P. Dovis, Per carità e per giustizia
Gruppo Abele
Il welfare ecclesiale tra delega e responsabilità è il tema che attraversa il libro di
Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino, Per carità e per giustizia.
Il welfare delle parrocchie. Una rassegna documentata sulla continua evoluzione della
povertà che – a seguito della crisi, e più in generale della carenza di adeguate politiche
di intervento – continua a interessare le nostre comunità.
Chi sono i poveri che oggi arrivano alle parrocchie e per quali esigenze? Perché non
trovano risposte in altri servizi? Cosa cercano quando bussano alla porta del parroco?
E in che modo le comunità parrocchiali si trasformano in risorse, ritrovandosi a volte a
dover “ inventare” nuovi modi di accompagnare le persone per rispondere a bisogni
sempre più complessi? Questi gli interrogativi ai quali il libro risponde a partire da un
osservatorio esperto, quello della Caritas.
Dall'Introduzione dell'autore:
Parrocchia. Sportello di servizio sociale. Cambia solo l’ indicazione sul campanello da
suonare. In tempo di crisi, su e giù per lo stivale, sembra che si sia fatta un po’ di
confusione rispetto alla missione delle comunità cristiane. La persona che incontri
casualmente mentre esce dall’ ufficio parrocchiale e tu stai entrando è sempre più
spesso una persona in difficoltà, sempre meno uno che è andato a confessarsi o a fare
un colloquio per la vita dello spirito. Di tipo nuovo o vecchio, ma sempre povero.
Perché si va dal parroco per chiedere il necessario per pagare una bolletta o per avere il
companatico dalla terza settimana del mese in poi? Non ci sono i servizi sociali per
coloro che vivono forme di difficoltà? Non abbiamo il tasso più alto in Europa di
associazioni ed enti di solidarietà? Sono aumentati i poveri così tanto che i servizi
pubblici non sono più in grado di farsene carico in qualche modo o, semplicemente,
sono mutati restrittivamente i parametri di erogazione dei servizi? Oppure si sta
imponendo una sorta di welfare parallelo, forse meno burocratizzato e più flessibile, a
fianco di quello istituzionale?
E come la prende colui che apre la porta della canonica trovandosi di fronte richieste
che con la cura dell’ anima hanno poco a che fare? È possibile improvvisarsi operatori
del sociale sul campo, per urgenza ed emergenza nonostante sei lunghi anni di studi
esclusivamente teologici? E come lo si può fare con processi di professionalizzazione
che cercano di mediare tra una missione da tempo assodata e un’ altra che viene
richiesta a pieni polmoni dai bisogni delle persone?
Sono queste le principali domande che stanno sotto le righe di questo libro, scritto di
getto sulla base della sola esperienza, ormai venticinquennale, in una grande città del
Nord, all’ interno della terza diocesi italiana per numero di abitanti. L’ analisi delle
persone che stanno sulla strada e suonano il campanello della parrocchia e di quelle
che cercano di rispondere dall’ interno offre una fotografia non sempre conosciuta, e
spesso fraintesa a causa di idee preconcette, sedimentate nel tempo e magari
sponsorizzate da una comunicazione dai tempi limitati e dalle battute di scrittura
ridottissime.
Chi lavora ogni giorno a contatto con i più poveri, nella Chiesa come nei servizi, non
troverà grosse novità nel racconto dell’ esperienza. Chi non ci è troppo abituato forse
riuscirà a farsi una idea più oggettiva. Ma tutti potranno porsi in una prospettiva
diversa, entrando per un momento nel cuore e negli occhi di parroci, volontari delle
associazioni ecclesiali, operatori delle Caritas, persone di buona volontà che, invece di
delegare ad altri, hanno deciso di mettere in gioco la propria responsabilità umana e
cristiana.
Non si tratta di uno studio scientifico e nemmeno di una cronaca. È, semplicemente, il
racconto dell’ esperienza e del pensiero che da essa scaturisce. Non è una difesa di una
o di un’ altra parte. È una descrizione che pone questioni pastorali, sociali,
economiche, politiche, amministrative. Insomma uno strumento di riflessione, fatto
come il romanzo della vita dei nostri territori.
Vista da fuori la questione potrebbe essere descritta, a seconda delle posizioni, con un
«meno male che c’ è la Chiesa», oppure con un più acido «predicano bene e razzolano
male». Vista da dentro – ed è la posizione di chi scrive, dall’ anno iniziale di questo
millennio direttore della Caritas Diocesana di Torino – la questione si pone in un altro
modo. Dice un operatore di un centro di ascolto ecclesiale: «Li scaricano tutti a noi!».
La realtà è una storia di fatiche e di sfide, di riorganizzazioni e di pensieri nuovi, di
stanchezze e di sconfitte.
Tutte vissute in nome di un motivo più alto, di un amore più grande che investe coloro
che, per chiamata e per scelta, hanno accettato di affidarsi alla parola e all’ esempio
dell’ uomo di Nazaret che conosciamo con il nome Gesù, Dio salva. Dunque, storie di
scarti ma anche di scarichi che rimandano a un tema forte, troppo spesso
sottodimensionato sia nella Chiesa che nella società civile.
Lo scrivevano i vescovi riuniti nel Concilio Ecumenico Vaticano II nel documento sul
ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo (cioè nei primi anni Sessanta del secolo
scorso, ancora lontani dalle conquiste in seguito realizzate dalla cultura delle
democrazie del Nord del mondo). Nel capitoletto numero 69, dedicato alle relazioni
internazionali e alla necessità di cooperazione, compare una frase che, nell’ originale
latino, è straordinaria: «Iustitia ducet, charitas comet».
La traduzione italiana del documento non rispetta al meglio lo spirito del lemma latino
che, alla lettera, suona come: «La giustizia guida e la carità segue». Vale a dire che
non si può accettare la supplenza passiva della carità, mossa dalle esigenze del cuore e
dell’ anima, rispetto ai doveri della giustizia sociale, mossa dalla carta costituzionale e
dall’ imperativo laicamente etico della società democratica.
L’ accrescersi dei numeri di accesso ai servizi caritativi delle parrocchie rilancia
anzitutto, e soprattutto, questo tema di fondo. Che inerisce non solo all’ azione
pastorale della Chiesa, ma anche all’ adeguatezza dei modi attuali di interpretare la
realizzazione del bene comune. Sono tanti coloro che parlano di solidarietà e,
soprattutto, di sussidiarietà per spiegare come si debba interpretare il rapporto tra
giustizia e carità. Ma, alla fine della fiera, si rischia di rimanere solo a livello di
enunciazioni teoriche.
Quando, ad esempio, agli enti della società civile viene chiesto con meticolosità e
puntiglio di realizzare progetti di housing sociale che rispettino canoni di mixité
generazionale, razziale, sociale e nel contempo gli stessi enti realizzano in proprio
iniziative del tutto opposte, la sussidiarietà rischia di venire sepolta sotto fiumi di
parole inutili.
Nel libro si parla spesso di collaborazione e di sinergia tra pubblico e privato, perché è
quella la strada per il futuro. Ma lo si fa in maniera disincantata, nella convinzione che
tutti i soggetti sociali sono coinvolti a egual titolo nella responsabilità del prendersi
cura. La speranza è che si tratti di sprazzi di realismo in mezzo a ettari di superficialità.
Nelle pieghe delle descrizioni si trovano anche alcuni sogni, che stanno tracciando il
cammino, nella libertà dei soggetti che lo compiono. Il più stimolante è quello della
capacitazione delle persone e dei territori. Esattamente come scriveva Benjamin
Disraeli, il politico e scrittore britannico di idee liberali e di origini credenti ebraiche:
«Il regalo più grande che puoi fare a un altro non è condividere le tue ricchezze, ma
fargli scoprire le sue».
Può darsi che, per qualche zona d’ Italia, la descrizione non corrisponda e che, per
altre, sia insufficiente. È la diversità di sfumature delle Chiese e dei territori del nostro
Paese. Vanno tenute presenti perché, senza di esse, non si potrebbe comprendere la
vera storia che qui si abbozza. In effetti si tratta di un’ opera incompleta, di un
semplice inizio perché altri, più saggi e qualificati, possano dar vita a un tempo di
discernimento comune capace di farci precorrere e percorrere il futuro. Insieme ai
poveri: i primi – speriamo – nella società di domani, visto che in quella di oggi sono
quasi gli scarti.
La Chiesa è un attore di questo percorso verso il futuro. Ha qualcosa da dire grazie alla
sua ispirazione antropologica e a una lunga storia di vicinanza agli ultimi. Parte da una
Verità, ma non detta le verità. Al massimo cerca di scoprirle nel discernimento dei
segni dei tempi. Anche riguardo ai poveri, al welfare di futura generazione, alla
fraternità, che consente la vita buona della società. In questo si manifesta la sua
maternità e la sua utilità alla costruzione della società.
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