Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -1- Disabilità e cittadinanza Nazzareno Gaspari Parlare della disabilità dal punto di vista della cittadinanza significa riflettere su quanto e come la nostra società sia, nei fatti oltre che nei princìpi, a misura dei diritti delle persone con disabilità. Questo approccio pone la disabilità in relazione non solo ai compiti delle istituzioni e degli “addetti”, ma alla più generale responsabilità civica che ci coinvolge tutti in prima persona e in modo diretto; inoltre ci fa cogliere il tema nella prospettiva della sua evoluzione, mettendo in luce una dimensione essenziale del rapporto “Giovani-Disabilità” che è al centro di questo Convegno; infine, ci permette di apprezzare la lungimiranza e la portata dell’idea che vent’anni fa ispirò la nascita de I Nuovi Amici e che da allora alimenta l’attività dell’Associazione. La cittadinanza in senso stretto è l’istituto giuridico che fonda il rapporto di appartenenza di una persona ad uno Stato; più in generale, nel senso che qui ci interessa, è la partecipazione a pieno titolo – con pienezza di diritti e in condizioni di uguaglianza - ad una comunità nelle varie articolazioni e ai vari livelli: società, istituzioni, città, quartiere, vicinato ecc. . L’idea di cittadinanza è ciò che connette i diritti di ciascuno con i doveri di tutti gli altri; fuori di essa, e della sua comune consapevolezza, quei diritti restano in una sfera meramente declamatoria, formale. Nessuno è realmente cittadino in senso pieno se i suoi con-cittadini non lo riconoscono come tale e se non si comportano di conseguenza. La cittadinanza non è certamente un premio da doversi meritare, come incredibilmente si sente affermare da parte di autorevoli esponenti politici sostenitori di una visione inficiata dal pregiudizio ideologico e dalla propaganda contro gli immigrati. Non è neanche un’acquisizione da dare per scontata solo sulla base dei dati anagrafici. Essa designa il sistema dei diritti e dei doveri entro cui collochiamo la nostra vita personale e sociale, la reciprocità dei rapporti civili, etico-sociali, economici, politici. Parlando di disabilità, essere titolari di diritti è molto diverso dall’essere portatori di bisogni. poter partecipare è molto diverso dall’essere assistiti e tutelati. E’ molto diverso per tutti, non solo per le persone con disabilità: cambia radicalmente il senso e la portata dei reciproci doveri tra tutti i cittadini; i diritti si declinano infatti sul terreno della responsabilità generale, non solo su quello della solidarietà e della spontanea generosità. Più complessa è la definizione di disabilità: metterla in relazione alla cittadinanza ne comporta infatti una definizione del tutto nuova e per molti versi sconvolgente. La definizione più aggiornata e autorevole è quella contenuta nella Convenzione Internazionale per i diritti delle persone con disabilità, approvata dalle Nazioni Unite nel 2006, ratificata dal Parlamento italiano appena un anno fa - nel marzo 2009 - e dalla Unione Europea lo scorso novembre: “La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con le menomazioni e le barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società, su base di uguaglianza con gli altri”. E’ una definizione profondamente innovativa sotto vari aspetti: stabilisce che la disabilità non è un dato personale, ma il risultato di una interazione; dice che essa dipende non solo da come uno è, ma da come gli altri si comportano nei suoi confronti; libera la persona dalla sua identificazione con la disabilità ascrivendo quest’ultima alla relazione con gli altri; pone come termine di paragone non più un’astratta “normalità”, ma la piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza; afferma che quest’ultima può essere impedita, più che dalle condizioni personali, da barriere comportamentali oltre che ambientali. Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -2- Questa definizione di disabilità ci porta nel cuore del rapporto tra disabilità e cittadinanza: metterle in relazione significa verificare a che punto è il lungo processo che dall’esclusione e dalla marginalità deve portare le persone con disabilità all’inclusione, alla compiuta realizzazione della pari dignità, all’effettiva uguaglianza dei diritti; in una parola, appunto, alla piena cittadinanza. La legislazione del nostro Paese a favore dei disabili è considerata tra le più avanzate. Questo vale per quasi tutti i settori che interessano direttamente la disabilità: l’assistenza sanitaria, l’integrazione scolastica, il collocamento mirato, la tutela giudiziaria, il sistema integrato di interventi e servizi sociali, la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, il sostegno alle associazioni di volontariato. Anche sul terreno delle elaborazioni etico-culturali il nostro Paese ha avuto un ruolo di avanguardia; la stessa Convenzione Internazionale per i diritti delle persone con disabilità è il risultato di un lungo e complesso lavoro iniziato proprio su iniziativa dell’Italia più di vent’anni fa. Eppure le statistiche ci dicono che la disabilità è percepita dalla maggioranza delle persone come una delle cause più diffuse di negazione dei diritti; in Italia è una delle tre cause di discriminazione che nella percezione della gente va oltre il 50% ed è superiore di due punti alla media europea. Non solo: oggi il rischio per i disabili di pagare le conseguenze della crisi economica (in termini di perdita di posti di lavoro, riduzioni di tutele, minori sostegni al diritto all’istruzione ecc.) è pari al 300% della media generale, il triplo (fonte: Eurobarometro, novembre 2009). Nel Paese dunque dove è più avanzata la legislazione di promozione e tutela dei diritti dei disabili, la condizione di disabile è considerata tra le maggiori cause di svantaggio e di esclusione. C’è evidentemente qualcosa che non funziona. C’è un problema diffuso di cultura, di mentalità, di sensibilità. C’è un’Italia a due velocità: le punte avanzate della società civile e della politica non rappresentano tutto il Paese e non ne influenzano i comportamenti. Se questo è vero, si rende necessaria ed urgente una forte opera di sensibilizzazione, alla quale non a caso ci richiama il sottotitolo di questo Convegno: “sensibilizzare i giovani e la cittadinanza all’integrazione”. Abbiamo visto la definizione di disabilità che sta a fondamento della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. E’ questo il primo grande accordo sui diritti umani del terzo millennio; è il documento più autorevole (adottato da 192 Stati) ed il più avanzato, segna una svolta epocale nel modo di affrontare i temi della disabilità. La Convenzione si propone di “promuovere, proteggere e assicurare il pieno godimento e in condizioni di uguaglianza, di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità, promuovendo il rispetto della loro intrinseca dignità”. Essa introduce un modo del tutto nuovo di comprendere e considerare la disabilità: abbandona l’indirizzo tradizionale basato sulla risposta ai bisogni; pone al centro dell’attenzione la dimensione dei diritti; sostituisce alle politiche dell’assistenza le politiche dell’inclusione; indica nel cambiamento di atteggiamento nella società lo snodo fondamentale e necessario per consentire alle persone con disabilità di raggiungere la piena eguaglianza. Non rivendica nuovi diritti, non sollecita attenzioni o provvedimenti speciali. Si prefigge qualcosa che sembrerebbe persino scontato: assicurare alle persone con disabilità il pieno ed eguale godimento dei diritti di tutti; che scontato evidentemente non è. Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -3- In sostanza, ci obbliga a ripensare il problema ripartendo dalla domanda fondamentale: è il disabile un problema per la società, o è la società un problema per il disabile? La disabilità sta dentro la persona del disabile o sta nelle sue relazioni funzionali con l’esterno? Nella logica della Convenzione, gli interventi da promuovere a favore delle persone con disabilità non sono tanto e solo interventi sulle e per le persone con disabilità, quanto sull’ambiente in cui le persone vivono perché possano tutte inserirsi pienamente in esso e realizzare il meglio di sé, come tutti. L’approccio innovativo al tema della disabilità contenuto nella Convenzione ONU, e il riferimento fondante in essa contenuto alla “intrinseca dignità” delle persone con disabilità, ci porta a rileggere la nostra Costituzione Repubblicana. E’ noto infatti che, al contrario di altre Costituzioni come quella tedesca e la cosiddetta Carta di Nizza, la nostra Costituzione non mette espressamente la dignità della persona a fondamento della Repubblica, anteponendole il lavoro (art.1). Questo aspetto è stato oggetto anche recentemente di polemica da parte di autorevoli esponenti politici. Ma è esso un limite della nostra Costituzione? Tutt’altro: mostra quanto siano stati lungimiranti e moderni i nostri Padri Costituenti; d’altra parte non si potrebbe davvero credere che in una Costituzione ispirata nei suoi principi fondamentali al personalismo e al solidarismo possa essere assente il principio della dignità della persona. Il fatto – a lungo sottovalutato e invece di grande portata – è che nella nostra Costituzione la dignità della persona non viene affermata come principio generico e astratto, ma nella sua dimensione più concreta e impegnativa, quella della pari dignità tra tutte le persone. E’ la mirabile formulazione dell’art.3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Si noti: tutti i cittadini, prima di essere eguali davanti alla legge, hanno pari dignità sociale, che è molto di più dell’eguaglianza formale; pari dignità e eguaglianza, poi, non riguardano solo il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, ma anche le condizioni personali, ivi comprese ovviamente le condizioni di disabilità; infine rendere effettiva la pari dignità e l’eguaglianza è il primo compito che la Repubblica si dà. La dignità della persona non entra dunque nella nostra Costituzione in una prospettiva soggettivistica, solo come attributo aprioristico della persona, ma in una prospettiva eminentemente relazionale, sociale: è collegata col principio di eguaglianza; ha significato e riscontro concreto nella pienezza della cittadinanza, nella vita personale intesa come capacità e libertà di partecipazione alla vita sociale; va oltre la semplice, pur sacrosanta, ottica di “difesa” dell’individuo per porsi come principio su cui si fondano i rapporti sociali; comporta, oltre ad azioni passive di tutela, anche e soprattutto azioni positive di promozione dei diritti (rimuovere gli ostacoli, rendere effettiva ecc.). Potremmo interrogarci, ma non è questa la sede, sulle incongruenze e sulle strumentalizzazioni storicamente seguite all’affermazione generica e astratta, ancorché solenne, della dignità della persona umana. Ciò che interessa qui sottolineare è il fatto che la nostra Costituzione, ponendola invece come principio e fondamento della cittadinanza, fa coincidere la sua affermazione teorica con le implicazioni pratiche di ordine politico, sociale, economico e culturale necessarie a renderla effettivamente rispettata ad ogni livello. L’aver posto all’art.1 il lavoro a fondamento della Repubblica è l’altra faccia della stessa medaglia, l’affermazione emblematica del diritto di tutti ad un inserimento attivo nella vita Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -4- sociale, del diritto di tutti a vedere rimossi gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo e l’effettiva partecipazione… Questo ci dice dunque la Costituzione da oltre sessant’anni: la persona non è separabile dalle sue relazioni sociali; la sua realizzazione si sviluppa in un contesto relazionale e sociale, nella reciprocità dei rapporti, nel riconoscimento degli altri; la dignità della persona non è separabile dalla qualità delle sue relazioni e quindi dalla compiuta attuazione dei diritti di cittadinanza; non basta l’osservanza delle norme a garantire la dignità; è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di tutti in quanto cittadini, non solamente delle istituzioni o dei servizi delegati o del volontariato attivo. La dignità è indivisibile, è come l’aria: se è buona lo è per tutti, ugualmente se è malsana. Lo stesso vale per la cittadinanza. Quello che serve, per allargare l’assunzione di responsabilità fino a renderla comune a tutti, è una profonda e capillare opera di sensibilizzazione su questi temi. Cambiare mentalità vuol dire anzitutto avere consapevolezza delle parole che usiamo, soprattutto quando ci servono a identificare e definire gli altri. Il modo in cui ci rapportiamo ai disabili e comunichiamo con loro, il modo stesso in cui li chiamiamo, ne segna l’identità, la crescita, il futuro. Le definizioni che sottolineano la disabilità costituiscono una specie di marchio che, aldilà delle intenzioni, svaluta ed emargina chi ne è oggetto. Se ripensiamo ai diversi modi in cui abbiamo via via chiamato le persone con disabilità negli ultimi decenni, proviamo un sentimento contrastante: per un verso di compiacimento per i progressi che abbiamo fatto, ma per l’altro di vergogna per le ingiustizie che attraverso le parole abbiamo perpetrato. Abbiamo a lungo usato parole ingiuste e generatrici di ingiustizia. Un abisso etico e civile separa parole come anormalità, subnormalità, disadattamento, dalla definizione della Convenzione ONU che allarga il concetto di disabilità fino a contestualizzarlo come “il risultato dell’interazione tra le persone”. Si pensi all’ipocrisia (di cui non ci siamo ancora del tutto accorti, neanche nei documenti ufficiali) dell’uso di parole come handicap, originariamente indicativa nel linguaggio sportivo di un modo per mettere alla pari competitori di diversa potenzialità e diventata nel linguaggio comune esattamente il contrario, una qualifica per stigmatizzare la diversità dei livelli di arrivo come di quelli di partenza; o all’uso prolungato e compiaciuto delle definizioni negative: non vedente, non udente ecc.. Immaginiamo una società in cui tutti fossimo chiamati in base a ciò che non siamo, che non sappiamo fare, che non possiamo fare; è inconcepibile! Eppure abbiamo ritenuto a lungo questo criterio quello più appropriato per definire alcuni di noi, anzi l’abbiamo considerato quello meno offensivo, meno brutale…. Certo, queste e le altre definizioni un tempo in uso vanno inquadrate storicamente; sono frutto di precisi contesti socio-culturali e hanno segnato tappe evolutive del linguaggio a cui hanno storicamente corrisposto modi diversi e progressivi di trattare le persone con disabilità; ma dobbiamo superarne definitivamente i limiti e gli equivoci. Il cuore del problema terminologico è che nessuna definizione è giusta se sposta l’attenzione dall’interezza della persona ad una sua parte, ad un suo dettaglio. Il meccanismo non può essere quello di “fare la persona a pezzi”, separarne le caratteristiche, prendere la peggiore, la più discriminante, e farne la sua identità, la sua definizione. Da sempre incasellare le persone in categorie basate su aspetti particolari della loro identità (dal colore della pelle alla razza alla disabilità) ha costituito il modo di imprigionarle in tutto e per sempre in uno stereotipo discriminatorio; ed è stato il presupposto culturale e sociale dell’emarginazione, dell’esclusione, finanche della persecuzione. Nella prospettiva dell’inclusione e della piena cittadinanza, dobbiamo usare parole non solo rispettose, ma in grado di inserirsi in un orizzonte di senso positivo, di marcare l’identità della Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -5- persona nella sua integralità e non in una sua parte, nelle sue potenzialità e non nei suoi caratteri preclusivi. Nessuno può cambiare la natura della disabilità; tutti possiamo cambiare il modo di guardarla e di comportarci nei suoi confronti. Il primo dato della cittadinanza è il modo in cui tra noi ci riconosciamo e ci chiamiamo. La scelta delle parole influenza non solo il rapporto con le persone, ma anche l’identità stessa delle persone. E’ ampiamente dimostrato che l’immagine che una persona si forma di sé è fortemente influenzata dall’adattamento all’immagine di sé che proviene dagli altri. Trattare una persona sottolineandone una qualità negativa e irrimediabile finisce alla lunga con l’indurla a conformarsi pienamente ad essa, ad identificarsi con essa anche nei propri vissuti interiori, ad isterilire senza accorgersene altre qualità positive, a pensare il proprio futuro su quella base. Lessi una volta la testimonianza di un operatore (purtroppo non ne ricordo il nome) il quale raccontava di avere cominciato a porsi il problema della disabilità fin da ragazzino, quando faceva le stesse cose del suo amico Mirko ma si chiamavano in modo diverso: lui faceva ginnastica, Mirko faceva fisioterapia; lui faceva nuoto, Mirko faceva riabilitazione in acqua; lui cantava e suonava, Mirko faceva musicoterapia; lui si divertiva, Mirko si curava; ma facendo le stesse cose. Essere consapevoli di quanto siamo attraversati da pregiudizi e stereotipi, ci permette di evitare il rischio di rendere ingiusto il nostro modo di chiamare le persone e le cose; e di non precludere a nessuno il suo futuro possibile. Dobbiamo centrare le relazioni con gli altri sul riconoscimento delle persone nella loro integralità e sulla promozione dei comuni diritti; è all’interno di questa prospettiva che la stessa cura dei bisogni può valorizzarsi ed approdare nella compiuta realizzazione personale e sociale. Due concetti che sintetizzano bene questa esigenza sono quello di inclusione e quello, strettamente connesso, di partecipazione. Nell’ottica della cittadinanza, dobbiamo parlare della disabilità assumendo il punto di vista del noi; diventare e sentirci noi, condividere fino ad entrare in una dimensione esistenziale, etica, sociale responsabilmente vissuta al plurale; avere la consapevolezza che la disabilità è problema di tutti e non solo di alcuni; sapere che la presenza della diversità non solo sollecita i nostri sentimenti e la nostra generosità ma cambia la nostra vita personale e sociale. La prospettiva dell’inclusione segna il compimento del lungo processo storico che dal rifiuto ha portato via via alla marginalità, alla protezione, all’inserimento, all’integrazione, in un crescendo di giustizia che ha visto progressivamente ampliarsi la sfera dei diritti insieme all’ambito dei “facentesi carico”: dalla famiglia, alle opere caritative, alle strutture delegate, ai servizi sociali, alle istituzioni e oggi, nell’ottica della cittadinanza, alla responsabilità sociale diffusa. Sono passati appena poco più di trent’anni dallo smantellamento anche fisico di spazi e luoghi “dedicati”, luoghi di cura e protezione ma anche di isolamento ed emarginazione (abolizione delle classi differenziali 1977; legge “Basaglia” 1978); ma non basta abbattere muri e aprire porte; l’approdo della cittadinanza, quindi dell’inclusione e della responsabilità sociale diffusa, richiede l’abbattimento di barriere culturali e comportamentali. Occorre anche un salto di qualità della politica. E' necessario sviluppare politiche e stili di governo che inseriscano gli interventi sociali in una visione ampia di inclusione sociale, superando definitivamente la tradizionale ispirazione compensatoria e assistenziale. Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -6- Un utile esempio viene da quelle Amministrazioni locali che hanno iniziato a pensare e realizzare le politiche per le persone con disabilità all’interno delle politiche generali, rivolte a tutti i cittadini. Mantenere le politiche a favore dei disabili in capo ad un assessorato specifico, come generalmente si fa, può essere utile ma può anche essere improprio e limitativo. Mettersi nell’ottica delle politiche generali è un passo importante verso la realizzazione di un welfare della responsabilità condivisa, non delegabile solo a specifiche istituzioni e servizi; ed è un presupposto per l’inserimento effettivo di tutte le persone nel tessuto della vita sociale. Una vera politica sociale non può collocarsi nell’orizzonte limitato delle azioni specifiche a favore dei bisognosi, azioni irrimediabilmente settoriali ed elargitorie ancorché opportunamente mirate; deve proiettare programmi e azioni concrete sullo sviluppo globale della comunità, perseguire la qualità generale della vita e delle relazioni. Per dirla con uno slogan: non basta che la città sia attenta ai disabili; lo sarà veramente e concretamente quando vorrà essere a misura di tutti e si metterà alla prova in tutte le sue articolazioni e manifestazioni. E’ la via da sempre auspicata del superamento dell’assistenzialismo, del paternalismo, e anche degli alibi e delle strumentalizzazioni. Il disabile è un cittadino in difficoltà, certo, ma anzitutto un cittadino: con il diritto di tutti a non essere limitato da fattori esterni nella sua vita di relazione e a non essere additato come soggetto o oggetto di impedimenti particolari e di corrispondenti benefici particolari. Nella Dichiarazione di Lisbona (settembre 2007) giovani disabili rappresentanti delle maggiori associazioni europee vollero rivendicare questo diritto: “Non vogliamo simpatia; vogliamo essere rispettati come futuri adulti che andranno a vivere e a lavorare in un ambiente normale. (…) Dobbiamo rimuovere le barriere dentro di noi e dentro le altre persone senza disabilità. Dobbiamo andare oltre la nostra disabilità, e il mondo ci accetterà nel miglior modo possibile”. Un passo utile in questa direzione è stato tentato nell’ambito dei lavori di predisposizione della Agenda dell’Unione Europea per il 2020 (la cosiddetta “strategia post Lisbona”) in corso di approvazione in queste settimane; l'Intergruppo sulla disabilità del Parlamento Europeo e l'European Disability Forum hanno formalmente chiesto di inserire nella sezione dell’Agenda riguardante la “crescita inclusiva” l’adozione di un “Patto sulla disabilità”, contenente obiettivi concreti e misurabili oltre ad iniziative specifiche in favore dell'integrazione dei disabili in tutta l’area UE. Il documento base predisposto dalla Commissione Europea (3 marzo 2010) sembra tuttavia porsi in una prospettiva più limitata, non andando oltre il generico impegno ad “elaborare e attuare programmi volti a promuovere l'innovazione sociale per le categorie più vulnerabili (…) e a combattere la discriminazione ad esempio nei confronti dei disabili”. Ma tutto questo discorso sulla cittadinanza, sull’uguaglianza, sui diritti e sulla partecipazione si scontra con una obiezione molto diffusa, dai contorni capziosi, che non si può eludere: come possiamo considerarci uguali se uguali non siamo? Non è fuorviante e alla fine ingiusto fare finta che siamo tutti uguali quando non è vero? Cosa ci fa affermare che un disabile è uguale a tutti gli altri? Una risposta la dà la fede: ogni persona riceve la vita e la dignità da Dio, e questo la rende uguale a tutti gli altri. Un’altra risposta, sostanzialmente analoga nelle implicazioni pratiche, la dà la filosofia: ogni persona ha dignità e diritti non in misura di ciò che è, o di ciò che sa fare, ma in quanto persona, e come tale è uguale a tutti gli altri. Convegno “Giovani e Disabilità” - Macerata, 10 aprile 2010 -7- Ma c’è anche un’altra risposta: siamo tutti uguali proprio perché siamo tutti diversi, tutti diversamente abili, tutti disabili; cambia per ognuno l’ambito e il grado delle abilità e delle disabilità, ma tutti siamo diversamente abili. Lo affermò con straordinaria efficacia, mostrandosi egli stesso disabile davanti al mondo, Giovanni Paolo II: “le persone disabili svelano la radicale fragilità della condizione umana” (8 gennaio 2004). E aggiunse tra l’altro: “riconoscendo e promovendo la loro dignità e i loro diritti, noi riconosciamo e promoviamo la dignità e i diritti nostri, di ciascuno di noi”. La fragilità è costitutiva della natura umana. Tutti portiamo il fardello di limiti e inadeguatezze; tutti però portiamo anche la responsabilità di liberare noi stessi e gli altri dagli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 della Costituzione) e “la piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza” (Convenzione ONU). E’ all’esercizio di questa responsabilità, alla sua qualità e alla sua ampiezza, che è legata la speranza di una società migliore per tutti. Circa dieci anni fa, Giuseppe Pontiggia volle intitolare il suo romanzo autobiografico sul rapporto con il figlio disabile “Nati due volte”. Metafora stupenda quella della ri-nascita, tanto da essere stata usata anche da Gesù nella risposta a Nicodemo: «In verità ti dico, se uno non rinasce di nuovo (o dall’alto) non può vedere il regno di Dio» (Giovanni 3,3). Si nasce due volte. La prima nascita può non essere fortunata; può essere persino uno scherzo della natura. Ma ci deve essere una seconda nascita, che non dipende dalla natura, non dipende dalle leggi, non dipende dalle istituzioni, non dipende del tutto neanche dai ritrovati medici e scientifici: dipende da noi, da ciascuno di noi, dalla nostra volontà e capacità di abbattere ogni barriera culturale e comportamentale, oltre che fisica. E’ il motivo per cui siamo qui; è il motivo per cui rendiamo omaggio e gratitudine a I Nuovi Amici per i 20 anni e oltre della loro attività e della loro testimonianza; e per cui ripartiamo da qui con una consapevolezza e un impegno più grandi, perché tutti – tutti – abbiamo bisogno di superare insieme agli altri i limiti che ciascuno di noi ha e di rafforzare insieme agli altri le risorse di umanità sulle quali ciascuno di noi può contare. Nazzareno Gaspari