelta interpretativa della Corte di Giustizia realizza anche un altro valore altrettanto importante: quello dell’eguaglianza tra cittadini del Paese membro di accoglienza e
cittadini europei e loro familiari.
È, infatti, comune in Europa che i genitori continuino a sostenere economicamente i figli ben
oltre la maggiore età, in attesa che gli stessi abbiano accesso al mercato del lavoro e, se possibile, ad un lavoro che corrisponda alle loro aspettative. Finché non entrano nel mercato del lavoro,
i figli vengono considerati parte di quella “famiglia nucleare” la cui unità la Direttiva 2004/38 dichiara di intendere favorire.
Ebbene, genitori come la madre della sig.ra Reyes ben potranno nutrire per i propri figli, anche
se cittadini di Paesi terzi, le medesime speranze.
6. Gli altri familiari previsti dall’art. 3, par. 2, della Direttiva 2004/38
Gli stessi diritti del figlio a carico sono riconosciuti agli ascendenti “a carico”: anche in questo
caso, il cittadino dell’Unione che voglia farsi raggiungere dal genitore dovrà solo dimostrare da
un lato, di provvedere al mantenimento dell’ascendente, dall’altro, che il familiare non gode di
risorse proprie che rendano superfluo il mantenimento del figlio.
Finisce qui la lista dei familiari “qualificati”, cioè di coloro che hanno un vero e proprio diritto
soggettivo all’ingresso e al soggiorno nel Paese di residenza del cittadino europeo.
Ma la normativa europea non si ferma qui.
Accanto alla lista dei familiari prevista dall’art. 2 della Direttiva CE 38/2004, ve ne è una seconda, prevista all’art. 3, par. 2, che individua un catalogo ancora più ampio. Viene, infatti, fatto
riferimento a:
«a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, che non rientri nelle definizioni di
familiare già contenute nell’art. 2 [e cioè coniuge, discendenti e ascendenti], se è a carico o convive, nel Paese di provenienza, con il cittadino dell’Unione o se gravi motivi di salute impongono
che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente;
b) il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata
con documentazione ufficiale».
Partiamo dalla lett. a) e pensiamo a familiari che non appartengano alla cosiddetta famiglia nucleare. Un cugino o un nipote che, ad esempio, per le più varie ragioni abbia sempre vissuto con il
cittadino europeo che ora vive in Italia.
Se la relazione familiare fosse con un cittadino di un Paese terzo, non ci sarebbe nessuna possibilità di ingresso o soggiorno in Italia in ragione del vincolo familiare.
La Direttiva 2004/38, invece, afferma che il soggiorno e l’ingresso di queste persone debba essere “agevolato” dai Paesi membri.
E qui sorge il problema di cosa si debba intendere con il termine “agevolare”.
Nella sentenza Rahman 13, la Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire che «gli Stati membri
hanno un ampio potere discrezionale nella scelta» delle condizioni cui subordinare il diritto all’ingresso e al soggiorno degli “altri familiari” e che, tuttavia, tali condizioni «devono essere con12
13
Punto 23.
Sentenza CGUE (Grande Sezione), 5 settembre 2012, Rahman e al, C-83/11.
20
FOCUS
formi al significato comune del termine “agevola” e “non devono privare l’articolo 3, paragrafo
2, del suo effetto utile».
In altre parole, la scelta deve essere ragionevole e motivata: se ad esempio il diniego di ingresso
del cugino che ben può rendersi indipendente risulterà sicuramente giustificato, il medesimo
diniego nei confronti di un familiare disabile da sempre a carico del cittadino europeo meriterà
di essere sottoposto ad uno scrutinio più attento.
7. E il convivente?
L’art. 3, par. 2, alla lett. b), fa riferimento anche ad un’altra figura: quella del «partner con cui il
cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione
ufficiale».
La Corte europea non ha avuto fino ad oggi modo di pronunciarsi sull’interpretazione di tale
previsione.
Si pensi al caso del cittadino spagnolo che dopo essersi separato dalla moglie, abbia iniziato in
Spagna una relazione con altra persona, eventualmente priva, a sua volta, della cittadinanza europea. Questa persona potrà avere un titolo di soggiorno in Spagna, ma tale titolo di soggiorno
non sarà, salvi casi particolari, convertibile in un titolo di soggiorno in Italia.
Potrà quel cittadino europeo chiedere allo Stato italiano una carta di soggiorno anche per la
propria convivente?
E soprattutto quale “documentazione ufficiale” sarà idonea a dimostrare la stabilità della relazione? La Commissione europea ha sul punto significativamente osservato che l’esistenza di un
mutuo comune appare idoneo a provare la stabilità della relazione 14.
Da questa indicazione si deduce che qualsiasi documentazione idonea a provare la solidità del
vincolo potrà essere portata a supporto della propria istanza.
Il riferimento alla figura del convivente appare particolarmente significativa e, se vogliamo,
“sfidante” in un ordinamento come il nostro che – almeno al momento in cui si scrive – non ha
ancora una disciplina organica delle coppie di fatto.
Per quanto ci risulta, ad oggi, questa disposizione è stata utilizzata dall’Amministrazione italiana soltanto per le coppie dello stesso sesso coniugate o aventi un’unione registrata in un altro
Paese, ma mai in casi di conviventi di fatto che non avessero formalizzato in alcun modo ufficiale la loro unione. In altre parole, oggi l’art. 3 è spesso utilizzato per superare le lacune del nostro ordinamento quanto alla disciplina delle coppie dello stesso sesso, ma non risulta ancora
utilizzata dalle coppie conviventi.
La questione prima o poi, tuttavia, è destinata a presentarsi, visto che, quando il convivente del
cittadino europeo o italiano sia un cittadino di Paese terzo e viva all’estero, se alla convivenza
non può essere dato rilievo, l’unica alternativa è quella del matrimonio, opzione che non sempre risulta concretamente percorribile.
8. I figli che hanno iniziato un percorso di studi in Italia
Le considerazioni che precedono non sono certo esaustive. La Direttiva europea disciplina la
condizione dei familiari ben più approfonditamente, ad esempio, prendendo in considerazione
14
Commissione, Guida alla migliore trasposizione della Direttiva 2004/38 (COM (2009)313).
21
AIAF RIVISTA 2016/1
il caso in cui il matrimonio cessi per morte o divorzio o ancora l’ipotesi in cui il cittadino dell’Unione lasci il Paese ospitante (nel nostro caso, l’Italia). In tutti questi casi, la normativa europea chiarisce a quali condizioni il familiare possa conservare o meno un autonomo diritto al
soggiorno.
Non è questa la sede per approfondire tali diverse ipotesi: la normativa europea, fortunatamente, è scritta in modo chiaro e, in relazione alle ipotesi dubbie, è pressoché sempre disponibile il
chiarimento fornito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che in questi decenni ha avuto
modo di precisare quale debba essere la corretta interpretazione della normativa.
Appare, invece, opportuno richiamare una disposizione che viene costantemente dimenticata
nella prassi applicativa italiana.
Si tratta dell’art. 10, Reg. 492/2011 (già art. 12, Reg. n. 1612/1968).
Tale articolo prevede che: «i figli del cittadino di uno Stato membro, che sia o sia stato occupato sul territorio di un altro Stato membro, sono ammessi a frequentare i corsi d’insegnamento
generale, di apprendistato e di formazione professionale alle stesse condizioni previste per i cittadini di tale Stato membro, se i figli stessi vi risiedono».
Questa disposizione non sembrerebbe dire nulla di significativo all’interno di un ordinamento
come il nostro in cui l’accesso all’istruzione è universale. Non occorre certo una norma europea
per sancire il diritto dei figli dei lavoratori europei di iscriversi a scuola.
Ma l’interesse di tale disposizione non è nella sua lettera, ma in quanto da essa ha ritenuto di
poter dedurre la Corte di Giustizia. Secondo i giudici di Lussemburgo, anche dopo che i genitori hanno perso il diritto al soggiorno nel Paese ospitante, i figli che abbiano iniziato qui un
percorso di studi hanno diritto di completarlo. Perché ciò sia possibile, è riconosciuto sia a loro
che ai loro genitori un diritto al soggiorno.
Cosa significa questo?
Che il cittadino europeo che lavori, ad esempio, per 10 mesi in Italia e che poi perda il lavoro,
non sarà costretto a lasciare l’Italia dopo il periodo di disoccupazione riconosciuto dalla legislazione interna ed europea, ma avrà titolo a rimanere nel nostro Paese finché i figli terminino il
percorso di studi intrapreso.
La Corte di Giustizia ha infatti osservato che «qualora i figli godano, in forza dell’articolo 12
del Reg. n. 1612/1968 15, del diritto di proseguire il proprio percorso scolastico nello Stato
membro ospitante, mentre i genitori affidatari rischiano di perdere il loro diritto di soggiorno, il
diniego nei confronti di tali genitori della possibilità di risiedere nello Stato membro ospitante
per il periodo della frequenza scolastica dei figli potrebbe risultare tale da privare questi ultimi
di un diritto loro riconosciuto dal legislatore dell’Unione» 16.
Se normalmente è il cittadino europeo a conferire ai propri familiari il diritto a soggiornare in
Italia, in questo caso, sono i familiari a “trasferire” il loro diritto al soggiorno al genitore. A questo proposito, è interessante osservare che tale diritto al soggiorno potrebbe durare anche fino
alla fine degli studi universitari dei figli: secondo la Corte, «anche se si presume che il figlio maggiorenne, in linea di principio, sia in grado di provvedere alle proprie esigenze, il diritto di soggiorno del genitore affidatario può tuttavia protrarsi oltre il compimento della maggiore età se
il figlio continui a necessitare della presenza e delle cure del genitore per poter proseguire e
terminare gli studi» 17.
15
Ora, art. 10, Reg. n. 492/2011.
Sent. 23 febbraio 2010, Ibrahim e Secretary of State for the Home Department, C-310/08, punto 30.
17
Sent. CGUE 8 maggio 2013, C-529/11, Alarape e Tijani c. Secretary of State for the Home Department, par. 28.
16
22
FOCUS
Oggi, questa previsione è in larghissima parte sconosciuta in Italia, con la conseguenza che chi,
dopo un periodo di lavoro in Italia, si trovi disoccupato per un lungo periodo, perde tutta una
serie di diritti, pur avendo dei figli iscritti in un percorso scolastico in Italia.
È stato correttamente obiettato da alcuni funzionari pubblici che essi non applicano la normativa o la giurisprudenza della Corte europea perché non la conoscono e che sarebbe compito
dell’Amministrazione centrale fornire ai propri dipendenti e agli Enti locali notizie delle novità
giurisprudenziali.
L’obiezione è corretta.
In altri Paesi, come ad esempio nel Regno Unito, ogni nuova sentenza della Corte di Giustizia
costituisce oggetto di approfondimento da parte del Governo centrale che provvede a dare istruzioni su come darvi applicazione nell’ordinamento interno.
Una simile iniziativa, se adottata in modo sistematico anche in Italia 18, ridurrebbe significativamente il tasso di concreta disapplicazione del diritto alla libera circolazione e il soggiorno.
In sua assenza, i cittadini dell’Unione e i loro familiari che si trovino in situazioni di diritto “poco note” continueranno ad essere onerati del compito di sottoporre la normativa europea o le
sentenze della Corte di Giustizia all’attenzione delle autorità chiamate a decidere dei loro diritti.
9. I genitori di minori presi in carico dai Servizi sociali
Prima di chiudere, sembra opportuno accennare ad un’ultima questione.
Si tratta del diritto al soggiorno dei genitori di minori presi in carico dai Servizi sociali italiani o
dati in affidamento.
Si pensi ai cittadini europei che vivono in condizioni di marginalità nel nostro Paese insieme ai
figli. Che succede nel caso in cui questi minori, per decisione del Tribunale per i Minorenni,
vengano affidati ai Servizi sociali o ad una famiglia affidataria?
In genere, i genitori decideranno di rimanere in Italia fintantoché i figli non vengano loro riaffidati. Quasi sempre cercheranno di dimostrarsi genitori adeguati, ma per fare questo, nel caso in
cui non riescano a trovare un lavoro, dipenderanno dall’assistenza sociale italiana e da specifici
programmi di intervento. Assistenza e programmi che spesso vengono negati perché i genitori
non risultano residenti, non avendo diritto al soggiorno in Italia 19.
Ebbene, qualora una simile situazione venisse presentata alla Corte di Giustizia, riteniamo che
il diritto al soggiorno di tali genitori verrebbe riconosciuto quale ulteriore fattispecie protetta
dal diritto dell’Unione europea.
Tanto la Carta Europea dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, quanto la CEDU tutela-
18
Qualcosa si fa, ma in modo non sistematico. Si pensi alle utili indicazioni fornite dal Ministero dell’Interno con la Circolare 21 luglio 2009, n. 18 emanata a seguito della Guida alla migliore trasposizione della Direttiva 2004/38 della Commissione europea (COM (2009)313).
19
In realtà, l’art. 1 della l. n. 184/1983, come modificato dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, prevede:
«1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.
2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo
all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno
e di aiuto.
3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto
della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. [...]».
Da tale disposizione si ricava che l’irregolarità del soggiorno del genitore non dovrebbe essere d’ostacolo al suo accesso all’assistenza sociale e alle altre previsioni che permettano la riunione del nucleo familiare.
23
AIAF RIVISTA 2016/1
no la vita familiare quale diritto fondamentale e il diniego del diritto al soggiorno in un caso
come questo ne determinerebbe un’evidente violazione 20.
A ciò si potrebbe aggiungere uno degli argomenti funzionalisti più utilizzati dalla Corte per costruire il sistema della libera circolazione e del soggiorno: se il cittadino dell’Unione sapesse
che, trovandosi in una simile situazione, si vedrebbe negato il diritto a soggiornare nel Paese
dove vivono i figli, rinuncerebbe a circolare e risiedere in un Paese europeo diverso dal proprio.
Trattandosi di diritti fondamentali, il medesimo ragionamento dovrebbe trovare applicazione
anche al genitore cittadino di Paese terzo di minore a sua volta non europeo.
10. Conclusioni
Come è evidente, la normativa sulla libera circolazione e sul soggiorno riguarda questioni
tutt’altro che astratte che toccano temi decisivi come la nozione di famiglia rilevante a livello
europeo e i diritti fondamentali che devono essere garantiti a chi si sposti all’interno dei confini
dell’Unione.
Tale normativa sembra, peraltro, destinata a rivestire in futuro un’importanza sempre crescente
per almeno un triplice ordine di ragioni.
In primo luogo, come l’esperienza quotidiana dimostra, è sempre più frequente spostarsi in un
altro Paese membro per ragioni affettive, non solo lavorative.
In secondo luogo, se la legge sulla cittadinanza italiana verrà riformata 21, ampliando significativamente il numero di persone che potranno acquisirla alla nascita o dopo un percorso di studi
in Italia, la normativa europea troverà applicazione anche a situazioni che, in assenza della riforma, non avrebbe regolato.
In terzo luogo, sia pure indirettamente, ci sembra che questa sia la normativa che fungerà da
modello per qualche miglioramento anche della normativa in materia di unità familiare dei cittadini di Paesi terzi.
I diritti riconosciuti ai cittadini europei e ai loro familiari già sono stati presi come punto di riferimento nel momento di disciplinare, a livello europeo, i diritti dei cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, cioè i diritti degli stranieri che vivono regolarmente in un Paese europeo da almeno cinque anni. Nel regolamentare in modo uniforme la loro condizione, il legislatore ha
guardato alla disciplina prevista dalla Direttiva 2004/38.
È probabile che la materia del ricongiungimento familiare dei cittadini di Paesi terzi, per il suo
carattere estremamente sensibile, rimarrà sempre assai meno favorevole di quella prevista per i
cittadini dell’Unione. Tuttavia, l’assenza di ragionevolezza di talune distinzioni potrebbe venire
corretta dal legislatore europeo, proprio attraverso l’analogia con la disciplina in materia di unità familiare dei cittadini dell’Unione.
Disciplina che, per queste plurime ragioni, appare avere la vocazione per affermarsi come modello di riferimento della concezione di unità familiare in ambito migratorio a livello europeo.
20
Il medesimo ragionamento dovrebbe trovare applicazione anche nel caso in cui la famiglia sia composta interamente di
cittadini di Paesi terzi, trattandosi di tutelare diritti fondamentali di cui sicuramente sono titolari anche i cittadini non europei.
21
Cfr. in questo numero della Rivista, B. BAREL, Cosa cambia con la nuova legge sulla cittadinanza?, p. 35.
24
FOCUS
CITTADINI STRANIERI E DIRITTO ALLA RESIDENZA
Anna Brambilla
Avvocato in Milano
Sommario: 1. Iscrizione anagrafica e residenza. – 2. Presupposti e requisiti per l’iscrizione anagrafica dei cittadini
stranieri e dei cittadini dell’Unione europea. – 3. Richiedenti e beneficiari protezione internazionale, residenza,
domicilio e accesso all’accoglienza e alla procedura. – 4. Cittadini stranieri e residenza: una riflessione conclusiva.
1. Iscrizione anagrafica e residenza
Secondo quanto previsto dalla l. n. 1228/1954 1 in ogni Comune deve essere tenuto lo schedario della popolazione residente, definito dall’art. 1, d.p.r. n. 223/1989 2 come «la raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze
che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa
dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio» 3.
L’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente consente l’esercizio del diritto di residenza che costituisce, come affermato dalla Corte di Cassazione, S.U., con sent. 19 giugno 2000, n.
449, un diritto soggettivo del cittadino a cui corrisponde l’obbligo dell’ufficiale dell’anagrafe di
procedere, in presenza dei presupposti di legge, all’iscrizione richiesta.
Al tempo stesso, l’iscrizione anagrafica nelle liste della popolazione residente è un dovere 4 ed è
il presupposto per l’esercizio di molti diritti civili e politici, nonché per l’accesso a molte prestazioni sociali; in particolare è il presupposto per il rilascio della carta di identità e delle certificazioni anagrafiche 5, per chiedere e ottenere il conseguimento della patente di guida italiana o la
1
L. 24 dicembre 1954, n. 122, Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente.
Regolamento anagrafico della popolazione residente e d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 e successive modificazioni; dal 18
agosto 2015 è in vigore il nuovo Regolamento Anagrafico della popolazione residente che ha recepito le modifiche apportate dal d.p.r. 17 luglio 2015, n. 126. Per una sintesi esplicativa delle modifiche apportate si veda la Circolare del Ministero
dell’Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Direzione Centrale per i Servizi Demografici del 2 ottobre
2015, n. 12.
3
L’art. 8, l. n. 1228/1954 e l’art. 32, d.p.r. n. 223/1989 prevedono anche che presso ogni Comune deve essere tenuto il registro
della popolazione temporaneamente presente; la popolazione temporanea è costituita dalle persone che, dimorando nel Comune da non meno di quattro mesi, non si trovano ancora in condizione di stabilirvi la residenza per qualsiasi motivo. L’iscrizione
in questo schedario può essere fatta su domanda dell’interessato o d’ufficio e esclude il rilascio di certificazioni anagrafiche.
4
Art. 2, l. n. 1228/1954 e art. 15, d.p.r. n. 223/1989.
5
In base al nuovo regolamento anagrafico, le certificazioni anagrafiche possono essere rilasciate anche presso Comuni diversi da quello in cui risiede la persona a cui le certificazioni si riferiscono.
2
25
AIAF RIVISTA 2016/1
conversione della patente di guida estera, per poter accedere all’assistenza sociale e ai bandi per
l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica o ad altre tipologie di sussidio, quale
quello per i canoni di locazione.
La residenza è legata alla dimora abituale 6 che si compone di un elemento oggettivo, la permanenza in un luogo, e da un elemento soggettivo, coincidente con l’intenzione di avervi stabile dimora 7.
La richiesta di iscrizione anagrafica, attraverso cui si dimostra la volontà di avere stabile dimora
in un determinato luogo, può essere effettuata per nascita 8, per esistenza giudizialmente dichiarata o per trasferimento di residenza dall’estero tenuto conto delle particolari disposizioni relative alle persone senza fissa dimora 9.
Riguardo all’elemento oggettivo, necessario per l’iscrizione anagrafica nelle liste della popolazione residente, esso consiste nella sussistenza di almeno uno dei seguenti elementi: a) dimora
abituale nel Comune 10; b) in mancanza della dimora abituale, domicilio (effettivo) nel Comune; c) in mancanza del domicilio, nascita nel Comune.
2. Presupposti e requisiti per l’iscrizione anagrafica dei cittadini stranieri e dei cittadini
dell’Unione europea
L’iscrizione anagrafica dei cittadini stranieri, intesi come cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea, avviene alle medesime condizioni previste per i cittadini italiani, con l’unico ulteriore presupposto della regolarità del soggiorno sul territorio dello Stato 11.
Sul punto è tornato più volte anche il Ministero dell’Interno, per precisare che, ai fini anagrafici, è regolare sia lo straniero in possesso di titolo di soggiorno in corso di validità sia lo straniero
in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno 12 o in attesa di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato 13 o per motivi familiari 14.
6
Art. 3, d.p.r. n. 223/1989.
Cfr. anche Cass. 5 febbraio 1985, n. 791; Cass. 14 marzo 1986, n. 1738; Cass. 21 giugno 1955, n. 1925; Cass. 17 ottobre
1955 n. 3226; Cass. 17 gennaio 1972, n. 126.
8
L’art. 7, d.p.r. n. 223/1989 stabilisce che l’iscrizione anagrafica per nascita debba avvenire nel comune di residenza dei
genitori o della madre se i genitori risultino residenti in comuni diversi ovvero, nel caso in cui i genitori siano ignoti, nel comune di residenza della persona a cui sono stati affidati.
9
Per le modalità di iscrizione anagrafica vedi d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di
sviluppo, convertito con modificazione dalla l. 4 aprile 2012, n. 35 che ha previsto una semplificazione delle iscrizioni anagrafiche. Si evidenzia che le dichiarazioni anagrafiche sono esenti da qualsiasi tassa o diritto.
10
In questo caso la presenza della persona in un determinato luogo nel territorio di un Comune deve essere rilevabile attraverso un accertamento (art. 19, 2° comma, d.p.r. n. 223/1989) da effettuarsi proprio nel luogo dichiarato nella apposita
richiesta.
11
Art. 6, 7° comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; art. 5, 3° comma, d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazione dalla l. 4 aprile 2012, n. 35 e Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale per i servizi demografici,
Circolare n. 9/2012.
12
Il rinnovo deve essere stato chiesto non oltre 60 gg. dalla scadenza e deve essere esibita la ricevuta attestante la richiesta
di rinnovo del permesso di soggiorno (Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale per i
servizi demografici, Circolare 17 novembre 2006, n. 42).
13
Per i documenti necessari all’iscrizione anagrafica si veda Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale per i servizi demografici, Circolare 2 aprile 2007, n. 16.
14
Per i documenti necessari all’iscrizione anagrafica si veda Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale per i servizi demografici, Circolare 2 agosto 2007, n. 43.
7
26
FOCUS
Chi trasferisce la residenza dall’estero deve inoltre comprovare, all’atto della dichiarazione di
iscrizione anagrafica per trasferimento dall’estero, la propria identità mediante l’esibizione del
passaporto o di altro documento equipollente. Se il trasferimento concerne anche la famiglia,
deve esibire inoltre atti autentici che ne dimostrino la composizione, rilasciati dalle competenti
autorità dello Stato di provenienza se straniero o apolide, o dalle autorità consolari se cittadino
italiano 15.
Secondo quanto disposto dall’art. 7, d.p.r. n. 223/1989, gli stranieri iscritti in anagrafe hanno
l’obbligo di rinnovare all’ufficiale di anagrafe la dichiarazione di dimora abituale nel comune di residenza, entro sessanta giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno, corredata dal permesso medesimo senza tuttavia decadere dall’iscrizione nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno 16.
Trascorsi sei mesi dalla data di scadenza del titolo di soggiorno, il cittadino straniero che non
ha provveduto ad effettuare la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 7, d.p.r. n. 223/1989, deve
essere invitato a rendere la dichiarazione entro 30 giorni, con l’avvertenza che, se non si presenta entro il termine stabilito nella lettera di preavviso inviata dal comune di residenza, verrà cancellato d’ufficio dall’anagrafe della popolazione residente 17.
Per quanto riguarda i cittadini dell’Unione europea, coloro che intendono soggiornare in Italia,
per un periodo superiore a tre mesi devono effettuare richiesta di iscrizione anagrafica, ai sensi
dell’art. 9, d.lgs. n. 30/2007, con conseguente rilascio di un attestazione contenente l’indicazione del nome e della dimora del richiedente, nonché la data della richiesta.
I cittadini dell’Unione europea, entro il termine di dieci giorni dalla scadenza del terzo mese dal
loro ingresso sul territorio italiano, hanno pertanto l’obbligo, se intendono continuare a soggiornare regolarmente in Italia, di rendere la dichiarazione anagrafica e di chiedere l’attestazione del diritto di soggiorno 18.
Per i cittadini stranieri così come per i cittadini italiani, la residenza rappresenta un diritto soggettivo 19 nonché, come già evidenziato, la porta d’accesso a numerosi altri diritti; in particolare
la durata della residenza regolare ininterrotta costituisce non solo uno dei presupposti per la
concessione della cittadinanza italiana nei casi previsti dalla l. n. 91/1992, ma in molti casi il requisito per la fruibilità di determinate prestazioni sociali, previsto spesso in modo discriminatorio in quanto finalizzato ad escludere dalla fruibilità di dette prestazioni chi, come i cittadini
stranieri, non è presente da lungo tempo sul territorio 20.
Tra i cittadini stranieri, così come del resto tra i cittadini italiani, coloro che incontrano maggiori difficoltà nell’accesso alla residenza sono quelli che si trovano in una posizione di maggiore fragilità, magari perché privi di reti sociali di riferimento 21; esemplificativo in questo senso
15
Art. 14, d.p.r. n. 223/1989.
Per gli stranieri muniti di carta di soggiorno, il rinnovo della dichiarazione di dimora abituale è effettuato entro 60 gg. dal
rinnovo della carta di soggiorno. L’ufficiale di anagrafe aggiornerà la scheda anagrafica dello straniero, dandone comunicazione al questore. Nelle schede anagrafiche riguardanti i cittadini stranieri devono essere indicati gli estremi del titolo di soggiorno e la cittadinanza, oltre agli altri dati previsti anche per i cittadini italiani (art. 20, d.p.r. n. 223/1989) tra i quali anche
la condizione di senza fissa dimora.
17
Art. 11, d.p.r. n. 223/1989, come modificato dalla l. n. 94/2009. Si precisa peraltro che per le persone già cancellate per
irreperibilità e successivamente ricomparse devesi procedere a nuova iscrizione anagrafica.
18
La documentazione necessaria per l’iscrizione anagrafica di cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea è prevista
dall’allegato B alla Circolare n. 9/2012 del Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali Direzione centrale per i servizi demografici.
19
Cons. St., Sez. I, sent. 4 febbraio 2004, n. 5453/03 e dalla Cass., S.U., sent. 19 giugno 2000, n. 449.
20
Per approfondimenti sull’illegittimità del requisito della residenza prolungata nel tempo per determinate prestazioni si
veda A. GUARISO-V. RIMONDINI, Manuale pratico per il contrasto alle discriminazioni degli stranieri nell’accesso alle prestazioni sociali (con il sostegno di Otto per Mille Chiesa Valdese e Fondazione Italiana Charlemagne ONLUS), www.asg.it.
21
Per un approfondimento delle iniziative dei sindaci in materia di residenza dei cittadini stranieri si rimanda a, E. GAR16
27
AIAF RIVISTA 2016/1
risulta essere il caso dei richiedenti protezione internazionale e titolari di protezione internazionale 22.
3. Richiedenti e beneficiari protezione internazionale, residenza, domicilio e accesso all’accoglienza e alla procedura
Il d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142 23 è intervenuto anche al fine di risolvere, almeno sulla carta, alcune questioni critiche relative sia all’accesso alla procedura e al domicilio sia all’iscrizione anagrafica dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale.
Tali questioni sono strettamente connesse alle caratteristiche dell’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale, o più spesso, alla loro mancata accoglienza, considerato che, sebbene l’accesso alle misure di accoglienza debba essere assicurato fin dal momento in cui viene
manifestata la volontà di chiedere protezione internazionale 24, molti richiedenti e beneficiari di
protezione internazionale si trovano fuori dai circuiti dell’accoglienza, costretti ad adattarsi a
soluzioni abitative precarie o, più drammaticamente, a dormire in strada.
Questa situazione, già di per se lesiva di diritti fondamentali, ha paradossalmente costituito un
ostacolo sia per i richiedenti protezione internazionale soprattutto nella fase di accesso alla
procedura sia per i beneficiari di protezione internazionale e umanitaria, specie in termini di
effettivo esercizio del diritto di residenza 25.
Si è a lungo rilevata, ed in realtà si rileva tuttora, la prassi di molte questure di richiedere una
dichiarazione di ospitalità 26 o altra documentazione simile attestante l’effettiva disponibilità di
un alloggio, al fine di poter procedere alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale, nell’erronea convinzione che sia previsto un obbligo per il richiedente di avere una
dimora propria o di dover indicare un domicilio o una residenza, nel senso civilistico del termine 27, al fine di accedere alla procedura.
Al fine di superare tali prassi, il legislatore è intervenuto prima con il d.p.r. n. 21/2015 28 e poi
con il d.lgs. n. 142/2015; in particolare in base all’art. 3, d.p.r. n. 21/2015 l’ufficio della questura che provvede alla formalizzazione della richiesta, invita il richiedente ad eleggere domicilio,
GIULO, Integrazione o esclusione? I meccanismi di selezione dei non cittadini tra livello statale e livello locale, in Dir., imm. e citt.,
2014, 1, p. 41.
Sul punto si veda anche SERVIZIO CENTRALE-UNHCR-ASGI-ANUSCA (a cura di), Linee guida sul diritto alla residenza dei
richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, dicembre 2014.
23
Il d.lgs. n. 142/2015 ha trasposto in Italia la Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale e la Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca
dello status di protezione internazionale, pubblicato sulla G.U., Serie Generale, del 15 settembre 2015, n. 214 è entrato in
vigore il 30 settembre 2015.
24
Art. 17, Direttiva 2013/33/UE e art. 1, d.lgs. n. 142/2015.
25
L’art. 26 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 stabilisce che: «ciascuno Stato contraente concede ai rifugiati che soggiornano regolarmente sul suo territorio il diritto di scegliervi il loro luogo di residenza»; in base al
successivo art. 27, gli Stati contraenti hanno l’obbligo di rilasciare i documenti d’identità «a tutti i rifugiati che risiedono sul
territorio e non possiedono un titolo di viaggio valido».
26
Art. 7, d.lgs. n. 286/1998.
27
Tale convinzione derivava dall’errata interpretazione dell’art. 11, 2° e 3° comma, d.lgs. n. 25/2008 in base ai quali: «Il richiedente è tenuto ad informare l’autorità competente in ordine ad ogni suo mutamento di residenza o domicilio. In caso
di mancata osservanza dell’obbligo di cui al 2° comma, eventuali comunicazioni concernenti il procedimento si intendono
validamente effettuate presso l’ultimo domicilio del richiedente». Per i concetti giuridici di domicilio e residenza si rimanda all’art. 43 c.c.
28
Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale, ex art. 38, 1°
comma, d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25.
22
28
FOCUS
anche ai fini delle successive comunicazioni. Tale obbligo di comunicazione, è assolto, secondo
quanto disposto dall’art. 5, 1° comma, d.lgs. n. 142/2015, «tramite dichiarazione da riportare
nella domanda di protezione internazionale». Perciò ai fini della presentazione della domanda
non è richiesta alcuna altra allegazione di documenti concernenti il domicilio e il richiedente
potrà fornire alla questura l’indirizzo, anche di un associazione, di un ente di tutela o di un legale, presso cui ricevere le comunicazioni 29.
Analogamente, in base a quanto disposto dall’art. 4, 4° comma, d.lgs. n. 142/2015, la questura
non può subordinare l’accesso all’accoglienza o il rilascio del permesso di soggiorno alla sussistenza di requisiti ulteriori rispetto a quelli espressamente richiesti dal d.lgs. n. 142/2015; in
base a tale previsione dunque, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, le questure non possono pretendere requisiti non previsti dalla legge, quali la dichiarazione di ospitalità o l’iscrizione anagrafica.
L’illegittimità della richiesta di dimostrare la disponibilità di un alloggio ai fini dell’accesso alla
procedura e del rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo era peraltro già stata riconosciuta dal Tribunale di Trento con riferimento alle prassi della Questura di Bolzano di subordinare la ricezione della domanda alla dimostrazione del possesso di un’effettiva dimora e di
non procedere, in assenza, al rilascio del permesso di soggiorno 30.
La richiesta di produrre certificazioni attestanti l’avvenuta iscrizione anagrafica deve del resto
considerarsi illegittima anche quando avvenga in fase di rilascio del permesso di soggiorno per
protezione internazionale o umanitaria così come chiarito dallo stesso Ministero dell’Interno,
Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione con Circolare del 18 maggio 2015, in quanto «il possesso di un valido titolo di soggiorno è il presupposto per l’iscrizione anagrafica e non
anche il contrario (...). Nei medesimi termini va detto che, dalle principali previsioni normative
inerenti il rinnovo del permesso di soggiorno, emerge, altresì, inequivocabilmente l’assenza di
disposizioni che impongano la dimostrazione da parte del richiedente, titolare dello status di
protezione internazionale, di una sistemazione alloggiativa».
A supporto di tale considerazione, la Circolare del Ministero dell’Interno fa riferimento all’art.
5, 4° comma, d.lgs. n. 286/1998 da cui emerge che il rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposto alla verifica della sussistenza delle condizioni previste per il rilascio, e all’art. 9, 6°
comma, d.p.r. n. 394/1999 che chiarisce che la documentazione richiesta ordinariamente ai fini
del rilascio del permesso di soggiorno 31 non è, tuttavia, necessaria per i cittadini stranieri richiedenti asilo 32 «e, in base al combinato disposto con l’art. 5 suddetto, deve intendersi, altresì,
esclusa per i titolari dello status di protezione internazionale in occasione della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno» in quanto non prevista come condizione in fase di rilascio.
Proprio sulla base di quanto chiarito dalla citata Circolare, l’illegittimità della richiesta di iscri-
29
In base a quanto disposto dall’art. 5, 2° comma, d.lgs. n. 142/2015 per il richiedente trattenuto o accolto nei centri o
strutture, siano essi di prima o di seconda accoglienza o anche CIE, l’indirizzo del centro costituisce il luogo di domicilio
valevole agli effetti della notifica e delle comunicazioni degli atti relativi al procedimento di esame della domanda, nonché
di ogni altro atto relativo alle procedure di trattenimento o di accoglienza di cui al presente decreto.
30
Trib. Trento, ord. 6 maggio 2015, rel. Dott.sa Serena Alinari e successivamente Trib. Trento 18 giugno 2015, rel. Dott.sa
Alessandra Mantovani.
31
L’art. 9, 4° comma, d.p.r. n. 394/1999 prevede che può essere richiesta, quando occorre verificare la sussistenza delle
condizioni previste dal testo unico, l’esibizione della documentazione o di altri elementi occorrenti anche per comprovare
la disponibilità di altre risorse o dell’alloggio, nei casi in cui tale documentazione sia richiesta dal testo unico o dal regolamento.
32
L’art. 9, 6° comma, d.p.r. n. 394/1999 specifica altresì che tale documentazione non è necessaria nemmeno per gli stranieri ammessi al soggiorno per motivi di protezione sociale e di protezione temporanea, nonché per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide.
29
AIAF RIVISTA 2016/1
zione anagrafica ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per protezione internazionale o
umanitaria è stata riconosciuta dal Tribunale di Roma nel caso di un titolare di permesso di
soggiorno per motivi umanitari per il quale la Questura di Roma aveva dichiarato l’irricevibilità
della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno elettronico, sul presupposto della mancata
iscrizione dell’istante all’anagrafe del comune di residenza 33.
Sebbene la Circolare sia stata adottata con specifico riferimento alla prassi della Questura di
Roma, si evidenzia che la richiesta di documentazione attestante l’iscrizione anagrafica venga
fatta a tutt’oggi anche da altre questure 34; tali prassi sono tanto più gravi se si considera che i
richiedenti e i titolari di protezione internazionale o umanitaria sono tra i primi a volere l’iscrizione anagrafica ma che tale diritto gli viene spesso impedito dai Comuni, adducendo problematiche riguardanti la documentazione in loro possesso o le caratteristiche della dimora abituale. In proposito deve evidenziarsi che non solo i richiedenti asilo titolari di permesso di soggiorno 35 hanno diritto all’iscrizione nel registro della popolazione residente ma che, in base a
quanto disposto dagli artt. 4, 3° comma e 5, 3° comma, d.lgs. n. 142/2015, anche la ricevuta attestante la formalizzazione della richiesta di protezione internazionale deve essere considerata documento valido ai fini dell’iscrizione, costituendo, la stessa, permesso di soggiorno provvisorio 36.
Riguardo all’impossibilità da parte dei richiedenti protezione internazionale di esibire un passaporto o un documento equipollente, si osserva che l’assenza di tali documenti non può pregiudicare il diritto di iscrizione anagrafica, come chiarito dal Ministero dell’Interno, poiché:
«mancando un passaporto o documento equipollente, si ritiene che si possa procedere alla loro identificazione mediante il titolo di soggiorno, che a mente dell’articolo 1, lett. c del DPR
445/2000 riveste la natura di documento di riconoscimento in quanto documento munito di
fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare. Pertanto, i dati ricavabili dal permesso di soggiorno, in mancanza di idonea documentazione o prova contraria, devono essere registrati agli atti anagrafici (...)» 37.
In caso di iscrizione anagrafica di un nucleo familiare e di impossibilità per il richiedente o titolare di protezione internazionale o umanitaria di produrre copia degli atti originali tradotti e
legalizzati comprovanti lo stato civile e la composizione familiare: «per quanto attiene alle generalità dei richiedenti e a quelle dei figli minori non coniugati, presenti sul territorio nazionale
all’atto della presentazione della richiesta stessa, fanno riferimento, ai sensi della vigente normativa, alle generalità riportate sul verbale d’interrogatorio (modello C3) redatto dalle Questure competenti per territori per la formalizzazione della richiesta d’asilo» 38.
Quanto ai richiedenti e ai beneficiari di protezione internazionale presenti nel sistema di acco33
Ordinanza Trib. Roma 9 febbraio 2016, Dott.sa Damiana Colla.
Si veda ad es. il sito della Questura di Caserta che specifica «Per le prenotazioni del riconoscimento protezione internazionale occorre consegnare fotocopia (...) del certificato di residenza o iscrizione anagrafica».
35
Si evidenzia che i richiedenti asilo titolari di permesso di soggiorno possono essere sia in attesa di audizione presso la
Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, sia in fase di ricorso giurisdizionale e che
anche i titolari di permesso di soggiorno per motivo “convenzione Dublino” sono da considerarsi richiedenti la protezione
internazionale.
36
Si veda anche il parere del Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali, del 18 febbraio 2004 in base al
quale: «La Legge 8.2.1998, n. 40, non fa distinzione tra le differenti tipologie di permesso di soggiorno né condiziona
l’iscrizione anagrafica ad una durata minima dello stesso permesso, facendo intendere che anche un permesso di breve durata consente l’iscrizione anagrafica».
37
Ministero dell’Interno, parere in risposta al quesito «iscrizione-permesso di soggiorno per motivi umanitari» del 4 giugno 2006, su http://www.servizidemografici.interno.it.
38
Parere espresso dalla Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo del 24 aprile 2009.
34
30
FOCUS
glienza, il già richiamato art. 5, d.lgs. n. 142/2015 dispone, al 3° comma, che i centri di prima
accoglienza 39, i centri straordinari di accoglienza 40 nonché le strutture del sistema territoriale
di accoglienza SPRAR 41 «rappresentano luogo di dimora abituale ai fini dell’iscrizione anagrafica, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’art. 6,
comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per il richiedente già identificato, a cui
è stato rilasciato il permesso di soggiorno per richiesta di asilo, ovvero la ricevuta attestante la
presentazione della richiesta di protezione» 42.
L’espresso richiamo alla disciplina prevista dall’art. 6, 7° comma, d.lgs. n. 286/1998, in base al
quale la permanenza superiore a 3 mesi in un centro d’accoglienza costituisce dimora abituale,
comporta che nei casi in cui il richiedente asilo abbia ottenuto l’iscrizione anagrafica in un Comune l’ufficio debba dare comunicazione alla questura competente dell’avvenuta iscrizione o
variazione.
Si osserva che i centri di prima accoglienza, e spesso anche quelli straordinari, sono organizzati
in forma collettiva; l’ospitalità in questi centri può configurarsi come convivenza anagrafica in
quanto le persone vi coabitano per motivi di assistenza 43.
Nei casi di convivenza anagrafica, le dichiarazioni anagrafiche sono rese dal responsabile della
convivenza, da individuare nella persona che dirige la struttura mediante apposito incarico professionale, che sarà pertanto responsabile delle richieste di iscrizione anagrafica. Allo stesso modo, il responsabile della convivenza dovrà comunicare, ai sensi dell’art. 10, d.p.r. n. 223/1989, le
mutazioni anagrafiche e quindi i nominativi degli ospiti che non sono più accolti nel centro;
anche in questi casi tuttavia la cancellazione potrà avvenire nel rispetto di quanto previsto
dall’art. 11, d.p.r. n. 223/1989, ovvero per morte, trasferimento all’estero dello straniero 44 ovvero per irreperibilità accertata 45 o per il caso, già descritto in precedenza, di mancato rinnovo
della dichiarazione di dimora abituale, trascorsi sei mesi dalla scadenza del permesso di soggiorno o della carta di soggiorno.
Si ritiene altresì che il richiedente o beneficiari di protezione internazionale adulto ospitato
presso un centro possa esso stesso chiedere l’iscrizione anagrafica, ferma restando la possibilità
per l’Ufficiale d’anagrafe, in sede di accertamento, di chiedere conferma al responsabile dell’effettiva abitualità della dimora presso il centro, senza che lo stesso possa opporsi all’iscrizione se
ricorrono i presupposti di legge 46.
39
I richiedenti dovrebbero rimanere nei centri di prima accoglienza per il tempo necessario allo svolgimento delle operazioni di identificazione e verbalizzazione per poi essere trasferiti nelle strutture di seconda accoglienza, tuttavia in caso di
indisponibilità di posti possono restare in tali strutture per il tempo necessario al trasferimento, art. 9, d.lgs. n. 142/2015.
40
Art. 11, d.lgs. n. 142/2015.
41
Art. 14, d.lgs. n. 142/2015.
42
Come evidenziato nelle Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e dei beneficiari di protezione internazionale, «con l’ingresso in una struttura di accoglienza SPRAR, si realizzano i presupposti di legge dell’abitualità della dimora
anche prima che siano trascorsi i tre mesi richiesti dall’art. 6, comma 7 del TU immigrazione e dunque fin dall’inizio può
ottenere l’iscrizione anagrafica (...) Si esclude in entrambe le ipotesi, invece, la prassi dell’iscrizione nello schedario della
popolazione temporanea».
43
Art. 5, d.p.r. n. 223/1989; secondo quanto disposto dall’art. 22, d.p.r. n. 223/1989 per ciascuna convivenza residente nel
comune deve essere compilata una scheda di convivenza.
44
Il d.p.r.17 luglio 2015, n. 126 ha disposto la modifica dell’art. 11, 1° comma, lett. b) che prevedeva, prima della modifica,
anche la cancellazione per trasferimento della residenza in altro comune.
45
È il caso dell’irreperibilità accertata a seguito delle risultanze delle operazioni del censimento, o quando, in seguito a ripetuti
accertamenti, opportunamente intervallati, la persona sia risultata irreperibile all’indirizzo; in quest’ultimo caso la cancellazione non è immediata, ma deve darsi opportuna comunicazione di avvio del procedimento (artt. 7-8, l. n. 241/1990) e l’irreperibilità all’indirizzo deve perdurare da almeno un anno (Circolare del Ministero dell’Interno n. 21/1990).
46
Peraltro, la mancata presenza nell’alloggio di residenza in occasione dei controlli effettuati dagli organi di polizia non co-
31
AIAF RIVISTA 2016/1
Non sempre i richiedenti e i beneficiari di protezione internazionale sono accolti all’interno di
strutture di accoglienza e spesso sono costretti a dormire per strada, in alloggi di fortuna o ancora in stabili abbandonati o occupati.
In questi casi, le problematiche connesse all’esercizio del diritto di residenza sono diverse ed
ulteriori rispetto a quelle già esaminate.
Come ricordato dalla Circolare del Ministero dell’Interno del 18 maggio 2015, laddove non vi
sia una situazione alloggiativa certa, si potrà procedere all’iscrizione degli stessi come persone
senza fissa dimora; l’art. 2, 3° comma, l. n. 1228/1954, modificato dalla l. n. 94/2009, prevede,
che «la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune dove ha stabilito il
proprio domicilio. La persona stessa, al momento della richiesta di iscrizione, è tenuta a fornire
all’ufficio di anagrafe gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire
l’effettiva sussistenza del domicilio. In mancanza del domicilio, si considera residente nel comune di nascita» 47.
Nel caso di alloggi di fortuna, utilizzati quale abitazione, occorre ricordarsi che gli accertamenti
svolti dopo ogni richiesta di residenza devono essere finalizzati esclusivamente ad accertare
una situazione di fatto e cioè la presenza stabile (abituale) del richiedente nel territorio comunale e l’intenzione di mantenerla; devono pertanto ritenersi illegittime sia le prassi caratterizzate dalla richiesta di ulteriori condizioni per l’iscrizione anagrafica, quali indagini preventive sulle condizioni personali o particolare produzione documentale non richiesta dalla legge sia quelle che pongono a motivo della mancata iscrizione «la natura dell’alloggio, quale ad esempio un
fabbricato privo di licenza di abitabilità ovvero non conforme a prescrizioni urbanistiche, grotte, alloggi in roulottes» 48.
Un potenziale ostacolo all’iscrizione anagrafica dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale che vivono in condizioni di precarietà potrebbe derivare dall’art. 5, d.l. n. 47/2014, convertito in l. n. 80/2014 in base alla quale «Chiunque occupa abusivamente un immobile senza
titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge».
A seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, il Ministero dell’Interno ha previsto la necessità di acquisire, in sede di dichiarazione anagrafica, informazioni relative al titolo di occupazione
dell’immobile presso il quale l’interessato intende fissare la propria dimora abituale, prevedendo
tuttavia la possibilità di sostituire la relativa documentazione con autocertificazioni 49.
stituisce prova determinante della non veridicità delle dichiarazioni rese dalla persona all’ufficio anagrafe di voler trasferire
la propria dimora abituale nel territorio (TAR Marche 6 agosto 2003, n. 955).
47
A differenza che nel caso della dimora abituale, non viene richiesta l’indicazione di un preciso indirizzo e l’ufficiale di
anagrafe non deve procedere agli accertamenti relativi all’abitualità del domicilio (Ministero dell’Interno, Direzione generale dell’Amministrazione civile, Circolare n. 1/1997). In questi casi, l’iscrizione anagrafica può quindi avvenire presso una
via territorialmente non esistente ovvero ad es. all’indirizzo di un’associazione o di un altro luogo a cui comunque il soggetto è in qualche modo stabilmente legato, tenendo in considerazione, ai fini dell’accertamento dell’effettiva presenza, elementi
quali l’iscrizione a corsi scolastici, l’iscrizione al servizio sanitario o ancora la frequenza di servizi di assistenza. Si veda ad es. la
delibera del Comune di Torino del 23 dicembre 2013 che ha istituito il numero civico 3 di via della Casa Comunale.
48
Circolare Ministero dell’Interno – Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale dei servizi demografici n. 8
del 1995. Neanche le abitazioni con precarie condizioni igienico-sanitarie, possono impedire l’iscrizione anagrafica; tuttavia si evidenzia che l’art. 1 della l. anagrafica n. 1228/1954, come modificato dalla l. n. 94/2009, dispone che «L’iscrizione
e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme
sanitarie». Sul punto si veda Ministero dell’Interno, Dipartimento affari interni e territoriali-Direzione centrale dei servizi
demografici n. 1/2013; Cons. St., Sez. I, Parere n. 4849/2012; TAR Lombardia 13 maggio 2011, n. 1238.
49
Circolare Ministero dell’Interno, Dipartimento Affari Interni e Territoriali, Direzione centrale per i Servizi Demografici,
6 agosto 2014, n. 14 e relativo allegato contenente il modello di dichiarazione di residenza in cui viene richiesto di dichia-
32
FOCUS
Successivamente con una risoluzione del febbraio 2015 50, il Ministero dell’Interno ha inteso
fornire un’interpretazione del suddetto art. 5, l. n. 80/2014, utile a tenere conto delle altre
norme dell’ordinamento e, soprattutto, a garantire al fine di garantire piena tutela al diritto di
residenza quale diritto soggettivo primario; in base a tale risoluzione, «poiché il criterio della
dimora abituale non può essere applicato a coloro che abitino in un immobile occupato abusivamente, non è possibile individuare altra soluzione se non l’iscrizione per domicilio, in analogia alle persone senza fissa dimora. Tale soluzione alla quale si dovrà ricorrere come extrema
ratio garantisce il rispetto del diritto di iscrizione anagrafica e di conseguenza di tutti i diritti
costituzionalmente garantiti per i quali essa costituisce il presupposto fondamentale».
Deve peraltro osservarsi che, come evidenziato anche dal Ministero dell’Interno 51, l’introduzione dell’art. 5, l. n. 80/2014 è stata determinata dalla volontà di «consentire il ripristino delle
situazioni di legalità compromesse da fatti penalmente rilevanti» e che pertanto occorrerà dare
un’interpretazione rigorosa del concetto di “occupazione abusiva senza titolo” prima di impedire l’iscrizione anagrafica 52.
4. Cittadini stranieri e residenza: una riflessione conclusiva
Per quanto la natura di diritto soggettivo del diritto di residenza sia stato più volte ribadito e sia
a tutt’oggi pienamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza 53, il pieno rispetto dello stesso
risulta fortemente compromesso specie con riferimento ai cittadini stranieri; sebbene la normativa anagrafica sia stata interessata da numerose modifiche, la stessa continua a fare riferimento a situazioni e categorie giuridiche che spesso sembrano limitate e inadeguate rispetto al
contesto attuale e soprattutto alla realtà che molti cittadini stranieri sono costretti a vivere, caratterizzata da una maggiore precarietà, da una più elevata mobilità territoriale, da una frequente impossibilità di accesso al mercato immobiliare privato e, in molti casi, da situazioni di privazione e sfruttamento più o meno gravi.
È forse anche per questa ragione che molte amministrazioni locali si ostinano non solo a rifiutare l’iscrizione anagrafica dei cittadini stranieri ma addirittura a non ammettere la presentazione delle istanze o a procedere all’iscrizione degli stessi nel registro della popolazione temporaneamente presente anche quando effettivamente e stabilmente presenti sul loro territorio,
nella convinzione, se non nella speranza, di un loro allontanamento dal territorio comunale.
rare di “occupare legittimamente l’abitazione” e di indicare il titolo specificando anche gli estremi dell’atto o fornendo comunque riferimenti utili per effettuare eventuali accertamenti.
50
Risoluzione Ministero dell’Interno, Dipartimento Affari Interni e Territoriali, Direzione centrale per i Servizi Demografici, 24 febbraio 2015, n. 633.
51
Circolare n. 14/2014, cit. in nota 49.
52
«In primo luogo occupano abusivamente un immobile tutti coloro che vi abitano senza titolo di proprietà o di possesso
(locazione, comodato, usufrutto) contro la volontà del proprietario. Dunque, non è sufficiente che l’occupazione di un immobile sia senza titolo formale, ma è necessario che sia qualificabile come abusiva, cioè posta in essere contro la volontà
del proprietario, per rientrare nelle previsioni di nullità indicate dall’art. 5, d.l. n. 47/2014. Dal punto di vista strettamente
giuridico, va esclusa la qualificazione abusiva allorché il titolare del diritto reale sia a conoscenza dell’occupazione fino a
quando non decida di esercitare pienamente il suo diritto ovvero allorché il titolo giuridico sia controverso tra le parti e sia
in corso un giudizio, ovvero, allorché la pubblica amministrazione non abbia adottato provvedimenti esecutivi nei casi previsti dalla legge», in Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, nt 22.
53
In questo senso, di particolare interesse, la sentenza del Cons. St. n. 310/2015 relativa ad un caso di annullamento della
residenza per effetto della l. n. 80/2014 che confermato la competenza del giudice ordinario per le controversie riguardanti
il diritto di residenza.
33
AIAF RIVISTA 2016/1
Ed è forse per questo che la piena denuncia dell’illegittimità di tali comportamenti non sembra
sufficiente e che occorre sempre ricordare che, sebbene la residenza sia il presupposto di molti
diritti fondamentali, vi siano altri diritti altrettanto fondamentali che devono essere riconosciuti ad ogni persona indipendentemente dalla sua cittadinanza, dalla regolarità del suo soggiorno
e, tanto più, delle caratteristiche della sua presenza sul territorio 54.
54
La mancanza di iscrizione anagrafica non preclude certamente il diritto allo studio del minore e il diritto alla salute, vedi
Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, nt. 22.
34
FOCUS
COSA CAMBIA CON LA NUOVA LEGGE SULLA CITTADINANZA?
Bruno Barel
Avvocato in Treviso
Professore associato di Diritto dell’Unione europea e Diritto Internazionale Privato alla Scuola di
Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’acquisto della cittadinanza iure soli. – 3. L’acquisto della cittadinanza iure culturae. –
4. L’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e per iuris communicatio. – 5. Profili pratici. Criticità.
1. Introduzione
Il 13 ottobre 2015 la Camera dei Deputati ha approvato a larga maggioranza un disegno di legge di riforma della legislazione sulla cittadinanza, nel testo risultante dall’unificazione dei ventisei
progetti depositati nel corso della XVII legislatura. L’esame del disegno di legge prosegue ora al
Senato della Repubblica; ad oggi il disegno di legge risulta assegnato alla 1° commissione permanente (affari costituzionali) 1.
L’approvazione in prima lettura di questo progetto di legge ha suscitato un notevole clamore
nell’opinione pubblica, in quanto con esso vengono modificate le norme relative all’attribuzione della cittadinanza italiana per nascita, per beneficio di legge e per naturalizzazione, nel senso
di introdurre nell’ordinamento dei criteri di attribuzione della cittadinanza ispirati allo ius soli,
temperato tuttavia da alcuni correttivi finalizzati a garantire la sussistenza di un legame effettivo
del nuovo nato con l’Italia e prevenire fenomeni di “turismo della cittadinanza”, già verificatisi
in passato in altri Paesi che applicavano la regola dello ius soli senza alcun correttivo 2.
1
Risulta che il disegno di legge è stato oggetto di esame da parte della Commissione nelle sedute del 21 ottobre 2015, 27
ottobre 2015, 1° dicembre 2015, 2 dicembre 2015, 9 dicembre 2015, 15 dicembre 2015, 12 gennaio 2016, 26 gennaio
2016, 2 febbraio 2016, 3 febbraio 2016 e 10 febbraio 2016. Nel corso di tale ultima sessione, il Presidente ha proposto lo
svolgimento di un ciclo di audizioni informali dinanzi all’Ufficio di Presidenza che si terrà presumibilmente nel corso dei
prossimi mesi.
2
Tra le legislazioni che applicavano la regola dello ius soli “puro” vi era, fino al 2005, la Repubblica d’Irlanda. Nel tentativo
di approfittare del particolare favore della legislazione di quel Paese, numerosi cittadini extracomunitari – anche residenti
in altri Stati membri – si recavano in quello Stato per farvi nascere il loro figlio, in modo da assicuragli l’acquisto della cittadinanza irlandese (e dunque europea) si da assicurare a quest’ultimo ed all’intera famiglia un diritto rafforzato alla permanenza nel Paese di residenza abituale. Il fenomeno acquistò risonanza continentale quando fu portato all’attenzione della Corte di Giustizia nel celeberrimo caso Chen (Corte Giust. CE, sent. 19 ottobre 2004, causa C-200/02), sull’onda del quale la
Repubblica d’Irlanda apportò alcuni correttivi alla propria legislazione sulla cittadinanza, volti ad assicurare un collegamento
effettivo tra il nato e l’Irlanda.
35
AIAF RIVISTA 2016/1
Oltre alla previsione di un nuovo caso di acquisto della cittadinanza per nascita, la riforma introduce nuovi casi di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge legati, sostanzialmente, al
completamento in Italia di cicli scolastici primari o secondari, secondo un criterio che è stato
definito, nel gergo giornalistico, dello ius culturae.
Nel complesso, le disposizioni contenute nel disegno di legge sono state pensate per riconoscere
la cittadinanza alle cosiddette “seconde generazioni”, vale a dire ai figli di stranieri, generalmente
nati in Italia o in Italia giunti nei primissimi anni di infanzia, che, pur essendo cresciuti in Italia ed
essendo integrati nella comunità italiana, non possiedono tuttavia la cittadinanza italiana.
La riforma della cittadinanza riguarderà dunque potenzialmente tutti i minori nati in Italia da
genitori stranieri (che nel quinquennio 2010-2015 sono stati circa il 15% di tutte le nascite 3,
ovvero circa 70.000 nascite l’anno 4 nonché tutti i minori che oggi frequentano le scuole italiane
e che nell’anno scolastico 2014-2015 assommavano a 805.000 unità (pari a circa il 9,5% della
popolazione scolastica complessiva) 5.
Per questa categoria di persone sarà più semplice l’acquisto della cittadinanza italiana “di diritto”, o per nascita o per beneficio di legge, anche nel corso dell’infanzia.
Verrà dunque considerevolmente ridotto il numero di cittadini stranieri, stabilmente inseriti
nella comunità italiana sin dall’infanzia o dall’adolescenza, costretti a ricorrere al procedimento
di “naturalizzazione” (con i tempi, i costi e le incertezze che tale procedimento comporta) per
ottenere il riconoscimento della cittadinanza. In questo senso, le nuove norme sulla cittadinanza potrebbero contribuire ad alleviare il carico di domande di acquisizione della cittadinanza
presentate dai cittadini stranieri secondo le norme vigenti (pari a 130.000 nuove domande nel
2014, in aumento del 30% rispetto al 2013) 6.
2. L’acquisto della cittadinanza iure soli
Il disegno di legge prevede un nuovo modo di acquisto della cittadinanza “per nascita”, che però non è automatico né immediato: lo straniero nato in Italia da genitori stranieri può diventare cittadino a condizione che almeno uno dei genitori al momento della sua nascita fosse – o sia
diventato successivamente, in accoglimento di richiesta presentata prima della nascita – titolare del diritto di soggiorno permanente o del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo 7.
La disposizione distingue dunque la posizione di colui che sia nato in Italia da cittadini europei
da quella di colui che sia nato da cittadini extracomunitari.
Nel primo caso, infatti, è sufficiente che almeno uno dei genitori sia titolare del diritto di soggiorno permanente, attribuito ex lege ai cittadini dell’Unione che abbiano soggiornato legalmente
3
Cfr. il rapporto dell’Istat “Immigrati & Nuovi Cittadini”, reperibile all’indirizzo: http://www.istat.it/it/immigrati.
La cifra è calcolata utilizzando come dato medio il numero di nascite registrato nel 2014, pari a 509.000. Cfr. il comunicato stampa dell’Istat del 12 febbraio 2015, disponibile all’indirizzo: http://www.istat.it/it/archivio/149003.
5
Cfr. il Notiziario Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, a cura del Servizio statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ottobre 2015, disponibile all’indirizzo: http://www.istruzione.it/allegati/2015/Notiziario_
Alunni_Stranieri_1415.pdf.
6
Cfr. l’articolo di S. MOLINA, Da cittadini a stranieri: ieri, oggi, domani, 12 novembre 2015, all’indirizzo: http://www.neodemos.
info/.
7
Il progetto di legge approvato modifica l’art. 1 della legge sulla cittadinanza aggiungendo una lett. b-bis) al 1° comma, che
così prevede: «È cittadino per nascita […] b-bis) chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30,
o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286».
4
36
FOCUS
ed in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale. Un eguale diritto è riconosciuto
anche al familiare di un cittadino europeo, non titolare della cittadinanza europea, qualora abbia soggiornato con quest’ultimo nello Stato per cinque anni continuativi 8.
Nel secondo caso, è richiesto che almeno uno dei cittadini sia titolare di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, rilasciato dal questore ai cittadini extracomunitari che siano in possesso di un valido titolo di soggiorno da almeno cinque anni e che dimostrino la disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e di un alloggio idoneo, previo superamento di un esame di conoscenza della lingua italiana 9. Il rilascio
del permesso di soggiorno è inoltre subordinato ad una valutazione discrezionale di “non pericolosità” per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato.
Nel caso in cui tali requisiti siano soddisfatti, l’acquisto della cittadinanza avviene per effetto
della dichiarazione di volontà di almeno un genitore o di chi abbia la responsabilità genitoriale
del minore, da rivolgersi all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza, oppure su richiesta
dell’interessato nel primo biennio della sua maggiore età 10. Viceversa, l’interessato, in quello
stesso biennio, ove sia già in possesso di altra cittadinanza, può rinunciare alla cittadinanza italiana che abbia ottenuto a richiesta del genitore o avente responsabilità genitoriale mentre era
minorenne 11.
La previsione del requisito del possesso, da parte di almeno uno dei genitori, del diritto di soggiorno permanente e del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, quale requisito per
l’acquisto della cittadinanza per nascita, è stata oggetto di alcune considerazioni critiche.
È stato infatti osservato come, nella sua attuale formulazione, la disposizione determini una disparità di trattamento tra i figli di cittadini comunitari ed i figli di cittadini extracomunitari: per
i secondi, l’acquisto della cittadinanza iure soli sarebbe infatti indirettamente fondata anche sulle condizioni economico-sociali dei genitori (in quanto elemento rilevante per il rilascio del
permesso per soggiornanti di lungo periodo), escludendo così l’acquisto della cittadinanza da
parte dei figli di cittadini stranieri in situazione di disagio 12.
È stato inoltre evidenziato come la norma in questione potrebbe portare a risultati paradossali,
permettendo l’attribuzione della cittadinanza iure soli anche a chi, nato in Italia da genitore in
possesso di uno dei titoli indicati dalla disposizione, abbia poi trascorso – in tutto o in parte –
l’infanzia in altro Paese (per esservi rientrato subito dopo la nascita o nei primi anni di vita), e
negando, per converso, la cittadinanza al figlio di cittadini stranieri da lungo tempo stabiliti in
Italia ma privi dello specifico diritto di soggiorno richiesto e che in Italia abbia poi trascorso la
propria infanzia.
8
Cfr. art. 14, 1° e 2° comma, d.lgs. n. 30/2007.
Cfr. art. 9, d.lgs. n. 286/1998.
10
In questo senso disporrà il 2° bis comma aggiunto all’art. 1: «Nei casi di cui alla lettera b-bis) del comma 1 la cittadinanza
si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, da annotare a margine dell’atto di nascita. La direzione sanitaria del punto nascita ovvero l’ufficiale dello
stato civile cui è resa la dichiarazione di nascita informa il genitore di tale facoltà. Entro due anni dal raggiungimento della
maggiore età l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza».
11
Così disporrà il 2° ter comma aggiunto in coda all’art. 1 della legge: «Qualora non sia stata resa la dichiarazione di volontà di cui al comma 2-bis, i soggetti di cui alla lettera b-bis) del comma 1 acquistano la cittadinanza se ne fanno richiesta all’ufficiale dello stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età».
12
Cfr. il dossier a cura dell’ASGI, La riforma della cittadinanza approvata alla Camera: un importante passo avanti, ma il testo va
migliorato, all’indirizzo: http://www.asgi.it/; Diritti fondamentali dei minori e costruzione della comunità politica nella riforma della legge sulla cittadinanza, nel sito: http://www.diritticomparati.it; L. FAZIO, Ius soli all’italiana, nel sito http://ilmanifesto.info/.
9
37
AIAF RIVISTA 2016/1
3. L’acquisto della cittadinanza iure culturae
È poi istituito un altro modo di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge (c.d. ius culturae) a favore del minore straniero che – nato in Italia o entrato in Italia prima di avere compiuto 12 anni – abbia frequentato regolarmente in Italia per almeno cinque anni uno o più cicli di
studi o percorsi di formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale. È singolare che – quantomeno secondo il tenore letterale delle disposizioni in commento – si richieda la conclusione positiva della scuola primaria, mentre per la formazione professionale si chieda solo che il corso frequentato fosse idoneo al conseguimento di una qualifica
professionale, a prescindere dall’ottenimento del titolo di studio 13.
Anche in questo caso l’acquisto avviene su richiesta di un genitore o soggetto avente responsabilità genitoriale, o dell’interessato nel biennio dopo il raggiungimento della maggiore età 14.
In via eccezionale, entro il primo anno di applicazione della legge possono chiedere di acquistare la cittadinanza anche gli stranieri già maggiorenni da oltre due anni in possesso dei requisiti richiesti e che dimostrino di avere risieduto legalmente e ininterrottamente negli ultimi cinque anni nel territorio nazionale, ma in questo caso occorre un previo nulla osta del Ministero
dell’Interno, da rilasciare entro sei mesi dalla richiesta da parte dell’ufficiale di stato civile, attestante l’insussistenza di provvedimenti di diniego della cittadinanza, di espulsione o di allontanamento, per motivi di sicurezza della Repubblica 15.
4. L’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e per iuris communicatio
Infine, viene introdotto un nuovo caso di concessione della cittadinanza, a favore dello straniero che soddisfi tre requisiti: ingresso in Italia durante la minore età; residenza legale in Italia da
almeno sei anni; frequenza di un ciclo scolastico o di un percorso di formazione professionale
triennale o quadriennale, con conseguimento del titolo o della qualifica professionale 16.
13
Così prevede la disposizione contenuta del progetto di legge approvato dalla Camera, che aggiunge all’art. 4, l. n. 91/1992
un 2° bis comma del seguente tenore: «Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del
dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e
formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, è altresì necessaria la conclusione
positiva del corso medesimo».
14
Tale nuovo modo di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge sarà disciplinato dai 2° bis comma, terzo e quarto
periodo, e 2 ter della l. n. 91/1992 che, nel testo approvato dalla Camera, così disporranno: «La cittadinanza si acquista a
seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da un
genitore legalmente residente in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza, da annotare nel registro dello stato civile. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza.
2-ter. Qualora non sia stata espressa la dichiarazione di volontà di cui al comma 2-bis, l’interessato acquista la cittadinanza
se ne fa richiesta all’ufficiale dello stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età».
15
Tale facoltà è prevista e disciplinata dall’art. 4 del progetto di legge, le cui previsioni non entrerebbero a far parte del testo della l. n. 91/1992.
16
Cfr. l’art. 9 nel testo approvato dalla Camera: «La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente
della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno […] f-bis) allo straniero che ha fatto
ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, ivi legalmente residente da almeno sei anni, che
ha frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, nel medesimo territorio, un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ovvero un percorso
di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale con il conseguimento di una qualifica professionale».
38
FOCUS
Altre modifiche minori riguardano la modifica dell’art. 14, sull’acquisto della cittadinanza iure
communicationis: viene eliminato il requisito della convivenza con il genitore che acquista o
riacquista la cittadinanza quale presupposto per l’estensione dell’acquisto anche ai figli (minori), sostituito da quello della titolarità della responsabilità genitoriale su di essi.
5. Profili pratici. Criticità
Numerosi sono i profili problematici della nuova disciplina connessi alla sua applicazione pratica.
Nel caso di acquisto iure soli, la cittadinanza non si acquisisce di diritto, come nel caso di nascita da genitori stranieri, ma a seguito di un’espressa manifestazione di volontà, che deve essere
dichiarata dinanzi all’ufficiale dello stato civile 17. Tale dichiarazione può essere resa, entro il
compimento della maggiore età, anche da uno solo dei genitori o da chi esercita la responsabilità genitoriale sul minore. Nulla è previsto, peraltro, in caso di contrasto tra i genitori, ugualmente titolari della responsabilità genitoriale, circa l’acquisto della cittadinanza da parte del minore.
La dichiarazione di volontà all’acquisto della cittadinanza italiana può inoltre essere resa dall’interessato, entro due anni dal compimento della maggiore età; entro lo stesso termine l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana “se in possesso di altra cittadinanza” (o, si deve ritenere, nel caso in cui la rinuncia alla cittadinanza italiana produca come immediata conseguenza l’acquisto o il riacquisto di altra cittadinanza).
Norme analoghe sono applicabili per il caso di acquisto per beneficio di legge “iure culturae”,
che egualmente prevedono l’acquisto della cittadinanza, una volta maturati i requisiti, a seguito
di dichiarazione resa dal genitore (o dal titolare della responsabilità genitoriale) entro il compimento della maggiore età oppure a seguito di dichiarazione dell’interessato nei due anni successivi.
Sotto il profilo pratico, incomberà sugli ufficiali di stato civile accertare la sussistenza dei molteplici e non sempre evidenti requisiti per l’acquisto automatico della cittadinanza, per provvedere poi all’annotazione della dichiarazione a margine dell’atto di nascita e all’inserimento nei
registri di cittadinanza.
Sempre sugli ufficiali dello stato civile, inoltre, graveranno gli obblighi informativi prescritti
dalla nuova legge: nel caso di nascita da genitori stranieri, è infatti previsto l’obbligo (incombente sia sulla direzione sanitaria del punto nascita sia sull’ufficiale dello stato civile che riceve
la dichiarazione di nascita, a seconda dei casi) di informare i genitori circa la possibilità di rendere la dichiarazione di volontà per far acquistare al minore la cittadinanza.
Curiosamente, nessun obbligo specifico di informazione è invece previsto in relazione alla facoltà di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge. È però confermato l’obbligo, introdotto con il d.l. n. 69/2013, di informare gli aventi diritto all’acquisto della cittadinanza, nel
corso del semestre antecedente al raggiungimento della maggiore età, della facoltà, dei presupposti e degli adempimenti necessari, tenendone documentazione di riscontro, atteso che l’inadempimento all’obbligo determina la sospensione dalla decadenza dal termine biennale fissato
dalla legge per la dichiarazione da parte dello straniero divenuto maggiorenne.
Altra questione, già ampiamente dibattuta anche in giurisprudenza, attiene alla verifica del requisito della residenza legale in Italia.
17
Cfr. art. 1, 2° bis comma, l. n. 91/1992 nel testo risultante dalle modifiche apportate dal disegno di legge.
39
AIAF RIVISTA 2016/1
Con il progetto di legge viene confermata la nozione di “residenza legale” già stabilita dall’art. 1
del regolamento attuativo della legge (d.p.r. n. 573/1933): è così considerato legalmente residente nello Stato «chi vi risiede avendo soddisfatto gli adempimenti previsti dalle norme in
materia di ingresso e soggiorno degli stranieri in Italia e da quelle in materia di iscrizione anagrafica».
Recependo gli orientamenti già formulati dalla più recente giurisprudenza, la legge prevede alcuni contemperamenti in relazione a quei casi di discontinuità delle iscrizioni anagrafiche che
venivano talora opposti come motivo ostativo al riconoscimento della cittadinanza per beneficio di legge (o per naturalizzazione). Si prevede così che «per il computo del periodo di residenza legale, laddove prevista, si calcola come termine iniziale la data di rilascio del primo permesso di soggiorno, purché vi abbia fatto seguito l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente. Eventuali periodi di cancellazione anagrafica non pregiudicano la qualità di residente
legale se ad essi segue la reinscrizione nei registri anagrafici, qualora il soggetto dimostri di avere continuato a risiedere in Italia anche in tali periodi». Viene così in parte generalizzata la
norma di favore prevista dall’art. 23, 1° comma, d.l. n. 69/2013 con riferimento ai soli casi di
acquisto della cittadinanza per beneficio di legge, a termini della quale «all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione, ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione». Tale ultima disposizione resterà in ogni caso vigente, in quanto non espressamente abrogata da alcuna delle disposizioni contenute nel disegno di legge, né con esse incompatibili. Ulteriori contemperamenti sono introdotti anche in relazione al requisito della continuità della
residenza legale, prevedendo che tale condizione non viene meno nel caso in cui l’interessato
abbia trascorso brevi periodi all’estero, con un bonus medio di tre mesi per ogni anno del periodo considerato, mai comunque superiore a sei mesi salvo comprovati motivi di salute o leva
militare all’estero 18.
18
Così disporranno i 3° e 4° comma dell’art. 23 bis, introdotto nella legge sulla cittadinanza dal progetto di legge: «3. Ai fini della presente legge, si considera che abbia soggiornato o risieduto nel territorio della Repubblica senza interruzioni chi
ha trascorso all’estero, nel periodo considerato, un tempo mediamente non superiore a novanta giorni per anno, calcolato
sul totale degli anni considerati. L’assenza dal territorio della Repubblica non può essere superiore a sei mesi consecutivi, a
meno che essa non sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o da gravi e documentati motivi di salute.
4. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 1, comma 1, lettera b-bis), si considera in possesso del permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo anche lo straniero che, avendo maturato i requisiti per l’ottenimento di tale permesso,
abbia presentato la relativa richiesta prima della nascita del figlio e ottenga il rilascio del permesso medesimo successivamente alla nascita».
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FOCUS
I PROCEDIMENTI PER IL RICONOSCIMENTO DELL’APOLIDIA
Marinella Corsaro
Avvocato in Roma
Sommario: 1. La definizione di apolidia. – 2. Le cause dell’apolidia. – 3. La normativa vigente in Italia. – 4. Il riconoscimento dello status di apolidia in via amministrativa. – 5. Il riconoscimento dello status di apolidia in via
giudiziaria. Alternatività dei due procedimenti. – 6. Il riconoscimento dello status di apolidia in via giudiziaria. Il
rito applicabile. – 7. Il regime probatorio. – 8. Il rilascio del permesso di soggiorno nelle more del procedimento. –
9. L’incerta tutela degli apolidi de facto.
1. La definizione di apolidia
Il diritto di ogni uomo ad avere una cittadinanza è una consolidata norma generale di diritto
internazionale ed è espressamente sancito dall’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 10 dicembre 1948.
Tale diritto, tuttavia, è ancora ampiamente negato.
Ad oggi, si stima che nel mondo ci siano circa 10 milioni di persone che nessuno Stato riconosce come propri cittadini 1. Si tratta di “apolidi”.
Apolide è «una persona che nessuno Stato, in base al proprio ordinamento giuridico, considera come proprio cittadino». Così recita l’art. 1 della Convenzione di New York del 28 settembre 1954 relativa allo status degli apolidi, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 1° febbraio
1962, n. 306 2.
Sulla base della definizione convenzionale, la Suprema Corte ha definito apolide «colui che si
trova in un paese di cui non è cittadino provenendo da altro paese del quale ha perso formalmente o sostanzialmente la cittadinanza». La Corte ha altresì sottolineato la necessità che tale
accertamento si estenda non soltanto alla mancanza delle condizioni formali per l’accertamento del possesso della cittadinanza nel paese di provenienza (o quello con il quale il cittadino
straniero ha avuto un legame giuridicamente rilevante), ma anche a quelle sostanziali, non po1
UNHCR GLOBAL REPORT 2014 – Ending statelessness – http://www.unhcr.org/5575a7894.html.
Vengono esclusi da questa definizione una serie di soggetti:
a) coloro che godono di protezione o assistenza da parte di un organo o di un’istituzione delle Nazioni Unite diversa
dall’UNHCR (fintanto che persista la situazione di protezione);
b) le persone rispetto alle quali esistono fondati motivi di ritenere che abbiano commesso un crimine contro la pace, un
crimine di guerra o contro l’umanità;
c) i colpevoli di un atto contrario ai fini e ai princìpi delle Nazioni Unite.
2
41
AIAF RIVISTA 2016/1
tendo fondarsi il rigetto della domanda relativo al riconoscimento dell’apolidia, su una distinzione meramente nominalistica e formale, senza verificare in concreto, non solo l’impossibilità
di tornare a soggiornare stabilmente nel paese di origine ma anche quella di essere riconosciuto
dalle autorità statali come soggetto di diritti esercitabili nei confronti dei pubblici poteri (diritti
politici) e nei rapporti con gli altri soggetti (diritti attinenti alla propria sfera giuridico economica) 3.
L’apolidia può essere originaria o successiva (o derivata).
Si parla di apolidia originaria quando fin dalla nascita la persona è apolide.
Ciò accade, ad esempio, se lo Stato di nascita non prevede la possibilità di acquisto della cittadinanza iure soli, mentre lo Stato di provenienza dei genitori non riconosce la cittadinanza ai
figli dei propri cittadini nati in suolo straniero 4.
Si ha apolidia successiva, invece, quando la persona perde la cittadinanza che aveva in precedenza senza avere o acquisire la cittadinanza di un altro Stato.
2. Le cause dell’apolidia
Nel panorama internazionale le ipotesi che più frequentemente danno luogo a casi di apolidia
sono:
– la modifica dei confini territoriali o della sovranità tra Stati;
– la privazione arbitraria della cittadinanza a gruppi o a individui da parte dello Stato;
– conflitti di legge (ad esempio, quando un bambino di genitori stranieri nasce in uno Stato
che conferisce la propria cittadinanza solo ai figli dei propri cittadini, mentre secondo le leggi dello Stato di cui sono cittadini i genitori, acquisiscono la cittadinanza soltanto coloro che
nascono sul territorio dello Stato);
– problemi amministrativi, come ad esempio, termini per l’iscrizione all’anagrafe poco realisti,
tasse eccessivamente alte, mancata previsione di procedimenti di impugnazione o revisione,
difficoltà nell’accesso alla documentazione o ai criteri per ottenere la cittadinanza;
– la rinuncia individuale alla cittadinanza senza la previa acquisizione o garanzia di acquisizione di un’altra cittadinanza;
– il matrimonio o la dissoluzione del matrimonio, qualora la perdita della cittadinanza ne costituisca una conseguenza automatica;
– la mancata registrazione di un figlio alla nascita, quando abbia come conseguenza l’impossibilità per il figlio di dimostrare il luogo di nascita o l’identità dei genitori;
– l’applicazione di pratiche discriminatorie basate sull’etnia, la religione, il sesso, la razza o le
opinioni politiche ai fini della concessione o del diniego della cittadinanza;
– il fatto di essere figlio di apolidi 5.
3
Cass., S.U., 9 dicembre 2008, n. 28873; Cass. 8 novembre 2013, n. 25212; Cass. 3 marzo 2015, n. 4262.
Si tratta, come da altri correttamente osservato, di una possibilità che non dovrebbe riguardare direttamente il nostro
Paese, poiché l’Italia ha optato per un meccanismo di prevenzione che consente ai figli di apolidi e di stranieri non in grado
di trasmettere la loro cittadinanza iure sanguinis di acquistare quella italiana iure soli. Tale fenomeno, tuttavia, come vedremo, è
piuttosto diffuso nel caso di figli nati da genitori apolidi de facto. Le lacune del sistema italiano di riconoscimento dell’apolidia, infatti, rischiano spesso di vanificare buona parte dei meccanismi di prevenzione previsti dalla legge. Sul punto
T. GUARNIER, “Vacatio”. Ovvero, la condizione giuridica dell’apolide nell’ordinamento italiano, in Costituzionalismo.it, 2014,
fasc. 1, p. 27; G. PERIN, Lacune normative ad alto costo umano: l’apolidia in Italia, in Dir., imm. e citt., 2012, fasc. 3, p. 85.
5
Sul punto si veda la Scheda pratica dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – www.asgi.it.
4
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FOCUS
In Italia, il fenomeno dell’apolidia è più diffuso fra gli ex cittadini cubani e tra le persone provenienti dalla ex URSS e dalla ex Jugoslavia.
Si tratta di due casi molto diversi di apolidia derivata.
Nel primo caso, la causa di queste situazioni va ricercata nella legislazione cubana che, fino al
2013, di fatto non considerava più propri cittadini coloro i quali lasciavano il Paese senza farvi
ritorno entro 11 mesi (a meno che non fossero regolarmente soggiornanti in altro Stato).
Nel caso della successione tra Stati verificatasi tra il 1990 e il 1993 nei territori dell’ex URSS e
dell’ex Jugoslavia la sopravvenienza dell’apolidia è da ricondurre prevalentemente a lacune nella legislazione interna in materia di cittadinanza. Le nuove leggi sulla cittadinanza adottate dai
nuovi Stati, infatti, spesso non hanno riconosciuto automaticamente come propri cittadini, i
cittadini del vecchio stato federale, ma hanno subordinato l’acquisto della cittadinanza alla sussistenza di specifici requisiti, quali, ad esempio, l’esser residente in un determinato periodo (o
per un determinato periodo) nel territorio nazionale successivamente all’entrata in vigore delle
nuove norme sulla cittadinanza, requisiti che molti non possedevano, diventando cosi apolidi.
3. La normativa vigente in Italia
Agli evidenti effetti negativi che derivano dal trovarsi in una condizione di apolidia la comunità
internazionale ha risposto con due strumenti normativi in particolare:
– la Convenzione di New York del 28 settembre 1954 relativa allo status degli apolidi, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 1° febbraio 1962, n. 306;
– la Convenzione del 30 agosto 1961 sulla riduzione dell’apolidia, ratificata e resa esecutiva in
Italia solo in tempi recenti con la l. 29 settembre 2015, n. 162 6.
La normativa italiana, inoltre, si occupa specificamente degli apolidi nel testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998), prevedendo, all’art. 1, che essi ricevano lo stesso trattamento
dello straniero extracomunitario, salve le previsioni di trattamenti diversi o migliori da parte di
leggi o convenzioni internazionali.
L’art. 19 della l. n. 218/1995 dispone ancora che, nell’ipotesi in cui si debba applicare una legge
nazionale, agli apolidi si applichi la legge dello Stato di domicilio o, in mancanza, dello Stato di
residenza.
Infine, la legge sulla cittadinanza (l. n. 91/1992) prevede che l’apolide possa richiedere l’acquisto della cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza stabile e legale sul territorio (non 10
anni, come richiesto per gli stranieri extracomunitari) purché il soggetto non costituisca una minaccia per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza.
Se, dunque, esiste un apparato normativo che definisce in maniera esaustiva i diritti e i doveri
di chi è apolide, manca invece una disciplina altrettanto chiara sul procedimento per il riconoscimento dello status di apolidia che costituisce la conditio sine qua non della fruizione di tutti i
diritti appena menzionati.
6
Per un’ampia trattazione sul contenuto delle suddette Convenzioni, si veda P. FARCI, Apolidia, Giuffrè, Milano, 2012,
p. 137 ss.
43
AIAF RIVISTA 2016/1
4. Il riconoscimento dello status di apolidia in via amministrativa
L’unica disposizione del nostro ordinamento relativa al riconoscimento dello status di apolidia
è l’art. 17, d.p.r. 12 ottobre 1993, n. 572 (Regolamento di esecuzione della l. 5 febbraio 1992, n.
91, recante nuove norme sulla cittadinanza).
Tale articolo prevede che la persona interessata all’accertamento dello status di apolide debba
produrre un’apposita istanza corredata dalla seguente documentazione:
– atto di nascita;
– documentazione relativa alla residenza in Italia;
– ogni documento idoneo a dimostrare lo stato di apolide.
La stessa disposizione prevede altresì che il Ministero dell’Interno ha la facoltà di richiedere, a
seconda dei casi, altri documenti.
Occorre osservare che l’effettività di tale procedura è molto limitata.
L’Amministrazione dell’Interno, infatti, ha optato per un’interpretazione restrittiva della normativa vigente con riferimento alla “documentazione relativa alla residenza in Italia” richiedendo all’istante di allegare la documentazione relativa alla residenza anagrafica, pena il rigetto
dell’istanza stessa.
Com’è noto, tuttavia, l’iscrizione alla residenza anagrafica presuppone la titolarità di un passaporto in corso di validità e di un permesso di soggiorno.
Tale discutibile tipizzazione della documentazione richiesta per l’emissione della certificazione
amministrativa dello status di apolidia – che costituisce un inammissibile irrigidimento della
prassi rispetto alla norma regolamentare, dato che in quest’ultima non si richiede l’iscrizione
anagrafica, ma solo la dimostrazione di essere residenti nel senso di stabilmente dimoranti in
Italia – ha dunque impedito a moltissimi apolidi di fatto di chiedere il riconoscimento del proprio status in via amministrativa, potendo tale procedura essere avviata soltanto nel caso di persone che per qualsiasi motivo abbiano perso la cittadinanza del Paese di origine in un periodo
successivo all’inizio della loro regolare iscrizione anagrafica nelle liste della popolazione residente in un comune italiano.
I limiti dell’accesso alla procedura amministrativa sono poi aggravati dai lunghi tempi normalmente intercorrenti tra la presentazione dell’istanza e l’adozione del provvedimento. La tabella
allegata al d.m. n. 142/2000, infatti, introduce il termine di 350 giorni che può essere prorogato
fino a 895 giorni (!) nel caso (piuttosto frequente) in cui il Ministero dell’Interno ritenga necessario attivare una verifica presso il Ministero degli Affari Esteri o presso la Rappresentanza
diplomatica o consolare di uno Stato estero, per accertare che l’interessato non sia più cittadino
di quello Stato 7. La difficoltà e l’inaccessibilità, in molti casi, della procedura amministrativa,
dunque, portano buona parte dei soggetti interessati a scegliere di agire per il riconoscimento
del proprio status di apolide in via giurisdizionale.
Anche in questo caso, tuttavia, numerosi sono i problemi aperti.
Non esiste, infatti, alcuna specifica disposizione che disciplini l’accertamento giurisdizionale
della condizione di apolide. Pertanto, la soluzione delle questioni di diritto sostanziale e di diritto processuale è affidata all’elaborazione giurisprudenziale.
7
T. GUARNIER, op. cit., p. 31; P. MOROZZO DELLA ROCCA, L’accertamento dello Status di apolidia, in Corr. giur., 2003, 11,
p. 1485.
44
FOCUS
5. Il riconoscimento dello status di apolidia in via giudiziaria. Alternatività dei due procedimenti
Il procedimento giurisdizionale è considerato dalla giurisprudenza maggioritaria come alternativo e non come successivo al procedimento amministrativo.
Benché alcune pronunce in passato abbiano escluso che l’accertamento dello status di apolidia
potesse essere richiesto direttamente al giudice, senza essersi prima rivolti al Ministero dell’Interno 8, la giurisprudenza maggioritaria oggi ammette che l’interessato possa scegliere se chiedere
l’accertamento dello status al Ministero dell’Interno o direttamente all’autorità giurisdizionale 9.
Pronunciandosi per la prima volta in argomento, con la sent. 9 dicembre 2008, n. 28873, la
Cassazione a Sezioni Unite ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario in materia, trattandosi di procedimento volto all’accertamento di uno stato personale, relativo a posizioni
soggettive con natura di diritti, nonché la legittimazione passiva del Ministero dell’Interno, in
quanto lo straniero fa valere in giudizio un diritto che gli può essere riconosciuto anche in via
amministrativa da detto Ministero, chiarendo che non sussiste alcuna pregiudiziale in ordine
alla preventiva proposizione della domanda amministrativa di riconoscimento dello stato di
apolidia, essendo facoltà dell’interessato richiedere una certificazione dell’autorità amministrativa ovvero una pronuncia del giudice ordinario che accerti il proprio status di apolide 10.
6. Il riconoscimento dello status di apolidia in via giudiziaria. Il rito applicabile
Con la sent. 4 aprile 2011, n. 7614, la Corte di Cassazione si è per la prima volta pronunciata
sul rito applicabile alle controversie di accertamento dello status di apolide, statuendo che tali
controversie «devono essere proposte e decise, nel contraddittorio del Ministro dell’Interno,
nelle forme proprie dell’ordinario giudizio di cognizione».
Tale pronuncia ha confutato la tesi, fino a quel momento maggioritaria nella giurisprudenza di
merito, secondo cui alle controversie in materia di apolidia avrebbe dovuto applicarsi il c.d. modello camerale.
In particolare, la giurisprudenza di merito aveva alternativamente rinvenuto la ragione dell’applicabilità del rito camerale o nella generale applicabilità di tale rito a tutti i procedimenti in
materia di stato delle persone 11 ovvero in via analogica. In relazione a questo secondo argomento, i giudici di merito avevano a volte osservato come il rito camerale fosse previsto per le
8
Trib. Sanremo 2 luglio 1998, in Arch. civ., 1998, p. 943 ss.; App. Firenze 21 novembre 2001, in Giur. merito, 2002, p. 208 ss.;
Id., 12 novembre 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 309 ss.; App. Bologna 9 novembre 2005, in www.giuraemilia.it,
2006.
In dottrina, in senso conforme, cfr. M. FINOCCHIARO, Osservazioni in tema di apolidia (nonché di contraddittorio e di motivazione dei provvedimenti giudiziari), in Giust. civ., 2004, p. 267 ss.
9
Trib. Firenze 29 aprile 1995, in Dir. famiglia, 1996, p. 166 ss., con nota di A. SINAGRA, Sul preteso diritto soggettivo dello
straniero ad ottenere dall’A.g.o. italiana la dichiarazione di apolidia; Id., 29 gennaio 1996, in Giur. merito, 1996, p. 516 ss., con
nota di P. FARCI, Riconoscimento dello stato di apolidia; Trib. Prato 14 gennaio 1997, in Giur. merito, 1997, p. 247 ss., con
nota di M. VITIELLO; App. Milano 9 aprile 2001, in Famiglia e diritto, 2001, p. 630 ss., con nota di L. LAUDISA, Sull’accertamento giudiziale dello stato di apolide; Trib. Alessandria 19 giugno 2002; Trib. Lucca 16 dicembre 2002; Trib. Milano 5
marzo 2003, in Giust. civ., 2004, p. 265 ss.; App. Roma 22 aprile 2003; App. Perugia 20 aprile 2004; Cass., S.U., 9 dicembre
2008, n. 28873.
10
In senso conforme, si vedano le seguenti sentenze inedite del Tribunale di Roma in data: 7 novembre 2010, n. 22820; 31
ottobre 2012, n. 20752; 13 novembre 2013, n. 22726; 17 gennaio 2014, n. 1172.
11
Tra le molte, Trib. Milano 13 luglio 2006, in Dir., imm. e citt., 2007, 1, p. 111; Trib. Prato 14 gennaio 1997, cit.; Trib. Lucca
16 dicembre 2002, cit.; Trib. Milano 5 marzo 2003, cit.
45
AIAF RIVISTA 2016/1
cause in materia di immigrazione dal d.lgs. n. 286/1998 12; altre volte avevano rilevato come il
rito camerale fosse quello prescelto dal legislatore per i ricorsi in materia di protezione internazionale 13 e non si ravvisassero valide ragioni per differenziare l’iter procedurale diretto ad accertare lo status di rifugiato da quello per l’accertamento della condizione di apolide.
Le più recenti indicazioni della Corte di Cassazione muovono invece nel senso opposto, cioè
della necessità di applicare il rito ordinario di cognizione, sulla base della considerazione che
l’opzione per un rito speciale deve intendersi sempre come eccezionale rispetto a quello ordinario e, dunque, deve essere espressamente prevista.
L’art. 742 bis c.p.c. non si presterebbe dunque ad un tale automatismo, richiedendo in ogni caso una previsione legislativa 14.
È importante tuttavia sottolineare che, in una recente pronuncia, la Cassazione ha respinto il
ricorso proposto dal Ministero dell’Interno per avere la Corte d’Appello ritenuto applicabile al
giudizio in tema di riconoscimento della condizione di apolidia, il rito camerale. La Corte ha rigettato il suddetto motivo di ricorso poiché – nel caso in questione – non era stata né dedotta
né allegata alcuna effettiva limitazione della garanzia difensiva, né alcuna compressione dei
termini per l’esercizio del diritto al contraddittorio, ed il giudizio si era concluso con il modulo
decisionale della sentenza, ovvero nella forma più completa e garantista anche con riferimento
ai poteri d’impugnazione. Sul Punto la Suprema Corte ha richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale l’adozione del rito camerale non induce alcuna nullità, per il principio della conversione degli atti nulli che abbiano raggiunto il
loro scopo, quando non ne sia derivato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all’acquisizione delle prove e, più in generale, a quanto possa avere impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario 15.
Dall’applicabilità del rito ordinario discende, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., la competenza territoriale del Tribunale di Roma.
Sulla questione la Cassazione si è recentemente pronunciata espressamente e, nell’ord. n.
903/2012, ha confermato che, poiché le controversie afferenti lo stato di apolide devono essere
proposte e decise, nel contraddittorio del Ministro dell’Interno, nelle forme proprie dell’ordinario giudizio di cognizione, ne consegue necessariamente la competenza del Foro del convenuto e quindi del Tribunale di Roma 16.
7. Il regime probatorio
Quanto alla questione della prova del possesso dello status, nell’assenza di una specifica disposizione legislativa, occorrerebbe, in linea teorica, applicare l’art. 2697 c.c. secondo il quale «chi
vuole fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»,
il che implicherebbe la necessità di dimostrare la mancanza della cittadinanza di qualunque
Stato del mondo.
12
Trib. Perugia 14 luglio 2003; App. Perugia 20 aprile 2004, cit.
App. Firenze 21 ottobre 2011; App. Firenze 8 maggio 2009; P. FARCI, Sul procedimento per il riconoscimento dello status di
apolide, in Dir. famiglia, 2012, fasc. 2, pt. 1, p. 535 ss.
14
Cass. 4 aprile 2011, n. 7614, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p. 1168 s., con commento di S.E. PIZZORNO, Apolidia e rito
applicabile, p. 1170 ss.; Dir. famiglia, 2012, fasc. 2, pt. 1, p. 532 ss., e con commento P. FARCI, Sul procedimento per il riconoscimento dello status di apolide, cit., 535 ss.; Cass. 4 aprile 2011, n. 599; Cass. 30 gennaio 2012, n. 903.
15
Cass. 8 novembre 2013, n. 25212.
16
Cass. 23 gennaio 2012, ord. n. 903.
13
46
FOCUS
Trattandosi chiaramente di una “probatio diabolica”, sia la dottrina che la giurisprudenza più
recente hanno pacificamente riconosciuto che sia sufficiente provare la mancanza di un rapporto di cittadinanza riguardo agli Stati con i quali il richiedente intrattenga o abbia intrattenuto
relazioni tali da dar vita ad un collegamento effettivo e significativo 17.
Quanto all’individuazione dei mezzi di prova dello status di apolide, mancano indicazioni legislative precise.
Più volte la giurisprudenza ha affermato che la condizione di apolidia può essere accertata non
soltanto in relazione all’esistenza di un atto formale, da parte dello Stato, di privazione della cittadinanza, bensì anche per il manifestarsi di atti univoci di denegata tutela dell’individuo come
cittadino 18.
A livello generale, si ritiene che possano essere utilizzati, a seconda dei casi specifici, documenti
ufficiali rilasciati dalle autorità statali (quelle di origine, attestanti la mancanza o la perdita della
cittadinanza; quelle di residenza, attestanti la presenza sul territorio ma anche la mancanza di
un rapporto di cittadinanza) 19; ma anche le leggi sulla cittadinanza, nonché i relativi regolamenti
di attuazione o altre disposizioni di carattere amministrativo del paese di origine. In alcuni casi
sarà anche possibile ed utile riferirsi ad avvenimenti storico-politici di pubblico dominio.
Per quanto riguarda, poi, la prova dello stabile rapporto con l’ordinamento italiano, presso il
quale si chiede il riconoscimento dello status di apolide, potranno essere esibiti documenti provenienti da qualsiasi pubblica amministrazione (servizi sanitari, certificati anagrafici, atti dell’amministrazione dell’interno, degli enti e dei servizi locali, fiscali e quant’altro). Anche la produzione di testi e l’allegazione di atti notori potrà dare corpo all’assunto della stabile presenza
dell’apolide sul territorio italiano 20; mentre l’esame del passaporto o di altro documento di
viaggio (timbri di ingresso, visti, permessi di soggiorno e timbri di uscita), ove posseduto ed
utilizzato dal richiedente, potrà essere utile per verificare dove egli abbia vissuto e se abbia intrattenuto eventuali altri significativi rapporti con ordinamenti stranieri 21.
Come già sostenuto da autorevole dottrina, dunque, nel caso che ci occupa il principio generale dell’art. 2697 c.c. deve essere inteso nel ragionevole senso di richiedere a colui che si assume
apolide un principio di prova concretamente proporzionato alle sue possibilità, spettando
all’autorità giudiziaria un potere-dovere sia di verificare l’eventuale inefficacia dei fatti allegati,
sia di corroborarne l’efficacia nel corso del procedimento; ad esempio richiedendo d’ufficio
certificazioni ad amministrazioni italiane o straniere, od anche rappresentando alla stessa parte
istante le ulteriori attività idonee ad adempiere in modo più convincente l’onere della prova 22.
Su questo punto, si registra una interessante evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte la quale, dopo aver affermato che nel procedimento di accertamento dello stato di apolidia
«non esiste obbligo per il giudice di acquisire informazioni d’ufficio» 23, con la sent. n. 4262/
2015 ha ritenuto che l’onere della prova a carico del richiedente lo status di apolide debba ritenersi attenuato nel senso che eventuali lacune o necessità d’integrazione istruttoria possono
17
Trib. Bologna 19 febbraio 2010; Trib. Roma 20 gennaio 2015; Trib. Roma 16 febbraio 2015, n. 3651 inedita.
Trib. Milano 5 marzo 2003; Trib. Novara 29 ottobre 2010.
19
Tra le altre, Trib. Roma 24 febbraio 2014, n. 4385, inedita.
20
Tra le altre, Trib. Roma 7 novembre 2010, n. 22820, inedita; Trib. Roma 10 maggio 2012, n. 9433, inedita; Trib. Roma
16 febbraio 2015, n. 3651, inedita.
21
P. MOROZZO DELLA ROCCA, op. cit., p. 1485 ss.; P. FARCI, Apolidia, cit., p. 3 s.; LINEE GUIDA N. 2, Sull’apolidia – Procedure
per la determinazione dello status di apolide, 5 aprile 2012, in www.refworld.org, p. 8 ss.
22
P. MOROZZO DELLA ROCCA, op. cit., p. 1486, G. PERIN, op. cit., p. 77. Sul punto anche Trib. 31 ottobre 2012, n. 20752,
inedita.
23
Cass. 28 giugno 2007, n. 14918, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 267.
18
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AIAF RIVISTA 2016/1
essere colmate con l’esercizio di poteri/doveri istruttori officiosi da parte del giudice realizzabili mediante la richiesta d’informazioni o di documentazione alle Autorità pubbliche competenti
dello Stato italiano o dello Stato di origine o dello Stato verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente la condizione di apolide. Tale onere, ha aggiunto la Corte, pur non essendo codificato, deve ritenersi desumibile da un’interpretazione costituzionalmente orientata del tessuto costituzionale, convenzionale e normativo che conduce l’apolide
alla titolarità e all’esercizio dei medesimi diritti del cittadino straniero che richieda un titolo di
soggiorno per attuare il proprio diritto ad una vita libera e dignitosa 24.
8. Il rilascio del permesso di soggiorno nelle more del procedimento
Ai sensi dell’art. 11, 1° comma, lett. c), d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394, il nostro ordinamento riconosce espressamente il rilascio del permesso di soggiorno per “attesa apolidia” soltanto a favore dello straniero già in possesso del permesso di soggiorno per altri motivi, per la durata del
procedimento di riconoscimento.
Proprio perché a causa della perdita della cittadinanza la persona non potrebbe esibire alcun
valido passaporto, né potrebbe rientrare in alcun Paese di appartenenza, l’art. 9, 6° comma del
citato regolamento esenta la persona che richieda tale tipo di permesso di soggiorno dall’obbligo di esibire un valido passaporto e la documentazione concernente la disponibilità di sufficienti mezzi di sussistenza, di un alloggio idoneo e di mezzi per il ritorno nel Paese di origine.
È evidente che si tratta di un permesso di soggiorno rilasciabile soltanto nei casi di apolidia successiva, cioè a persona che era già regolarmente soggiornante in Italia ad altro titolo e che, avendo
perso la sua originaria cittadinanza per qualsiasi motivo, abbia regolarmente iniziato un procedimento amministrativo o giudiziario mirato al riconoscimento del proprio status di apolide.
Dunque, un permesso di soggiorno non sembra spettare al richiedente lo status di apolidia irregolarmente soggiornante sul territorio. In proposito, si segnala, ad ogni modo, che in qualche
caso, l’autorità giudiziaria ha accolto l’istanza presentata dall’apolide ex art. 700 c.p.c. volta al rilascio di un permesso di soggiorno nelle more della procedura 25.
9. L’incerta tutela degli apolidi de facto
Occorre sottolineare che molte persone, pur essendo in possesso dell’attestazione di “non cittadinanza”, rilasciata dal Consolato dello Stato (o degli Stati) con cui avevano legami significativi, non sono state riconosciute come apolidi.
In diversi casi, infatti, il giudice, nonostante la produzione in giudizio dell’attestazione della
mancata iscrizione del richiedente nei registri anagrafici e dei cittadini, ha negato il riconoscimento dello status ritenendo che, sulla base della propria interpretazione della legge straniera,
indipendentemente dalla dichiarazione della rappresentanza Consolare il richiedente fosse – o
potesse diventare – cittadino del Paese in questione.
Ciò ha riguardato, in particolare, rom provenienti dalla ex Jugoslavia.
In alcuni casi, si è negato il riconoscimento dello status sostenendo che l’apolidia non può essere conseguenza della disfunzione dei servizi anagrafici di un paese, ma di una situazione in cui
24
25
Cass. 3 marzo 2015, n. 4262.
App. Milano 15 novembre 2012; Trib. Roma, Sez. I, ord. 6 luglio 2012.
48
FOCUS
all’interessato venga negato in radice il diritto alla medesima e la connessa possibilità di conseguirla in via giudiziaria 26.
Allo stesso modo, si è ritenuto che non sia sufficiente la dichiarazione da parte dello Stato di collegamento che il soggetto non risulti essere proprio cittadino poiché tale documento non comprova che il soggetto abbia richiesto la cittadinanza e che la sua domanda sia stata rigettata 27.
In altre decisioni è stato osservato che non possa ritenersi apolide chi, pur essendo allo stato
privo di qualunque cittadinanza, possa in astratto ottenerne una esercitando un’opzione, facendosi altrimenti dipendere lo stato di apolide non da circostanze oggettive indipendenti dalla
volontà dell’interessato, ma da una scelta del soggetto che rifiuta una cittadinanza che potrebbe
acquisire 28.
Tale interpretazione, a parere di chi scrive, non appare condivisibile.
In primo luogo, infatti, occorre sottolineare che i soggetti in questione, al momento della presentazione della domanda, sono senz’altro privi di cittadinanza e, dunque, apolidi.
La Convenzione del 1954, infatti, richiede all’istante di dimostrare di non essere attualmente
cittadino di alcuno Stato, non anche di provare di non poter acquisire in futuro la cittadinanza
di alcuno Stato.
Sul punto, parte della giurisprudenza ha correttamente osservato come l’attuale comprovata
assenza, in capo al richiedente, della cittadinanza dello Stato in cui è nato e ha vissuto e degli
Stati con i quali ha un possibile collegamento per ascendenza è del tutto sufficiente a determinare in capo allo stesso la ricorrenza dei presupposti della condizione di apolide ai sensi del citato art. 1 della Convenzione di New York del 1954, che non legittima in alcun modo, stante la
sua chiara formulazione, riferita alla mancanza (all’evidenza da intendersi in atto) della cittadinanza di un qualche Stato, una interpretazione restrittiva invece collegata anche alla necessità
di fornire prova della mancanza della “possibilità” di ottenere la cittadinanza di uno dei genitori
o in genere di altro Stato con il quale sussista criterio di collegamento 29.
La legge regolatrice dell’apolidia, infatti, prevede quale unico presupposto del riconoscimento
dello status, il fatto che il richiedente non sia considerato cittadino di alcuno Stato, senza tenere
in alcun conto le ragioni circa il mancato acquisto della cittadinanza dello Stato con il quale il
richiedente presenti un collegamento, sia con riferimento alla giuridica impossibilità dell’ottenimento sia alla mancata attivazione di una condotta riconducibile al richiedente stesso 30.
Si aggiunga inoltre che, indipendentemente dalle disposizioni normative, al fine del riconoscimento dello status, occorre avere riguardo alla specifica situazione del soggetto ed alla sua reale
possibilità di esercitare i propri diritti di cittadinanza nel caso concreto.
Nel corso del 2012, l’UNHCR ha pubblicato una serie di “Linee Guida in materia di apolidia”
che affrontano in modo approfondito i temi della definizione della nozione di apolide, della
procedura e dei diritti da riconoscersi all’apolide 31.
Proprio con rifermento al rilievo da riconoscersi alle certificazioni consolari per dimostrare
l’assenza di una cittadinanza, le Linee Guida hanno chiarito che il giudizio sull’apolidia deve
essere sempre un giudizio in diritto e in fatto. Quindi se da un lato è necessario verificare cosa
26
App. Firenze 12 aprile 2011; App. Firenze 3 dicembre 2011.
Trib. Torino 2 febbraio 2009; Trib. Torino 10 novembre 2008. In senso conforme anche Cass. 21 giugno 2013, n.
15679.
28
Trib. Genova 13 dicembre 2010.
27
29
App. Milano 12 agosto 2013, n. 3195; Trib. Roma 10 maggio 2012, n. 9433.
Tra le altre, App. Roma 31 ottobre 2014, n. 6710; Trib. Roma 24 ottobre 2014, n. 21064; App. Roma 4 settembre 2013.
31
UNHCR, Linee Guida sull’Apolidia, 2012, in www.refworld.org.
30
49
AIAF RIVISTA 2016/1
prevede la legge straniera nel caso concreto, occorre poi verificare quale sia l’atteggiamento
dello Stato nei confronti di quel concreto individuo o, se ciò non sia possibile, nei confronti di
persone nella sua stessa posizione. Il fatto (ad es. la dichiarazione consolare che una persona
non è cittadina di un determinato Stato) deve essere illuminato dal diritto (es. da una norma
che dica che in quel determinato caso, la persona non è cittadina). Nel caso in cui fatto e diritto
contrastino, è il fatto che deve prevalere. Quando le autorità competenti trattano un individuo
come un “non cittadino”, benché questi appaia integrare i requisiti per l’acquisizione automatica della cittadinanza, conformemente alla legislazione del Paese, è la posizione di queste autorità più che la lettera della legge che deve pesare al fine di valutare se questa persona sia o meno
cittadina di un determinato Stato 32.
Fatto e diritto possono dunque non coincidere: e se anche solo di fatto la cittadinanza viene
negata, l’apolidia dovrà essere riconosciuta 33.
A titolo esemplificativo si fa presente, in particolare con riferimento alla situazione dei rom
provenienti dalla ex Jugoslavia, che spesso i Consolati dei Paesi di Origine, nonostante le richieste degli interessati in merito alla propria cittadinanza – e persino quelle presentate talvolta
dai giudici italiani – non rispondono per lungo tempo, lasciando i richiedenti in una sorta di
limbo giuridico 34.
Alcuni Consolati, inoltre, consentono l’iscrizione di un minore nato in Italia nel registro dei cittadini solo se entrambi i genitori sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno in Italia e del passaporto in corso di validità. In questa ipotesi, anche nel caso in cui la legge del Paese
preveda astrattamente l’acquisto della cittadinanza iure sanguinis, se uno dei genitori è irregolarmente soggiornante o non possiede un passaporto valido, il minore non potrà essere registrato e, dunque, risulterà di fatto apolide, cono tutte le conseguenze del caso.
Diversi sono poi i casi di coloro che alla nascita, a causa di vicende personali o familiari o della
situazione politica del proprio paese, non sono stati iscritti nei registri dello stato civile. In molti casi ciò preclude di fatto l’acquisto della cittadinanza dei propri genitori iure sanguinis (laddove la legge la preveda) 35.
Ancora, spesso la possibilità di acquisire la cittadinanza del paese di origine dei genitori – prevista astrattamente dalla legge – presuppone da parte dell’interessato non una semplice formalità
amministrativa (come la registrazione presso il Consolato) bensì il soddisfacimento di condizioni materiali onerose (ad es. il trasferimento della residenza per un certo numero di anni) e
sia sottoposto a valutazioni discrezionali da parte delle competenti autorità estere.
Sul punto le Linee guida dell’UNHCR affermano chiaramente che il possesso o meno della cittadinanza deve esser valutato al momento dell’istanza e non con riferimento al possibile acquisto futuro e che deve essere presa in considerazione non solo la normativa dello Stato estero,
ma anche la sua applicazione nelle prassi.
Si spera che la giurisprudenza si muova uniformemente in questo senso, al fine di garantire una
effettiva tutela a coloro che si trovano in tale limbo giuridico, per favorire davvero quella riduzione dell’apolidia auspicata dalle Nazioni Unite.
32
LINEE GUIDA N. 1 SULL’APOLIDIA, La definizione di ‘apolide’ nell’Articolo 1(1) della Convenzione del 1954 relativa allo Status degli Apolidi, 20 febbraio 2012, p. 5 ss.
33
G. PERIN, op. cit., p. 84.
34
In tali casi, correttamente, alcuni giudici hanno riconosciuto lo status di apolidia. Tra le altre, Trib. Roma 12 maggio
2011, n. 9930; Trib. Roma 11 aprile 2013, n. 7746; Trib. Firenze 17 settembre 2014.
35
App. Firenze 17 novembre 2009, n. 1654; Trib. Roma 10 aprile 2013, n. 7649; Trib. Roma 3 febbraio 2014, n. 2514.
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FOCUS
L’ABUSO DEI NEGOZI FAMILIARI NEL DIRITTO DELL’IMMIGRAZIONE
Paolo Morozzo della Rocca
Ordinario di Diritto Privato nell’Università di Urbino
Docente di Diritto dell’Immigrazione presso l’Università LUMSA
Sommario: 1. Matrimoni, convivenze, adozioni e affidamenti. – 2. Onere della prova e uso delle presunzioni in
materia di abuso dei negozi familiari a fini immigratori. – 3. La vexata quaestio della kafalah e, più in generale, della
coesione familiare con il minore affidato. – 4. Il “matrimonio fittizio” nel diritto dell’immigrazione. – 5. Il matrimonio di cittadinanza. – 6. Un presidio penale contro i matrimoni fittizi? – 7. Unioni civili e convivenze di fatto
giuridificate.
1. Matrimoni, convivenze, adozioni e affidamenti
Come ogni altra attività, anche quella dei negozi costitutivi di status familiari possono essere
oggetto di simulazione, oppure configurarsi come negozi “di comodo”, cioè esclusivamente ordinati a scopi estranei alla “causa familiare”, come, ad esempio, l’ottenimento di un visto di ingresso, di un titolo di soggiorno o della cittadinanza. Principale, anche se non unica, espressione di tale fenomeno si ha nel caso del matrimonio, al quale per tale ragione saranno dedicati
due dei successivi paragrafi di questo contributo.
Peraltro, la imminente introduzione anche nell’ordinamento giuridico italiano delle cosiddette
unioni civili – nonché delle “altre convivenze” registrate – suggerisce una riflessione sulle possibilità di abuso delle medesime a fini immigratori.
Del fenomeno dell’abuso dei negozi familiari potrebbe fare parte – sebbene con minori vantaggi e possibilità – anche l’uso di comodo dell’adozione di un adulto straniero, i cui effetti sono in
ogni caso esclusivamente giuridico-patrimoniali e dunque solo in senso lato potrebbe qui parlarsi di simulazione. Non di meno, alla figura del negozio di comodo può ben essere in senso
lato ricondotta un’adozione fatta dietro pagamento di denaro o come compenso di una prestazione ricevuta dall’adottante (col che saremmo in presenza di una adozione fondata su causa
illecita e collegabile eventualmente a figure di reato); od anche per mera compiacenza nei riguardi di una persona con la quale l’adottante non abbia però alcun significativo rapporto.
In termini simili – ma con ben maggiore efficacia – potrebbe anche atteggiarsi l’adozione del minorenne. Infine, anche l’affidamento di un minore potrebbe essere realizzato al solo fine di ottenere un visto di ingresso in Italia per motivi familiari; oppure – come vedremo riguardo all’istituto della kafalah – anche al fine di realizzare un primo passo preordinato ad adottare un minore straniero pur in mancanza dei presupposti di legge.
51
AIAF RIVISTA 2016/1
2. Onere della prova e uso delle presunzioni in materia di abuso dei negozi familiari a fini
immigratori
Se della simulazione in senso stretto si occupa il diritto civile e della falsa attestazione degli status anche il diritto penale, del negozio familiare di comodo si occupa, in modo certamente perfettibile, il diritto dell’immigrazione 1. Le due principali norme di riferimento, nel diritto interno, sono l’art. 29, 9° comma (di portata più generale) 2 e l’art. 30, 1° bis comma (riferito però solo ai casi di matrimonio contratto dallo straniero già regolarmente soggiornante che si sposi
con un cittadino italiano, europeo od altro straniero regolarmente soggiornante) 3 del d.lgs. n.
286/1998.
Le due norme – di cui in effetti è quella dell’art. 29, 9° comma a costituire il principale strumento di contrasto – ricalcano nella loro formulazione la regola generale in materia di prova di cui
all’art. 2697 c.c., secondo cui, fatto valere un diritto sulla base dei presupposti di legge che lo
fondano, «chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda». Pertanto lo scopo abusivo “esclusivo”
dovrebbe essere provato con sufficienti evidenze dall’amministrazione che intenda rifiutare il
visto, oppure rifiutare o revocare il permesso di soggiorno.
Si tratterà però, pur sempre, di indizi, benché gravi, o di presunzioni, più che di piena prova,
che gli interessati potranno vincere dimostrando in qualunque modo che hanno convissuto come coniugi, non importando se la convivenza coniugale è stata poi interrotta, anche dopo breve tempo.
Di fatto, a dimostrare la fittizietà del rapporto coniugale, sarà l’assenza di elementi indiziari apprezzabili e di significato opposto agli accertamenti necessariamente solo sintomatici svolti dall’amministrazione 4. Se, dunque, persino la brevità della convivenza coniugale non è sufficiente,
di per sé, a poter ritenere accertata senza dubbio alcuno la fittizietà del matrimonio, tuttavia è
altrettanto vero che la dimostrazione che una pur breve coabitazione vi sia stata non basta, in
mancanza di elementi che dimostrino che tra i due coniugi poi separatisi vi sia stata un’effettiva
comunione di vita 5.
Purtroppo non è sempre così nella prassi amministrativa, sia per l’approssimazione con cui
vengono a volte condotti gli accertamenti di polizia sia per l’utilizzo forzato di argomenti presuntivi in realtà fragili da parte delle diverse amministrazioni competenti.
1
Sui profili di diritto europeo dell’abuso dei negozi familiari cfr. C. MORVIDUCCI, I diritti dei cittadini europei, Giappichelli,
Torino, 2014, pp. 236 ss. e 265 ss.; M. DI FILIPPO, La circolazione dello straniero nel diritto dell’Unione europea: una geometria variabile dei diritti e delle garanzie, in A.M. CALAMIA-M. DI FILIPPO-M.GESTRI, Immigrazione, Diritto e Diritti: profili internazionalistici ed europei, Cedam, Padova, 2012, p. 189 ss.
2
A termini del quale: «la richiesta di ricongiungimento familiare è respinta se è accertato che il matrimonio o l’adozione
hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato».
3
A termini del quale: «Il permesso di soggiorno – nei casi di cui al comma 1, lettera b), è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole. La richiesta
di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero di cui al comma 1, lettera a), è rigettata e il permesso di
soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere
all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».
4
Il fatto che la moglie straniera eserciti la prostituzione di strada non è affatto una prova della fittizietà del matrimonio, ma
può esserne un indizio sufficiente a fronte della mancanza di qualsiasi traccia di una vita coniugale con la persona da poco
sposata. In tal senso, Cons. St., 6 agosto 2015, n. 3868.
5
Comunione di vita che – nel caso sottoposto all’attenzione di TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 13 luglio 2015, n. 1941 –
l’accertamento di polizia aveva forse sufficientemente dimostrato non essere mai esistita nemmeno nella pur breve coabitazione. Il giudice amministrativo non coglie però il profilo dell’abusività in concreto del negozio familiare, affermando in
modo meramente assertivo l’applicazione dell’art. 19 T.U. invece che la disciplina più favorevole di cui al d.lgs. n. 30/2007.
52
FOCUS
Si segnala, ad esempio, la tendenza degli uffici consolari a rifiutare il visto di ingresso, pur in
mancanza di qualsivoglia accertamento sull’abusività dell’affidamento eterofamiliare del minore, in base alla generica presunzione che ogni affidamento disposto con il consenso dei genitori
biologici del minore sia elusivo delle norme in materia di immigrazione, benché detto affidamento sia titolato da un provvedimento giudiziale o dell’autorità amministrativa competente
per la protezione del minore.
In effetti, è da osservare come sia onere dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2697 c.c., eccepire, avendolo accertato, il fatto impeditivo o estintivo del diritto al ricongiungimento familiare,
tra i quali v’è quello ipotizzato dall’art. 29, 9° comma, T.U., a termini del quale «la richiesta di
ricongiungimento familiare è respinta se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare o soggiornare nel territorio
dello Stato».
Emblematica, al riguardo, pare dunque la condanna del Ministero degli Esteri al risarcimento
del danno non patrimoniale patito dalla straniera cui il Consolato italiano in Cina aveva negato
illegittimamente il visto d’ingresso per ricongiungimento familiare al marito «sull’errato presupposto che lo scopo perseguito non fosse quello di assicurare l’unità famigliare, bensì quello
di ottenere l’ingresso in Italia per migliorare la propria situazione economica e trovare un lavoro», nonostante la completezza documentale della richiesta di visto e senza avere elementi a
supporto di tale, grave, decisione 6.
Piuttosto particolare è un caso sottoposto all’attenzione del giudice emiliano, il quale ha ritenuto infondata la presunzione di abusività del matrimonio tra uno straniero e una cittadina italiana seguito dopo alcuni anni dal mutamento di sesso del coniuge straniero. Il mutamento di sesso era stato considerato dal questore come indicativo dello scopo elusivo esclusivo di cui all’art.
30, 1° bis comma, dato, tra l’altro, che il coniuge straniero risultava «pacificamente, essere persona transessuale, che assume comunemente sembianze femminili» 7. Di contro, il giudice ha
però rilevato che il matrimonio durava già da cinque anni con effettività della convivenza e
comportamenti rivelatori di affectio coniugalis, dovendosi peraltro distinguere tra l’identità di
genere, mutata a seguito dell’operazione chirurgica, e l’orientamento sessuale, in concreto esplicantesi nell’ambito di un matrimonio validamente celebrato ed ancora efficace in mancanza
della rettificazione del sesso agli atti di stato civile.
3. La vexata quaestio della kafalah e, più in generale, della coesione familiare con il minore
affidato
Come poc’anzi accennato, oltre che per i figli minori di età, il ricongiungimento familiare può
essere altresì richiesto per i minori di età affidati o sottoposti alla tutela del richiedente il ricongiungimento, benché non ne sia il genitore.
La giurisprudenza sembra avere ormai piegato alcune iniziali chiusure dell’amministrazione
dell’interno dando ragionevole certezza all’operatore che rientrano in questa previsione di legge sia il minore affidato secondo il diritto islamico mediante kafalah 8, sia il minore dato in tutela per motivi assistenziali 9, purché, in entrambe le ipotesi, l’affidamento sia avvenuto con prov6
7
App. Bari 4 aprile 2013, n. 256, in Immigrazione.it.
Trib. Reggio Emilia 9 febbraio 2013, in Dir., imm. e citt., 2013, 1, p. 168 ss.
8
Cfr. Cass. 20 marzo 2008, n. 7472; Cass. 2 luglio 2008, n. 18174; Cass. 17 luglio 2008, n. 19734;. App. Perugia 13 giugno
2013, in Foro pad., 2014, 4, c. 496.
9
Cfr. Trib. Varese 23 luglio 2011, in Dir. Eccl., 2012, 3, p. 748, che ha dichiarato illegittimo il diniego di visto per ricon-
53
AIAF RIVISTA 2016/1
vedimento dell’autorità di protezione od almeno sia stato sottoposto alla approvazione di detta
autorità.
Il tema dei minori affidati, peraltro, sembrava destinato a nuova regolamentazione (anche riguardo alle procedure di ricongiungimento) in occasione della ratifica da parte dell’Italia della Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996, ma – forse per fortuna – il legislatore ha deposto ogni volontà regolativa limitandosi ad una ratifica secca e quindi senza glosse della Convenzione 10.
Poiché gli affidatari sono talvolta parenti dell’affidato, va da sé che la norma consente come effetto indiretto, ma statisticamente frequente e di per sé legittimo, il ricongiungimento familiare
con zii o nonni del minore; nonché – per effetto dell’applicazione a tali casi del disposto di cui
all’art. 3, d.lgs. n. 30/2007 – la coesione familiare con affidatari che siano cittadini italiani o europei residenti in Italia.
Va però riconosciuto con realismo il pericolo di abusi cui l’istituto della kafalah è esposto, in
quanto strumento efficacemente utilizzabile da colui che voglia realizzare in modo indiretto,
attraverso due procedimenti più o meno distanziati nel tempo, adozioni non consentite dalla
legge italiana sull’adozione internazionale (normativa di applicazione necessaria, almeno per i
cittadini italiani residenti in Italia e per quelli da meno di due anni residenti ed effettivamente
soggiornanti all’estero) 11.
Vale la pena forse ricordare che già in passato, sia prima che dopo la riforma della disciplina
dell’adozione internazionale (introdotta con la l. n. 476/1998, a modifica degli artt. 29 ss. della
l. n. 184/1983), era accaduto che coppie dichiarate idonee all’adozione si presentassero ai giudici minorili con minori ricevuti in kafalah, chiedendo e ottenendo che detti provvedimenti
fossero delibati, convertendone però l’efficacia originaria di affidamento in una adozione in casi
particolari 12.
A fronte, dunque, della possibilità che si realizzino, oltre ad affidamenti del tutto leciti e opportuni, anche affidamenti abusivi, fatti al solo scopo di richiedere in un secondo momento
l’adozione in casi particolari, si può comprendere l’attuale orientamento del Supremo Collegio
che ammette la possibilità della coesione familiare con l’affidatario italiano ancorandolo però
alle particolari condizioni elencate nell’art. 3, 2° comma, lett. a), d.lgs. n. 30/2007, tra le quali
spicca la condizione storica della precedente convivenza nel Paese di origine oppure della effettività della vivenza a carico.
Vero è che in tal modo si è piegata una disciplina pensata per altre situazioni ed altri scopi su un
terreno che le è estraneo e che non sempre gli si adatta, ma pure è vero che in mancanza di una
più articolata ed avveduta disciplina che ancora manca le Sezioni Unite hanno forse cercato la
via della “saggezza politica”, volendo così ovviare ai difetti e alle manchevolezze che affliggono
a tutt’oggi la cornice normativa.
giungimento familiare a minore sottoposto alla tutela assistenziale della nonna, già regolarmente soggiornante in Italia, disponendone l’ingresso. Precedenti conformi, sia in fatto che in diritto, sono Trib. Genova 12 settembre 2009 e App. Genova 13 marzo 2010, in Immigrazione.it.
10
L. 18 giugno 2015, n. 101.
11
Parrebbe, ad esempio, un caso di kafalah strumentale alla cessione a scopo adottivo del figlio quello conclusosi con l’affidamento preadottivo del minore a soggetti diversi dagli affidatari abusivi, su cui Cass. 6 luglio 2012, n. 11415, in Dir., imm.
e citt., 2012, 3, p. 172 ss.
12
Cfr. Trib. Min. Trento 5 marzo 2002 e 10 settembre 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 149 ss., con nota di J.
LONG, Adozione “extraconvenzionale” di minori provenienti da paesi islamici; Trib. Min. Trento 11 marzo 2002, in Riv. int.
dir. priv. proc., 2002, p. 1056.
54
FOCUS
4. Il “matrimonio fittizio” nel diritto dell’immigrazione
Non è sempre agevole, nella pratica, distinguere tra un matrimonio autentico (il quale pur possa essersi caratterizzato nel corso delle vicende coniugali per alcuni momenti o periodi di crisi e
quindi anche per eventuali periodi di separazione personale) ed il ben diverso caso del matrimonio fittizio, nel quale la ragione della mancanza di convivenza coniugale costituisce normalmente, ma non necessariamente, l’esecuzione di un accordo di simulazione avente ad oggetto
l’utilizzo del negozio matrimoniale esclusivamente a fini estranei alla sua causa in senso civilistico.
Come già è stato accennato, il matrimonio fittizio non coincide con la figura civilistica del matrimonio simulato 13, col quale sono molteplici i profili di differenziazione: innanzitutto la diversa sede di definizione normativa e di regolamentazione, dato che il primo è figura del diritto
dell’immigrazione, mentre il secondo è definito e disciplinato nel codice civile che ne regola i
soli effetti di diritto privato. Il primo è dunque considerato come negozio in frode alla legge,
caratterizzato da uno scopo illecito, mentre il secondo è pur sempre figura consentita dell’autonomia privata alle cui motivazioni il legislatore del codice civile non è in alcun modo interessato 14. Va poi considerata, soprattutto, la diversa disciplina degli effetti, dato che nel matrimonio
di cui sia dichiarata la simulazione questi cadono ex tunc secondo i principi dell’annullamento
del negozio giuridico, mentre il matrimonio fittizio non è privato di efficacia ma in ragione della sua immeritevolezza gli sono rifiutati determinati effetti di diritto pubblico, quali l’autorizzazione al soggiorno e dunque, indirettamente, anche l’acquisto della cittadinanza. Infine la diversità tra le due figure riguarda la differente prospettiva di osservazione, che nel caso della simulazione comprende sia l’accordo simulatorio che l’attuazione dell’accordo stesso (coincidente con la mancata attuazione del rapporto), mentre nell’attribuzione del carattere fittizio
del matrimonio rileva esclusivamente il fatto della mancata attuazione del rapporto che non
trovi ragione se non nella mancanza originaria di affectio coniugalis.
Sicché, ad esempio, potrebbe essere fittizio, a prescindere dalle possibili qualificazioni civilistiche della fattispecie, anche il matrimonio celebrato ingannando il coniuge in buona fede riguardo alla volontà di dare attuazione al rapporto o quello nel quale il consenso alla celebrazione sia stato estorto con minacce, rilevando comunque la mancanza di attuazione del rapporto coniugale.
Quello dei cosiddetti matrimoni fittizi – talvolta definiti anche come matrimoni bianchi, di
comodo, di convenienza, od anche matrimoni abusivi – è un fenomeno certamente grave sul
quale la stessa Unione europea ha più volte richiamato l’attenzione dei Paesi membri.
Le discipline nazionali di contrasto ai matrimoni fittizi sono collocate, a seconda dei casi, sia a
monte che a valle della loro celebrazione 15.
Nel primo caso esse mirano a valutare ex ante l’autenticità dell’atto esaminando la serietà del
volere. Un’impresa ovviamente delicata, che è stata realizzata spesso con modalità molto discutibili, ma che tuttavia potrebbe presentare alcuni possibili vantaggi da considerare con attenzione benché l’Italia – celebrato senza rimpianti il funerale dell’infelice e maldestro divieto agli
13
In tal senso, A. RENDA, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Giuffrè, Milano, 2013, p. 635, spec. nt. 278.
Come nota, efficacemente, E. QUADRI, in Commentario al diritto italiano della famiglia, vol. II, Del Matrimonio, a cura di
G. Cian-A. Trabucchi-G. Oppo, Cedam, Padova, 1992, p. 362.
15
Utili informazioni, a questo riguardo, da R. CALVIGIONI, Interessante sentenza svizzera in materia di cittadinanza, in I servizi democratici, 2006, 10, p. 66 ss.; C. NAST, Matrimoni simulati e frode in materia di stato civile: esempi di misure nazionali e
di cooperazione internazionale, in Lo stato civile, 2007, 2, p. 96 ss.; J. HAUSER, Personnes et droits de la famille, in Rev. trim.
droit civil, 2013, 1, p. 93 s.
14
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AIAF RIVISTA 2016/1
stranieri irregolarmente soggiornanti di contrarre matrimonio 16 – abbia sin qui deciso di non
dotarsene.
De iure condendo potrebbe tuttavia prevedersi che l’istanza dei nubendi, volta alle pubblicazioni
o direttamente alla celebrazione del matrimonio, comporti, per legge, la provvisoria inespellibilità dello straniero eventualmente privo di autorizzazione al soggiorno sino alla definizione del
procedimento, ma anche la possibilità per l’ufficiale di stato civile di richiedere immediate indagini di pubblica sicurezza sui matrimoni che egli ritenga potersi sospettare di essere fittizi sulla base di elementi sintomatici che siano rispettosi del “meccanismo di doppia sicurezza” raccomandato dalla Commissione europea agli Stati membri dell’Unione 17. Indagini da concludersi, ovviamente, in un breve periodo di tempo stabilito dalla norma con termine perentorio,
superato il quale il matrimonio dovrà comunque essere celebrato, mentre se ne venisse accertato il carattere fittizio dovrebbero essere adottate le opportune sanzioni amministrative (incluso
l’allontanamento dal territorio nazionale dello straniero privo del titolo di soggiorno) ed anche
penali (specie se vi sia stato un pagamento a favore del finto sposo compiacente).
Il legislatore italiano ha invece previsto alcune norme di contrasto a valle dei matrimoni di comodo. Tra queste vi è certamente l’art. 30, 1° bis comma, del testo unico sull’immigrazione, il
quale dispone che il permesso di soggiorno per motivi familiari non sia concesso, oppure sia
immediatamente revocato, qualora sia accertato che al matrimonio celebrato in Italia dallo
straniero già regolarmente soggiornante non sia seguita l’effettiva convivenza (salvo che dal
matrimonio sia nata prole); oppure quando si accerti che «il matrimonio o l’adozione hanno
avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello
Stato» mediante il rilascio del visto per ricongiungimento familiare.
Come è stato osservato poc’anzi, pur avendo normalmente ad oggetto matrimoni simulati, la
norma prescinde però dall’accertamento civilistico della simulazione nei modi e limiti che sono
stabiliti dall’art. 123 c.c., ponendosi nella diversa logica di un diritto speciale matrimoniale
dell’immigrazione, e dunque consente il diniego o la revoca del diritto di soggiorno (e conseguentemente la probabile espulsione dal territorio nazionale) del coniuge straniero anche nel
caso in cui il matrimonio non venga invalidato o non possa più esserlo. Nonostante l’eventuale
allontanamento forzato dal territorio nazionale dello straniero, il matrimonio potrebbe dunque
consolidarsi nella sua efficacia civilistica, sino all’eventuale suo scioglimento su iniziativa di uno
dei coniugi.
5. Il matrimonio di cittadinanza
Il carattere fittizio del matrimonio, richiamato dal legislatore per connettervi il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno, non è invece contemplato, come tale, tra gli impedimenti legali
all’acquisto della cittadinanza, benché la giurisprudenza sia giunta talvolta a considerarlo tale
sulla base di una interpretazione integrativa motivata dalla esatta convinzione che, nell’inten-
16
Divieto introdotto dal legislatore nel 2009 e cancellato dalla Consulta con la sent. 25 luglio 2011, n. 245.
Il meccanismo consiste nel necessario riscontro di più elementi sintomatici, al fine di evitare la sospensione della libertà
matrimoniale o comunque l’avvio di un’indagine amministrativa oggettivamente contrastante con la libertà matrimoniale riguardo a «coppie autentiche ma atipiche, che a prima vista manifestano una serie di caratteristiche del matrimonio fittizio».
Così la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio del 26 settembre 2014, COM(2014)604
final, «Aiutare le autorità nazionali a combattere gli abusi del diritto di libera circolazione: Manuale sul modo di affrontare
la questione dei presunti matrimoni fittizi tra cittadini dell’UE e cittadini di paesi terzi nel quadro della normativa
dell’Unione in materia di libera circolazione dei cittadini dell’UE».
17
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FOCUS
zione del legislatore «il requisito per poter ottenere la cittadinanza deve consistere non solo
nel dato formale della celebrazione di un matrimonio (inteso in una prospettiva di atto-rapporto) tra lo straniero ed il cittadino italiano, ma anche nella conseguente instaurazione di un vero
e proprio rapporto coniugale (con le sue concrete connotazioni tipiche: fedeltà, assistenza, collaborazione e coabitazione)» 18.
Qualcuno potrebbe scorgere in questo orientamento giurisprudenziale domestico l’eco di un
orientamento – più radicato in Francia che in Italia 19 – secondo il quale il matrimonio è in tali
casi nullo per illiceità della causa 20. Ma non è così: lungi dal voler considerare il matrimonio
nullo agli effetti civili, ciò che il richiamato orientamento vuole affermare è invece l’inidoneità
funzionale del matrimonio di comodo riguardo ai percorsi di cittadinanza previsti dalla legge.
Vero è che sul riportato orientamento potrebbe pesare negativamente l’osservazione secondo
la quale ogni deprivazione dello status coniugalis di un effetto suo proprio «non potrebbe di
certo essere operata in mancanza di una norma di legge che lo preveda», la quale si porrà come
norma eccezionale rispetto alla normale piena efficacia del matrimonio non invalidato 21. E tuttavia nel caso di specie ignorare il carattere fittizio del matrimonio significherebbe contraddire
l’intero costrutto posto in essere dall’art. 5 della legge sulla cittadinanza.
Due sole sono, infatti, le possibili opzioni interpretative nell’esegesi di questa norma: quella secondo cui il requisito della mancanza di separazione personale equivale alla effettività della
convivenza coniugale, rendendo così impeditiva dell’acquisto dello status civitatis anche la sola
separazione di fatto; oppure quella che, ritenendo rilevante la sola separazione legale (e dunque
considerando irrilevante a questi specifici effetti una crisi coniugale non ancora conclamata),
presuppone però l’autenticità del rapporto coniugale sino alla formalizzazione giuridica della
patologia che lo abbia successivamente colpito.
Meno condivisibile è parso invece il tentativo svolto in passato dal Ministero dell’Interno di
applicare ad alcuni matrimoni sospettati di essere fittizi l’impedimento all’acquisto della cittadinanza di cui all’art. 6, 1° comma, lett. c) della legge, sostenendo che anche il carattere fittizio
del matrimonio possa costituire un motivo ostativo inerente alla sicurezza della Repubblica. Il
Consiglio di Stato ha infatti ripetutamente chiarito che il rigetto della richiesta di cittadinanza
per motivi di sicurezza della Repubblica deve essere fondato su adeguati riscontri di pericolo
per la sicurezza dei consociati, tra i quali non rientra la fittizietà del matrimonio 22.
6. Un presidio penale contro i matrimoni fittizi?
Secondo un orientamento giurisprudenziale rimasto minoritario ed in effetti poco convincente, il reato di falso di cui all’art. 479 c.p. sarebbe configurabile nel fatto della dichiarazione di vo-
18
Così, Cons. St., 18 dicembre 2007, n. 6526.
Da ultimo, in Francia, Cass. 19 dicembre 2012, n. 09-15.606, in Rec. Dall. Act., 2013, p. 85, la quale ha ritenuto nullo per
mancanza del consenso il matrimonio di una donna che, dopo essersi concessa la prima notte di nozze, aveva subito ucciso
il marito confidando di poterne ereditare il patrimonio.
20
In tal senso App. Roma 28 marzo 2000, inedita, che ha dichiarato nullo per illiceità della causa il matrimonio fittizio contratto da un cittadino russo e una cittadina italiana al fine di consentire l’azione da parte del pubblico ministero. La decisione è esattamente criticata da G. CONTE, Il matrimonio simulato, in Trattato di diritto di famiglia, vol. I, Famiglia e matrimonio, diretto da P. Zatti e a cura di G. Ferrando-M. Fortino-F. Ruscello, Giuffrè, Milano, 2002, p. 698, nt. 407.
21
Così, A. RENDA, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Giuffrè, Milano, 2013, p. 635.
22
Così, Cons. St., Sez. I, 22 maggio 2002, n. 1225/02, in Foro it., 2004, III, c. 155; e in precedenza: Cons. St., Sez. I, 3 luglio
1987, n. 1225/87, in Foro it. Rep., 1989 (voce) cittadinanza, n. 11.
19
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AIAF RIVISTA 2016/1
ler contrarre matrimonio resa dai nubendi all’ufficiale di stato civile che, indotto in errore, formando l’atto di matrimonio nell’esercizio delle sue funzioni, si troverebbe così ad attestare un
fatto non vero di cui l’atto è destinato a dare certezza.
Secondo il giudice ambrosiano «l’atto di matrimonio non si limita ad attestare l’avvenuta celebrazione del matrimonio, attestando altresì la volontà dei nubendi (...) di assumere gli obblighi
e di esercitare i diritti conseguenti al vincolo, indicati negli artt. 143, 144 e 147 c.c. (...). Se,
dunque, i nubendi non intendono sottoporsi alla disciplina civilistica del matrimonio e ciò nonostante manifestano all’ufficiale di stato civile la volontà di sposarsi, essi rendono una falsa dichiarazione che va conseguentemente ad inficiare l’atto di matrimonio redatto dal pubblico ufficiale il quale, indotto in errore, attesta falsamente un fatto non veritiero, ossia la volontà degli
sposi di assumere gli obblighi ed esercitare i diritti derivanti dal matrimonio» 23.
Se l’interpretazione delle norme operata dal Tribunale di Milano fosse condivisa già la sola denuncia del carattere fittizio del matrimonio sospenderebbe, ai sensi dell’art. 6 della legge, la
procedura di acquisto della cittadinanza, per poi determinarne il rigetto una volta intervenuta
la condanna penale.
Ma a trarre in inganno il giudice ambrosiano sta, a mio parere, la sottovalutazione degli effetti
civili del matrimonio simulato, il quale è un matrimonio non nullo ma solo annullabile nel limite della decadenza dall’azione al chiudersi di un anno dalla sua celebrazione; e peraltro solo su
domanda di uno degli sposi, con esclusione dall’azione dello stesso Pubblico Ministero. Avendo dunque celebrato un matrimonio esistente, benché annullabile, gli sposi non hanno pertanto commesso il reato di falso ipotizzato nel foro ambrosiano.
Piuttosto, nell’accordo di simulazione del matrimonio a titolo oneroso è invece ravvisabile, secondo un più realistico orientamento del Supremo Collegio, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, 5° comma, T.U. sull’Immigrazione, a termini del
quale «chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di
questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico è punito con
la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni» 24. Detto reato non
sembra però configurabile, alla luce del principio di tipicità dell’illecito penale, quando il matrimonio simulato riguardi uno straniero già regolarmente soggiornante il quale, ad esempio,
voglia in tal modo acquisire la cittadinanza italiana; né di tale reato, commesso a suo favore
dall’altro coniuge, è imputabile lo straniero irregolarmente presente sul territorio nazionale che
abbia retribuito il simulato coniuge al fine di regolarizzare la propria posizione di soggiorno.
Il presidio penale è dunque lacunoso e dovrebbe essere modificato convenientemente, evitando sia di avviare processi penali al di là di un tempo ragionevolmente successivo alla celebrazione del matrimonio, sia di imboccare la pericolosa scorciatoia del diritto penale esemplare.
Meglio, piuttosto, prevedere un percorso di verifica amministrativa, su segnalazione dello stesso ufficiale di stato civile, che non impedisca il matrimonio (nemmeno dello straniero privo del
permesso di soggiorno) ma che in presenza di indici di possibile fittizietà dia luogo ad un’istruttoria ad hoc.
Ristrutturata la disciplina speciale del matrimonio contratto dallo straniero a fini di immigrazione o di cittadinanza, potrebbe forse essere dimessa l’idea, talvolta emersa nella dottrina civilistica, di modificare la disciplina codicistica della simulazione del matrimonio prevedendo il
23
24
Trib. Milano 17 novembre 2008, in Foro ambrosiano, 2009, 1, p. 5.
Cass. pen. 14 ottobre 2015, n. 41303; Cass. pen. 26 aprile 2011, n. 20087; Cass. pen. 22 settembre 2010, n. 34993.
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FOCUS
potere di azione del pubblico ministero 25. Un passo, quest’ultimo, che potrebbe avere effetti
indesiderati sul sistema del diritto matrimoniale, torcendo l’istituto civilistico alla soddisfazione delle esigenze non generalizzabili, sebbene rilevanti, del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza.
7. Unioni civili e convivenze di fatto giuridificate
Nel momento in cui queste righe vengono scritte appare ormai imminente la definitiva approvazione del disegno di legge rubricato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. Occorrerà però attendere i decreti legislativi di attuazione per
comprendere a livello disciplinare quale potrà essere l’impatto di questi due nuovi istituti sul diritto dell’immigrazione. Ad oggi sono comunque già possibili alcune valutazioni e/o previsioni 26.
Riguardo alle unioni civili – istituto al quale non è consentito l’accesso alle coppie eterosessuali
– è piuttosto chiara la volontà del legislatore di configurarle alla stregua del matrimonio, costituendone il sostituto equivalente riservato alle coppie di orientamento omosessuale in quanto
impossibilitate alla celebrazione del matrimonio.
Sempre che nel passaggio alla Camera ne venga confermato il testo, l’art. 3, 4° comma del d.d.l.
prevede che «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi (...) si applicano
anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Pertanto avremo
a breve la possibilità di ricongiungimento familiare e di coesione familiare con “la parte dell’unione civile” di cittadinanza straniera.
Seppure un decreto legislativo di attuazione dovrà incaricarsi di disciplinare il riconoscimento
ai fini immigratori delle unioni civili registrate all’estero, già prima di questo la coesione familiare potrà essere realizzata in Italia dopo avere celebrato l’unione civile davanti all’ufficiale civile; ed ovviamente senza che possa essere richiesto alla parte straniera l’esibizione del permesso
di soggiorno.
Per il contrasto alle unioni civili abusive, contratte ai soli fini immigratori, potranno essere utilizzati i medesimi strumenti già riferibili ai matrimoni fittizi, benché sia evidente come l’unione
celebrata tra persone del medesimo sesso possa – forse più facilmente – dare luogo a forme di
coabitazione non corrispondenti ad una effettiva intesa sessuale. A questo riguardo non aiuta la
pessima idea di emendare l’art. 3 del d.d.l. cancellandovi il riferimento all’obbligo reciproco di
fedeltà tra le due parti, pur permanendo l’obbligo di coabitazione. Oltre che inutilmente offensivo nei confronti delle persone omosessuali che decideranno di utilizzare l’istituto dell’unione
civile, l’abolizione dell’obbligo di fedeltà rischia infatti di appesantire l’onere probatorio dell’Amministrazione, dato che l’esistenza di relazioni affettive omosessuali oppure eterosessuali
adulterine è stata considerata da un legislatore un po’ volgare come una caratteristica giuridicamente ammissibile del rapporto di unione civile.
Di contro, il Capo II del d.d.l. disciplina, attribuendole il contraddittorio nomen di “convivenza
di fatto” una figura dotata di ben minori effetti giuridici, destinata a raccogliere nel suo alveo la
giuridificazione dei rapporti di coppia eterosessuali ad anche dei rapporti affettivi omosessuali
connotati da una minore pretesa di effetti disciplinari.
25
Cenni al tema in G. FERRANDO, Il matrimonio, Giuffrè, Milano, 2015, p. 679 s.
Utili rilievi in G. IORIO, Il disegno di legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto: appunti e proposte sui lavori in corso, in
Nuove leggi civ. comm., 2015, 5, II, p. 1014 ss.
26
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AIAF RIVISTA 2016/1
Nella prospettiva del diritto dell’immigrazione non sembra davvero che la convivenza di fatto
possa giustificare una procedura di ricongiungimento familiare, dato che gli effetti legali della
fattispecie sono elencati dal d.d.l. senza mai operare generalizzazioni.
Di contro, dando comunque luogo ad un rapporto di famiglia nell’ampio senso di cui all’art. 8
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché degli artt. 7 e 9 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, tale istituto sembra invece in grado di offrire ragioni supplementari alla inespellibilità del convivente ed al mantenimento dell’autorizzazione al soggiorno dello straniero altrimenti esposto al possibile diniego di detta autorizzazione; nonché alla
possibilità di accogliere richieste di regolarizzazione da parte del convivente comunque già stabilito sul territorio nazionale.
Infine, se la dichiarazione anagrafica resa dai conviventi ai sensi dell’art. 4, d.p.r. n. 286/1989
fosse qualificata dall’interprete come una forma di registrazione della convivenza stessa (come
personalmente riterrei) il partner straniero dovrebbe essere considerato familiare – come tale
titolare del diritto di stabilimento al seguito del congiunto italiano od europeo – ai sensi dell’art. 2 della Direttiva 2004/38/CE. Difficile sarebbe a mio parere sostenere il contrario, benché al riguardo il legislatore abbia forse mostrato di non conoscere appieno la disciplina anagrafica perché altrimenti avrebbe apportato una modifica dello stesso art. 4 del regolamento
anagrafico al fine di meglio distinguere la dichiarazione anagrafica dei conviventi di fatto da
quella di altre persone legate da vincoli affettivi come ad esempio la zia ed il nipote. Tale modifica, auspicabilmente, potrà però sopraggiungere in occasione della decretazione legislativa di
attuazione.
Ove la sussunzione della convivenza di fatto, sin dalla sua iscrizione anagrafica, nell’ambito dell’art. 2 della Direttiva n. 38/2004 non dovesse essere condivisa dagli interpreti resterebbe comunque la sua riconducibilità almeno alle relazioni durevoli debitamente attestate di cui all’art.
3 della medesima direttiva, collocando così il convivente di fatto tra gli altri familiari titolari di
un diritto di soggiorno al seguito non incondizionato e tuttavia agevolmente invocabile.
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FOCUS
LA RESILIENZA DELLE DONNE MIGRANTI E IL CORAGGIO DEL LORO
ESPATRIO
Federica Panizzo
Avvocato in Verona
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le garanzie internazionali dello status di donne migranti. – 3. La tutela delle donne
migranti nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. – 4. Conclusioni.
1. Premessa
Il momento storico che stiamo vivendo, caratterizzato da una sempre più vasta e dibattuta presenza di donne e minori migranti provenienti dal mare mediterraneo e dall’area balcanica e della loro presenza anche in gruppi terroristici internazionali, quali quella dell’Isis, impone una riflessione sulla evoluzione della disciplina giuridica di protezione che le e li riguarda.
Le troppe morti che hanno colpito le donne-migranti e i loro figli la scorsa estate e in questi recenti mesi e i loro sbarchi funzionali in molti casi a ricongiungimenti familiari o al riconoscimento dello status di rifugiate titolari di un diritto di asilo politico, consente di affrontare indirettamente anche la questione relativa ad una loro possibile qualificazione come vittime di una
violenza anche di genere. Preciso che non intendo confondere in alcun modo né sostanziale né
lessicale, la vulnerabilità di queste donne con il vittimismo.
Le donne richiedenti asilo politico e il riconoscimento giuridico dello status di “rifugiate”, devono a mio modo di vedere essere considerate come donne dotate della resilienza: la capacità
di resistere, senza frantumarsi, innanzi agli urti della esistenza rappresentati, in questo caso, da
guerre e povertà.
Queste donne vivono, dunque, oltre agli ostacoli che tutte condividiamo in quanto donne, per
questo destinatarie, in contesti privati e pubblici, di comportamenti discriminatori, una ulteriore condizione di differenziazione in quanto provenienti da zone del mondo nelle quali, senza
cedere a strumentalizzazioni ideologiche o propagandistiche, oggettivamente sussistono condizioni di guerra, indigenza economica e/o persecuzione politica, di religione e di genere.
Possiamo quindi dire che queste donne, nate e vissute in tali contesti, siano dotate di enorme
coraggio e con questo vivono anche l’esperienza dell’espatrio, in tale caso, non scelto, ma imposto da oggettive condizioni di svantaggio economico-sociale, da conflitti armati, guerriglie tra
diversi gruppi tribali aumentati anche in seguito alle esperienze delle c.d. “primavere arabe”.
Ciò che le accompagna, spesso con i/le loro figli/e è il sogno unico: l’emancipazione, il deside61
AIAF RIVISTA 2016/1
rio di scegliere del proprio destino, il diritto di autodeterminarsi. Muovendo da tali considerazioni nell’analisi giuridica si ha così modo di imbattersi nell’intreccio tragico tra l’inattuazione
dei diritti delle donne migranti spesso madri e quello dei diritti di noi donne, tutte.
Mi propongo di riepilogare, senza pretesa di esaustività, quali siano gli strumenti di tutela che
l’ordinamento internazionale contempla in favore di queste persone e di sollevare dubbi, spunti
di riflessione.
Chi sono dunque le “donne migranti”? Per rispondere a tale domanda serve necessariamente
accennare alla loro indubbia condizione di fragilità. Tale riflessione vale sia con riguardo alla
fase di transito che a quella di permanenza nel paese ospitante.
Per “donne migranti” si intendono le donne richiedenti asilo, le rifugiate, le profughe, e le lavoratrici a prescindere dalla condizione di regolarità del loro ingresso e/o della loro permanenza
nel Paese Ospitante 1. Domandiamoci poi per quale ragione sia possibile parlare di una palese
“vulnerabilità” della donna migrante e perché la definiamo come dotata di una particolare “resilienza” e coraggio. La risposta va ricercata nel fatto che non si può prescindere dalla constatazione che tale termine sia particolarmente adatto rispetto a questi soggetti che sono maggiormente esposti, come si accennava innanzi, ad una duplice marginalizzazione.
Le migranti paiono essere “vittime” di discriminazione e di violenza, sia a causa del genere, che
in virtù della loro obiettiva condizione di vita 2.
Tale stato di fatto le pone alla periferia del sistema di protezione dei diritti, sino al punto di impedire loro il pieno ed effettivo godimento delle proprie posizioni soggettive. Ricorre quindi
ciò che nel diritto antidiscriminatorio viene definita come “doppia marginalizzazione”, in questo
caso, delle donne migranti, fondato non solo sulla percezione sociale della loro condizione di “inferiorità” rispetto agli uomini, ma anche sul loro status di migranti, richiedenti il riconoscimento
dello status di rifugiate.
2. Le garanzie internazionali dello status di donne migranti
Specifiche garanzie a tutela dei diritti delle donne sono, ormai, da tempo previste dalla normativa internazionale (universale e regionale).
A tale proposito pare sufficiente rammentare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, adottata il 18 dicembre 1979 ed entrata in vigore il 3 settembre del 1981 e ancora il Protocollo sui diritti delle donne alla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in vigore dal 25 novembre 2005, in cui vengono previste
specifiche garanzie in favore di alcune categorie di donne considerate particolarmente esposte
a forme di discriminazione.
Solo in tempi relativamente recenti, tuttavia, malgrado questa “fisiologica” tendenza delle donne
ad essere destinatarie di atti o comportamenti discriminatori, un gruppo di lavoro di esperti sui
diritti delle donne migranti ha soffermato la sua attenzione sulle particolarità di tale debolezza.
Secondo la Commissione dei diritti umani del 1997 l’elemento caratterizzante che determina
questa loro condizione consiste in una situazione di mero fatto (powerless: impotente, senza
potere/possibilità) che caratterizzerebbe la relazione di queste sia con lo Stato di invio o di destinazione che con le forze sociali dello Stato ospitante.
1
S. FITZGERALD (ed.), Regulation the International Movement of Women, from Protection to Control, Routledge, London,
2011.
2
R. SOLLUND (ed.), Transnational Migration, Gender and Right, Emerald Books, Bingley, UK, 2012.
62
FOCUS
Tale stato di fatto le pone alla periferia del sistema di protezione dei diritti, sino al punto di impedire loro il pieno ed effettivo godimento delle proprie posizioni soggettive.
Esiste senza dubbio una correlazione tra migrazioni internazionali, discriminazioni e violenza
contro le donne che, include varie forme di abusi e sfruttamento.
La più importante fonte di norme giuridiche volte alla tutela delle donne, la Convenzione delle
Nazioni Unite sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, la CEDAW,
che risale al 1979, non contempla una disposizione che esplicitamente proibisca la violenza
contro di esse, bensì un generale impegno da parte degli Stati contraenti al fine di reprimere, in
ogni sua forma, il traffico e lo sfruttamento della prostituzione delle donne. Lo si evince dalla
lettura dell’art. 6. La norma appare lacunosa ed è stata in parte colmata dalle Nazioni Unite, alcuni anni dopo, con la adozione della Dichiarazione sulla eliminazione della violenza contro le
donne, la cui natura non vincolante (si parla a tale proposito di un “soft law”) non garantisce,
però, la effettiva valenza dei principi ispiratori. Di rilievo tuttavia la definizione, contenuta all’art. 1 nella dichiarazione, della “violenza contro le donne”, secondo la quale questa può significare: «ogni atto di violenza fondato sul genere, che abbia come risultato o che possa probabilmente avere quale risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà che avvenga nella vita pubblica o privata. All’interno di tale definizione possiamo includere le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da
parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e le altre pratiche tradizionali dannose per le
donne; la violenza che si manifesta nella società e che include lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico
delle donne e la prostituzione forzata; e quella psicologica perpetrata dallo Stato» (art. 2).
Nella sua accezione regionale, serve ricordarsi che l’Assemblea Generale della Organizzazione
degli Stati americani ha adottato, con entrata in vigore nel marzo 1995, la Convenzione interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne in cui
espressamente si afferma che la violenza nei confronti delle donne costituisce una violazione
dei diritti umani e delle libertà fondamentali ad esse spettanti idonea ad ostacolare o annullare
l’osservanza, il godimento e l’esercizio di tali diritti e libertà. Quanto agli obblighi materiali previsti dalla Convenzione, gli Stati si impegnano: ad astenersi dall’intraprendere ogni azione o pratiche di violenza contro le donne; ad agire con la dovuta diligenza per prevenire, indagare e sanzionare penalmente tale fenomeno; ad adottare misure per impedire all’autore di violenza di
molestare, intimidire o minacciare la donna o di usare ogni altro mezzo che attenti alla sua vita
o integrità e che pregiudichi i suoi beni; ad istituire procedure di ricorso eque ed effettive per le
vittime; nonché a prevedere i meccanismi legali ed amministrativi idonei ad assicurare che esse
abbiano accesso effettivo ad azione di restituzione/o riparazione del danno.
Mi preme soffermarmi su questo punto per suscitare una riflessione sulla valenza in termini general-special preventivi della definizione di procedimenti per i fatti odiosi innanzi descritti, del
congruo ed adeguato risarcimento del danno patito dalla migrante, richiedente asilo. Quale è la
sanzione che può ripristinare la dignità violata di una donna, già esposta al carico emotivo dell’abbandono non scelto ma imposto da contingenti situazioni della propria vita e del proprio
Paese di origine?
A tale riguardo reputo che un risarcimento o un ristoro per la migrante vittima di abusi, magari
perpetrati dalle forze sociali dello stato dalla quale è fuggita o durante l’esodo dell’espatrio, potrebbe essere, accertate le condizioni di legge, il riconoscimento di un valido titolo per soggiornare. La certezza del rilascio di un valido titolo a soggiornare mi pare sia l’aspetto più utile. In
generale il momento sanzionatorio è un nodo delicato del diritto antidiscriminatorio e della
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AIAF RIVISTA 2016/1
eliminazione delle conseguenze dannose che il comportamento maschile o di Stato hanno arrecato alla donna. Reputo, sul punto, sia fondamentale l’approccio che coinvolga anche la mediazione interculturale per sradicare una questione mondiale complessa che si intreccia di superstizioni, credenze profonde, tradizioni lontane da quella occidentale. Non suoni il mio dire
come giustificazionista di pratiche odiose e dannose contro le donne, ma sia espressione della
convinzione che, per affrontare tali “fisiologiche” e spinose questioni femminili e per debellare
il fenomeno, sia indispensabile scardinare il tutto attraverso un approccio culturale ed educativo. Per fare questo serve necessariamente evitare la trappola del provincialismo e porci quali
osservatori esterni: c’è il dovere di considerare le nostre opinioni da una certa distanza perché il
nostro sguardo non sia inficiato da un personale interesse e da tradizioni e abitudini in noi radicate. Solo in tale modo la giustizia viene non solo fatta ma anche percepita come tale.
A tale riguardo sottolineo come la Convenzione interamericana nell’ottemperare a tali obblighi, valuti idoneo per gli Stati prestare una particolare attenzione a talune categorie di donne
maggiormente esposte ad abusi e violenze in ragione della loro razza o origine etnica, della loro
condizione di migranti, rifugiate o sfollate; a questo si aggiungono le donne vittime di violenza
durante la gravidanza, le donne affette da disabilità, di minore età, quelle anziane, le donne svantaggiate sul piano socio-economico e quelle coinvolte in conflitti armati o in stato di detenzione. E a tale proposito pongo tale quesito: una migrante sola o magari che accompagna un minore in transito o che permanga in Italia equivale a un uomo migrante? In una parola mi chiedo
se sia corretto omologare le regole che disciplinano a livello statuale la permanenza sul territorio di un uomo migrante con quelle relative alle donne, spesso madri, oggettivamente portatrici
di uno sguardo diverso sul dolore, sulla violenza. Il corpo, la maternità, l’affettività e l’espatrio,
come vengono vissuti da donne vulnerabili in zone all’interno di drammatiche realtà connotate
da una oggettiva limitazione della libertà personale? Pensiamo a come possano essere vissuti
dalle donne migranti e dai loro figli luoghi come i Centri per l’identificazione. Forse varrebbe la
pena chiedersi se l’elemento del genere non possa essere valutato anche in tali contesti al fine di
promuovere la salute fisica e psichica della donna e di tutela dei minori che spesso le accompagnano.
Rispetto a tali soggetti di diritto merita di essere valorizzato l’elemento del “gender” nella accezione discorsiva dell’essere donna o del “sex” nella accezione biologica di essere donna.
Tornando alle fonti giuridiche di protezione va ricordato poi che, nel contesto europeo, si riscontra una medesima attenzione nei confronti della violenza di genere, che ha condotto gli
stati membri del Consiglio d’Europa alla elaborazione nel 2011, della Convenzione europea
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica. Di particolare interesse, a mio modo di vedere, il significato di violenza contro le donne «... che rappresenta una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra
uomini e donne ... è un meccanismo sociale che le costringe ad occupare una posizione storicamente subordinata rispetto agli uomini»; e che «le donne e le ragazze siano spesso esposte a
gravi forme di violenza quali quella domestica, la molestia sessuale, lo stupro, il matrimonio
forzato, i crimini d’onore, le mutilazioni genitali che costituiscono il principale ostacolo al raggiungimento della eguaglianza tra uomini e donne». Tale Convenzione europea, si ispira alla
più recente prassi, universale e regionale, in materia, si applica a tutte le forme di violenza di genere, sia in tempo di pace che in caso di conflitti armati e prevede una dichiarazione di genere
che ricalca quella contenuta nella citata Dichiarazione delle Nazioni Unite. È innovativa la definizione di gender based violence già individuata dal Comitato sulla eliminazione contro le donne come «violence that is directed against a woman because she is a woman or that affects woman
disproportionately»(la violenza è quella rivolta contro la donna perché donna o che colpisce la
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FOCUS
donna in maniera sproporzionata). Sul punto, mi pare condivisibile la posizione di chi reputa
che l’espressione gender based violence against women sia stata definita nell’accordo proprio al
fine di enfatizzare il carattere discriminatorio di ogni forma di violenza perpetrata nei confronti
della donna, che mina il pieno sviluppo della sua personalità e delle sue capacità umane. Quanto al contenuto materiale degli obblighi sanciti nella Convenzione europea del 2011, il riferimento è alle tre priorità di impegno internazionale: la prevenzione, la protezione delle donne e
la punizione degli autori – nonché una serie di altri impegni di carattere politico-sociale, volti a
realizzare in una ottica di approccio integrato orientato alla dimensione di genere e di protezione, ad es. il divieto di rimpatri forzati di donne migranti nei paesi d’origine per essere sottoposte a mutilazioni genitali o vivere in altre condizioni disumane.
Come evidenziavo innanzi nella elencazione dei miei dubbi trovo conforto e risposta a mio parere soddisfacente nel fatto che la Convenzione introduce la possibilità di garantire alle donne
migranti, in circostanze particolarmente difficili, un autonomo permesso di soggiorno (art. 59.1),
ossia, non condizionato allo stato civile della donna derivante dal matrimonio o da unioni legalmente riconosciute. È confortante pensare che le donne possano andare, tornare, restare anche
“ballando da sole” e non solo se unite, per forza, ad un compagno di vita. Tale esigenza si pone
in relazione ai frequenti casi di violenza che le donne migranti o le richiedenti asilo sono costrette a subire tra le mura domestiche, il cui verificarsi potrebbe condurre alla dissoluzione del
matrimonio o del legame giuridicamente riconosciuto e, quindi, alla perdita del relativo permesso di soggiorno della migrante. Con particolare riferimento alle richiedenti asilo, la Convenzione europea del 2011 tiene conto di una prassi generalizzata, secondo la quale taluni atti
di violenza perpetrati contro le donne possono giustificare “il fondato timore di persecuzione”
(sia atti statali che non statali) – quali lo stupro, i crimini domestici, le MTG, i crimini d’onore
e la tratta – possano giustificare il “fondato timore di persecuzione” ostacolante il rimpatrio.
Pertanto gli Stati si impegnano a riconoscere la violenza contro le donne quale forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1, par. 2 della Convenzione di Ginevra del 1951, nonché il “danno grave” idoneo a dar luogo ad una protezione complementare/sussidiaria. La disposizione mira a
tutelare la donna in ragione del proprio sesso e della propria identità di genere, garantendole la
possibilità di vedersi riconosciuto lo status di rifugiata. Va tuttavia segnalata una interpretazione restrittiva operata dal comitato sulla prevenzione della violenza domestica che ha sottolineato come non tutte le forme di violenza di genere siano causa di un “serious harm”/“grave danno”, ma soltanto quelle che costituiscano un trattamento inumano e degradante o una seria minaccia per la donna. Esprimo la mia criticità rispetto a tale tipo di precisazione considerando
come, a mio modo di vedere, qualsiasi condotta perpetrata ai danni di una donna, che abbia il
solo scopo di attentare alla sua integrità psico-fisica, debba essere considerata alla stregua di un
trattamento inumano, suscettibile come tale di essere sanzionato, in applicazioni dei principali
strumenti internazionali sulla tutela dei diritti umani.
Merita infine di essere ricordata come l’esigenza imposta agli Stati di protezione delle donne si
esplichi anche nel duplice obbligo loro imposto: di astenersi dal porre in essere condotte violente contro le donne (negativo); e di predisporre misure volte a prevenire tali dinamiche, sanzionando penalmente i responsabili e risarcendo le vittime (positivo). La c.d. Due Dilgence consente, quindi, di accertare che la condotta statale sia rispettosa degli obblighi internazionali assunti, o, in caso contrario, in che misura la mancata o inadeguata attenzione di misure positive
a tutela dei diritti delle donne faccia sorgere in capo allo Stato una responsabilità di diritto internazionale.
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3. La tutela delle donne migranti nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani
Concludo soffermandomi su quali modi la tutela della donna sia stata posta e affrontata innanzi
alla Corte Europea dei Diritti Umani o, per meglio dire, come il discorso di genere sia giunto a
Strasburgo. La giurisprudenza della Corte mette in luce quelli che sono gli ambiti nei quali i diritti della donna vengono più significativamente violati e quanto, nell’analisi delle questioni, i
giudici di Strasburgo mostrino una sensibilità al discorso di genere. Ciò ci consente di domandarci se (e in quali ambiti) la loro tutela non andrebbe ulteriormente rafforzata. È utile rammentare che solo dal 1993 – Convenzione di Vienna – il tema di una corretta tutela dei diritti
della donna sia stato posto alla attenzione della Comunità internazionale. Solo da una quindicina di anni vi è, dunque, la chiara consapevolezza che la tutela dei diritti della donna non possa
essere garantita solo attraverso l’applicazione di strumenti internazionali specifici, quale principalmente la Convenzione sull’eliminazione della discriminazione della donna, ma debba passare attraverso il riconoscimento effettivo del valore della differenza di genere e dell’impatto
che la realtà di questa differenza ha sul godimento di tali diritti fondamentali, quali il diritto alla
vita, all’integrità fisica e personale ed alla propria identità.
La violenza contro le donne, in tutte le sue forme, dallo stupro in tempo di pace o di guerra,
dalla violenza domestica o sui luoghi di lavoro, ai maltrattamenti a donne rifugiate o detenute,
è, a mio parere, la più chiara dimostrazione del fatto che la tutela dei diritti fondamentali è ancora ben lontana dall’essere riconosciuta in modo non discriminatorio tra uomini e donne. Per
quanto le norme sui diritti fondamentali, quali il diritto alla vita e quello all’integrità fisica e
mentale, siano espresse in termini c.d. “gender neutral”, tuttavia in concreto le donne come soggetti più deboli in tutti i contesti sociali, finiscono per goderne in modo diverso rispetto agli
uomini. Tale consapevolezza purtroppo, come abbiamo innanzi evidenziato, è emersa in tempi
relativamente recenti.
Vale la pena rammentare a tale riguardo le emblematiche parole di Kofii Annan, ex segretario
generale delle Nazioni Unite: «La violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani
più vergognosa. Essa non conosce confini, né geografia, cultura o ricchezze. Fintanto che continuerà, non potremo pretendere di avere compiuto reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace». La gravità del fenomeno, nelle sue varie sfaccettature, ed il fatto che esso sia
evidentemente senza confini risulta chiaramente nei lavori dello Special reporteur delle Nazioni
Unite sulla violenza contro le donne, R. Coormarasawmy. Nei rapporti che si succedono dal
1996 in poi, rinveniamo una ricostruzione puntuale, ma allarmante delle lacune che si rinvengono nelle legislazioni nazionali e della incapacità degli ordinamenti interni di garantire una tutela adeguata ed effettiva alle donne rispetto alla violenza perpetrata nei loro confronti. Rispetto a questi temi la posizione della Corte europea appare ancora una volta improntata ad una
interpretazione piuttosto ampia del concetto di obblighi previsti dagli Stati, sia per quanto attiene alla tutela della donna sia in caso di stupro che di violenza domestica.
Sulla questione si può menzionare anche il contenuto della Relazione del Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa.
Va segnalato, con riguardo alla prassi dei giudici di Strasburgo, come il concetto di tutela della
vita privata e familiare sia ancorato sia alla tutela delle scelte della donna in materia di salute riproduttiva sia a quelle inerenti la violenza domestica. L’approccio comparativo consente di affermare come consolidato il ricorso al concetto di obblighi positivi ed al principio di effettività.
Per quanto si può constatare il ricorso a valide tecniche interpretative appare “frammentario”
ed altalenante. Ad esempio se in alcune situazioni la Corte mostra sensibilità nel valutare la peculiarità delle esigenze della donna, vi sono, al contrario, casi in cui l’elemento della differenza
di genere e delle conseguenze che questa può avere nel valutare l’impatto di taluni comporta66
FOCUS
menti sull’integrità fisica e psichica di una donna non appaiono adeguatamente analizzati. Sul
fronte delle “nuove schiavitù”, la Corte pare muoversi nella direzione di una auspicabile maggiore attenzione alle peculiarità della condizione femminile.
Innanzi all’attuale fenomeno della massiccia migrazione di donne nello spazio UE e agli effetti
che lo stesso produce – si pensi alle proposte e ai muri effettivamente eretti alle frontiere – questa rafforzata attenzione pare essere messa in crisi.
Tra i vari provvedimenti in materia presentati in ambito europeo, nel gennaio del 2015 è stato
adottato il Parere del Comitato economico e sociale europeo (CESE), dedicato all’integrazione delle donne migranti nel mercato del lavoro. Difatti, dato il continuo aumento dell’immigrazione femminile nell’Unione europea già a partire dall’ultimo decennio (come riscontrato dalla
Risoluzione del Parlamento europeo Immigrazione femminile: ruolo e condizione delle donne
immigrate nell’Unione Europea 2006/2010 (INI)), si è resa ancora più evidente la necessità
relativa all’adozione di azioni positive, che tengano conto della situazione specifica delle donne,
del loro livello di qualificazione, della loro conoscenza della lingua del paese ospitante, del fatto
che si tratti di immigrate di prima generazione o di generazioni successive. In tal senso, il Comitato economico e sociale europeo si è espresso invitando gli Stati membri a fissare obiettivi
chiari e ambiziosi in materia di integrazione delle donne migranti, garantendo che, in ogni fase
del processo di migrazione, le donne godano anche di diritti individuali, e non solo di quelli derivanti dall’appartenenza a un nucleo familiare.
4. Conclusioni
Per concludere, osservo come l’attuale momento storico che pare, in generale, far dubitare della esistenza stessa di una comune scelta di politica migratoria dell’Unione Europea possa riverberarsi anche sulle garanzie previste per le donne stesse in transito o che vi fanno ingresso nel
nostro Stato.
In tale prospettiva è da auspicare, oggi più che mai, la necessità di una revisione in termini di
interpretazione femminista del diritto? Alcune giuriste, infatti, sostengono che il movimento
delle donne possa utilizzare gli strumenti internazionali sulla tutela dei diritti umani come un
modo per dare maggior forza alle proprie richieste e fare pressione politica sugli Stati.
Al di là di scelte di campo ciò a cui si dovrebbe tendere è che sia garantita una tutela adeguata
ed effettiva dei diritti umani, anche in una accezione di genere anche in questo particolare momento storico.
Sarebbe, quindi, utile che i giudici facessero sempre più chiaramente ricorso, nelle loro pronunce,
ad una interpretazione finalistico-evolutiva quale strumento indispensabile per colmare il divario nella effettività del godimento dei diritti che patiscono le donne, specie se provenienti da
certe realtà nazionali, sociali e culturali con cui l’Europa, tutta deve, sempre più, quotidianamente
fare i conti.
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AIAF RIVISTA 2016/1
STRANIERI MINORENNI: DISPOSITIVI NORMATIVI ED INTENSITÀ DELLE
TUTELE
Claudio Cottatellucci
Magistrato, giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma
Condirettore della Rivista Minorigiustizia
Sommario: 1. Alcune considerazioni sulla “capacità di tenuta” delle disposizioni normative nazionali. – 2. Dialogo tra le Corti e condizioni di evoluzione della normativa nazionale. – 3. Stranieri minorenni: cenni sull’interpretazione di alcune disposizioni.
1. Alcune considerazioni sulla “capacità di tenuta” delle disposizioni normative nazionali
Al momento della sua approvazione la l. 6 marzo 1998, n. 40, poi trasfusa nel d.lgs. 25 luglio
1998, n. 286, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, dedica un intero Titolo, il IV, al “Diritto all’unità familiare e tutela
dei minori”, con una serie di disposizioni normative espresse dagli artt. dal 28 al 33.
Si riferisce, nel suo incipit, a solide fonti sovranazionali laddove all’art. 20, 3° comma – disposizione a cui parte della giurisprudenza di merito minorile si rivolgerà negli anni successivi con
particolare attenzione – espressamente richiama la Convenzione sui diritti del fanciullo del 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della l. 27 maggio 1991, n. 176 1.
Rivolta quindi verso l’esterno, nel proposito dichiarato di attingere a un patrimonio di principi sovranazionali che non prescindono, ma certo trascendono, i contrasti propri dei dibattiti nazionali in tema di immigrazione, questa parte del primo corpus normativo interno organico in materia di immigrazione 2 mostra chiaramente l’intenzione di “guardare lontano” an1
Come noto, il testo convenzionale è richiamato in uno dei suoi passaggi più conosciuti, quello espresso dal 1° comma
dell’art. 3: «In tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e
riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo».
2
Non invece in materia di rifugio e protezione internazionale, su cui il legislatore dell’epoca preferì marcare le differenze
concettuali rispetto al tema dell’immigrazione c.d. economica, mostrando però nel decennio successivo la sua incapacità a
formulare una regolamentazione della materia. Il vuoto normativo lasciato da questa inadempienza del legislatore nazionale verrà colmato solo nel decennio successivo per l’intervento decisivo dell’Unione europea, attualmente espresso dal d.lgs.
21 febbraio 2014, n. 18 di recepimento della Direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011 (c.d. Direttiva qualifiche), e dal
d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, di recepimento della Direttiva 2013/32/UE (c.d. Direttiva procedure) e della Direttiva
2013/33/UE (c.d. Direttiva accoglienza), entrambe del 26 giugno 2013.
Nella decretazione legislativa di recepimento delle Direttive cui dovrebbe far seguito un testo unico di prossima emanazione appunto sull’asilo e la protezione internazionale.
68
FOCUS
che nel senso di dar prova della sua capacità di reggere nel tempo.
Un primo test quindi, sulla capacità di tenuta di questo sottoinsieme normativo, condotto sia
con riferimento alle successive modifiche normative, sia alle pronunce del giudice delle leggi,
può aiutare a comprendere, ormai a distanza di diciotto anni dalla sua approvazione, quanto
quel proposito del legislatore abbia trovato effettiva conferma.
Un’analisi, anche solo quantitativa, del numero e della frequenza – non sempre invero della
qualità – degli interventi di modifica normativa mette subito in chiaro quanto anche la materia
della famiglia, soprattutto per l’aspetto riguardante i familiari “ricongiungibili” che rappresenta
uno dei fattori maggiormente incidente sulla consistenza dei flussi migratori, costituisca un termometro sensibile delle scelte legislative in questa materia.
L’art. 29 conta ben cinque interventi normativi di modifica, di cui tre effettuati con decreti legislativi in recepimento di Direttive UE, a conferma della “comunitarizzazione” ampia anche di
questo aspetto della disciplina dell’immigrazione 3.
Si consideri, ad esempio, la questione della ricongiungibilità dei genitori, per i quali nella formulazione originaria della disposizione era esclusivamente richiesto che fossero “a carico” del
figlio richiedente, successivamente è stata introdotta la condizione concorrente che «non abbiano altri figli nel paese di origine o di provenienza» o, nel caso di ultrasessantacinquenni, che
«gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute» 4, poi mitigata dalla più ampia previsione che, essendo a carico, «non dispongano di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza» 5, infine nuovamente inasprita
la disciplina con il ripristino della formulazione introdotta dall’art. 29, l. n. 189/2002, correlata
all’eventualità che contestazioni sulla veridicità dello status possano essere risolte richiedendo
al familiare da ricongiungere esami del DNA con spese a suo carico 6.
Le oscillazioni della disciplina danno conto di due fattori che hanno inciso sulla configurazione
del sistema in maniera determinante almeno durante il primo decennio di vigenza del d.lgs. n.
286/1998: l’ampio spazio a disposizione del legislatore nazionale al momento di recepire alcune Direttive UE costruite su criteri abbastanza ampi e scarsamente prescrittivi, per altro in una
fase non ancora consolidata di “comunitarizzazione” della disciplina, come appunto è avvenuto
nel caso della Direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare, ed il margine di discrezionalità riconosciuto al legislatore da parte della Corte costituzionale che, interpellata su queste questioni, non ha ravvisato motivi di contrasto della disciplina, per esempio nel
caso di ricongiungimento dei genitori ai figli maggiorenni, con riferimento alle norme parametro degli artt. 2, 3, 10 e 29 Cost., indicate dai giudici rimettenti in correlazione all’art. 8 della
CEDU, ben prima delle sentenze gemelle 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349 7.
3
L’analisi diacronica delle modifiche mostra, oltre che il mutamento di indirizzi politici su questa materia, come ovvio, anche
discordanti recepimenti della medesima Direttiva proprio in ragione dei cambi di indirizzo politico, il che determina un’evidente instabilità della disciplina; questo accade ad esempio per il doppio intervento di recepimento della Direttiva 2003/86/CE
relativa al diritto di ricongiungimento familiare, effettuato prima con il d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, quindi attraverso il d.lgs.
3 ottobre 2008, n. 160.
4
Art. 23, 2° comma, l. 30 luglio 2002, n. 189.
5
D.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, art. 2, 2° comma, lett. e).
6
Questa la previsione contenuta all’art. 1, 1° comma, lett. a), d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160.
7
Con la sent. 15 giugno 2005, n. 224 la Corte ritenne che non fosse censurabile la modifica introdotta all’art. 29 dall’art.
23, 2° comma, l. 30 luglio 2002, n. 189, in quanto il diritto all’unità familiare non era configurabile con «una estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori; infatti nel rapporto tra figli
maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile
costituzionalmente garantito e contestualmente si aprono margini che consentono al legislatore di bilanciare “l’interesse all’affetto” con altri interessi di rilievo». Orientamento costantemente ribadito, per esempio nell’ord. 23 dicembre 2005, n. 464.
69
AIAF RIVISTA 2016/1
Si potrebbe quindi ritenere che, proprio per le caratteristiche della materia in cui in una prima
fase la funzione del legislatore nazionale sembrava aver assunto un ruolo centrale, è essenzialmente la continuità dell’indirizzo politico in tema di immigrazione ad assicurare la stabilità della relativa disciplina.
Si tratterebbe però di una conclusione affrettata se riferita al presente, perché non tiene nel dovuto conto alcuni successivi mutamenti: da una parte la relazione tra norme nazionali e sovranazionali che assegna a queste ultime una crescente capacità di penetrazione e conformazione
del sistema normativo degli Stati membri, in maniera più chiara nel caso del sistema delle disposizioni UE in cui esempi di “cessione di sovranità” sono più evidenti, dall’altra l’intensificarsi anche sul tema dell’immigrazione del dialogo tra Corte costituzionale e Corti europee.
Queste dinamiche impongono di ricercare le linee evolutive del sistema nell’affermazione di
principi fondamentali a cui viene dato riconoscimento e tutela in maniera crescente nella dimensione sovranazionale.
Alcuni esempi valgono a chiarire in quale direzione si è già andato evolvendo il sistema.
2. Dialogo tra le Corti e condizioni di evoluzione della normativa nazionale
Fuori dal “perimetro” delimitato del Titolo IV nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, altre disposizioni riguardano aspetti essenziali della vita familiare.
Con l’art. 1, 15° comma, l. 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il
legislatore modifica l’art. 116, 1° comma, c.c., introducendo, tra i documenti necessari da presentare all’ufficiale di stato civile nel caso di matrimonio dello straniero nello Stato, anche «un
documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».
Come noto, la Corte costituzionale con la sent. 25 luglio 2011, n. 245 dichiara l’illegittimità
della modifica introdotta dal legislatore, che viene quindi espunta dall’ordinamento.
Nel richiamare questa vicenda, interessa però qui osservare soprattutto un aspetto della decisione: nella motivazione la Corte si riferisce espressamente alla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo 8, e ravvisa quindi la violazione anche della norma parametro dell’art. 117 Cost. in
relazione all’art. 12 della CEDU.
Il parametro indicato non è esaustivo del ragionamento della Corte, che quindi alla stessa decisione sarebbe certamente pervenuta anche solo con il riferimento ai precetti espressi dagli artt.
2, 3 e 29 Cost., tuttavia la motivazione segnala un’estroflessione “culturale” significativa della
Corte nazionale verso la Corte di Strasburgo.
Prove di dialogo, a distanza di qualche anno dalle “sentenze gemelle” del 2007, fanno capire
8
Si tratta della sentenza della Corte di Strasburgo del 14 dicembre 2010, O’Donoghue e altri c. Regno Unito (ric. n. 34848/2007).
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva ritenuto sussistente la violazione dell’art. 12 della Convenzione sul ricorso
proposto dal sig. Osita Chris Iwu, cittadino nigeriano, dalla sig.ra Sinead O’Donoghue, con doppia cittadinanza irlandese
ed inglese, dal figlio della coppia, Ashton Osita Iwu, nato nel 2006, e da Tiernam Robert O’Donoghue, primo figlio della
Sinead, nato nel 2000.
La coppia si era conosciuta e verso la fine del 2005 aveva preso la decisione di sposarsi, ma solo il 18 ottobre 2008 aveva
potuto farlo; ad impedirlo, la successione delle disposizioni in materia di immigrazione in quegli anni, tutte comunque violative, a giudizio della Corte, dell’art. 12.
Nel passaggio della decisione richiamato dalla sentenza della Corte costituzionale, il giudice di Strasburgo aveva osservato
che le restrizioni imposte da questa disciplina risultavano, nel loro automatismo e nell’assenza di criteri ragionevoli di differenziazione del trattamento, violative della Convenzione e comunque esorbitanti il margine di apprezzamento che doveva essere riconosciuto agli Stati in questa materia («The Court recalls that it has previously, albeit in different circumstances,
held that a general, automatic and indiscriminate restriction on a vitally important Convention right fell outside any acceptable
margin of appreciation, however wide that margin was», par. 89).
70
FOCUS
come lo scenario in cui si definiscono le regole della materia dell’immigrazione si sia andato
modificando, con un allargamento dei confini che consente di individuare principi fondamentali più ampiamente condivisi dagli Stati e quindi meno suscettibili di “oscillazioni” in base ai
diversi e contingenti orientamenti dei governi nazionali.
In questo senso il riferimento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rafforza la funzione di
controllo di legittimità costituzionale espletata dalla Corte nazionale.
In altri casi invece è il legislatore che, recependo le disposizioni UE e tenendo conto della giurisprudenza delle Corti europee, emana norme ispirate ai principi che si stanno affermando a livello sovranazionale.
Con il d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 – in attuazione della Direttiva 2003/86/CE relativa al ricongiungimento familiare – il legislatore nazionale introduce più stringenti criteri nel caso di rifiuto di rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del titolo di soggiorno nel caso di «straniero che
ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi
dell’articolo 29» 9.
Crea in questo modo, per alcuni soggetti, un sistema di “tutela rinforzata” a fronte di provvedimenti di espulsione.
Quasi testualmente, la disposizione inserita all’art. 5, 5° comma riproduce l’art. 17 della Direttiva 10; entrambe, per metodo e contenuto, sono fortemente influenzate dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’art. 8 11 formatasi prevalentemente con riferimento
a vicende riguardanti l’espulsione di stranieri inseriti in contesti familiari nel paese membro 12,
talvolta anche nati o giunti molto piccoli in quel paese 13.
Soprattutto, quello che dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si trasferisce al legislatore, in questo caso prima comunitario poi nazionale, è un metodo di trattazione della questione, che per altro aveva avuto una configurazione significativa anche nella
stesura di alcuni atti convenzionali cui l’Italia ha aderito, primo fra tutti proprio la Convenzione
9
In tal senso l’art. 2, n. 1, lett. b) specifica i criteri cui attenersi nell’adottare la decisione: «si tiene anche conto della natura
e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine,
nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio
nazionale».
10
Secondo il quale «In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella
dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato
membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine».
11
Cui per altro espressamente si riferisce la Direttiva al considerando 2: «La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali
ed i principi riconosciuti in particolare nell’articolo 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
12
Si tratta di un filone giurisprudenziale delineatosi con più chiarezza intorno alla metà degli anni ’80 dello scorso secolo,
ampiamente precedente quindi il d.lgs. n. 286/1998.
Tra le più risalenti vicende esaminate dalla Corte di Strasburgo la sentenza del 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito (ric. nn. 9214/1980, 9473/1981 e 9474/1981), sul giudizio promosso dalle sig.re Abdulaziz, Cabales e Balkandali, tutte regolarmente presenti sul territorio britannico, che lamentavano il diniego dello stato di residenza al
loro ricongiungimento familiare con i rispettivi coniugi. Nel giudizio la Corte afferma il principio dell’esistenza della vita
familiare tutelata dall’art. 8 anche se non concretizzatasi – ancora – nella convivenza tra i coniugi: «Quale che sia il significato
del termine “famiglia”, include la relazione sorta da un matrimonio non fittizio, ma legale, come quello del signore e dalla
signora Abdulaziz e del signore e della signora Belkandali, benché una vita familiare del tipo di quella a cui il Governo fa riferimento non abbia trovato ancora piena realizzazione» (par. 63).
13
Altro leading case di questa giurisprudenza, nella sua iniziale fase di formazione, è la sentenza del 18 febbraio 1991, Moustaquim c. Belgio, (ric. n. 12313/1986). Il ricorrente, nato nel 1963 ed emigrato con la famiglia in Belgio all’età di due anni,
viene espulso nel paese di cui è cittadino, il Marocco, nel marzo 1984, a causa della condotta ritenuta socialmente pericolosa, per la ripetuta commissione di reati. Con successivo r.d. 14 dicembre 1989, la decisione di espulsione era stata sospesa “in prova” per la durata di due anni e consentito al ricorrente, nel frattempo trasferitosi in Svezia, di far rientro in Belgio.
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AIAF RIVISTA 2016/1
sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 che, almeno per molto tempo, non hanno dato
prova di assumere un ruolo di effettivo orientamento in vicende quali quelle richiamate solo
perché si tratta di Carte prive di Corti, che non sono riuscite quindi a colmare il divario tra diritto vigente e diritto vivente 14.
Quello che la Corte adotta è un metodo incentrato non tanto sull’affermazione di un criterio di
priorità tra i diversi e contrastanti interessi in questione, secondo una concezione piramidale
dei diritti, quanto piuttosto sull’elaborazione di una serie di criteri, tra loro concorrenti e non
ordinati gerarchicamente, attraverso cui procedere all’esame delle vicende concrete 15.
In questo modo, con un approccio più vicino ai modelli di common law che a quelli di civil law,
la regola di giudizio può essere ricostruita e inverata esclusivamente nell’esame delle singole e
concrete vicende.
Ritornando però al dato offerto dalla normazione positiva, la disposizione inserita all’art. 5, 5°
comma dall’art. 2, n. 1, lett. b) rappresenta un esempio di circolarità dei modelli giuridici capace di muoversi non solo inizialmente dalla giurisprudenza al legislatore, ma anche di reinterrogare nuovamente la giurisprudenza, in un circuito fecondo proprio in ragione dell’interazione
dei livelli.
Di questo costituisce un esempio significativo la sentenza della Corte cost. 3 luglio 2013, n. 202
con la quale, con pronuncia additiva, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
5, 5° comma «nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che “ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare
ricongiunto”, e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”».
Nella motivazione della sentenza della Corte gli stessi argomenti della giurisprudenza EDU che
avevano ispirato il legislatore della Direttiva sui ricongiungimenti familiari, vengono ora ripresi
in considerazione nel vaglio che il giudice delle leggi opera ai sensi dell’art. 117 Cost., anche in
questo caso in correlazione con l’art. 8 della CEDU 16.
14
Stabilisce l’art. 10 della Convenzione «In conformità con l’obbligo che incombe agli Stati parti in virtù del paragrafo 1
dell’art. 9, ogni domanda presentata da un fanciullo o dai suoi genitori in vista di entrare in uno Stato parte o di lasciarlo ai
fini di un ricongiungimento familiare sarà considerata con uno spirito positivo, con umanità e diligenza».
15
Cfr. Moustaquim c. Belgio, tuttavia «I comportamenti delittuosi imputati al ricorrente in Belgio presentano numerose
peculiarità. Risalgono tutti alla sua adolescenza. Inoltre solo ventisei di essi, verificatisi in un arco di tempo abbastanza breve – circa undici mesi – erano stati deferiti al Tribunale correzionale e, in appello, la Corte di Liegi lo aveva assolto in quattro casi e condannato nei rimanenti ventidue. L’ultimo reato contestato al prevenuto risaliva al 21 dicembre 1980. Un lasso
di tempo relativamente lungo era così intercorso da allora fino al decreto di espulsione del 28 febbraio 1984. Nell’intervallo l’interessato era stato detenuto per circa sedici mesi ma era rimasto libero per quasi ventitre» (par. 45).
«Per altro, al momento del decreto di espulsione, tutti i congiunti del ricorrente – i genitori, i fratelli e le sorelle – risiedevano da molto tempo a Liegi; il maggiore aveva acquistato la cittadinanza belga ed i tre più piccoli erano nati in Belgio. Lo
stesso Moustaquim aveva meno di due anni all’epoca del suo arrivo in Belgio. Da allora aveva trascorso circa vent’anni con
i suoi o non lontano da loro. Era ritornato in Marocco solo due volte, in vacanza. Aveva frequentato scuole francesi» (parr.
43-44).
Vicende come questa tracciano i criteri a cui, con alcuni affinamenti successivi, si atterrà la Corte nella sua successiva giurisprudenza.
16
Espressamente la Corte richiama i criteri, a quel punto stabilizzatisi, della giurisprudenza della Corte di Strasburgo: «La
ragionevolezza e la proporzione del bilanciamento richiesto dall’art. 8 della CEDU implicano, secondo la Corte europea
(ex plurimis, pronuncia 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia), la possibilità di valutare una serie di elementi desumibili
dall’attenta osservazione in concreto di ciascun caso, quali, ad esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricorrente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle diverse persone interessate; la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare in seno alla coppia; la circostanza che il coniuge fosse a conoscenza del reato all’epoca della creazione della relazione familiare; il
fatto che dal matrimonio siano nati dei figli e la loro età; le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di trovarsi ad affrontare in
caso di espulsione; l’interesse e il benessere dei figli; la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il paese ospite».
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FOCUS
L’osmosi dei modelli è significativa, pur se la Corte non trascura anche in questo caso di rimarcare, con la consonanza delle conclusioni, anche l’autosufficienza del patrimonio costituzionale
nazionale 17.
L’esame dei casi richiamati consente di comprendere come si sia andato riconfigurando il sistema normativo in materia di immigrazione in maniera crescente nell’ultimo decennio: la circolazione degli argomenti giuridici tra le Corti ed un circuito di mutua alimentazione tra legislatore, almeno certamente quello europeo, e Corti, contribuiscono a delineare uno scenario
assolutamente nuovo rispetto al passato, ben più ampio dei confini nazionali.
Il criterio guida di questo confronto è fortemente commisurato all’intensità delle tutele che i sistemi giuridici si dimostrano in grado di assicurare.
3. Stranieri minorenni: cenni sull’interpretazione di alcune disposizioni
Praticamente unica tra le disposizioni contenute nel Titolo IV del d.lgs. n. 286/1998, l’art. 31
ha conservato la formulazione originaria, non toccato né dagli interventi del legislatore, né del
giudice delle leggi.
Il rilievo potrebbe dirne la solidità o, al contrario, l’irrilevanza.
Probabilmente l’una e l’altra osservazione contengono del vero.
Sull’irrilevanza: il riferimento va essenzialmente al 4° comma dell’art. 31, da leggere in stretta
correlazione con l’art. 19 18.
La lettura sistematica delle due disposizioni pone in evidenza queste regole: il minorenne straniero non può essere espulso, ed anzi deve essere rilasciato in suo favore un titolo di soggiorno,
come espressamente prevede il regolamento di attuazione 19.
Questa condizione di protezione, che esclude ad esempio che sia possibile nei suoi confronti il
trattenimento nei CIE disposto ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 286/1998, diversamente da altri
paesi europei nei quali la detenzione amministrativa dei migranti minorenni non è vietata, incontra il solo limite del provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza ed ordine pubblico 20; in questo caso opera la previsione del 4° comma dell’art. 31, quindi il provvedimento di
espulsione deve essere richiesto dal questore, meglio dal Ministero dell’Interno, ma deve essere
emesso dal Tribunale per i minorenni.
Rarissimi nella prassi i casi in cui un minorenne sia stato destinatario di un provvedimento di
espulsione così motivato.
17
Questo il passaggio della motivazione in questione: «Una simile attenzione alla situazione concreta dello straniero e dei
suoi congiunti, garantita dall’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, esprime un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente, per quanto rileva nel caso in esame, alla protezione accordata alla famiglia nel
nostro ordinamento costituzionale».
18
Afferma il 4° comma dell’art. 31: «Qualora ai sensi del presente testo unico debba essere disposta l’espulsione di un minore straniero, il provvedimento è adottato, su richiesta del questore, dal tribunale per i minorenni», mentre l’art. 19 – Divieti di espulsione e respingimento, al 2° comma, lett. a) afferma l’inespellibilità «degli stranieri minori di anni diciotto, salvo
il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi». In ogni caso la regola dell’inespellibilità trova un limite nel caso dell’art. 13, 1° comma, secondo il quale «Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno può
disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro degli affari esteri».
19
Art. 28, 1° comma, lett. a), d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394.
20
Dunque la misura dell’espulsione non può essere emessa nei confronti di un minorenne neppure come sanzione accessoria
conseguente ad una condanna penale, come invece previsto per i maggiorenni ad esempio dall’art. 86, d.p.r. n. 309/1990 secondo cui «Lo straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, a pena espiata deve essere espulso dallo Stato».
73
AIAF RIVISTA 2016/1
La disposizione resta connotata però dalla sua originaria ambiguità: se l’allontanamento dal
territorio nazionale è “solo” un comportamento consentito e non l’effetto di un provvedimento
amministrativo, se soprattutto vige una presunzione, sostanzialmente assoluta stante l’assenza
di rimedi impugnatori, che la sua “uscita” assieme al genitore o all’affidatario dal territorio nazionale altro significato non possa assumere che quello di inverarne “il diritto a seguirlo”, allora
si viene a determinare nel sistema una situazione in cui la persona minorenne è sostanzialmente sfornita di autonoma titolarità giuridica.
Il suo “allontanamento” cade nel riflesso dell’espulsione dell’adulto, ne segue le sorti senza poterne chiedere le ragioni, in una vicenda che, esaminata dal suo punto di vista, da atto amministrativo degrada a condizione di fatto: in questo modo la persona minorenne per un verso è
l’unico cittadino straniero la cui condizione sarebbe stabile al punto che non può essere destinatario di un provvedimento di espulsione dal territorio nazionale, per altro verso è l’unico straniero
che viene allontanato senza che possa proporre un ricorso avverso questa “condizione”.
In maniera sintomatica, solo la materia dell’immigrazione è rimasta totalmente impermeabile a
quella riflessione giuridica, fortemente ispirata dalle disposizioni internazionali, che ormai da
tempo riconosce autonoma titolarità di posizione giuridica alla persona minorenne, in contrasto e talvolta a prescindere dalle figure adulte esercenti la responsabilità genitoriale 21.
Se di questo si tiene conto, si comprende perché una disposizione come quella del 4° comma
dell’art. 31, nel suo formalismo, assolve una funzione essenzialmente declamatoria di un diritto,
mentre in effetti confina il minorenne in un’area giuridica sprovvista di effettiva tutela.
Tuttavia, di questa interpretazione si potrebbe rovesciare il senso, come una condivisibile dottrina ha sostenuto 22: proprio perché il minorenne è inespellibile, il suo allontanamento dal territorio nazionale non può essere altrimenti qualificato che come espulsione anche quando non
sia disposto con un provvedimento amministrativo, dunque cade nell’ambito di applicazione
del 4° comma dell’art. 31, con la conseguenza che, per compiersi, necessita della pronuncia del
Tribunale per i minorenni.
Sarebbe quindi unico il compito dell’autorità giudiziaria investita della questione dell’espulsione del minorenne, in una lettura finalmente simmetrica del 3° e 4° comma dell’art. 31: se ravvisa l’esistenza di motivi ostativi all’espulsione, alle condizioni indicate dal 3° comma, autorizza la
permanenza del genitore, il che comporta l’automatica caducazione degli effetti dell’espulsione
sul figlio; se al contrario ne ritiene l’inesistenza, emette il provvedimento espulsivo alla stregua
dei criteri di cui all’art. 31, 4° comma.
Una terza eventualità, come talvolta nella prassi purtroppo avviene, non è data, in quanto la separazione determinata unicamente dall’esecuzione del provvedimento espulsivo del genitore o
dell’affidatario confligge con i principi affermati nei testi convenzionali 23.
Questa ricostruzione della disciplina è l’unica che ne consente un’interpretazione conforme ai
principi affermati dagli atti internazionali; ad ostacolarla è essenzialmente la prassi amministra21
La situazione in esame cade certamente nella sfera di applicazione dell’art. 4 della Convenzione europea sull’esercizio dei
diritti del minore fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, che attribuisce al minorenne il diritto di richiedere personalmente o
tramite altre persone od organi, la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti che lo riguardano dinanzi
all’autorità giudiziaria in tutte le situazioni in cui il diritto interno priva i detentori della responsabilità genitoriale della
possibilità di rappresentarlo a causa di un conflitto di interessi, da considerare in combinato disposto con l’art. 9, 1° comma
della Convenzione che, inserito nel capo relativo al ruolo delle autorità giudiziarie, richiama il potere dell’autorità giudiziaria di nominare il rappresentante speciale nella sussistenza dei presupposti indicati, precisando al comma successivo che gli
Stati Parti avrebbero dovuto prendere in considerazione la possibilità di prevedere che l’autorità giudiziaria «abbia il potere di designare un rappresentante distinto, nei casi opportuni un avvocato, che rappresenti il minore».
22
In questo senso P. MOROZZO DELLA ROCCA, Manuale breve di diritto dell’immigrazione, Maggioli, Rimini, 2016, pp. 595-596.
23
In questo senso la lettura coordinata dell’art. 9 e 10 della Convenzione ONU del 20 novembre 1989.
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FOCUS
tiva che, evitando l’emissione di provvedimenti espulsivi di cui sia formale destinatario il minorenne, esclude di fatto la giustiziabilità della sua posizione soggettiva.
In questo essenzialmente risiede la ragione del carattere al momento solo declamatorio della
disposizione espressa dal 3° comma dell’art. 31 24.
Queste osservazioni vanno però, almeno sinteticamente, integrate da una specificazione che
riguarda invece il 3° comma dell’art. 31: in questo caso la “capacità di tenuta” della disposizione
è indubbiamente un segnale della sua qualità, soprattutto della lungimiranza di un approccio della normazione che, in questa materia, non può prescindere dal ricorso a locuzioni a clausola
generale, per altro molto frequente nella materia della famiglia e dei minorenni.
Come evidente, proprio questa tecnica di normazione è quella che maggiormente affida all’interpretazione giudiziale il compito di inverare la disposizione nel caso concreto ed indubbiamente la prima fase di attuazione di questa disposizione, durata quasi un decennio, ha fatto registrare la netta prevalenza, nella giurisprudenza di legittimità 25 ed in parte di quella di merito,
di letture restrittive della disposizione, al limite dell’interpretazione abrogatrice, che enfatizzandone il carattere eccezionale dei “gravi motivi” e la temporaneità dell’autorizzazione, facevano in sostanza del permesso rilasciato ai sensi del 3° comma dell’art. 31 una replica del permesso per motivi di salute già previsto nel sistema.
Proprio per la struttura delle disposizione, l’incontro della giurisprudenza nazionale con la giurisprudenza delle Corti europee, in questo caso soprattutto della Corte di Strasburgo, ha offerto interessanti, ed a questo punto insostituibili, criteri che consentono di approcciare oggi in
maniera innovativa la questione ed uscire dalla contrapposizione che si era andata costruendo
essenzialmente sui soli dati desumibili dall’interpretazione letterale della norma 26.
In questo senso il 3° comma dell’art. 31 si propone come un esempio, certamente positivo, degli effetti che sulla giurisprudenza interna possono prodursi con l’apertura alle Carte internazionali e con i confronto con la giurisprudenza delle Corti europee.
24
Trarne però la conclusione che la disposizione, nel disposto combinato con l’art. 19, sia irrilevante sarebbe errato per
almeno tre ragioni: in base a queste norme, come già accennato, non trova ingresso nel sistema né l’espulsione come sanzione accessoria penale, né l’istituto del trattenimento disposto ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 286/1998, invece ammesso nella
disciplina dell’immigrazione di altri paesi europei. Si aggiunga a ciò che la posizione dello straniero minorenne non cade
nell’ambito della norma incriminatrice espressa dall’art. 10 bis, come introdotto dall’art. 1, 16° comma, lett. a), l. n. 94/2009,
dal momento che la ratio della disposizione penale è radicalmente antitetica a quanto stabilito dall’art. 19, 1° comma, lett.
a) e dall’art. 28, 1° comma, lett. a), d.p.r. 31 agosto 1999, n. 394. Prive di basi legali quindi quelle prassi, ormai in via di superamento, che nella prima fase della vigenza della disposizione procedevano all’iscrizione al registro degli indagati e successivamente chiedevano l’archiviazione del procedimento penale a carico del minorenne.
25
Merita un riferimento per il suo carattere allora innovativo Cass. civ., S.U., 16 ottobre 2006, n. 22216, che, oltre ad affrontare e risolvere in senso positivo la questione dell’ammissibilità del ricorso straordinario per Cassazione avverso il
provvedimento emesso ai sensi della disposizione in esame, introduce, operando una distinzione tra l’autorizzazione alla
permanenza e quella all’ingresso, una significativa specificazione sulla qualità della “situazione eccezionale” che integra i
gravi motivi richiesti dalla disposizione, precisando che la situazione «può essere attuale, ma può anche essere dedotta
quale conseguenza dell’allontanamento improvviso del familiare sin allora presente e cioè di una situazione futura ed eventuale rimessa dall’accertamento del giudice minorile». La natura eventualmente prognostica della valutazione spettante al
giudice minorile era infatti una delle questioni dibattute a quel momento dalla giurisprudenza di merito.
26
È di tutta evidenza il debito culturale della giurisprudenza nazionale al momento di affrontare il contrasto interpretativo
sulla disposizione in questione, come desumibile dagli ampi riferimenti espressi nella sentenza Cass. civ., S.U., 25 ottobre
2010, n. 21799, con particolare riferimento ai criteri, il c.d. catalogo dei parametri, espressi nella sentenza della Corte
EDU, Boultif del 2 agosto 2001.
Per altro la vicenda dimostra una significativa simmetria con la riflessione che accompagna la formulazione dell’art. 5, 5°
comma, d.lgs. n. 286/1998 di cui si è detto in precedenza.
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AIAF RIVISTA 2016/1
MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI: DIFFICOLTÀ E PROSPETTIVE DI
ACCOGLIENZA
Gabriella de Strobel
Avvocato in Verona
Componente della Giunta Esecutiva AIAF
Sommario: 1. Chi sono i minori stranieri non accompagnati? – 2. Il caso Rahimi c. Grecia (sent. Corte EDU 5
aprile 2011 su ric. n. 8687/2008). – 3. L’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati nell’ordinamento internazionale. – 4. I minori stranieri non accompagnati nell’ordinamento italiano. – 5. La procedura di accoglienza
dei minori stranieri non accompagnati in Italia – 6. Criticità e proposta di legge: un tutore per ogni minore.
1. Chi sono i minori stranieri non accompagnati?
Quello dei minori stranieri non accompagnati (di seguito denominati “MSNA”) è un fenomeno
costante del flusso migratorio che, negli ultimi anni, anche nel nostro Paese, sta raggiungendo
connotazioni sempre più importanti.
Un po’ di numeri.
Nel 2013 in Italia erano presenti 6.044 MSNA, nel 2014 8.239 (+ 36,3%), nei primi sei mesi
del 2015 8.944 (+ 8,6%) 1.
Si tratta per la maggior parte di ragazzi tra i 15 e i 17 anni, originari dell’Eritrea, dell’Egitto, dell’Albania, della Somalia; va menzionato anche l’elevato flusso migratorio via mare dalla Siria.
L’incremento dell’ingresso dei MSNA nel territorio nazionale nel 2014 può ricondursi all’avvio
dell’operazione navale umanitaria Mare Nostrum, avviata il 18 ottobre 2013 e conclusa il 31 ottobre 2014.
L’importanza del fenomeno impone una riflessione approfondita su un tema ancora forse troppo
poco conosciuto, che non investe solamente l’Italia ma anche gli altri Paesi dell’Unione europea.
Chi sono, dunque, i minori stranieri non accompagnati?
La Direttiva europea 2001/55/EC3 definisce i MSNA come cittadini di paesi terzi di età inferiore ai diciotto anni che giungono nel territorio degli Stati membri non accompagnati da un adulto
per essi responsabile in base alla legge o alla consuetudine e fino a quando non ne assuma effettivamente la custodia un adulto per essi responsabile, nonché i minori, cittadini di paesi terzi, rimasti senza accompagnamento successivamente al loro ingresso nel territorio degli Stati membri.
1
Dati estratti dal Report di monitoraggio dei minori stranieri non accompagnati in Italia al 31 agosto 2015 a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione.
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FOCUS
L’abbandono o la separazione dei minori dai loro genitori può avvenire in modo accidentale (es.
fuga, evacuazione ...) o in modo programmato.
Molto spesso, infatti, l’ingresso di tali minori nel territorio italiano è il frutto di una dinamica
migratoria che si caratterizza come un vero e proprio mandato familiare; si tratta di poco più che
adolescenti, anche infraquattordicenni in alcuni casi, che vengono spediti in Paesi più economicamente sviluppati per trovare lavoro, dichiarando spesso un’età anagrafica superiore a quella
reale per trovare ingresso precocemente nel mercato del lavoro. I figli diventano così, per i genitori, vere e proprie fonti di reddito, in un processo di “adultizzazione” del minore che si scontra con la realtà anagrafica dello stesso e con le sue esigenze di tutela 2.
2. Il caso Rahimi c. Grecia (sent. Corte EDU 5 aprile 2011 su ric. n. 8687/2008)
Per introdurre il tema dei minori stranieri non accompagnati par d’uopo raccontare uno dei casi più famosi balzato agli onori della cronaca negli ultimi anni.
Rahimi – divenuto il vero e proprio simbolo dei minori stranieri non accompagnati – era un quindicenne afghano che, giunto non accompagnato nel territorio ellenico, era stato detenuto in un
centro per migranti adulti in attesa dell’espulsione, caratterizzato da: sovraffollamento, scarse condizioni igieniche, inadeguata aerazione, insufficienza di materassi, di docce e toilettes rispetto al
numero dei detenuti, perdite fognarie, odore nauseabondo.
Il giovane Rahimi non aveva potuto avere contatti con il mondo esterno, né accesso ad attività
ricreative e non era stato affidato ad un tutore che ne potesse curare gli interessi.
Chiamata a pronunciarsi sul punto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha precisato che la
CEDU non vieta tassativamente la detenzione dei MSNA purché non avvenga, come in questo
caso, in condizioni umane e degradanti, non compatibili con le esigenze legate alla minore età.
Alla luce delle condizioni inaccettabili nelle quali era stato detenuto Rahimi, la Corte di Strasburgo ha condannato la Grecia, stabilendo l’importante principio secondo cui la condizione di
minore non accompagnato deve sempre prevalere, nelle decisioni che lo riguardano, su quella
di straniero.
Le indicazioni fornite dal giudice europeo nella sentenza europea devono, così, trovare applicazione in tutti gli Stati contraenti della CEDU – anche in Italia – e nei confronti di tutti i minori migranti, indipendentemente dai motivi e dalle modalità dell’ingresso nel territorio statale.
3. L’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati nell’ordinamento internazionale
I minori non accompagnati sono soggetti particolarmente vulnerabili, esposti al rischio di sfruttamento sia sotto il profilo economico che sessuale ed alla violazione dei primari diritti fondamentali.
Non serve ricordare che i MSNA sono titolari di tutte le norme previste dal diritto internazionale dei diritti umani, ed in particolare di quelli sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti del Fanciullo del 1989, ratificata da tutti gli Stati eccetto che la Somalia e gli Stati Uniti 3.
L’art. 22 della predetta Convenzione, in particolare, dispone che gli Stati parti adottino tutte le mi2
8° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia
2014-2015 a cura del Gruppo CRC (Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, cap.
VII, par. 1, pp. 148-152.
3
L’Italia ha ratificato la Convenzione sui diritti del fanciullo il 27 maggio 1991 con l. n. 176, in G.U. 11 giugno 1991, n. 135.
77
AIAF RIVISTA 2016/1
sure più adeguate affinché il minore, solo o accompagnato, che cerca di ottenere lo status di rifugiato o che è considerato rifugiato ai sensi delle regole e delle procedure del diritto internazionale
o nazionale applicabile, possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie
per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono riconosciuti dalla stessa Convenzione e dagli
altri strumenti internazionali sui diritti dell’uomo o sul diritto umanitario di cui gli stessi sono parti. È necessario che venga favorito, quanto più possibile, il ricongiungimento dei minori stranieri
non accompagnati con i genitori e, qualora non possibile, che venga loro garantita la protezione
prevista per i minori privati – temporaneamente o definitivamente – del loro ambiente familiare 4.
I principi cardine previsti dal diritto internazionale in materia di tutela dei minori stranieri non
accompagnati, che devono permeare qualsivoglia decisione loro riguardante, sono il principio di
non discriminazione ed il principio dell’interesse superiore del minore, principi che possono essere maggiormente garantiti attraverso la nomina di un tutore 5, ovvero un individuo o ente designato competente ai sensi della legislazione in materia, che si assuma formalmente la responsabilità del minore ed il diritto/dovere legalmente riconosciuto di assumere decisioni in luogo dei
genitori ed in piena e costante consultazione con il minore, che deve essere presente in tutti i
processi decisionali.
Anche la Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) 6 è fonte da cui si sono ricavate importanti linee guida per il trattamento dei MSNA da parte degli Stati parti, i quali – secondo
quanto ricavabile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo 7 – devono garantire a tali soggetti deboli una protezione adeguata in termini di sistemazione, vitto, cure mediche e psicologiche e accesso alle attività ricreative.
Anche nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione europea, si è dato spazio a norme di tutela per
la particolare categoria dei minori stranieri non accompagnati.
Si occupano del tema l’art. 3 del TUE e art. 24 della Carta dei diritti fondamentali (Carta di
Nizza), che ribadiscono il principio del rispetto del superiore interesse del minore.
Fondamentale anche il Piano d’azione della Commissione sui minori non accompagnati per il
quinquennio 2010-2014 8, che pone l’accento – ancora una volta – sulla necessità di accogliere i
minori in strutture adeguate, proteggendo tale categoria di soggetti a rischio di cadere nella trappola dello sfruttamento o della criminalità organizzata e ciò indipendentemente dalla loro cittadinanza e contesto di provenienza e dalla loro condizione di migranti.
Il problema della normativa europea è che le garanzie per i minori stranieri non accompagnati
sono differenziate a seconda che si tratti di richiedenti asilo 9 o vittime della tratta 10 oppure di
4
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è più volte occupata del tema dei minori stranieri non accompagnati: General Assembly, Rights of the child, A/RES/55/79, 22 February 2001, in www.un.org e General Assembly, Rights of the child,
A/RES/67/152, 12 April 2013, in www.un.org.
5
Cfr. due commenti adottati dal Comitato sui diritti del fanciullo: Commento generale n. 6, su Il trattamento dei bambini
separati dalle proprie famiglie e non accompagnati, fuori dal loro Paese d’origine (2005), e il Commento generale n. 14 su Il diritto dei minori a veder garantito il loro migliore interesse (2013).
6
Adottata il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848.
7
Cfr. supra, par. 2.
8
COM (2010)213 def. del 5 maggio 2010.
9
Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo
negli Stati membri, recepita dall’Italia con l. n. 31/2003, sostituita nel giugno 2013 dalla Direttiva 2013/33/UE. Nella Direttiva
si prevede che i MSNA debbano trovare sistemazione presso familiari adulti o presso una famiglia affidataria e che – solo quando
ciò non sia possibile – presso centri di accoglienza o in altri istituti idonei per i minori. I fratelli andrebbero alloggiati assieme; va
garantita la possibilità di svolgere attività di tempo libero, l’accesso al sistema educativo ed alle cure mediche e la previsione di
servizi di riabilitazione per coloro che abbiano subito abusi o violenze. La nuova direttiva sull’accoglienza ammette espressamente
la detenzione dei MSNA. in circostanze eccezionali non meglio definite, in istituti ad hoc e non nelle carceri e separati dagli adulti.
10
Direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repres-
78
FOCUS
migranti in condizioni di irregolarità che – salvo sia contrario al loro interesse – dovranno essere rimpatriati 11.
Per ovviare alla mancanza di organica tutela di soggetti che, in virtù della loro particolare condizione, hanno necessità di particolari tutele, il Parlamento europeo, nella risoluzione del 12
settembre 2013, ha invitato la Commissione a predisporre un manuale rivolto agli operatori nel
quale raccogliere gli obblighi internazionali che dovrebbero guidarne l’azione quando i soggetti
coinvolti siano appunto i MSNA.
4. I minori stranieri non accompagnati nell’ordinamento italiano
Dopo aver esaminato i principi fondamentali previsti nell’ordinamento internazionale ed europeo, non resta che esaminare lo stato dell’arte di quanto previsto in Italia per l’accoglienza dei
minori stranieri non accompagnati.
Attualmente l’Italia non dispone di un testo normativo di riferimento con riferimento ai minori
stranieri non accompagnati, questo va detto subito.
La tutela di tale particolare (e vulnerabile) categoria di soggetti viene individuata facendo riferimento ad una molteplicità di norme differenti tra loro.
Importante il ruolo della Corte costituzionale nel delineare il sistema di accoglienza degli MSNA
in Italia. Già nel 1986, con la sent. n. 199, in materia di adozione internazionale, la Consulta ha
dichiarato illegittima la norma che limitava il favor minoris al solo minore italiano e non anche a
quello straniero in stato di abbandono. Con le successive pronunce del 2003 (ord. n. 295 e
sent. n. 198), la Corte ha espressamente confermato l’applicazione al minore straniero delle
norme di tutela valide per il minore italiano, e la prevalenza del diritto minorile sulla normativa
in materia di immigrazione e ciò in virtù del combinato disposto degli artt. 2 (riconoscimento
dei diritti inviolabili dell’uomo), 3 (principio di uguaglianza) e 10, parr. 1 e 2 (sulla condizione
giuridica dello straniero regolata dalla legge in conformità agli obblighi internazionali).
Il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) prevede all’art. 28, par. 3, che in tutti i
procedimenti amministrativi e giurisdizionali che lo riguardano, debba essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del minore, in conformità a quanto previsto dall’art. 3, 1° comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo; l’art. 9, 2° comma, lett. a)
del T.U. sancisce il divieto di espulsione del minore straniero, salvo il diritto di seguire il genitore o l’affidatario espulso e tranne che per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale 12; al
minore, infine, non può essere applicato l’art. 10 bis del T.U. che punisce il reato di ingresso e di
soggiorno irregolare, con un’ammenda dai 5.000 ai 10.000 euro, sostituibile con l’espulsione.
Oltre alle succitate norme della Costituzione e quelle sull’immigrazione, vengono in rilievo le
leggi del diritto minorile n. 184/1983 e n. 140/2001 sull’adozione e affidamento di minori e l’art.
403 c.c., ai sensi del quale i minori e gli adolescenti non accompagnati individuati nel territorio
sione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, recepita in Italia con d.lgs. 4 marzo 2014 n. 24, in G.U. 13
marzo 2014.
11
Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, recepita dall’Italia
con l. n. 129/2011. La c.d. “direttiva rimpatri” è applicabile ai cittadini dei Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare e si occupa del solo rimpatrio dei minori non stranieri non accompagnati, prevedendone la sistemazione in istituti ad hoc e la possibilità per gli stessi di accedere ad attività ricreative, il diritto all’istruzione e l’accesso alle prestazioni sanitarie d’urgenza.
Non è prevista, invece, la nomina di un tutore.
12
In tal caso, la competenza a decidere sull’espulsione è del Tribunale per i Minorenni, su segnalazione del Questore.
79
AIAF RIVISTA 2016/1
italiano o alla frontiera devono essere collocati da subito in un “luogo sicuro”, fino a quando
non si possa provvedere alla loro protezione in modo definitivo.
Fondamentale, inoltre, il d.p.c.m. n. 535/1999 che ha regolato il funzionamento del Comitato
per i minori stranieri, istituito con l’art. 33 del T.U. dell’Immigrazione.
L’art. 20, 12° comma, d.l. n. 95/2012, convertito con modificazioni nella l. n. 135/2012, ha
previsto che il Comitato per i minori stranieri ha cessato le proprie funzioni e le attività da esso
svolte sono state trasferite alla Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, la quale nel 2013 ha adottato le Linee guida sui minori stranieri non accompagnati 13.
L’art. 1 del predetto d.p.c.m. n. 535/1999 ha fornito una definizione di MSNA.: «è minore straniero non accompagnato quel minorenne non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell’Unione europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel
territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di adulti per lui
legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nel territorio dello Stato».
Quanto alla definizione di “minori”, par d’uopo rammentare che nell’area dell’Unione europea
– e dunque anche in Italia – la maggiore età si raggiunge al compimento dei diciotto anni, salva
la possibilità di derogare a detta regola solo in melius, in ossequio al principio del favor minoris
se le norme dello Stato di provenienza prevedono il raggiungimento della maggiore età dopo il
compimento dei diciotto anni 14.
Nel nostro ordinamento vengono considerati “stranieri” solo i cittadini non comunitari 15 o gli
apolidi, ovvero privi di qualsivoglia cittadinanza.
Si considerano “non accompagnati” i minori che si trovino in stato di abbandono e di solitudine ed anche coloro che vivano con parenti entro il IV grado che non ne siano tutori o affidatari
in base ad un provvedimento formale (cc.dd. “affidati di fatto”).
Il sistema di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, ai sensi dell’art. 1, d.p.c.m. n.
535/1999, si applica al minore che non abbia presentato richiesta di asilo, in base a quanto disposto dall’art. 8, d.lgs. n. 140/2005, dall’art. 28, d.lgs n. 251/2007 e dall’art. 19, d.lgs n. 25/2008 16.
5. La procedura di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia
L’avvio della procedura può avvenire in due modi: tramite presentazione spontanea del MSNA
presso un pubblico ufficiale o dall’emersione della sua presenza, ad esempio nell’ambito di un
procedimento penale o per segnalazione da parte di privati cittadini o associazioni ai pubblici
ufficiali 17.
13
Le Linee guida del 2013 della Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione hanno aggiornato
le Linee guida adottate dal Comitato per i minori stranieri, nella seduta del 14 gennaio 2003 (“Disposizioni attuative dei
compiti attribuiti al Comitato per i minori stranieri in merito ai minori non accompagnati presenti sul territorio”).
14
Significativo, ad esempio, è il caso dei minori egiziani presenti sul territorio italiano, posto che l’art. 44 del codice civile
egiziano prevede che la maggiore età venga raggiunta al compimento dei 21 anni.
15
Fra il governo romeno e quello italiano è stato stipulato il 9 giugno 2008 un accordo bilaterale ad hoc concernente la
«cooperazione per la protezione dei minori romeni non accompagnati o in difficoltà presenti sul territorio italiano».
16
Alla luce di quanto previsto dalla Circolare congiunta del Ministero dell’Interno – Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali del 24 aprile 2013, la presentazione della domanda di asilo coincide con la formalizzazione della domanda di protezione internazionale effettuata attraverso le procedure e la modulistica predisposte dal Ministero dell’Interno. Le Linee
Guida del Ministero del 2013 non si applicano, altresì, al minore straniero non accompagnato titolare di un permesso di
soggiorno per richiesta di asilo, protezione sussidiaria e motivi umanitari.
17
Ai sensi dell’art. 5, d.p.c.m. n. 535/19999 hanno l’obbligo di segnalazione: i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio ed enti, in particolare quelli che svolgono attività sanitarie o di assistenza, responsabili altresì per il collocamento dei
minori in un luogo sicuro.
80
FOCUS
Ogni minore straniero non accompagnato rilevato sul territorio italiano deve essere segnalato:
alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni; al giudice tutelare per l’apertura della tutela; all’ex Comitato per i minori stranieri (CMS) – ora Direzione Generale (DG) –
che, ai sensi dell’art. 2, 2° comma, d.p.c.m. n. 535/1999, provvede al censimento dei MSNA.
Il pubblico ufficiale, in caso di dubbio sull’età, in mancanza di qualsivoglia documento anagrafico, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria, procede all’esame medico.
Il momento più delicato e dai più difficili riscontri pratici è, infatti, proprio quello dell’identificazione del minore e dell’accertamento della sua età, da cui dipende l’avvio della speciale procedura di tutela e accoglienza riservata ai minori stranieri, anziché il trattamento standard riservato
agli stranieri maggiorenni, espulsione o rimpatrio compresi qualora l’ingresso sia stato irregolare.
Le difficoltà sorgono a causa della mancanza di un protocollo operativo a livello nazionale e di
strumenti scientifici che garantiscano un risultato con apprezzabili margini di certezza.
Alcuni paesi europei si limitano all’utilizzo di perizie mediche, mentre altri Paesi (come la Gran
Bretagna, l’Ungheria e la Svezia) tengono in considerazione anche il racconto del giovane e la
sua situazione. L’Italia si limita ad una perizia medica, con esame osseo, generalmente effettuata da personale medico non integrato da altre componenti professionali; all’esame osseo si aggiunge quello dei denti o quello genitale, con una “forchetta” di incertezza nel risultato che può
raggiungere anche i quattro anni. In quella che viene definita la “zona grigia” nell’esame medico
deve operare la presunzione di minore età e la conseguente necessità di applicare al minore i
percorsi previsti dall’ordinamento per la sua accoglienza ed integrazione.
Ai sensi dell’art. 403 c.c., i minori stranieri che vengano rintracciati sul territorio o che si presentino spontaneamente, devono essere collocati in un luogo sicuro.
Entro 30 giorni dal predetto collocamento, deve essere presentata istanza per la nomina del tutore 18.
Ai sensi dell’art. 2, 2° comma, lett. f), d.p.c.m. n. 535/1999, la DG svolge compiti di impulso e
di ricerca al fine di promuovere l’individuazione dei familiari dei minori presenti non accompagnati, anche nei loro Paesi di origine o Paesi terzi, avvalendosi della collaborazione delle competenti amministrazioni pubbliche e di idonei organismi nazionali ed internazionali.
Entro 60 giorni dalla segnalazione, infatti, la DG procede con l’indagine familiare, indagine socioeconomica che prevede anche il colloquio del minore, svolta nel rispetto delle norme di tutela internazionali e nazionali di tutela ed espletata nel superiore interesse del minore, tenendo in considerazione la sua opinione in ottemperanza all’art. 12 della Convenzione di New York.
Una volta sentito il minore, se capace di discernimento e se viene espressa la manifesta ed
espressa volontà del minore stesso al rimpatrio volontario assistito, la DG – ai sensi dell’art. 1,
4° comma, d.p.c.m. n. 535/1999, valutata altresì l’opinione del tutore o di altre persone legalmente responsabili del minore in Italia, adotta il provvedimento di rimpatrio 19 ed offre l’assistenza necessaria fino al ricongiungimento del minore con i propri familiari o al riaffidamento
alle autorità responsabili del Paese d’origine.
Se, al contrario, la DG valuta che sia interesse del minore rimanere in Italia, dispone il “non luogo
a provvedere al rimpatrio” e avvia le procedure per l’affidamento e per la permanenza del minore
sul territorio italiano. L’istituto dell’affidamento, regolato dalla l. n. 184/1983 (modificata ed integrata dalla l. n. 149/2001), finalizzato ad assicurare al MSNA il mantenimento, l’educazione e
l’istruzione, segue un ordine di priorità: a famiglie, a singoli e, in via residuale, a strutture 20.
18
Con applicazione delle norme di cui agli artt. 343-346 e 348, 2° comma, c.c.
Viene informato prima il Tribunale per i Minorenni che, se lo ritiene, deve rilasciare il nulla osta.
20
In presenza di un atto formale di affidamento da parte delle autorità giudiziarie, il minore può chiedere di essere iscritto
19
81
AIAF RIVISTA 2016/1
Il minore non accompagnato ha diritto ad un permesso di soggiorno per minore età, a norma
dell’art. 28, d.p.r. n. 394/1999.
L’art. 32, 1° bis comma, d.lgs. n. 286/1998 (come modificato dal d.l. n. 89/2011 convertito con
l. n. 129/2011) prevede che al compimento della maggiore età allo straniero entrato in Italia
come minore straniero entrato in Italia possa essere rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di studio, di accesso al lavoro ovvero al lavoro subordinato o autonomo. La disposizione disciplina due percorsi distinti: a) quando il minore abbia partecipato ad un progetto di integrazione di durata almeno biennale e si trovi sul territorio nazionale da non meno di tre anni, la conversione del permesso di soggiorno deve essere chiesta direttamente alla Questura, senza chiedere
alcun parere alla DG; b) in tutti gli altri casi, deve essere richiesto il parere della DG; in seguito
al rilascio del parere da parte della DG, la conversione del permesso di soggiorno deve essere
richiesta alla Questura, allegando opportuna documentazione.
6. Criticità e proposta di legge: un tutore per ogni minore
Con l’esponenziale aumento dell’ingresso nel territorio italiano dei minori stranieri non accompagnati, sono emerse ancor di più tutte le criticità legate alla mancanza di una legislazione
completa unitaria: minori stranieri non accompagnati erroneamente riconosciuti maggiorenni,
condizioni inadeguate per i minori in attesa di collocamento, mancanza di coperture finanziarie, ritardi nella nomina dei tutori e scarsa preparazione degli stessi a svolgere l’incarico (il numero dei tutori attivi è ad oggi insufficiente, avendo gli stessi a carico un numero indefinito di
minori, oltre a non esservi selezione secondo standard e formazione omogenei sul territorio nazionale).
Al fine di porre rimedio alle lacune del sistema, il 4 ottobre 2013 è stata presentata la proposta
di l. n. 1658 intitolata “Modifiche al Testo Unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,
e altre disposizioni concernenti misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”, proposta sostenuta da differenti gruppi politici, ANCI e molte organizzazioni che si occupano di diritti dell’infanzia (Caritas Italiana, Centro Astalli, Amnesty International, Save The Children
Italia solo per citarne alcune ...) 21.
La proposta di legge mira a creare un sistema stabile di accoglienza, che preveda regole certe,
volte a garantire: pari condizioni di accesso a tutti i minori; qualità e stabilità della rete di accoglienza; servizi di prima assistenza; uniformità nelle procedure di identificazione; partecipazione attiva e diretta dei minori; sostegno organico all’integrazione; affidamento familiare in alternativa al collocamento in strutture; tutori volontari; supporto prolungato oltre i 18 anni; assistenza legale obbligatoria; garanzia del diritto alla salute, istruzione, educazione, ascolto; possibilità di intervento delle associazioni nelle procedure; tutela delle vittime di tratta.
In attesa dell’emanazione della legge, il cui iter è ormai fermo da troppo tempo, nel 2014 si sono concretati alcuni interventi a carattere istituzionale volti a ridefinire il sistema di accoglienza
dei MSNA.
In particolare, in data 10 luglio 2014, è stata sancita l’Intesa in Conferenza Unificata, con la
quale è stato approvato il «Piano Nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini
sul documento di soggiorno dell’affidatario fino a 14 anni e successivamente di ottenere un permesso di soggiorno per “affidamento” ex art. 31 TUIM.
21
La proposta di legge è stata esaminata e votata in Commissione Affari Costituzionali il 14 ottobre 2014 e il 22 ottobre è
stata trasmessa a 7 commissioni parlamentari, raccogliendo pareri favorevoli. L’iter è attualmente fermo, in attesa del parere della Commissione Bilancio.
82
FOCUS
adulti, famiglie e minori stranieri non accompagnati»; tale Intesa impegna il Ministero dell’Interno ad aumentare la capienza dei posti nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), per garantire l’accoglienza di tutti i minori, richiedenti asilo e non.
Con la Circolare 25 luglio 2014, n. 8855 del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, avente ad oggetto i “Minori Stranieri Non Accompagnati”, si sono definiti i costi e le procedure finalizzate all’immediata accoglienza degli stessi. Tale circolare, che
attribuisce la competenza al Ministero dell’Interno e non più al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, prevede l’istituzione di un sistema che si articola attraverso l’attivazione di strutture governative dislocate sul territorio e deputate all’accoglienza di brevissima durata (60 giorni
estensibili a 90 in casi eccezionali e motivati), per la fase di primo rintraccio (con funzioni di
identificazione, eventuale accertamento dell’età e dello status), e attraverso la pianificazione
dell’accoglienza successiva con un adeguato potenziamento della rete SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) 22. Il nuovo sistema di accoglienza sarà finanziato attraverso un apposito Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, istituito dal
1° gennaio 2015 presso il Ministero dell’Interno 23.
Si auspica che questi siano primi importanti passi verso un sistema di accoglienza che garantisca sempre maggiore protezione e tutela ad una categoria di soggetti tra le più a rischio nell’ordinamento, al fine di evitare che innocenti creature, non accompagnate e dunque prive di solidi
punti di riferimento, diventino schiave dello sfruttamento e vittime di abusi.
22
Con riferimento alle strutture governative di prima accoglienza si è già proceduto, con apposito bando pubblicato il 30
gennaio 2015, all’individuazione di 10 strutture governative, con previsto finanziamento da parte della Commissione europea, nell’ambito delle misure d’urgenza per circa 12 milioni di euro.
23
181° comma, articolo unico, della legge di Stabilità 2015, che ha trasferito le risorse dell’analogo Fondo del Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali, pari ad euro 20 mln, ad un nuovo Fondo istituito, per le medesime finalità, presso il Ministero
dell’Interno, incrementandolo contemporaneamente di ulteriori euro 12,5 mln per ciascuna della annualità 2015 e 2016.
83
AIAF RIVISTA 2016/1
DANNO ALLA PERSONA, DANNO DA MORTE E DIRITTO AL RISARCIMENTO
DEL DANNO DEL FAMILIARE STRANIERO
Roberta S. Bonini
Dottore di ricerca in Diritto civile
Docente a contratto di Diritto dell’immigrazione presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Sommario: 1. Premessa. – 2. La condizione di reciprocità. – 3. L’ambito applicativo della condizione di reciprocità:
l’intervento della Corte costituzionale e l’avvento del T.U. dell’Immigrazione. – 4. Il risarcimento del danno dello
straniero. – 5. Il danno da morte: tanto rumore per nulla. – 6. L’effettività della tutela risarcitoria: il responsabile civile
per il fatto altrui e il Fondo di garanzia per le vittime della strada. – 7. Un problema in via di risoluzione: il quantum
del risarcimento del danno non patrimoniale.
1. Premessa
Rispetto ad un passato relativamente recente, si è andato sempre più ampliando l’ambito risarcitorio del danno alla persona, sino alla pressoché integrale equiparazione del danno personale
al danno patrimoniale. Nell’ambito di questo processo un ruolo fondamentale è stato assunto
dall’emergere dei diritti fondamentali dell’uomo e dalla necessità di assicurarne una tutela piena ed effettiva e quindi non solo formale. La problematica del diritto dello straniero al risarcimento del danno si innesca in questo quadro, reso in parte più complesso dalla vigenza nel nostro ordinamento della condizione di reciprocità. Utile anticipare come la stessa, pur non trovando più applicazione nei riguardi degli stranieri regolarmente soggiornanti, continui ad avere
una, seppur modesta, rilevanza nell’ambito del diritto dell’immigrazione, potendo riguardare
soggetti stranieri irregolarmente soggiornanti e soprattutto, per quel che qui più interessa, anche i familiari non residenti in Italia di stranieri che vivono o hanno vissuto in Italia. Nonostante alcuni autori lo neghino 1, sembra infatti preferibile ritenere che il principio di reciprocità,
previsto dall’art. 16 delle preleggi, sia tuttora vigente, ancorché l’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi anni ne abbiano notevolmente ridotto lo spazio operativo, come, tra
l’altro ha anche affermato la Corte di Cassazione 2 chiamata a pronunciarsi sul tema, a seguito
della domanda di un cittadino cubano che voleva esercitare nei confronti di un cittadino italia-
1
Cfr. A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1961, p.
325 ss.
2
Cass. 30 giugno 2014, n. 14811, in Banca dati online Pluris, 2014.
84
FOCUS
no i diritti del legittimario. Riconosciuta la vigenza della condizione di reciprocità, seppur comprendendone tutti gli eventuali limiti, è opportuno evidenziare subito come il riscontro della
sua assenza, ovviamente nelle ipotesi in cui ne sia ancora richiesta la sussistenza, si riverbera significativamente sulla situazione di volta in volta in gioco, comportando la non attribuzione allo straniero del diritto controverso o l’invalidità del negozio dallo stesso stipulato. Con riferimento alla tematica della presente trattazione e pensando ad esempio all’ipotesi dello straniero
residente all’estero che voglia ottenere il ristoro dei danni subiti a causa del decesso del proprio
congiunto, verificatosi in Italia in occasione di un sinistro stradale, se si affermasse la necessità
della sussistenza della condizione di reciprocità e se ne riscontrasse l’assenza, occorrerebbe negare il diritto al risarcimento. La condizione di reciprocità è quindi una tematica di estrema rilevanza che nella prassi quotidiana ha assunto maggior rilievo proprio con riguardo ai casi di risarcimento del danno patito dal familiare dello straniero.
2. La condizione di reciprocità
Nel 1865, in omaggio al principio di uguaglianza e solidarietà dei popoli, il legislatore scelse di
riconoscere allo straniero gli stessi diritti civili attribuiti ai cittadini: nel 1942, invece, venne reintrodotto nell’ordinamento italiano il principio di reciprocità. Secondo il 1° comma dell’art.
16 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile (c.d. Preleggi), infatti, «lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuibili al cittadino a condizione di reciprocità e salve
le disposizioni contenute in leggi speciali» 3. Salvi i casi disciplinati in modo diverso, si preferì
negare tutela giuridica allo straniero laddove il suo Stato di residenza la rifiuti, in una situazione
analoga, al cittadino italiano 4. Prima di individuare l’ambito di applicazione della condizione di
reciprocità e in particolare la sua rilevanza nelle controversie risarcitorie instaurate dagli stranieri, occorre svolgere alcune riflessioni sulla nozione e sulle modalità di accertamento della
stessa. Come noto il principio di reciprocità può avere tre valenze 5: diplomatica, legislativa o di
fatto. Nella reciprocità diplomatica il trattamento dello straniero viene definito in un trattato
stipulato tra l’Italia e lo Stato estero di riferimento, nel quale sono regolati e attribuiti i diritti
spettanti ai cittadini dei rispettivi Stati: in tale ipotesi il trattamento dello straniero non muta
finché non è modificato il trattato nel quale è disciplinato. La reciprocità legislativa, tipica delle
legislazioni più antiche, al contrario di quella diplomatica, cambia con il variare delle circostanze e consiste nella verifica dell’esistenza nell’ordinamento giuridico dello straniero di una norma analoga a quella nazionale. La reciprocità di fatto, infine, si concretizza nell’accertamento
della sussistenza nell’ordinamento giuridico di uno Stato straniero di una giurisprudenza, una
prassi amministrativa o comportamenti diffusi, idonei a dimostrare un trattamento del cittadino italiano corrispondente a quello che può essere riservato in Italia ad un cittadino di quello
Stato. La dottrina prevalente, anche al fine di restringere il campo di applicazione del principio
di reciprocità e constatato come quest’ultima tipologia di reciprocità sia indubbiamente la più
favorevole per lo straniero, ritiene che l’art. 16 delle preleggi vi si riferisca 6. In dottrina si è soli3
Per un’analisi della disposizione cfr. P. MOROZZO DELLA ROCCA, Appunti sulla questione dei cittadini extracomunitari in Italia. Stranieri dell’interno e stranieri dell’estero, in Riv. dir. priv. e proc., 1990, p. 573.
4
Cfr. P. MOROZZO DELLA ROCCA, sub art. 16 prel., in P. PERLINGERI (a cura di), Codice annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Utet, Torino, 1991.
5
Cfr. U. LENZA, Considerazioni critiche sulla portata e l’efficacia dell’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile, in Riv.
dir. priv. e proc., 1997, p. 89.
6
Cfr. P. MENGOZZI, La condizione di reciprocità e il diritto internazionale privato, in Riv. dir. priv. e proc., 1994, p. 494.
85
AIAF RIVISTA 2016/1
ti, inoltre, distinguere tra reciprocità generica, reciprocità generica in senso lato e reciprocità
punto per punto. Si parla di reciprocità generica allorché si richiede che tra le due discipline
sussista una sufficiente somiglianza; di reciprocità generica in senso lato, quando si assiste ad
una comparazione globale dei due ordinamenti; infine, di reciprocità punto per punto quando
è pretesa una puntuale e precisa uguaglianza tra le due discipline. Assodato che l’art. 16 delle
preleggi si riferisce alla reciprocità di fatto, è utile stabilire quale delle tre distinzioni da ultimo
indicate sia privilegiata dagli interpreti. Un primo e più risalente orientamento – non condivisibile – optando per la reciprocità punto per punto, pretendeva che nell’ordinamento straniero
il cittadino italiano fosse ammesso a godere dei diritti civili in modo uguale o molto simile a
quello concesso allo straniero in Italia 7. Secondo la dottrina e la giurisprudenza 8 ormai prevalenti, invece, la reciprocità contemplata dall’art. 16 delle preleggi è quella generica, così come
già affermato in una nota sentenza del 1981 della Suprema Corte 9, nella quale venne affermato
che la reciprocità invocata dall’art. 16 prel. richiede solo una generica eguaglianza di diritti tra
cittadini dello Stato straniero e quelli italiani nell’ordinamento dell’altro Stato, senza che sia
pretesa una identità per i vari tempi e condizioni di tutela dei rispettivi diritti.
3. L’ambito applicativo della condizione di reciprocità: l’intervento della Corte costituzionale
e l’avvento del T.U. dell’Immigrazione
L’entrata in vigore della Costituzione e il mutato clima socio-politico obbligano l’interprete a
coordinare l’art. 16 delle preleggi con il dettato costituzionale, e in primis con l’art. 2 alla stregua del quale «la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo», senza distinzione tra cittadino e straniero. Nonostante si siano registrate in dottrina nel tempo anche posizioni (in verità minoritarie) che prospettavano l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 delle disposizioni
preliminari al codice civile per contrasto con l’art. 10 Cost., sembra condivisibile l’orientamento prevalente secondo cui non vi sarebbe contrasto tra la permanenza nell’ordinamento dell’art. 16 prel. e la Carta costituzionale, occorrendo però effettuare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, finalizzata, da un lato, a escludere dal suo ambito applicativo i diritti inviolabili dell’uomo, che l’art. 2 Cost. riconosce a chiunque, senza distinzione
tra cittadino e straniero, dall’altro, a verificare, con riferimento ai soli diritti civili, la ragionevolezza del trattamento differenziato tra straniero e cittadino. In tal senso è importante ricordare
la sentenza della Corte costituzionale che ha affermato che l’art. 16 delle preleggi, per essere
conciliabile con i precetti costituzionali deve essere interpretato in modo da limitarne significativamente l’ambito oggettivo di applicazione 10. In particolare secondo la Corte devono essere
esclusi dall’ambito applicativo della disposizione i diritti inviolabili, che l’art. 2 Cost. riconosce
a chiunque, senza distinzione tra cittadino e straniero; inoltre, con riferimento ai diritti civili, la
Consulta ha osservato che il trattamento differenziato tra straniero e cittadino può considerarsi
legittimo e non in contrasto con il principio di eguaglianza consacrato nell’art. 3 Cost., solo se
lo si possa in concreto considerare ragionevole. È così evidente come l’ambito applicativo della
condizione di reciprocità, da un lato attraverso una verifica della condizione di reciprocità a
maglie larghe attraverso il riscontro della sussistenza della “reciprocità di fatto”, dall’altro attra-
7
Cfr. Trib. Milano 31 luglio 1989, in Giur. merito, 1991, p. 312.
8
Cfr. Cass. 10 marzo 1993, n. 1681, in Foro it., 1993, I, p. 3067.
Cass. 22 ottobre 1981, n. 5525, in Giur. it., 1982, I, p. 911.
10
Cfr. Corte cost. 23 marzo 1968, n. 11, in Riv. dir. priv. e proc., 1968, p. 639.
9
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FOCUS
verso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 16 delle preleggi che esclude dalla
condizione di reciprocità il godimento, da parte dello straniero, dei diritti che rientrano nel novero dei diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, risulta già notevolmente ridimensionato. La linearità del ragionamento delle Corti si scontra – come vedremo – con la difficoltà, nella
pratica, di identificare l’esistenza di un diritto fondamentale a causa degli incerti confini di tale
categoria di diritti. Prima di affrontare il tema del diritto al risarcimento dello straniero e in particolare del familiare dello straniero, è però necessario ricordare come l’ambito applicativo della condizione di reciprocità, già ridimensionato dalle interpretazioni giurisprudenziali appena esaminate, è oggi fortemente ridotto dall’art. 2 del d.lgs. n. 286/1998 11, il cui 2° comma dispone
che «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia
e il presente testo unico dispongano diversamente. (...)». Per effetto di questa disposizione la
verifica della sussistenza della condizione di reciprocità, da regola che era, è quindi divenuta eccezione, ampliando notevolmente le possibilità di negoziazione degli stessi cittadini italiani con i
cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Lo stesso art. 2, al 1° comma, stabilisce inoltre che «allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle
convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti». Viene così ribadito a livello legislativo che i diritti fondamentali e inviolabili della
persona umana vanno riconosciuti a chiunque, senza distinzione tra cittadino e straniero e soprattutto tra straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato e straniero c.d. “illegale”. Si tratta di una norma di primaria importanza anche se in realtà ricognitiva dell’esistente,
dato che il riconoscimento dei diritti inviolabili già derivava in favore dello straniero direttamente dall’art. 2 Cost. 12, nonché caratterizzata da una portata applicativa minore rispetto alla
norma costituzionale, sia sotto il profilo temporale (essendo quella applicabile solo alle fattispecie successive alla sua entrata in vigore), sia in quanto circoscritta agli stranieri presenti alla
frontiera e nello Stato, con esclusione di tutti gli altri. Ecco allora come il dictum della Corte costituzionale non è reso del tutto inutile dalla sua sostanziale acquisizione in termini normativi
ad opera del 1° comma dell’art. 2 del T.U. sull’Immigrazione 13, ma al contrario riverbera tutta
la sua rilevanza nelle numerose fattispecie coinvolgenti stranieri residenti all’estero.
Concludendo questo breve esame possiamo, quindi, affermare che a seguito dell’entrata in vigore del Testo Unico dell’Immigrazione, nonché delle pronunce della Corte costituzionale i
diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti a chiunque, ossia sia allo straniero regolarmente
soggiornante, che a quello cosiddetto irregolare che a quello residente all’estero. I diritti civili, invece, sono attribuiti, al pari del cittadino italiano, allo straniero regolarmente soggiornante nel
territorio, salvo sia stabilito diversamente, e a condizione di reciprocità agli stranieri irregolari o
residenti all’estero. Con riferimento al familiare straniero, quindi, laddove regolarmente soggiornante, lo stesso sarà trattato alla stregua del cittadino italiano, mentre se irregolare o residente
all’estero, sarà decisivo qualificare il diritto controverso come diritto fondamentale, dovendosi, in
caso negativo, riconoscere il godimento del diritto solo a condizione di reciprocità.
11
Pubblicato nella G.U. 18 agosto 1998, n. 191.
Cfr. Corte cost. 21 giugno 1979, n. 54, in Giur. cost., 1979, I, p. 413.
13
Cfr. Corte cost. 2 dicembre 2005, n. 432, in Giur. it., 2006, p. 2256.
12
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4. Il risarcimento del danno dello straniero
Come abbiamo già anticipato le controversie più numerose in tema di reciprocità riguardano i
casi di risarcimento dei danni subiti in incidenti stradali nei quali la vittima diretta e gli altri soggetti danneggiati, in primis i familiari, che agiscono ai fini del risarcimento sono appunto stranieri. Ai fini della corretta ricostruzione della tematica è utile ribadire subito, in applicazione di
quando affermato con riferimento all’ambito applicativo della condizione di reciprocità, che quando nella vicenda sono coinvolti esclusivamente stranieri regolarmente soggiornanti è chiaro che
la fattispecie non pone alcun problema in ordine alla verifica ex art. 16 prel. Le difficoltà sorgono, invece, quando sono coinvolti extracomunitari c.d. “irregolari” soggiornanti nel territorio o
stranieri non presenti in Italia, ossia persone prive dello status privilegiato di stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro Paese e quindi non tutelate dal 2° comma dell’art. 2 del T.U.
dell’Immigrazione. Con riferimento alle ipotesi coinvolgenti questi soggetti, infatti, sebbene ad
entrambi siano riconosciuti (dal legislatore nel primo caso, dalla Corte costituzionale nel secondo), i diritti inviolabili dell’uomo, sono sorte non poche incertezze nella individuazione in
concreto delle situazioni giuridiche soggettive da ricondurre ad un diritto fondamentale e dunque da sottrarre alla condizione di reciprocità.
Nelle ipotesi di richiesta di risarcimento del danno avanzata dai familiari dello straniero che risiedono all’estero o che sono soggiornanti di fatto in Italia (non in regola con la normativa sull’immigrazione), il problema che si pone è se possa considerarsi alla stregua di un diritto fondamentale dell’uomo il diritto al risarcimento del danno per la violazione di un diritto fondamentale 14. In proposito spesso le compagnie assicurative, al fine di opporsi alla domanda di risarcimento del danno avanzata dallo straniero, lamentano proprio la carenza della condizione
di reciprocità ex art. 16 delle preleggi. Negli anni sono emersi orientamenti contrastanti: non
tutti i giudici di merito considerano il risarcimento del danno sussumibile tra le tutele dei diritti
fondamentali sottratte alla condizione di reciprocità. Secondo una prima posizione, sorta appunto con riferimento ai danni causati da sinistri stradali, infatti, il diritto al risarcimento del
danno non può essere ricondotto tra i diritti fondamentali della persona, risultando conseguentemente necessaria la verifica del rispetto della condizione di reciprocità 15. Un simile orientamento non può però essere condiviso. Nonostante il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto fondamentale, in sé e per sé considerato, sia un comune diritto
patrimoniale, soggetto a prescrizione e non sussumibile nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo, il suo sorgere è comunque essenziale all’esistenza effettiva del diritto di cui costituisce forma di tutela minimale. Nessuno dubita, in effetti, che il diritto alla salute, il diritto alla integrità
fisica e il diritto al rapporto parentale siano diritti fondamentali della persona, riconosciuti a
chiunque dalla Costituzione. È però evidente che nella pratica la tutela di tali diritti, nel momento in cui siano ormai stati violati e allorché non sia possibile ristorarli altrimenti, non possa
che concretarsi in un risarcimento del danno. Il risarcimento del danno conseguente alla lesione di diritti inviolabili della persona, infatti, non è altro che un aspetto della titolarità di quei diritti e tutte le questioni inerenti alla loro violazione sono caratterizzate da uno specifico rilievo
costituzionale 16. Ammettere l’inoperatività del principio di reciprocità in presenza di un diritto
fondamentale, ma al tempo stesso negare il risarcimento del danno in caso di violazione dello
14
Sul tema sia consentito il rinvio a R.S. BONINI, Immigrazione e diritto al risarcimento del danno, in Il libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2015, p. 3 ss.
15
Cfr. Giudice di pace Novara 1° febbraio 2002, in Arch. giur. circol. e sin., 2002, p. 584.
16
Cfr. C. CORSI, Risarcimento del danno e condizione di reciprocità, in Dir., imm. e citt., 2006, p. 73.
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FOCUS
stesso, condurrebbe ad una contraddizione stessa del sistema 17. Questo secondo orientamento è
oggi prevalente, risultando avallato da numerose sentenze dei giudici di merito 18 e della Corte di
Cassazione 19 sia riguardo ai danni subiti dalla vittima principale dell’illecito, sia riguardo ai danni
lamentati dai suoi familiari. In particolare la Suprema Corte ha enunciato per la prima volta il
principio in base al quale la sussistenza della condizione di reciprocità non è richiesta quando il
diritto azionato riguarda la violazione di diritti inviolabili della persona con la sent. 14 gennaio
2009, n. 5471, nella quale, disattendendo la ricostruzione del responsabile civile, ha qualificato il
risarcimento del danno richiesto iure proprio dai parenti della vittima, ovunque dimorino, quale
diritto fondamentale dell’uomo e come tale non sottoposto alla condizione di reciprocità, in
quanto diritto discendente dalla perdita del bene fondamentale della vita del loro congiunto.
5. Il danno da morte: tanto rumore per nulla
La quaestio del risarcimento del danno da morte è una problematica nostrana coinvolgente tanto le vittime italiane che quelle straniere; è utile però soffermarsi – seppur brevemente e a rischio di qualche approssimazione data l’ampiezza dell’argomento – anche su questa voce di danno al fine di un esame completo delle voci risarcitorie spettanti al familiare straniero. Il noto problema è questo: in caso di morte immediata acquista il soggetto deceduto – e trasmette quindi
agli eredi – il diritto al risarcimento del danno? Detto altrimenti «fa parte, il momento della
morte, della vita umana?» 20. Nonostante le persone attribuiscano al bene vita un valore talmente
alto da non poter nemmeno essere quantificato, da tempo immemorabile l’orientamento giurisprudenziale prevalente 21 nega la risarcibilità del c.d. danno tanatologico: premesso che il risarcimento del danno non compensa la lesione in sé e per sé considerata, ma le conseguenze che
ne derivano, si ritiene che il defunto non abbia subito alcuna perdita proprio perché morto; a
ciò si aggiunge che la vittima non potrebbe acquistare il credito risarcitorio e quindi trasmetterlo agli eredi, in quanto con la morte ha perso la capacità giuridica e che la risarcibilità del danno
subito dalla persona uccisa sarebbe incompatibile con la funzione compensativa e non sanzionatoria della responsabilità civile. Poiché i parenti della vittima vengono già ristorati iure proprio per il pregiudizio sofferto, il risarcimento del danno riconosciuto alla vittima primaria e per
essa agli eredi, assumerebbe una connotazione esclusivamente sanzionatoria della condotta illecita del responsabile 22. A quasi nulla sono valse negli anni le molteplici critiche 23, tra le quali
spicca quella secondo cui così operando si giunge al paradosso in base al quale in caso di «morte immediata originata da fatto illecito si possa ingenerare la convenienza economica a uccidere
piuttosto che a ferire» 24, in quanto chi cagiona la morte è obbligato a corrispondere un risar17
Cfr. R.S. BONINI, Il valore della vita non dipende dallo status di cittadino o di straniero, in Corr. giur., 2009, 10, p. 137.
Cfr., ex multis, Trib. Milano, Sez. XI, 18 ottobre 2012; Trib. Padova 18 ottobre 2012.
19
Cfr. Cass. 4 novembre 2014, n. 23432, cit.
20
D. CARUSI, L’ordine naturale delle cose, Giappichelli, Torino, 2011, p. 442 s.
21
Nella vigenza del codice civile del 1865 cfr. Cass. Regno, S.U., 22 dicembre 1925, in Foro it., 1926, I, c. 238. Ora cfr., ex
multis, Cass. 24 marzo 2011, n. 6754, in Giur. it., 2012, p. 551; Cass., Sez. lav., 27 maggio 2009, n. 12326, in Dir. prat. lav.,
2010, p. 567.
22
In dottrina cfr. M. FRANZONI, Fatti illeciti. Art. 2043, 2056-2059, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Il Foro it.,
Bologna-Roma, 2004, p. 579.
23
Cfr. N. LIPARI, Danno tanatologico e categorie giuridiche, in Riv. crit. dir. priv., 2012, p. 523 e ss.; C.M. BIANCA, Il danno da
perdita della vita, in Vita not., 2012, p. 1497 ss.
24
Così lo formulò, per primo, G. GIANNINI, La risarcibilità del danno biologico in ipotesi di lesioni mortali, in Resp. civ. e prev.,
1992, p. 603.
18
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cimento inferiore rispetto a quello dovuto da chi lede la salute. Altri – nel tentativo di aggirare il
terreno di scontro – hanno invece sottolineato come in realtà solo in ipotesi del tutto eccezionali la morte si produca veramente contestualmente alla lesione in quanto l’attività cerebrale
cessa, di regola, dopo un certo periodo di tempo. Tuttavia, confermata l’irrisarcibilità del danno
tanatologico, la giurisprudenza ha riconosciuto la risarcibilità del danno alla salute subito dalla
vittima nel lasso di tempo intercorrente tra la lesione e la morte, purché protrattosi per una durata apprezzabile (c.d. danno biologico terminale) 25, e, per evitare gli inconvenienti del c.d. criterio cronometrico, la risarcibilità della sofferenza provata dalla persona, nel percepire, in esito
all’illecito, l’imminenza della propria morte (c.d. danno catastrofale o morale terminale) 26. Dopo la nota sentenza Scarano 27 e l’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite 28, si poteva ipotizzare uno storico revirement su un tema così delicato e che tanto rimorde “le coscienze sociali”.
Invece la pronuncia delle Sezioni Unite 29, ad avviso della quale «un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico, non è criterio che possa
legittimamente guidare l’attività, dell’interprete del diritto positivo», si è risolta in una «summa degli argomenti sviluppati dalla Cassazione nel corso di novant’anni per negare il risarcimento del danno da morte, priva di particolari innovazioni» 30: il danno da morte non spetta
alla vittima perché le conseguenze del decesso non costituiscono per lui una perdita; il soggetto
non può essere titolare del risarcimento del danno perché la morte lo ha privato della capacità
giuridica; l’ammissibilità del ristoro del danno tanatologico è incompatibile con la funzione esclusivamente compensativa propria della responsabilità civile. La decisione delle Sezioni Unite – aspramente criticata da una parte della dottrina – conferma, dunque, che in caso di decesso
immediato della vittima il familiare straniero, al pari del cittadino italiano, non potrà ottenere,
in qualità di erede, il ristoro del danno da morte, non riconoscendo il nostro ordinamento tale
voce di danno.
6. L’effettività della tutela risarcitoria: il responsabile civile per il fatto altrui e il Fondo di
garanzia per le vittime della strada
Affermata la non necessarietà della verifica della condizione di reciprocità in caso di lesione di
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione ed esclusa la risarcibilità del danno tanatologico,
occorre capire se lo straniero danneggiato possa e in base a quale ragionamento logico-giuridico, esperire azioni relative alla tutela risarcitoria riconosciutagli, a prescindere dallo status di cittadino o di straniero, non solo nei confronti del soggetto danneggiante, il quale potrebbe essere, tra l’altro, non in grado di provvedere, ma anche nei confronti di quei soggetti considerati
dal codice civile responsabili per fatto altrui, quali, il proprietario del veicolo, ovvero direttamente nei confronti della compagnia assicurativa. Con riferimento al problema dell’allocazione
del costo del danno provocato dall’illecito, la Corte di Cassazione, dopo anni di contrasto giurisprudenziale, ha affermato che è necessario, non solo, in applicazione del principio ex art. 2
25
Cfr. Cass. 28 agosto 2007, n. 18163, in Resp. civ., 2007, p. 1046.
Cfr. Cass. 9 maggio 2011, n. 10107, in Giur. it., 2012, p. 796.
27
Cfr. Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361 (est. Scarano), in Foro. it., 2014, I, c. 719; in Danno e resp., 2014, p. 363; in Nuova
giur. civ. comm., 2014, I, p. 396; in Giur. it., 2014, p. 813.
28
Cfr. Cass., ord. 4 marzo 2014, n. 5056, in Danno e resp., 2014, p. 387.
29
Cfr. Cass., S.U., 22 luglio 2015, n. 15350, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 1008.
30
R. FOFFA, Il danno da morte tra Epicuro e Guglielmo d’Occam, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 1023.
26
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Cost., non tenere conto della condizione di reciprocità in caso di violazione di diritti inviolabili
dell’uomo, ma altresì permettere allo straniero di avvalersi di tutti gli strumenti risarcitori riconosciuti al cittadino, nonostante gli stessi siano rivolti verso un soggetto diverso rispetto al
danneggiante 31. Al cittadino straniero, anche extracomunitario, così come a quello italiano, in
caso di danni da circolazione stradale per lesione di un diritto fondamentale della persona
umana, va quindi accordata, a prescindere dalla condizione di reciprocità, non solo la generica
azione da responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. nei confronti dell’autore del fatto illecito, ma
anche l’azione da responsabilità solidale nei confronti del proprietario e del conducente il veicolo prevista dall’art. 2054 c.c. nonché quella diretta nei confronti della compagnia assicurativa.
Occorre inoltre stabilire, soprattutto dando atto dei numerosi casi di incidenti stradali nei quali
rimane non identificato il guidatore colpevole, se lo straniero possa altresì fruire del Fondo di
garanzia per le vittime della strada, laddove, ovviamente, ne sussistano i presupposti. La questione è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza, la quale, dopo anni, ha finalmente ricompreso tra il novero dei diritti inviolabili dell’uomo il diritto di accedere alle prestazioni del
Fondo di garanzia 32. Come abbiamo visto, dunque, la giurisprudenza è giunta alla sostanziale
disapplicazione della condizione di reciprocità per quanto riguarda le controversie attinenti ai
diritti fondamentali, sulla base di una complessiva lettura dell’ordinamento, alla luce dei principi costituzionali, primo fra tutti quello dell’art. 2 Cost., così riconoscendo al familiare straniero la medesima tutela di cui gode il cittadino.
7. Un problema in via di risoluzione: il quantum del risarcimento del danno non patrimoniale
In applicazione di quanto abbiamo appena detto allo straniero e/o al suo familiare leso in un
diritto fondamentale devono essere risarciti i danni sia patrimoniali sia non patrimoniali conseguenti alla lesione del diritto stesso in quanto «è il bene leso che caratterizza la diretta copertura costituzionale della tutela, mentre il danno conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale)
individua solo la perdita (o il pregiudizio) in concreto verificatosi e risarcibile» 33. Enunciato il
principio, però, rimane da risolvere il problema dell’entità del risarcimento. Ferma restando,
infatti, l’esistenza di voci patrimoniali del danno sicuramente insensibili al Paese di residenza
dello straniero, si discute se si debba tener conto, in sede di liquidazione equitativa del danno
non patrimoniale, delle condizioni socio-economiche nello stato di effettiva residenza e conseguentemente adeguare il ristoro al valore della relativa moneta. Sul punto sono tradizionalmente rinvenibili due orientamenti opposti. Secondo una prima posizione è necessario tener conto
del potere di acquisto della moneta del paese nel quale lo straniero effettivamente vive poiché
spesso alla parità di valore nominale corrisponde un costo della vita nettamente inferiore che in
Italia. È stato quindi sostenuto che se l’entità delle soddisfazioni compensative ritraibili da una
somma di denaro muta a seconda del paese in cui il denaro è destinato ad essere speso, non è
l’entità di soddisfazioni che deve variare, ma la quantità di denaro necessaria a procurarle. Ha
aderito a questo orientamento il Tribunale di Bologna 34, il quale, in occasione della liquidazione del danno subito dai parenti di un cittadino albanese deceduto in un incidente stradale, pur
ritenendo di dover risarcire il danno non patrimoniale in applicazione delle tabelle del Tribu31
In questo senso cfr. Trib. Bergamo 11 marzo 2008.
32
In senso favorevole cfr. Trib. Catania 13 giugno 2005, n. 1807, in Dir., imm. e citt., 2006, p. 111.
Cass. 11 gennaio 2011, n. 450, cit.
34
Trib. Bologna 19 dicembre 2014, n. 3637, in Banca dati online De Jure.
33
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nale di Milano che assicurano maggior rispondenza ai principi dell’adeguatezza e della proporzionalità del ristoro e che consentono una valutazione omnicomprensiva delle singole voci che
concorrono in esso, ha però ridotto la somma così calcolata parametrandola alla realtà economica e sociale in cui gli attori vivevano (Albania), onde adeguare il potere d’acquisto della
valuta in cui viene effettuata la liquidazione a quello del paese di residenza del beneficiario 35.
In applicazione dello stesso orientamento la Corte d’Appello di Milano 36, a seguito della richiesta di risarcimento danno avanzata da alcuni cittadini romeni per la morte del proprio parente investito da un camion mentre camminava sul ciglio di una strada, ha deciso di decurtare
la somma dovuta a titolo di risarcimento del 30% tenendo conto «della specificità dell’area
monetaria nazionale nella quale verrà poi utilizzato il denaro conseguito», ritenendo che «la
liquidazione risarcitoria non possa avvenire sulla base assoluta dei parametri vigenti nella realtà
italiana».
Secondo l’opposto orientamento, invece, il luogo in cui vive il danneggiato deve restare irrilevante sul piano della personalizzazione del danno non patrimoniale, anche perché, se realmente si volesse cercare di “personalizzare” sotto questo profilo il risarcimento del danno, sarebbe
necessario un esame del contesto assai più complesso e approfondito di quello riferito al solo
potere d’acquisto della moneta. Il luogo in cui il danneggiato vive e in cui presumibilmente utilizzerà il denaro ricevuto a titolo di risarcimento del danno per l’illecito è quindi «circostanza
successiva, esterna e del tutto estranea alla quantificazione del predetto danno, quantificazione
che va operata dal giudice secondo i parametri economici comunemente usati – e quindi sulla
base del potere d’acquisto medio, nel tempo e nel luogo in cui lo stesso giudice si pronuncia –
per esprimere, seppur con l’inadeguatezza propria di ogni traduzione monetaria destinata a dare misura a dolori che misura non hanno, il valore della perdita subita» 37. Il risarcimento del
danno in queste ipotesi, costituendo una sorta di riparazione necessariamente equitativa e mai
realmente integrale, deve prescindere da come e soprattutto da dove il danneggiato utilizzerà
quanto percepito, anche perché, si tratta di un criterio non convincente, attesa la non notorietà,
in concreto, del luogo in cui il danneggiato andrà a vivere una volta ottenuto il risarcimento, il
quale ben potrà essere diverso dal precedente 38. D’altronde, «la funzione del risarcimento del
danno non patrimoniale non è quella di fornire alla vittima del fatto illecito una sorta di stanziamento da spendere per ottenere in cambio una certa quota di piaceri volti ad annullare le
sofferenza subite, bensì quella di compensare la vittima stessa, ancorché con un mezzo improprio ove rapportato al tipo di danno, per l’impoverimento subito sotto il profilo non patrimoniale» 39.
Ha finalmente aderito a questo orientamento anche la Corte di Cassazione 40. Nel 2014, il Supremo Collegio – chiamato a pronunciarsi a seguito del ricorso di una donna tunisina in nome
proprio e delle figlie minori, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia con la quale
era stata rigettata l’impugnazione della pronuncia di primo grado che aveva operato una decurtazione alla somma di denaro spettante alle ricorrenti a titolo di risarcimento del danno per la
morte rispettivamente del marito e padre in un incidente stradale – ha affermato che il criterio
35
Accogliendo l’eccezione di parte convenuta il Tribunale ha quindi ridotto l’importo dovuto in base ai parametri contenuti nel Decreto del Ministro del Lavoro del 12 maggio 2003 (il coefficiente di riduzione da adottare per l’Albania è pari a
0,4075).
36
App. Milano 24 luglio 2015, inedita.
37
Cfr. Trib. Milano 18 dicembre 2008, n. 12099, cit.
38
Cfr. Trib. Roma, Sez. XII, 27 ottobre 2010.
Così Trib. Terni 22 ottobre 2010.
40
Cfr. Cass. 13 novembre 2014, n. 24201, in Giur. it, 2015, p. 1080.
39
92
FOCUS
della realtà socioeconomica in cui vive il danneggiato non è fondato in diritto e quindi incapace
di incidere sulla determinazione del danno, non essendo ricompreso tra gli elementi essenziali
dell’illecito aquiliano, al contrario, costituiti esclusivamente dalla condotta illecita colposa o dolosa del danneggiante, dal danno e dal nesso di causalità. Una quantificazione differenziata sarebbe peraltro in contrasto con l’art. 3 Cost. e con le pronunce della Corte costituzionale 41. Risulta incomprensibile alla Corte, anche in base alla semplice logica giuridica, la ragione che potrebbe giustificare, per un medesimo evento danno – in questo caso la morte di un giovane uomo, marito e padre di due bambine – conseguenze diverse a seconda della residenza dei soggetti aventi diritto 42. D’altronde che il risarcimento del danno debba avere come obiettivo fondamentale il ripristino del valore-uomo nella sua insostituibile unicità e che importanza primaria debba essere riconosciuta all’uniformità, per quanto possibile, delle tecniche di risarcimento, è stato più volte ribadito, negli ultimi anni, dalle pronunce in materia risarcitoria, con riferimento agli illeciti verificatisi a danno di soggetti residenti nelle diverse località italiane, sottolineandosi la necessità di fare ricorso alle tabelle adottate dal Tribunale di Milano allo scopo di
evitare che danni identici possano essere liquidati in misura diversa solo perché esaminati da
differenti Uffici giudiziari 43. In conclusione, nonostante siano ancora rinvenibili sentenze di
merito che continuano a decurtare la somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento allo
straniero tenendo conto del paese di residenza dello stesso, è importante constatare come
l’orientamento ormai accolto dalla Suprema Corte volto ad affermare l’insostenibilità del riferimento alle diverse realtà socio-economiche in sede di risarcimento del danno non patrimoniale,
ci consente di poter affermare che, almeno nell’ambito delle controversie risarcitorie per violazione di diritti fondamentali, l’ordinamento italiano finalmente garantisce allo straniero la stessa
effettiva tutela accordata al cittadino a prescindere dalla verifica della condizione di reciprocità.
41
Cfr. Corte cost., 25 luglio 2011, n. 245, in Dir. famiglia, 2012, p. 59.
Nello stesso senso cfr. Cass. 12 giugno 2015, n. 12221, cit.
43
Cfr. Cass. 19 giugno 2015, n. 12717, in Banca dati online De Jure.
42
93
AIAF - Organi statutari
Presidente: Alessandro Sartori
Vicepresidente: Franca Alessio
Giunta Esecutiva: Alessandro Sartori (Presidente), Franca Alessio (Vicepresidente), Daniela Abram
(AIAF Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF Sicilia), Gabriella
de Strobel (AIAF Veneto), Francesco Pisano (AIAF Sardegna), Giulia Sarnari (AIAF Lazio), Antonina
Scolaro (AIAF Piemonte)
Direttore Responsabile Scuola di Alta Formazione dell’AIAF: Maurizio Bandera
Direttore Scientifico Scuola di Alta Formazione dell’AIAF: Alberto Figone
Comitato Direttivo Nazionale
Abruzzo
Maria Carla Serafini (presidente)
Federica Di Benedetto
Calabria
Stefania Mendicino (presidente)
Campania
Rosanna Dama (presidente)
Erminia Del Cogliano
Emilia Romagna
Daniela Abram (presidente)
Lorenza Bond, Marta Rovacchi
Friuli Venezia Giulia
Maria Antonia Pili (presidente)
Graziella Cantiello, Paola Bardi
Lazio
Marina Blasi (presidente)
Costanza Pomarici, Giulia Sarnari, Ginetta Bergodi
Liguria
Liana Maggiano (presidente)
Massimo Benoit Torsegno, Alberto Figone
Lombardia
Cinzia Calabrese (presidente)
Franca Alessio, Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni, Cinzia Colombo, Giuseppina De Biasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania Lingua, Carla Loda,
Francesca Mazzoleni, Gerardo Milani, Laura Pietrasanta,
Mirella Quattrone, Antonella Ratti, Giulia Sapi
Marche
Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)
Molise
Romeo Trotta (presidente)
94
Piemonte
Dionisio Giovanni (presidente)
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Cristina Ottavis, Antonina Scolaro, Marina Torresini
Puglia
Ada Marseglia (presidente)
Sardegna
Luisella Fanni (presidente)
Stefania Bandinelli, Francesco Pisano, Anna Marinucci
Sicilia
Remigia D’Agata (presidente)
Cinzia Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto
Toscana
Manuela Cecchi (presidente)
Sandra Albertini, Carla Marcucci, Gigliola Montano, Bruna
Repetto, Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi
Trentino Alto Adige
Elisabetta Peterlongo (presidente)
Federica Fuggetti
Umbria
Anna Maria Pacciarini (presidente)
Anita Grossi, Maria Rita Tiburzi
Veneto
Alessandro Sartori (presidente)
Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco,
Francesca Collet, Gabriella de Strobel, Sabrina De Santi,
Caterina Evangelisti Franzaroli, Lucia Fazzina, Elisabetta
Francescato, Rita Mondolo, Giulia Schiaffino, Damiana
Stocco, Assunta Todini
96
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