EMOZIONI E MUSICA Cristina Meini Tutti saremmo disposti a scommettere che la musica emoziona, eppure i filosofi ne stanno dibattendo da qualche migliaia di anni. Come sempre, prima di tentare una risposta hanno bisogno di chiarirsi le domande, e questa volta a essere controverso è lo stesso punto di partenza: che cos’è un’emozione? Dallo stoicismo in avanti la posizione filosofica dominante è stata cognitivista. Nella sua versione più radicale, l’emozione viene assimilata a un pensiero valutativo che, diretto a un oggetto, gli attribuisce un valore: la paura (così come ogni altra emozione) è paura di qualcosa ed è legata a un pensiero, un giudizio: ho paura del cane ringhiante di fronte a me perché penso che il cane non sia affatto benevolo e mi voglia mordere. In questa prospettiva, quel sentimento così intimamente legato all’esperienza emotiva altro non sarebbe che l’effetto, la conseguenza del giudizio; e, naturalmente, le conseguenze non sono l’essenza di un fenomeno, ma solo un effetto collaterale. Già nel diciannovesimo secolo Eduard Hanslick aveva introdotto la prospettiva cognitivista nel dominio musicale. La musica, quando non sia sostenuta da elementi estrinseci e fuorvianti quali un testo, un titolo o un programma, non può rappresentare né pensieri né oggetti su cui i pensieri vertono. Non ha quindi il potere di rappresentare emozioni definite o, in altri termini, non ha un genuino contenuto espressivo. E’ pura forma, che può al più trasmettere quel “vago senso di movimento che al più può veicolare un senso di conforto o sconforto”. Numerosi filosofi della musica contemporanei restano sostanzialmente fedeli a questa intuizione, sforzandosi tuttavia di trovare uno spazio a quelle emozioni che così prepotentemente paiono affacciarsi all’ascolto. Il problema è chiaro: solo un ente animato (una persona adulta ma anche, si ritiene oggi, bambini e altri animali) è in grado di intrattenere pensieri e, quindi, di effettuare una valutazione. Eppure la musica non è un ente animato; dunque, come troviamo emozioni in qualcosa che non è in grado di farne esperienza? Anche limitandoci a considerare, con un drastico taglio temporale che certo non rende giustizia del pensiero passato, gli ultimi 50 anni dell’estetica musicale, il ventaglio di proposte pare straordinariamente ampio. Molti sono andati alla ricerca di qualcuno che possa fare una genuina esperienza emotiva: il compositore, il musicista o l’ascoltatore. Tuttavia, nonostante il suo indubbio appeal immediato, oggi pochi credono che la musica esprima sempre e senza significative eccezioni i sentimenti del compositore in preda all’atto creativo. Spesso, infatti, chi scrive musica tratta di emozioni che non sta davvero provando, perlomeno non per tutto il lungo tempo richiesto da una composizione. Ma soprattutto, che cosa accade se il suo tentativo di esprimere una determinata emozione fallisce? Se un compositore che intendeva scrivere un inno alla gioia riesce invece a esprimere malinconia, sembra plausibile affermare che la musica esprime davvero malinconia, del tutto indipendentemente dalle intenzioni iniziali. Analoghi problemi incontra l’idea che la musica esprima le emozioni del musicista. Se è vero che molti stili musicali lasciano grande spazio all’esecuzione e persino all’improvvisazione, i problemi discussi sopra si ripresentano inalterati. E se la musica portasse invece l’ascoltatore a prendere coscienza della propria vita interiore? Apparentemente funziona, ma ne siamo davvero convinti? Se l’ascolto fosse Cantabile.it Anno1,V,numero numero 23, OTTOBRE © responsabile TUTTI I DIRITTI SONORegistrazione RISERVATI n. 37 del 19 giugno 2009 presso il tribunale di Torino Cantabile.it -- Anno 1, settembre 2009.2014. Direttore Dino Aloi. davvero una sorta di psicoterapia, verosimilmente perderemmo di vista la musica nella fatica di seguire i moti del nostro animo. Al contrario, l’oggetto dell’attenzione sembra proprio essere il suono, il cui ascolto potrà poi, eventualmente, favorire una riflessione sui nostri pensieri e sentimenti, in un processo che va però tenuto distinto. E inoltre, dobbiamo davvero supporre che i bambini o le persone senza troppa familiarità con il proprio mondo interiore vivano la musica in modo così radicalmente diverso? E’ ovvio che vi sentono qualità diverse, ma dal punto di vista emotivo le esperienze potrebbero essere largamente sovrapponibili. Molti sostengono oggi una posizione radicalmente diversa: le emozioni sono proprietà che attribuiamo, in una sorta di illusione percettiva, alla forma della musica, del tutto indipendentemente dalla nostra eventuale e non scontata reazione emotiva. Pur non essendo un agente, e quindi non potendo fare alcuna esperienza, la musica “possiede” tristezza perché il suo contorno ne manifesta le proprietà cinetiche. Una musica che quindi, naturalmente, non prova emozioni, ma è espressiva di emozioni che l’ascoltatore coglie con immediatezza e dalle quali forse – ma qui il dibattito è accesissimo – lo contagiano. Eppure è difficile pensare che il contagio sia l’unico processo di genesi emotiva. Come Peter Kivy, il padre di queste teorie, ha giustamente sottolineato, la musica che rattrista non è quella che ha un profilo triste, ma la musica brutta. La tradizione romantica, sulla quale si è concentrata gran parte dell’attenzione musicologica e filosofica, sembra averci indotto in errore. Pur senza esprimere emozioni forti suscettibili di contagiarci, il perfetto equilibrio di tanta musica medievale e rinascimentale può procurare pura felicità. Noi ci fermiamo qui, non potendo far altro che suggerire punti di vista complessi. Due consigli di lettura per chi è interessato ad appprofondire: Alessandro Bertinetto (2012), Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, Milano, Bruno Mondadori e, per una raccolta antologica della letteratura internazionale, Domenica Lentini (2014), La musica e le emozioni, Milano, Mimesis. Cantabile.it - Anno V, numero 23, OTTOBRE 2014. © TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI