MODULO 3. Chi aiutare, come aiutare. 3.1 Tipologie differenti di risposte in campo. Il povero meritevole e l’etica del lavoro. Le politiche del pauperismo, sino ai prima anni del ‘900, tendono alla eliminazione dei poveri, mai della povertà e, i poveri, continuano ad essere distinti tra poveri buoni o meritevoli, poveri oziosi o vagabondi, falsi poveri. Anche perché, a seguito della peste bubbonica e la contrazione di un terzo della popolazione europea (XIV sec.), erano state promulgate degli editti che obbligavano gli uomini abili ad accettare qualsiasi occupazione, proibendo nel contempo le elemosine ai mendicanti abili. Questi ultimi sono ritenuti un pericolo sociale, fonte di contagio, fautori di disordini. L’arresto, l’internamento, la deportazione nelle colonie sono state le soluzioni più diffuse. Si ricorda la repressione durante il regno di Enrico VIII quando ben 72.000 mendicanti furono giustiziati. Infatti, a causa della rottura con la Chiesa di Roma e la confisca dei beni, si assiste all’aumento del pauperismo perché le Diocesi, rimaste senza mezzi, non riescono a far fronte ai bisogni di assistenza. Così che le parole del Vangelo “tutte le volte che avete fatto qualcosa a uno di quei minimi tra i miei fratelli, l’avete fatto a me” vengono riferite ai soli poveri buoni. E’ questa una contraddizione stridente della società cristiana per la dilaniante ambivalenza di un sentire comune che identifica, da un parte, il Cristo nel povero, dall’altra, è portato a considerare il povero un paria, un fuorilegge da rigettare nella famiglia del diavolo in quanto “uom ch’è truante col diavol s’afferra”. La povertà è una costante, una esperienza quotidiana per larghe masse di popolazione ovunque (e tutt’ora) Charles Booth (1889-1903, Vita e lavoro della popolazione di Londra)6 e Seebohm Rowtree (Povertà e progresso, N.Y 1900) stimano nei loro studi che ¼ della popolazione è povera, al di sotto della mera sussistenza. Ma la povertà era considerata indice di debolezza di carattere o di indolenza, punizione della incapacità individuale, dovuta a cause ereditarie come l’alcolismo o addirittura frutto di degenerazione morale. Nei paesi a cultura protestante il giudizio è ancora più duro perché al “fallito” si contrappone il mito dell’uomo capace, frugale e responsabile, che costruisce per sé e per il bene comune, il cui successo è una delle manifestazioni della Grazia. Per i calvinisti le opere confermano la Grazia, rappresentano la conferma della predestinazione, mentre per i cattolici la Grazia è la conseguenza delle opere. Perciò nei paesi protestanti, il puritanesimo conduce a disprezzare i disgraziati e i disoccupati. Non a caso viene rifiutato il soccorso a chi si rifiutava di entrare nelle workhouse sostituendo al denaro, come fonte di assistenza, il lavoro (Workhouse Act, 1697). Con la doppia utilità: da un lato, la riduzione delle poor rate e, dall’altro, essendo i poveri un forte potenziale della produttività, il giusto modo di contrastare la nascente 6 Si tratta di un lavoro di Survey enorme, pubblicato in 17 volumi. Su 4.076 casi analizzati la povertà è causata per il 62% da un salario basso o irregolare, il 23% da una famiglia numerosa o per malattia, e il 15% era dovuta all’abuso di alcol. 28 concorrenza commerciale degli Olandesi. Anche perché le workhouses erano spesso gestite da imprenditori privati, che prendevano in appalto le strutture obbligandosi al mantenimento degli assistiti in cambio dell’utilizzo del loro lavoro. Le cause sociali della povertà, la necessità di rimuoverla attraverso riforme sociali furono una intuizione dei nascenti studi sociologici che si accompagnavano al fenomeno dell’urbanesimo indotto dalla industrializzazione. Occorre poi sottolineare come, nei sistemi economici industrializzati, i poveri tendano a scomparire trasformandosi in disoccupati, forza lavoro disponibile. Ossia quella riserva di forza lavoro da cui dipende la prosperità dell’industria. I poveri validi in grado di lavorare sono utili alla formazione della ricchezza, i poveri malati invece sono considerati parassiti, consumatori di ricchezza. Per questi motivi si apre in Inghilterra, intorno al 1830, un vasto dibattito sulla opportunità che l’assistenza debba continuare ad essere un dovere sociale, oppure se non debba essere lasciata all’iniziativa privata, alla relazione interpersonale tra uomo e uomo. Politica del laissez faire. Nel 1832 la Poor Law, ma soprattutto l’introduzione del 1795 dello speenhamland,7 che prescrive un assegno integrativo del sussidio, il cui ammontare è determinato dal costo del pane e dal carico familiare (oggi si direbbe una specie di scala mobile), viene considerata un ostacolo per l’espansione industriale, perché induce all’ozio e ai matrimoni sconsiderati, uno stimolo all’aumento della popolazione. A favore di questa tesi troviamo allineati gli economisti classici, a partire da Adam Smith, Jeremy Bentham e soprattutto Thomas Malthus2 con il suo Saggio sulla popolazione (1798). In esso sostiene che mentre la produzione alimentare cresce con progressione aritmetica, la popolazione cresce con progressione geometrica. Lo Speenhamland, basato sul carico familiare, era dunque un incoraggiamento ad avere più figli e causa indiretta dell’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dell’ulteriore impoverimento della classe lavoratrice. Viene promulgata la New Poor Law (1834) che, eliminando il soccorso integrativo colpevole di aver prodotto la categoria sociale dei poveri permanenti, introduce il principio della minor desiderabilità. Di fatto l’assistenza veniva concessa in un ammontare così basso e in modo così sprezzante da rendere la condizione del percettore meno accettabile di quella del lavoratore peggio pagato della comunità. Con il Poor Law Emendement Act l’assistenza dei poveri viene trasferita dalle parrocchie allo Stato e abolito il “domicilio di soccorso” -introdotto nel 1662 con L’Act of Settlement-, che se era stato particolarmente utile alla borghesia fondiaria perché aveva impedito lo spopolamento della campagne, ora è considerato dalla borghesia industriale uno strumento limitante il mercato del lavoro e la produzione industriale. In questi stessi anni in Europa si registra una esplosione demografica; tra il 1800-1850 la popolazione cresce da 187 a 266 milioni. In Inghilterra tra il 1801 e il 1821 gli 7 Introdotto a seguito di una Conferenza di overseers della Poore Law, non più nominati dai Giudici di Pace ma eletti e tra i quali troviamo anche donne, che ha luogo nella località di Speenhamland nel Berkeshire e successivamente ratificata dal Parlamento. 2 Smith Adam,1723-1790, economista e filosofo scozzese; Jeremy Bentham,1748-1832, filosofo e teorico dell’utilitarismo per il quale utilità corrisponde a benessere che, a sua volta. è uguale a bene; Thomas Malthus, 1766-1834, teologo e sostenitore della pericolosità sociale insita nell’incontrollato incremento demografico. 29 abitanti crescono da 8,5 milioni a 11 milioni, di conseguenza viene incoraggiata l’emigrazione transoceanica sotto forma di sussidi per pagare il viaggio. In Italia, lo stesso Cavour, e con lui lo Stato unitario, definisce le opere pie “carità legale”, ritenendo sufficiente per lo Stato una funzione di vigilanza rispetto le Opere Pie. Già nello Stato Sabaudo le spese per l’assistenza nel 1839-1849 toccavano a mala pena l’1% della spesa pubblica; nel 1850-1859 scendono allo 0,5% a causa dello sforzo bellico e delle spese militari, mentre nel ducato di Parma ammontano al 2,3%. I poveri validi sono dunque dei disoccupati, quella sovrapopolazione che rappresenta il necessario volano di mano d’opera disponibile 3 . La mobilità è un valore, la povertà un “malessere morale” della società, da contenersi attraverso i provvedimenti di pubblica sicurezza, la repressione. Già nel 1716 Vittorio Amedeo II aveva emanato un editto in cui si auspica che per bandire la mendicità dai propri Stati e vietare l’accattonaggio si abbia “lo stabilirsi in ogni luogo un numero ragguardevole di ospizi per il ritiro dei mendicanti, o almeno di Congregazioni di carità per il soccorso dei bisognosi”. E, nel 1728, sempre in tema di diversificazione dell’assistenza, dona alla Confraternita del S.Sudario un terreno perché vi fondassero un ospedale dei pazzi. E, i confratelli con grande modernità di vedute, chiedono che “Sua Maestà si compiaccia di decretare che la Confraternita non fosse tenuta a dare ricovero a nessun mentecatto senza previa dichiarazione di un medico che lo riconosca per tale”. Nel 1827 (Carlo Felice) per oziosi e sospetti vagabondi si prevede la reclusione sino ad un anno; nel 1839 scontata la pena (portata da 6 mesi a 3 anni) è previsto il domicilio obbligatorio nel paese di origine; nel 1859-’71 lo Stato unitario stabilisce ammonizioni e domicilio obbligato estese anche agli anarchici e ai socialisti. Questa durezza è mitigata dalla presenza in Torino, capitale del Regno Sabaudo, dalla presenza dei Santi sociali: San Giuseppe Cottolengo (1785-1842), San Giuseppe Cafasso ( 1811-1860), San Giovanni Bosco (1815-1888). Altra presenza caritativa del laicato è quella di Giulia Falletti di Barolo, nata Colbert (1785-1864), che rivolge la sua attenzione alle donne carcerate per migliorarne le condizioni di vita, a partire da un trattamento più umano e un maggior rispetto alle esigenze dell’igiene. Per migliorane l’esistenza morale e coinvolgerle in un reale processo di recupero provvede attraverso l’istruzione religiosa che impartisce essa stessa nelle lunghe ore che passa nel carcere e con il lavoro, preoccupandosi anche della vendita dei relativi manufatti. Con un Dispaccio Ministeriale nel 1821 viene messo a disposizione della Marchesa il carcere delle Forzate perché lo riorganizzasse come meglio riteneva. Alle Forzate trasferisce le detenute di altre tre carceri, chiama da Chambery le suore di San Giuseppe per organizzare un Istituto di pena modello, il cui regolamento interno viene discusso punto per punto con le detenute. Crea successivamente l’Istituto del Rifugio per assistere le ex detenute, aperto anche alle donne “traviate e penitenti”, con accesso solo volontario. Le opere della Marchesa sono numerose, tutte a cascata, mano mano che se ne rivelava l’esigenza, tanto che 1856 con un testamento segreto -approvato con Regio Decreto nel 1864 dopo la sua morte- istituisce l’Opera Pia Barolo. Scopo dell’istituzione sono la 3 Suddivisa in: fluttuante, ossia i respinti dai centri industriali, la disoccupazione vera e propria; latente, la disoccupazione nascosta nelle attività precapitalistiche (agricoltura, artigianato); stagnante, ossia il lavoro nero. 30 carità, la beneficenza e l’istruzione alla luce di un forte senso cattolico, che viene perequato attraverso una Presidenza, retta per trienni alterni dall’arcivescovo di Torino e dal Presidente della Corte di Appello. I consiglieri, sempre rieleggibili, vengono nominati due dal Presidente entrante e quattro da quello uscente. Con l’Unità interviene la legge Rattazzi (1862) “Sulla amministrazione delle Opere Pie” al fine di disciplinare tutti quegli ”Istituti di Carità e beneficenza e qualsiasi Ente Morale avente in tutto o in parte per fine di soccorrere le classi meno agiate, tanto in stato di sanità che malattia, di prestare loro assistenza, educarle, istruirle e avviarle a qualche professione, arte o mestiere”. Vengono inoltre estese in ogni comune, sul modello piemontese, le Congregazioni di Carità -sorte in seguito all’editto di Vittorio Amedeo II- che hanno il compito di gestire e amministrare l’assistenza. Successivamente trasformate nel 1937 in ECA (Enti Comunali di Assistenza). E’ di questo periodo (1865 circa) che viene elaborata una struttura legislativa molto articolata con istituzioni e competenze estremamente coerenti fra loro che è rimasta praticamente intoccata sino agli anni più recenti. Tra i primi provvedimento si deve ricordare la legge che rende obbligatorie le seguenti spese: • per i Comuni, il servizio dei medici, dei chirurghi, delle ostetriche esclusivamente rivolto ai poveri. • Per le Province. il mantenimento dei mentecatti (mente captus) • Per entrambi, gli esposti (neonati abbandonati dai genitori). Ma se la povertà era un fenomeno diffuso, ugualmente diffusa la frugalità. Nel 1884 un collegio maschile di Casalmaggiore in provincia di Cremona, di buon livello riservato ai figli della borghesia e la cui retta ammontava a 360 lire annue, era reclamizzato dando rilievo al vitto offerto: Prima colazione: latte, caffèlatte, zuppa Refezione di mezzogiorno e della sera: pane o polenta con formaggio, pane e frutta, pane e salame, insalata, ed uova, vino. Domenica: minestra abbondante e due bicchieri di vino, due pietanze.4 Crispi, al potere dal 1887, apprezza il sistema tedesco di previdenza sociale introdotto da Bismark, esprimendo la necessità ormai improrogabile di un intervento dello Stato a garanzia dell’ordine sociale. Anche perché le Società di mutuo soccorso, sino ad allora sostenute e favorite dallo Stato e dagli imprenditori in quanto giustificavano il disimpegno assistenziale contenendo autonomamente la soglia dei bisogni per lo meno tra alcune classi sociali, con l’influenza dell’ideologia marxista (la Prima Internazionale è del 1864) assumono, via via, un carattere politico e sindacale preoccupante. (Verranno soppresse dallo Stato fascista). “Io non riconosco la teoria del diritto al lavoro, causa di molti errori e di molte perturbazioni morali nell’Europa attuale. Io non riconosco che il dovere al lavoro. La questione sociale batte alle porte del mondo nuovo. Ciò investe questioni complesse, dalla cui soluzione dipenderà la fine del socialismo. La legge che discutiamo è anch’essa di quelle che appunto ci avvieranno alla soluzione del problema sociale.” (stralcio della relazione di Crispi riguardante la Legge n° 6972 del 17 luglio 1890 “Sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza - IPAB”)5 4 5 in: Elisa Cavallero, “I Malnutrì”, Daniela Piazza ed, Torino 2005 in: P. Ferrario “Politica dei servizi sociali”, Ed. NIS, Roma 1988 31 Con tale legge le Opere Pie e ogni altro ente morale che abbia come fine l’ assistenza ai poveri o l’educazione, l’avviamento professionale, il miglioramento morale ed economico, sono trasformate in Istituzioni Pubbliche di Beneficenza, sottratte alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche, amministrate da autorità civili e sottoposte al controllo dei Prefetti. Ad esempio a Milano su proposta di Ersilia Majno (1859-1933) una tra le fondatricì dell’Unione femminile, il Comune nomina le Delegate di Beneficenza che hanno il compito di effettuare visite, analizzare i bisogni, approfondire proposte, formulare cambiamenti perchè le IPAB “sono organismi logori funzionanti con un indirizzo che non è nè equo né razionale e che non corrisponde ai bisogni dei nostri ospiti” (E.Majno) Per i Governi che si succedono, il timore del socialismo fa sì che Sanità, Servizi, Pubblica Amministrazione, Istituzioni benefiche diventino oggetto di una particolare attenzione. La correlazione sempre più stretta tra questi spazi di intervento statale e il mantenimento della stabilità politica, rendono urgenti e pressanti la ricerca di nuovi strumenti di controllo sociale. Le vicende delle IPAB, che gruppi di tendenza liberale e la Chiesa accusano nel momento stesso della loro istituzione di avere espropriato i beni delle Opere Pie mutandone il fine originario, si trascinano nel tempo e sono emblematiche delle contrapposizioni che, rispetto le politiche sociali, di volta in volta si affacciano nel nostro paese . 1862 - La legge 753 (Rattazzi) definisce e regolamenta le Opere Pie conservandole. 1890 - La legge Crispi trasforma le Opere Pie in Istituzioni Pubbliche di Beneficenza, sottoposte a vigilanza prefettizia. 1968 - La Legge 132 di riforma ospedaliera sopprime le IPAB che gestiscono gli ospedali. 1977 - Il DPR 616, all’art. 25, scioglie le IPAB interne alle Regioni, con il passaggio di patrimoni e personale ai Comuni, con eccezione delle IPAB di carattere educativoreligioso. 1981-1988 - Resistenza delle IPAB alla soppressione. La Corte Costituzionale dichiara lo scioglimento lesivo della autonomia privata. 1990 - DPCM del 16/2 autorizza la conversione delle IPAB esistenti in Enti privati se hanno rendite da patrimoni e prevalenza di lavoro remunerato. Restano dunque in Italia 4226 IPAB, concentrate per il 60% al nord. Gestiscono circa 1000 istituzioni di ricovero per anziani e strutture per minori. Le risorse derivano per il 44% dal settore pubblico, per il 30% da utenti, per l’8,5% da rendite e cessioni. Sarà la legge 328/2000 e il successivo Dlgs 207/01 ad autorizzare le Regioni a trasformare le IPAB, che hanno soglie adeguate di risorse patrimoniali e operative, in Aziende Pubbliche di servizi alla persona; le restanti verranno privatizzate. 32 L’ozio però continua ad essere una parola sospetta, il povero ozioso è passibile distigma. Per contro al lavoro vengono attribuiti effetti positivi taumaturgici. Il modello fordista 6 sarà a lungo lo schema interpretativo delle politiche nei confronti della fasce deboli. Secondo molti sociologi solo chi lavora riesce a socializzare, maturare, affrancarsi. Secondo alcune religioni solo chi lavora riesce a riscattarsi dal peccato originale e meritare il paradiso. “Noi viviamo nell’epoca in cui la gente è così laboriosa da diventare stupida” (O.Wilde) Se il potere, ha come base il consenso, la proprietà ha come base il lavoro. E’ con il lavoro che l’individuo può appropriarsi dei frutti della natura, è il lavoro che nel 95% dei casi aggiunge valore economico alle materie prime. Non a caso la lezione di Adam Smith contenuta nel saggio “La ricchezza delle nazioni” (1776) ha raccolto vasti consensi in tutta Europa. Viene sancito definitivamente il primato dell’industria sull’agricoltura, dell’interesse e del plusvalore sulla rendita, della moneta sul baratto, dell’egoismo sulla carità. “Non dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione del proprio interesse personale”. Anche Crispi nella sua relazione al Parlamento relativa al disegno di legge sulla istituzione delle IPAB diceva “…Io non riconosco la teoria del diritto al lavoro causa di molti errori e molte perturbazioni in Europa. Io non riconosco che il dovere al lavoro…” Di qui “l’etica del lavoro”, la pratica separata dall’etica. Eppure sino all’avvento dell’industria la parte alta della piramide sociale non lavorava. I principi occupavano il tempo di pace con la caccia, i tornei, il piacere estetico. Il prestigio derivava dal lignaggio. Anche i servi della gleba lavoravano solo stagionalmente per sopravvivere. Con l’industria i tempi e i luoghi del lavoro non dipendono più dalla natura ma dalle regole dell’imprenditore, dai ritmi della macchina. Il lavoro diventa fatica, assillo. Quando c’è deforma muscoli e cervello. Quando non c’è, trasforma i disoccupati in “stracci al vento” (C. Marx ). Il lavoro diventa un valore in sé , ideologizzato, un dovere verso dio, la patria, con effetto liberatore nobilitante santificante indipendentemente dalla remunerazione. E’ anche di questa fase economica, la codifica della separazione del maschile dal femminile. 7 Con l’industrializzazione il lavoro esce dalle case; l’industria porta a una spinta razionalizzatrice e, razionalizzare significa che tutto ciò che è positivo attiene alla sfera quantitativa, ossia maschile. Tutto ciò che è maschile attiene alla produzione e si celebra nei luoghi di lavoro. Peculiare forma di produzione adottata da Henry Ford (1863-1947) basata sull’adozione della catena di montaggio, tecnologia tesa ad ottimizzare il lavoro degli operai e ridurre i tempi necessari all’assemblaggio di un manufatto complesso, aumentando così produttività e profitto. Peculiare forma di produzione adottata da Henry Ford (1863-1947) basata sull’adozione della catena di montaggio, tecnologia tesa ad ottimizzare il lavoro degli operai e ridurre i tempi necessari all’assemblaggio di un manufatto complesso, aumentando così produttività e profitto. 7 D.Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società post industriale, Rizzoli. Milano 1999 33 6 Tutto ciò che è negativo attiene alla sfera emotiva, ossia femminile. Tutto ciò che è femminile riguarda la riproduzione che si consuma nell’universo domestico. Casa e azienda, vita e lavoro, universo maschile e femminile, mondo degli affetti e mondo della razionalità, pratica e etica sono sfere che, d’ora in poi, saranno sempre più separate e distinte. 3.2 I principi e i valori: l’evoluzione correlata alle dinamiche sociali. La cancellazione, la trasformazione del povero in disoccupato segna anche lo spartiacque tra l’accettazione della diseguaglianza e l’affermazione del principio di uguaglianza. La diseguaglianza è una componente implicita delle società statiche in cui i ruoli sono immutabili (servo, padrone, istruito, incolto) mentre, nella società industriale che spezza i vincoli di residenza e di status favorendo così la mobilità sociale dove chiunque, almeno potenzialmente, può ricoprire qualsiasi ruolo, il principio di uguaglianza si afferma progressivamente. Passando dalla mera enunciazione dei diritti (Dichiarazione di indipendenza americana, 1776 (“equal station” …Noi riteniamo che sono per se stessi evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal creatore di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità… ) alla loro traduzione giuridica (abolizione dei fori separati per nobili, ecclesiastici) e politica (allargamento della base elettorale). Solo nel tardo ‘800, primi anni del ‘900, ha luogo anche la traduzione pratica del principio di uguaglianza, attraverso lo “Stato sociale” tramite le politiche di: scolarizzazione di massa (lotta all’analfabetismo). Nel 1861 in Italia, ad esempio, gli iscritti alla scuola elementare erano appena il 17,2% della popolazione; nel 1881 gli analfabeti raggiungevano l’84% della popolazione (59% al centro-sud); nel 1951 gli analfabeti sono ancora il 24% nel mezzogiorno, il 6% nel resto del paese.8 L’istruzione obbligatoria sino a 9 anni di età viene introdotta nel 1877 dal Ministro Michele Coppino (1822-1901). Ai bambini dovevano essere impartite le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana dell’aritmetica e del sistema metrico. Legislazione sociale, di carattere previdenziale con le assicurazioni sociali obbligatorie (malattia, invalidità, vecchiaia, ecc.) Lotta strutturale alla povertà. Inchieste parlamentari; sanità pubblica; difesa dei minori. 8 Nella ricerca, Vittoria Gallina, Letteratismo e abilità per la vita, Armando Ed., 2006 si rileva che il 5% degli italiani non riconosce l’una dall’altra né le lettere né i numeri, il 38% legge con difficoltà, il 33% ha poca capacità di lettura e scrittura e solo il 20% ha strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Del resto l’indagine multicentrica dell’ISTAT (2006) denuncia che il 37% della popolazione dai 6 anni in su non ha letto neanche un libro negli ultimi 12 mesi. 34 Molto più tardi, con lo “Stato solidale” si afferma il principio della solidarietà che prevede la tutela della salute, la salubrità ambientale, l’edilizia residenziale pubblica, la cultura, lo sport. I primi esempi di Stato solidale si incontrano nel 1933-38 con il New Deal (nuovo corso). E’ il Presidente Roosvelt che, per contrastare le gravi situazioni di povertà derivanti dalla depressione economica (7), assume come filosofia delle sue scelte il pensiero di Hugh Johnson (1935) “Confidiamo nel principio secondo cui molti uomini che possiedono poco costituiscono un mercato assai migliore di quello costituito da un solo uomo che possiede tanto e da tutti gli altri che non hanno niente.” Eletto nel 1932 inaugura un nuovo rapporto tra Governo ed economia, attraverso una politica di: Potenziamento dei lavori pubblici e infrastrutture per contrastare la disoccupazione e disincentivare i sussidi; Sostegno all’agricoltura attraverso prestiti governativi; Interventi assistenziali. Promuove così il “Social Security Act” e il “Social Security Board” che introducono per la prima volta sia un sistema di assicurazioni sulla vecchiaia e l’invalidità. Un passaggio nodale dal laissez faire imperante del liberismo americano all’interventismo statale. Inaugura anche un nuovo rapporto tra Governo e cittadini attraverso l’ inusuale forma di comunicazione via Radio “I discorsi del caminetto”. Gli operatori sociali statunitensi, coinvolti nei programmi contro la depressione, hanno dovuto cimentarsi in una diversa approfondita riflessione circa la natura e il ruolo della professione. Il social worker, sino ad allora, era stato un “agente” delle classi medie o della filantropia religiosa, spesso un volontario. Si identificava con i finanziatori, non con i destinatari, anche se ne sposava la causa quando si batteva per qualche riforma o per qualche specifico intervento. Nel New Deal maturano aspirazioni orientate in senso professionale, in parte volte a un servizio migliore, in parte a uno status personale migliore. Gli Enti sorti per soccorrere la popolazione ferita dalla grande depressione e, in seguito, i grandi Enti federali di assistenza attraggono gran numero di operatori interessati sia al miglioramento della propria condizione lavorativa che dalla sicurezza del posto di lavoro. Questi assistenti sociali vedevano se stessi principalmente e correttamente come degli amministratori pubblici in prima linea, anche se avevano una diversa prospettiva rispetto ad altri funzionari, perchè si sentivano vicino ai loro clienti e alle loro sventure. La linea principale di sviluppo della loro riflessione non era solo la crescita delle assicurazioni sociali, ma qualche cosa di più generale e di portata più ampia: l’affermazione di una responsabilità pubblica, ossia di una responsabilità della comunità, di un aiuto come risposta a un diritto democratico del cittadino in situazione di bisogno e di una azione di casework accanto alla prestazione in denaro. La politica di Roosvelt viene sospesa con la ripresa economica degli anni successivi, cui contribuiscono le prime avvisaglie del secondo conflitto mondiale e conseguenti commesse belliche. Tanto che nel 2006, proprio a New York da dove è partita la rivoluzione del New Deal per colmare la forbice sempre più ampia tra la carità religiosa e l’assistenzialismo La crisi del ’29 è dovuta dalla saturazione del mercato interno, causa l’economia isolazionista dell’America, povera di scambi. Venuto meno l’assorbimento delle merci, crolla la produzione con successiva riduzione dei salari (-45%), licenziamenti, disoccupazione. Blocco delle importazioni, ripercussione mondiale. 35 7 pubblico -che costa più di quanto elargisce-, tra la fine dello Stato solidale e la ferocia del mercato, si sta cercando un a terza via premiante ancora una volta i poveri meritevoli. Attraverso “Pay per virtù” si vuole aprire uno spazio di “sicurezza sociale” non basato secondo i bisogni come avrebbe voluto il pensiero marxista, ma secondo i meriti di chi la riceve come avrebbe preferito il darwinismo sociale. Opportunità NYC, il programma finanziato da privati tra cui la Rockfeller Foundation e già sperimentato in America Latina soprattutto in Messico, infatti eroga: -50 dollari ai genitori che fanno frequentare regolarmente la scuola ai figli -150 dollari per chi fa eseguire scrupolosamente le vaccinazioni annuali richieste per i bambini -300 dollari per gli scolari promossi con le migliori pagelle -3000 dollari l’anno, come integrazione del salario, per chi riesce a mantenere stabile il proprio impiego. Pay per virtù è dunque una specie di Borsino della virtù, un programma di incentivi per aiutare a capire che dipendere da se stessi, dal proprio comportamento e dalle proprie scelte è più remunerativo che dipendere dalle elargizioni caritative o dal sussidio pubblico. Altro modello di Stato solidale, che si riverbererà in seguito in tutta Europa, viene introdotto nel 1942 dal “Rapporto sulla sicurezza sociale” di Lord Beveridge, convertito in legge nel periodo 1944-1951. Cinque sono, secondo il Rapporto, i “giganti” da abbattere per consentire alle popolazioni di riprendere nel dopo guerra la strada della crescita economica e sociale nella democrazia: Want (bisogno, in particolare quello di lavoro); Ignorance (mancanza di istruzione); Disease (la malattia, specie quella da povertà cronica); Squalor (condizione irrimediabile); Idleness (inerzia e accidia dei senza speranza). Il bilancio pubblico non può sottrarsi al suo dovere, etico oltre che politico, di ristabilire un minimo di condizioni per cui la gente possa lavorare dignitosamente e produrre ricchezza per la società. Il Rapporto, poi trasformato in Beveridge Plan poneva l’esigenza di una coesistenza tra capitalismo di mercato e forze politiche riformistiche, a condizione che lo Stato operi una sistematica azione di controllo. Ipotizzava quindi la necessità di un central control ed interventi ad opera dello Stato rigorosamente universalistici, rivolti cioè a tutti i cittadini, non solo a quelli ufficialmente stigmatizzati come indigenti e inabili. Sarà dunque lo Stato ad assicurare a tutti i cittadini il minimo necessario alla sopravvivenza e a regolare il mercato del lavoro. Nel modello di welfare state che veniva così ad affermarsi, l’universalismo era certamente la variabile più significativa: servizi sociali ed assicurazioni pubbliche venivano riconosciuti quali diritti uguali per tutti, contro la selettività sino ad allora dominante nello Stato assistenziale. I principi, sui quali si basa l’universalismo del Rapporto Beveridge, stabilivano che: La sicurezza sociale può coprire chiunque, non soltanto chi ha un lavoro regolare I fondi per la sicurezza sociale vanno unificati per razionalizzare la spesa e creare maggiore equità nelle prestazioni Il bene salute è un diritto naturale e l’assistenza sanitaria va estesa a tutti i cittadini Contro la disoccupazione va approntata una politica attiva del lavoro Va fissato, al livello della sussistenza, il minimo indispensabile di reddito procapite, la cui percezione va garantita dal bilancio pubblico 36 Va ricondotto ad un solo Ministero -central control- l’insieme di competenze e iniziative attinenti alle politiche sociali. Il principio di uguaglianza da valore astratto, si incarna in una gamma sempre più articolata di espressioni: dal rispetto della dignità della persona alla tolleranza, dalla libertà soggettiva all’ ottimismo, empirismo, progresso. E ancora buon governo, imprenditività, felicità, emancipazione, autodeterminazione. Del resto ritornando alla enunciazione dei diritti inalienabili della Dichiarazione di indipendenza americana (1776) … noi crediamo che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal creatore di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità… e analizzandone le componenti, i presupposti per il loro effettivo esercizio, vediamo che a: Vita, deve corrispondere il concetto di salute, di tutela della salute individuale e collettiva, intesa non solo come “assenza di malattia, ma benessere pico-fisico e sessuale” (OMS). La qualità della vita, nella sua accezione di relatività a seconda del genere, dell’età, delle condizioni sociali e fisiche, delle specificità culturali. Libertà, corrispondono conoscenza e sapere, connessi con l’accesso alle informazioni e all’uso critico delle stesse, ossia l’istruzione. Insieme, indissolubilmente, al rispetto della libertà altrui. Ricerca della felicità, è collegata la condizione del poter progettare il proprio futuro, attraverso il lavoro. Un lavoro adeguato alla preparazione, alle attitudini, con la possibilità di carriera e il riconoscimento del merito. Felicità, come affettività, amore e amicizia. E ancora socialità, il progetto collettivo finalizzato alla rimozione degli ostacoli materiali e sociali che sono di impedimento alla realizzazione della persona. E’ impossibile perseguire la felicità da soli, perché il mondo è comune. E davvero si può avere felicità/bene/benessere se non lo si sottrae a nessuno, anzi se reciprocamente gli uomini se lo donano. Il bene supremo risiede nei beni di relazione che non si risolvono semplicemente nello stare insieme, ma nel divenire gli uni un bene per gli altri (homo hominis deus, Spinoza) I valori sono i fini ultimi, le mete, le situazioni che si reputano desiderabili. In sostanza essi indicano ciò che si vuole raggiungere o conservare e, pertanto, costituiscono degli imperativi morali che consentono di stabilire priorità e gerarchie tra i comportamenti, i bisogni da soddisfare, i fini da raggiungere. I principi hanno un contenuto più prescrittivo: indicano le norme di comportamento cui devono attenersi i soggetti per essere in linea con i valori. Gli obiettivi sono le mete concrete, determinate dai valori e dai principi, verso le quali un determinato soggetto ha intenzione di dirigere azioni e risorse. In sintesi, se i valori ampiamente riconosciuti sono il riconoscimento della dignità dell’uomo e la consapevolezza della sua libertà, i principi informatori del servizio sociale saranno: Uguaglianza -NO: discriminazione, razzismo, esclusione, stigmatizzazione Rispetto -NO: prepotenza, prevaricazione; SI: autodeterminazione Giustizia sociale -NO: discriminazione; SI: diritti di cittadinanza Solidarietà della persona -attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza fra individui e la reciprocità dell’aiuto. 37 Riservatezza Promozione del benessere della persona -NO: indifferenza; SI: lavoro insieme per il cambiamento personale, sociale. Partecipazione -SI: Condivisione, informazione; Credere che le persone possono, devono essere coinvolte nelle decisioni che le riguardano. NO: autoritarismo, paternalismo Sviluppo della personalità e autonomia Responsabilità La professione dell’assistente sociale è caratterizzata da valori e principi che si traducono in obiettivi (mete concrete) al fine di: rispondere ai bisogni umani che nascono dalla interazione uomo-società. I bisogni si distinguono in primari o della sopravvivenza, in secondari o della sicurezza personale e sociale, in superiori o della autorealizzazione (Maslow). Sono bisogni superiori il lavoro corrispondente alle attese e alla formazione, la casa confortevole, la fruizione culturale, sportiva ricreativa. Le risposte sono adeguate se non prescindono dal riconoscimento del valore della persona umana, dotata di dignità originaria, unica e irrinunciabile. E se si realizzano nel diritto all’autodeterminazione e all’autorealizzazione, attraverso la socialità sia nei rapporti primari (famiglia) che nelle aggregazioni sociali (scuola, lavoro). Promuovere le potenzialità dei singoli, dei gruppi, della comunità favorendone l’autonomia. Attraverso l’uso costruttivo delle risorse (funzione educativa del servizio sociale) e nella solidarietà, sia per il bene comune che verso il singolo, per aiutarlo e sostenerlo. Contribuire a realizzare i diritti di cittadinanza con particolare attenzione a chi è in difficoltà. Di qui la centralità dell’utente e il problema della equità dell’accesso per quanto riguarda i servizi. La centralità dell’utente è implicita della pratica professionale, ma deve essere anche esplicita. Ciò avviene quando l’Organizzazione dei servizi si fa carico di assicurare percorsi agevoli, spazi confortevoli (l’ambiente influenza gli stati d’animo). L’equità dell’accesso riguarda soprattutto l’utenza debole, ossia chi non sa riconoscere il bisogno, chi non riesce ad attivarsi, chi disconosce la funzione del servizio, chi è senza progettualità (servizi di bassa soglia). L’equità si realizza anche attraverso l’informazione. Di conseguenza le finalità del servizio sociale in termini di mission, sono di carattere preventivo, riparativo, partecipativo, promozionale, correttivo. E ancora, di lotta all’emarginazione e alla discriminazione sociale. 3.3 Gli atteggiamenti professionali Il servizio sociale, in quanto disciplina analogamente alla medicina e alla pedagogia, è un sapere complesso, non autonomo bensì finalizzato alla pratica. Una disciplina di sintesi delle varie teorie e scienze socio-antropologiche cui attinge in funzione dell’operatività che ha per oggetto l’uomo nel suo rapporto con l’ambiente. E un sapere elaborato a fini non speculativi ma pratici, non finalizzato alla conoscenza dei fenomeni sociali, bensì alla acquisizione di strumenti analitici descrittivi ed esplicativi della 38 realtà sociale, orientati alla individuazione di strategie di intervento rispetto a situazioni problematiche. Pratica multidimensionale che, a secondo degli attori, degli obiettivi prevalenti, delle modalità di approccio può configurarsi in: Con-struttivista, basata su di un “sapere” costruito assieme ad altri: utenti, caregivers, colleghi Integrata, costruita, realizzata e valutata insieme da un set di operatori istituzionali e del terzo settore Solidale-riflessiva, basata sul dialogo utente-contesto-operatore Empowering, dove l’operatore si fa accompagnatore di processi di cambiamento insiti in Progetti condivisi, o nelle cosiddette “buone pratiche” Anti-autoritaria, che mette in discussione il ruolo di autorità e di superiorità dell’operatore Relazionale, basata sull’empatia, sull’ascolto,il rispetto. Una paziente attesa dei ritmi di crescita della consapevolezza dell’utente Antidiscriminatoria, basata sul ruolo primario, del riconoscimento dell’altro come “persona in relazione” con il suo particolare contesto culturale, etnico, religioso, sociale.9 “Si sente spesso affermare che la medicina è una scienza. Così non è. La medicina è una pratica, basata su scienze. che opera in un mondo di valori” (da: G. Cosmacini Il mestiere del medico, Cortina ed.) L’analogia con il servizio sociale è suggestiva perché anche il servizio sociale è una pratica professionale immersa in un mondo di valori e che trasmette valori. E gli atteggiamenti professionali, che definiscono e improntano la pratica professionale dell’assistente sociale e la identificano nella multidimensionalità sopra descritta, derivano da tutti quei valori che si dipartono, ramificandosi dal principio di uguaglianza. Essi sono: L’accettazione, atteggiamento legato al principio del rispetto della persona, e che si discosta dall’accoglienza -propria del volontariato- che invece non è professionalizzata ed è neutra. L’atteggiamento accettante, la disponibilità dell’assistente sociale è affettivamente neutrale, ossia un atteggiamento di disponibilità tale da suscitare un clima dove la persona riesce ad essere se stessa, una atmosfera che stimola le energie della persona. Un atteggiamento comprensivo che permette di ritrovare la fiducia, libera l’utente dai timori di poter essere danneggiato, offre una situazione comunque nuova. Neutralità, significa non belligeranza, assenza di conflittualità o di contrapposizioni valoriali. Mai mancanza di valori, di principi, di opzioni etico-culturali che, tanto più forti e radicate nell’assistente sociale, inducono l’accettazione dell’utente. E’ un atteggiamento non giudicante, o meglio che sospende il giudizio e lo affida all’utente. L’accettazione infine, se sostanziale atteggiamento, deve saper indurre nell’utente: - manifestazioni spontanee di sentimenti e emozioni; - una lettura più chiara dei problemi personali e la valutazione della possibilità del loro superamento attraverso la disponibilità a rimettere in discussione attese o pregiudizi 9 Maria Dal Pra Ponticelli, Le sfide del servizio sociale oggi, in ASSISTENTI SOCIALI, n° 2/2008 39 - la rinuncia alla passività e lo sviluppo di iniziative per uscire dalla situazione problematica, in tempi di maturazione non codificati e rispondenti alle esigenze del soggetto. L’accettazione è sempre capacità di ascolto, a sua volta interdipendente con l’atteggiamento dell’ Attenzione o personalizzazione, che si sostanzia nella focalizzazione della identità individuale, della unicità della persona, del suo patrimonio biologico, culturale, di classe. Unicità della persona umana che deriva dal processo di integrazione sociale e di trasmissione culturale, mediante il quale nell’ambito di concrete situazioni storiche, ambientali e familiari, si è strutturata. L’atteggiamento di attenzione è appannato dagli stereotipi, dalle generalizzazioni o dalle etichettature. L’ importanza del saper ascoltare oggi è presente anche nella pratica medica, nella cosiddetta Medicina narrativa (Rita Charon, Columbia University), che ha come oggetto la comunicazione fra medici e pazienti. Il malato si racconta, parla di sé e della sua malattia, mette a nudo i sentimenti, le emozioni e i dolori rinchiusi nella sua mente. Inizia così il processo terapeutico perché il malato si sente al centro della scena, ha la sensazione di controllare il rapporto medico-paziente. Rapporto che si fonda sulla “attesa scritta nello sguardo del paziente e sulla risposta a quell’attesa, spesso ignorata dallo sguardo del medico che non vede persone ma sintomi, non percepisce vissuti, ma deragliamenti dei comportamenti, pensa di poter guarire un anima prescindendo dall’anima stessa. Quando lo sguardo si fa clinico, perché è più facile scrivere una ricetta che parlare con un sofferente, la competenza ha il sopravvento sull’umanità, l’estraneità sulla richiesta di comprensione. Nell’affidarla alla genericità del farmaco non si è colta la specificità della sofferenza perché se il modo di ammalare è uguale per tutti quando le malattie sono del corpo, è specifico per ciascuno quando le malattie sono dell’anima”.9 L’autodeterminazione. L’assistente sociale non fornisce soluzioni preconfezionate, come a volte il volontariato che si esprime attraverso la prefigurazione stessa della soluzione (v. le comunità terapeutiche). Questo atteggiamento rispetta, da un lato, la libertà di scelta dell’utente, dall’altro permette di misurare, nella situazione protetta di aiuto (protetta perché all’interno di una relazione scelta, accettata, rassicurante) la capacità di valutare i problemi, di decidere e di agire sperimentando comportamenti nuovi e graduando le responsabilità. E’ contrapposto all’autoritarismo, al paternalismo, alla tentazione del maternage. L’autodeterminazione come esercizio della libertà di scelta dell’utente, sostanziale non formale, è un problema complesso , in quanto non è ascrivibile ai valori relativi alla persona, come ad esempio la dignità, ma si inscrive nella sfera dei diritti e delle libertà che hanno sempre un corrispettivo nei doveri e nella responsabilità verso altri. Di seguito alcuni esempi che permettono di chiarirne la problematicità come: 9 la responsabilità verso terzi quando nell’ambito dei legami relazionali e familiari entra in gioco il rispetto dei diritti di reciprocità. E’ il caso più frequente quando si incontrano problemi di anziani, di malati di Alzheimer e richieste di espulsione dal contesto familiare. Anche l’intervento di bambini in stato di abbandono, la difesa del minore può confliggere con i problemi dei genitori: immaturità rispetto il ruolo, inadeguatezza, non mancanza di affetto. E. Borgna “Le attese e le speranze”, Feltrinelli Ed. 40 La responsabilità personale dell’assistente sociale che riguarda la scelta fra servizi o prestazioni diverse. Offrire un servizio o una prestazione piuttosto che un’altra coinvolge la responsabilità personale dell’assistente sociale per quanto attiene il rispetto del diritto all’autodeterminazione dell’utente. Un esempio, quando si tratta di anziani, è quello dell’assistenza domiciliare, una prestazione meno costosa e più funzionale al mantenimento dell’autonomia personale, di un ricovero in casa di riposo. In caso di minori invece la scelta verte tra affidamento familiare e comunità. L’analisi del costo deve essere presente a livello di responsabilità amministrativa, di limiti posti dal budget, non può essere contrabbandata, qualora contrasti con la funzionalità del progetto di intervento, come scelta a valenza etica. La responsabilità del rispetto degli orientamenti culturali della gente. E’ il caso della comunità terapeutica considerata positiva per il TD piuttosto che il servizio pubblico, o l’ospitalità forzosa per il barbone, ecc. L’informazione sul ventaglio di scelte possibili e maggiormente compatibili rispetto la peculiarità delle singole situazioni diventa uno strumento, una modalità operativa proprio per quanto riguarda l’esercizio consapevole della autodeterminazione dell’utente e del ruolo attivo in dialogo con l’assistente sociale. Il cambiamento. Un atteggiamento professionale di disponibilità al cambiamento che interagisce con piani e livelli diversi, a partire dalla soggettività professionale alla operatività e al rapporto operatore-servizio. A livello soggettivo e personale, si tratta dell’acquisizione del sapere professionale e del saper essere, per tutto quanto riguarda i processi ed i percorsi di formazione permanente. Significa nella realtà operativa sapere operare e apprendere nell’incertezza, ossia sapere rifondare le proprie conoscenze attraverso un continuo confronto con le scienze sociali, per cogliere gli orientamenti teorici nuovi -lettura del sociale-. Orientamenti teorici che devono servire di base ad un più incisivo intervento professionale nella realtà sociale in continua trasformazione applicando il principio della teoria-prassiteoria. A livello operativo, all’interno della relazione di aiuto con l’utente singolo, gruppo, comunità, la disponibilità al cambiamento riguarda la competenza, il saper fare dell’assistente sociale. Ossia, attraverso il processo di aiuto e il progetto di intervento intervenire sulla situazione, sulla domanda sociale espressa dall’utente. Il cambiamento è una opzione implicita perché insita nella domanda sociale stessa, nel bisogno oggetto dell’intervento, che viene posto all’attenzione dell’assistente sociale, alla sua competenza per un superamento. Nell’ambito del rapporto con il servizio di appartenenza, riguarda il miglioramento degli aspetti organizzativi e gestionali. Occorre acquisire uno stile di vita di autoformazione permanente che permette di far fronte alle situazioni emergenti con capacità critica e originalità, promuovendo e guidando le trasformazioni senza esserne travolti o restare estranei. E’ una specie di sensibilità sociale che implica la capacità di leggere i nessi tra i fatti e le situazioni, la capacità di organizzare informazioni per la comprensione dei fenomeni sociali. 41 Contrapposti all’atteggiamento di disponibilità al cambiamento sono la rigidità, il conformismo, il qualunquismo, la pigrizia mentale in ordine alle nuove frontiere della conoscenza e del pensiero. L’atteggiamento professionale rivolto al cambiamento, quando è in gioco il rapporto operatore/servizio in una situazione stagnante di mera erogazione di prestazioni ripetitive, avrà come obiettivo prevenzione, programmazione e partecipazione, con le relative implicazioni operative. Prevenzione che, nel servizio sociale vede lo spostamento dell’asse del pronto intervento alla analisi della domanda, allo studio delle cause dei fenomeni, alla sperimentazione delle soluzioni di prevenzione primaria e secondaria. O ancora più semplicemente, non solo cura degli effetti, ma ricerca delle cause e loro rimozione. Programmazione che, specialmente nel servizio sociale, è di processo o contestuale all’intervento, dove l’attenzione è concentrata non sullo strumento -il Progetto-, ma sull’intervento, sulla valutazione in progress e sulla ridefinizione continua del progetto. Programmare nell’ambito dei servizi alle persone, incontra sempre lo scoglio della ricerca del consenso, dell’utente e della istituzione. Ed è in questo spazio, che la capacità di operare nell’incertezza viene sperimentata, negoziando di volta in volta segmenti di obiettivo, soluzioni parziali, purchè concrete e immediate. Partecipazione, ossia il coinvolgimento dell’utenza, come mezzo di crescita personale e comunitaria, la condivisione delle informazioni come condivisione del potere, la costruzione di un diverso rapporto servizio/utente. Citando la Addams e il lavoro dei Settlements è il presupposto della “cittadinanza intelligente”. Sul ruolo strategico della partecipazione basta riflettere di come in Italia, nonostante si abbia un sufficientemente ampio e articolato sistema di welfare, esso non aggreghi consenso e soddisfazione diffusa. Nel nord Europa, culla del welfare, le politiche sociali sono più caratterizzate da un approccio assicurativo, di copertura del rischio e di monetizzazione del danno. Da noi, invece, l’accento è posto sulla offerta di opportunità e sulla loro ricomposizione, se perdute. Nonostante questa differenza, i cittadini sono disaffezionati, quando non critici, perché sprovvisti della capacità di usare gli strumenti di controllo dal basso. Ad esempio, Leggi come la 180 che ha portato alla chiusura dei manicomi, il SSN che ha l’obiettivo del superamento degli squilibri territoriali delle condizioni socio-sanitarie del paese, oltre che alla generalizzazione dell’accesso ai servizi sanitari ed alla globalità dell’intervento, la legislazione sull’handicap con l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’inserimento scolastico, non hanno ottenuto il consenso sperato. Ed è in questo contesto che la funzione educativa del servizio sociale può assumere quella dimensione politica che ha portato alla definizione dell’assistente sociale “agente di cambiamento” (vedi, Convegno di Tremezzo, 1946). Sul piano istituzionale recentemente è stata introdotta la Carta dei Servizi, una specie di patto sociale per il benessere della cittadinanza che permette di individuare criteri e mappe di accesso ai servizi, modalità di erogazione e soprattutto forme di tutela dei diritti degli utenti qualora siano disattesi. 42