La disciplina comunitaria in relazione all`art. 116 del

LA DISCIPLINA COMUNITARIA IN RELAZIONE ALL’ART. 116 C.C.
Michele Ius
1. Premessa
Il compito che mi è stato affidato con questo mio intervento è quello di valutare la
disciplina comunitaria in relazione all’art. 116 c.c., a seguito della recente novella apportata
dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, in materia di sicurezza (pubb. nella G.U. n. 170 del 24 luglio
2009 – Supp. ord. n. 128).
Come noto la legge n. 94/2009, detta anche “Pacchetto sicurezza”, ha aggiunto all’art.
116, comma 1 c.c., le seguenti parole: “nonché un documento attestante la regolarità del
soggiorno nel territorio italiano”.
In base alla nuova formulazione, dunque, lo straniero che desidera contrarre
matrimonio in Italia, non solo deve presentare, come era già previsto, il nulla-osta dell’autorità
competente del proprio Paese, ma anche un documento attestante la regolarità del soggiorno
in Italia.
Tale aggiunta ha determinato immediatamente lo scatenarsi di dubbi interpretativi circa
la possibilità o meno di dover applicare tale disposizione anche ai cittadini comunitari.
Il mio intervento si propone di fornire una possibile soluzione interpretativa.
L’invito a parlare a quest’Assemblea nasce dalla pubblicazione sulla rivista Lo Stato
Civile Italiano, con cui collaboro, di un articolo al riguardo, di cui si ripeteranno qui in parte i
contenuti. Rispetto a tale contributo, però, possono essere aggiunte due novità ulteriori:
- la ratifica definitiva del Tratto di Lisbona ad opera della Repubblica Ceca, ultimo scoglio per
l’entrata in vigore di tale noma e quindi dell’entrata della Carta dei diritti fondamentali
dell’uomo quale parte integrante della normativa comunitaria a seguito del richiamo in esso
contenuto;
- le conclusioni dell’avvocato generale M. Poiares Maduro nella Causa C-135/08, caso
Rottmann, avanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nelle quali viene delineato con
precisione il concetto di cittadinanza europea.
Le argomentazioni proposte in quest’intervento seguiranno il seguente schema:
valuteremo innanzitutto la riforma introdotta dal pacchetto sicurezza nel suo complesso e le
norme che devono essere lette con quella che riguarda nello specifico l’art. 116 c.c.;
valuteremo quindi la normativa comunitaria in materia di cittadinanza europea e libertà di
movimento; tratteremo poi la normativa comunitaria in materia d’ingresso e soggiorno dei
cittadini comunitari, per confrontarla con quella nazionale d’attuazione, sviluppando i concetti
di cittadino italiano, straniero cittadino comunitario e straniero cittadino extracomunitario.
Concluderemo dunque prospettando una possibile soluzione interpretative in conformità alla
disciplina comunitaria.
2. Interpretazione sistematico-telologica: di divieto di matrimonio per gli irregolari
Per comprendere la portata dell’aggiunta all’art. 116 c.c. e le problematiche
interpretative che suscita, è necessario innanzitutto contestualizzarla brevemente, valutando
l’intero provvedimento normativo in cui è contenuta.
La legge n. 94/2009, come si deduce dalla sua stessa rubrica, si occupa di sicurezza
pubblica. La relazione al disegno di legge, in tal senso, chiarisce che gli scopi del
provvedimento sono:
1)
colpire alcuni reati al fine d’impedire lo sfaldamento del tessuto sociale nazionale,
specialmente tutelandone gli strati più deboli;
2)
promuovere un maggior controllo del territorio.
Sulla base di questi due obbiettivi la legge cit. introduce, tra l’altro, una serie di
innovazioni volte a colpire il fenomeno dell’immigrazione irregolare, che il legislatore pare
individuare tra le matrici fondamentali dei problemi di sicurezza nel nostro Paese.
La modifica dell’art. 116 c.c. va letta in collegamento con la modifica apportata all’art.
6, comma 2, del d.lgs. n. 286/1998, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Nel prevedere l’obbligo d’esibizione
alla pubblica amministrazione dei documenti inerenti il soggiorno, ai fini del rilascio licenze,
autorizzazioni, iscrizioni e altri provvedimenti di interesse dello straniero, si consente ora una
deroga solo “per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere
temporaneo, per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 e per quelli
attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie”, con l’eliminazione degli atti di stato civile che
precedentemente, invece, erano espressamente menzionati nella parte derogatoria della
norma.
Tuttavia, come fatto notare nel brillante intervento della relatrice Palmieri che mi ha
preceduto, a cui si rimanda per brevità, gli atti di stato civile vengono formati non solo
nell’interesse del richiedente ma della collettività ed una verifica con conseguente rifiuto, fuori
dai casi previsti dalla novella introdotta ex art. 116 c.c. determinerebbe il rischio d’un abuso
d’ufficio.
Dalla lettura coordinata delle disposizioni cit., dunque, sembra di poter dedurre che, se
in base alla disciplina previgente la presenza regolare in Italia dello straniero prima del
matrimonio era condizione per ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari ex art. 30,
lettera b), del d.lgs n. 286/1998, ora invece è richiesta, in forma anticipata, per la celebrazione
stessa del matrimonio.
La legge n. 94/2009 introduce poi anche il reato di clandestinità, ex art. 21, obbligando
così tutti i pubblici ufficiali (salvi casi limitati), compresi gli ufficiali di stato civile (in quanto
esercenti una pubblica funzione ex 357 c.p.) a denunciarlo qualora ne abbiano notizia
nell’esercizio o a causa delle loro funzioni (ex art. 361 c.p.).
In altri termini viene sostanzialmente vietato il matrimonio agli stranieri irregolari.
Lo straniero che vuole sposarsi nel territorio della Repubblica deve, infatti, dall’entrata in
vigore della norma, produrre all’ufficiale di stato civile il documento attestante la regolarità del
proprio soggiorno in Italia, pena la segnalazione da parte dello stesso ufficiale di stato civile
alle forze dell’ordine.
Tale interpretazione che vede l’introduzione di un divieto al matrimonio degli
irregolari, trova conferma nella considerazione che i risultati ottenuti dalla modifica collimano
con gli scopi della legge sulla sicurezza visti sopra. L’innovazione ottiene, infatti, almeno sulla
carta, il duplice risultato di aumentare, anche per il tramite degli ufficiali di stato civile, il
controllo del territorio, ma anche evitare la piaga sociale, sempre più dilagante, dei matrimoni
di comodo, in cui cittadini italiani consenzienti, più o meno deboli, si accordano con gli stranieri
immigrati che vogliono emergere dalla clandestinità con soluzioni di comodo.
3. L’art. 116 c.c. e nozione di straniero
Il codice civile in generale distingue tra cittadino italiano e straniero, non operando per
quest’ultimo alcuna differenziazione tra cittadino di altro Paese membro dell’Unione europea e
cittadino di Paese extracomunitario.
L’art. 116 c.c. in particolare è stato applicato anche ai cittadini comunitari non cittadini
italiani, ritenendoli agli effetti della cit. norma come cittadini stranieri.
Un’interpretazione letterale della novella farebbe pensare dunque che questa vada
applicata anche ai cittadini comunitari. Un’interpretazione sistematico-telologica, in funzione di
quanto detto sopra, invece fa già di per se sospettare che il legislatore volesse riferirsi solo agli
extracomunitari irregolari.
Vale la pena approfondire il tema con un confronto con il diritto comunitario.
4. Disciplina comunitaria in materia libera circolazione.
Come noto l’art. 12 (già art. 6) del Trattato istitutivo della CE (di seguito “Trattato CE”)
vieta ogni discriminazione tra i cittadini dei Paesi membri in ragione della loro
nazione. Gli artt. 17 e 18 (già artt. 8 e 8A) del Tratto CE stabiliscono poi che ogni cittadino
comunitario (ossia che abbia la cittadinanza di uno degli Stati membri), fatte salve le
limitazioni e le condizioni previste dal Trattato CE e dalle disposizioni adottate in applicazione
dello stesso, ha diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
La normativa d’applicazione dei principi enunciati è raccolta ora nella direttiva
2004/38/CE del 29 aprile 2004, applicabile dal 1° maggio 2006. La direttiva regolamenta
espressamente il diritto d’ingresso e di soggiorno, lasciando in base al principio di sussidiarietà
alcuni margini ai singoli Stati membri che la devono applicarla. Ha il pregio rispetto alle norme
previgenti, disposte in modo frammentario per settore (lavoratori, studenti, ecc.), di contenere
in un unico strumento legislativo tutte le norme concernenti il diritto di libera circolazione e
soggiorno, facilitando così l’esercizio di tali diritti.
Quanto al diritto d’ingresso, ex art. 5, gli Stati membri devono ammettere nel loro
territorio il cittadino dell’Unione munito di una carta d’identità o di un passaporto in corso di
validità, nonché i suoi familiari non aventi la cittadinanza comunitaria, muniti di valido
passaporto. Nessun visto d’ingresso né alcuna formalità equivalente possono essere prescritti
al cittadino dell’Unione, differentemente dai famigliari senza cittadinanza comunitaria, a cui è
richiesto quest’obbligo se previsto in base agli accordi internazionali.
Quanto al diritto di soggiorno la direttiva distingue tre ipotesi diverse a seconda della
durata temporale del soggiorno:
- Soggiorno fino a tre mesi. Il diritto di soggiorno è concesso senza altra formalità o
condizione il cittadino comunitario possieda una carta d’identità od un passaporto in corso
di validità, fatto salvo un trattamento più favorevole applicabile ai richiedenti lavoro, come
riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Si noti che, ex art. 5, comma 5, lo
Stato membro può prescrivere all’interessato di dichiarare la propria presenza nel territorio
nazionale entro un termine ragionevole e non discriminatorio. A tal riguardo la direttiva
chiarisce che “l’inosservanza di tale obbligo può comportare sanzioni”, ma queste
devono essere necessariamente “proporzionate e non discriminatorie”;
- Soggiorno superiore a tre mesi. Il diritto viene sottoposto ad alcune condizioni per i
cittadini comunitari ed i loro famigliari volte ad evitare che “diventino un onere eccessivo
per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo iniziale
di soggiorno”;
- Soggiorno permanente. Il diritto è concesso a chi abbia soggiornato legalmente ed in via
continuativa per cinque anni nello Stato membro, a seguito di istanza alle autorità
competenti di questo.
Con riferimento all’argomento che stiamo trattando, viene lasciata agli Stati, ai sensi del
considerando 28, la possibilità di adottare le necessarie misure “per difendersi da abusi di
diritto o da frodi, in particolare matrimoni di convenienza o altri tipi di relazioni contratte
all’unico scopo di usufruire del diritto di libera circolazione e soggiorno”.
La direttiva prevede inoltre delle misure d’allontanamento, ma queste, ex art. 36, non
possono essere intraprese finché il cittadino comunitario ed i suoi famigliari non diventino un
onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante. Pertanto
una misura di allontanamento non è la conseguenza automatica del ricorso al sistema di
assistenza sociale. Lo Stato membro ospitante deve esaminare se si tratta di difficoltà
temporanee e tener conto della durata del soggiorno, della situazione personale e
dell’ammontare dell’aiuto concesso prima di considerare il beneficiario un onere eccessivo per il
proprio sistema di assistenza sociale e procedere all’allontanamento.
In nessun caso comunque una misura di allontanamento deve essere presa nei
confronti di lavoratori subordinati, lavoratori autonomi o richiedenti lavoro, quali definiti dalla
Corte di giustizia, eccetto che per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
Si noti, inoltre, che ai sensi dell’art. 15, commi 2 e 3 della direttiva, lo scadere della
carta d’identità o del passaporto, che ha consentito l’ingresso nello Stato membro ospitante e il
rilascio dell’attestato d’iscrizione o della carta di soggiorno, non giustifica l’allontanamento dal
territorio e che lo Stato membro ospitante non può disporre, in aggiunta ai provvedimenti di
allontanamento, il divieto d’ingresso nel territorio nazionale.
Infine va notato che il considerando 11, osserva che “il diritto fondamentale e personale
di soggiornare in un altro Stato membro è conferito direttamente dal Trattato ai cittadini
dell’Unione e non dipende dall’aver completato le formalità amministrative”.
5. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
La direttiva, oltre riprendere i principi propri di non discriminazione contenutiti nei
Trattati CE e UE, al considerando 31 richiama espressamente anche la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea: si legge infatti che la direttiva “rispetta i diritti e le libertà
fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. In conformità con il divieto di discriminazione contemplato nella Carta gli
Stati membri dovrebbero dare attuazione alla presente direttiva senza operare tra i beneficiari
della stessa alcuna discriminazione”.
L’art. 12 della Carta segnatamente stabilisce il diritto al matrimonio riconoscendo “a
uomini e donne, in età matrimoniale, di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi
nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”.
La Carta, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza da Parlamento, Consiglio e
Commissione e adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, in passato aveva una valenza
giuridica limitata quale soft law non giuridicamente vincolante per gli Stati membri dell’Unione.
La nostra stessa giurisprudenza di legittimità tuttavia vi si richiamava sempre più
spesso. L’ha richiamata di recente per risolvere un caso puramente interno evidenziando che
sulla base di questo ed in conformità all’art. 2 della Costituzione il diritto al matrimonio è un
diritto non condizionabile (Cass. c., sez. II, II, 15 aprile 2009, n. 8941).
Con la ratifica definitiva del Tratto di Lisbona anche da parte della Repubblica Ceca, di
cui si menzionava in premessa, e la sua entrata in vigore, gli Stati membri si impegnano oggi a
dare piena esecuzione anche alla Carta.
6. Disciplina nazionale di recepimento
Nel nostro ordinamento la disciplina d’attuazione della direttiva 2004/38/CE è contenuta
nel d.lgs. n. 30/2007, come modificato dal d.lgs. n. 32/2008.
Si noti che il d.lgs. n. 286/1998 non si applica ai cittadini comunitari, salvo sia per
questi più favorevole.
Per i cittadini comunitari dunque, conformemente a quanto visto sopra, il diritto
d’ingresso è condizionato esclusivamente:
- per il cittadino europeo, al possesso di un documento d’identità valido per l’espatrio;
- per il suo familiare extracomunitario, al possesso del passaporto valido. Per questi
ultimi è anche richiesto il visto d’ingresso, quando previsto dalla normativa vigente. Il
visto non è richiesto nei casi in cui il familiare, non cittadino europeo, sia in possesso
della carta di soggiorno.
Il d.lgs. n. 32/2008 ha introdotto la possibilità, per il cittadino comunitario o il suo
familiare che abbia fatto ingresso in Italia, di dichiarare la propria presenza nel territorio
nazionale presso un ufficio di polizia. Tale adempimento non è obbligatorio e la sua mancanza,
peraltro, fa sorgere solo la presunzione giuridica di carattere relativo (che, quindi, ammette la
prova contraria) che il soggiorno venga protratto da oltre tre mesi.
L’art. 9 del d.lgs. n. 30/2007 stabilisce che al cittadino comunitario che intende
soggiornare in Italia, per un periodo superiore a tre mesi, si applica la legge n. 1228/1954, ed
il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, d.P.R. n. 223/1989. L’iscrizione
anagrafica è comunque richiesta al comune trascorsi tre mesi dall’ingresso ed è rilasciata
immediatamente un’attestazione contenente l’indicazione del nome e della dimora del
richiedente, nonché la data della richiesta. Per l’iscrizione, oltre l’ordinaria documentazione
prevista dalla normativa vigente per i cittadini italiani, è anche richiesta una documentazione
specifica secondo le condizioni cui è collegato il diritto di soggiorno.
Come chiarisce però la Circolare del Ministero dell’Interno n. 45, dell’8 agosto 2007,
prot. n. 200708014-15100/14865, “l’attestazione non è un documento che autorizza il
soggiorno, ma ha il diverso scopo di dimostrare l’avvenuto adempimento da parte del
cittadino comunitario, dell’obbligo d’iscriversi all’anagrafe, secondo le modalità indicate nel
decreto legislativo” cit.
Quanto all’allontanamento, il decreto legislativo distingue due cause principali:
- per motivi di sicurezza (artt. 20, 20-bis e 20-ter): i provvedimenti di allontanamento sono
adottati nel rispetto del principio della proporzionalità e non possono essere motivati da
ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che, comunque, devono
rappresentare una minaccia reale ed attuale tale da pregiudicare l’ordine pubblico e
la sicurezza pubblica. Tra le motivazioni da escludere sono comprese le ragioni di ordine
economico. La titolarità del potere di allontanamento è ripartita tra Ministro dell’Interno e
Prefetto a seconda delle fattispecie;
- per la perdita dei requisiti che consentono il soggiorno (art. 21): nell’adottare il
provvedimento si deve tener conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della
sua età, del suo stato di salute, della sua situazione familiare ed economica, della sua
integrazione sociale e culturale in Italia e dell’importanza dei suoi legami con il Paese di
origine. Per queste ipotesi di allontanamento il provvedimento non può prevedere un
divieto di reingresso.
7. Nozione di straniero in rapporto a quella di cittadino comunitario
Come si evince dal complesso delle norme su richiamate se pur brevemente,
innanzitutto, va operata una netta distinzione nella nozione di straniero che il nostro
ordinamento conosce, tra cittadino comunitario appartenente a uno Stato membro dell’Unione
europea e cittadino straniero appartenente ad un Stato extracomunitario.
Per effetto dell’interazione tra l’ordinamento comunitario e quello nazionale è fuor di
dubbio che anche se tale distinzione non è espressa in una specifica norma essa debba essere
considerata.
La cittadinanza comunitaria è infatti ormai un complemento della cittadinanza
nazionale, che non si sostituisce a quest’ultima ma conferisce diritti e tutele complementari
diverse da quelle legate alla nazionalità, da poter far valere in tutti i Paesi membri.
Nel cit. caso Rottmann, avanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’avvocato generale
M. Poiares Maduro confronta la nozione di cittadinanza nazionale con quella europea, nel senso
che:
- la prima viene intesa come “il nesso giuridico di diritto pubblico che unisce un individuo a
un determinato Stato” in quanto parte del popolo che in esso vive, determinando con il suo
acquisto per l’individuo un insieme di diritti e obblighi che connotano la sua “condizione
giuridica e politica” in quel paese; mentre
- la cittadinanza europea rinvia “allo status giuridico e politico riconosciuto ai cittadini di uno
Stato al di là della loro comunità politica nazionale”, essendo “cittadinanza interstatale, che
conferisce ai cittadini di uno Stato membro diritti negli altri Stati membri” e anche “nei
confronti della stessa Unione”.
In altri termini, per l’avvocato generale, la cittadinanza comunitaria si traduce in “una
cittadinanza al di là dello Stato”. Cittadinanza che, oltre ad aggiungere diritti ed obblighi
rispetto a quelli dati dalla cittadinanza nazionale, denota anche “l’esistenza di un collegamento
di natura politica tra i cittadini europei, anche se non si tratta di un rapporto di appartenenza
ad un popolo”. Il suo fondamento và infatti ricercato nell’ “impegno reciproco (degli Stati
membri) ad aprire le rispettive comunità politiche agli altri cittadini europei e a costruire una
nuova forma di solidarietà civica e politica su scala europea”.
Il fatto di essere concettualmente scissa dall’appartenenza ad un popolo (e quindi ad una
nazione) la rende un fenomeno giuridico nuovo. Tuttavia, non si pone in contrapposizione con
il concetto di cittadinanza nazionale, ma semmai sottolinea ancor più l’appartenenza ad uno dei
paesi membri. Dipendendo, infatti, dalla cittadinanza nazionale, non viene messa in
discussione l’appartenenza primaria alle comunità politiche nazionali, ma anzi viene
sottolineato che proprio grazie alla cittadinanza dei diversi Stati membri si acquisisce una
cittadinanza che non è determinata dalla nazionalità. Ecco dunque, secondo l’avvocato
generale, il “miracolo” della cittadinanza europea: “essa rafforza i legami che ci uniscono ai
nostri Stati (dato che siamo cittadini europei proprio in quanto siamo cittadini dei nostri Stati)
e, al contempo, ci emancipa (dato che ora siamo cittadini al di là dei nostri Stati)”.
In particolare il Trattato richiama il diritto di circolare e soggiornare liberamente, il
diritto di votare e di essere eletto per il Parlamento europeo, il dritto alla tutela diplomatica e
consolare; il diritto all’accesso dei documenti delle istituzioni e degli organi e organismi
dell’Unione, il diritto di rivolgersi al Mediatore europeo e quello di presentare petizioni al
Parlamento.
Per il progressivo allargamento delle competenze dell’Unione e per l’opera interpretativa
e creativa delle sue istituzioni in particolare della Corte di Giustizia, accanto ai diritti
espressamente previsti nei Trattati, sono state rilevate tuttavia una pluralità di situazioni
giuridiche soggettive connesse a quelle espressamente disciplinate spettanti ai cittadini
comunitari. In particolare le libertà di circolazione e soggiorno hanno acquisito una tale portata
generale, che ad esse sono state ricondotte una pluralità di situazioni giuridiche inaspettate
rispetto alla previsione iniziale.
Si pensi ad esempio alla sentenza del 14 ottobre 2008 della Corte di Giustizia, nel
procedimento C-353/06, Grunkin, in cui i giudici di Lussemburgo decidendo su un caso di
mancato riconoscimento, in uno Stato membro di cui un soggetto aveva l’unica cittadinanza,
del cognome acquisito da questo stesso nel diverso Stato membro di nascita e di residenza,
sono entrati in una materia (quella dei nomi) tradizionalmente riservata agli Stati, sostenendo
che “l’art. 18 del Trattato CE osta a che le Autorità di uno Stato membro, in applicazione del
diritto nazionale, rifiutino di riconoscere il cognome di un figlio così come esso è stato
determinato e registrato in un altro Stato membro in cui tale figlio - che, al pari dei genitori,
possiede solo la cittadinanza del primo Stato membro - è nato e risiede sin dalla nascita”.
Sebbene quindi le leggi che disciplinano il nome ed il cognome siano di esclusiva competenza
dei singoli Stati, questi in base al principio della prevalenza del diritto comunitario devono
disapplicare quelle norme che possano tradursi in una discriminazione per situazioni
giuridiche garantite dall’ordinamento comunitario.
Ed ancora si pensi all’allargamento delle competenze dell’Unione sulla base della non
discriminazione operato dalla Corte nel caso del doppio cognome nella nota sentenza 2 ottobre
2003, causa C-148/02, caso Garcia Avello, o per la deducibilità dell’assegno alimentare versato
all’ex moglie nella sentenza del 12 luglio 2005, causa 403/03, caso Schempp, o per la
pensione d’invalidità nella sentenza 22 maggio 2008, causa C-499/06, Nerkowska, solo per
citarne alcune.
8. Diritto di circolazione e soggiorno e divieto di matrimonio
Come abbiamo visto sopra l’innovazione apportata all’art. 116 c.c. comporta di fatto un
divieto di matrimonio per gli stranieri irregolari.
Più ragioni concorrono nel ritenere che questo non possa essere rivolto ai cittadini
comunitari.
In primis, se anche la direttiva consente provvedimenti nazionali volti a prevenire
matrimoni di comodo al fine di usufruire in frode della legge della libertà di circolazione,
evidentemente, poiché i cittadini comunitari possono circolare liberamente senza formalità,
salvo un documento d’identità o un passaporto valido, la norma non si rivolge a questi. Si deve
intendere, dunque, che il legislatore comunitario abbia lasciato, semmai, ai singoli Paesi
membri facoltà d’impedire solo matrimoni tra cittadini comunitari e ed extracomunitarii
irregolari e non tra comunitari tra loro.
In secundis, un divieto di matrimonio generalizzato rivolto anche ai cittadini comunitari
che non hanno adempiuto compiutamente alla normativa, dichiarando la propria presenza, si
tradurrebbe ad avviso di chi scrive in una misura sproporzionata, dissuadendo i cittadini
dell’Unione dall’esercitare il loro diritto alla libera circolazione nel nostro Paese. La norma
nazionale sarebbe quindi incompatibile con la direttiva che espressamente vieta sanzioni
sproporzionate, oltretutto riconoscendo che il diritto fondamentale e personale di soggiornare
in un altro Stato membro è conferito direttamente dal Trattato ai cittadini dell’Unione e non
dipende dall’aver completato le formalità amministrative.
In terzo luogo, se l’Italia applicasse la norma anche ai cittadini comunitari si potrebbe
sostenere che la misura non solo è discriminatoria (un cittadino Italiano che non ha più
residenza in Italia, potrebbe qui comunque sposarsi), ma violerebbe anche un diritto
fondamentale che quello del matrimonio come prescritto dalla Carta dei Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, ottenendo un effetto contrario a quello voluto dal legislatore
europeo, che la richiama nella direttiva e ora nel Trattato di Lisbona.
Infine, se la norma contenuta nel nuovo art. 116 c.c. si ritiene vada applicata anche ai
cittadini comunitari non italiani, oltre ad essere incompatibile con i Trattai e la direttiva, ad
avviso di chi scrive risulta di difficile applicazione pratica per questi essendo contraddittoria
rispetto alla stessa normativa nazionale d’applicazione.
Come ribadito da più relatori che mi hanno preceduto, l’ufficiale di stato civile, che ha
compiti diversi da quello dell’anagrafe, infatti, non avrebbe modo di controllare se
effettivamente il cittadino comunitario non italiano risiede regolarmente nel territorio. Nei primi
tre mesi il soggiorno non è certificabile ed anche in seguito, come chiarito dalla cit. Circolare
del Ministero dell’Interno n. 45, dell’8 agosto 2007, l’attestazione dell’avvenuta iscrizione
all’anagrafe non può essere intesa come il documento che autorizza il soggiorno. Così come
non è prescritto in alcuna norma, non avendo senso essendo fonte di mera presunzione, che
l’ufficiale possa pretendere l’esibizione della dichiarazione fatta presso ufficio di polizia in base
alla modifica apportata dal d.lgs. 32/2008. Inoltre, salvo i casi di allontanamento per ragioni di
pubblica sicurezza, non è previsto il divieto di reingrasso.
9. L’istituto della disapplicazione delle norme nazionali in conflitto con il diritto
comunitario.
In ragione di tutto quanto detto sopra, la norma contenuta nel nuovo art. 116 c.c. per
la parte in cui richiede allo straniero un documento attestante la regolarità del soggiorno,
dovrebbe essere applicata solo ai casi in cui il richiedente è uno straniero cittadino di un Paese
extracomunitario o un apolide.
A conforto di tale interpretazione si ricorda che, in base a consolidata giurisprudenza
della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia CE, sentenze 22 giugno 1989, causa 103/88, Fratelli
Costanzo; 12 luglio 1990, causa C-188/89, Foster; 5 febbraio 2004, causa C-157/02, Rieser
Internationale Transporte; nonché 7 settembre 2006, causa C-180/04, Vassallo), qualora ne
ricorrono i requisiti, in caso di conflitto, contraddizione od incompatibilità tra norme
comunitarie e norme nazionali, non solo i giudici nazionali, ma anche tutti gli organi
dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, come i comuni, sono tenuti
in base alla prevalenza comunitaria a disapplicare le seconde a favore delle prime.
10. Conclusione
L’ufficiale di stato civile in base a tale principio, ex art. 116 c.c., non dovrà fare altro
che constatare se si presenta uno straniero, se questo è cittadino europeo o meno. Nel
secondo caso applicherà la norma completamente richiedendo nulla osta e documentazione
attestante il soggiorno; nel primo si limiterà a richiedere il nulla osta.