L’ EVOLUZIONE CREATRICE L’ evoluzione creatrice è l’ opera con la quale Bergson ottenne grandissima fama, suscitando un vasto dibattito nella cultura europea. Il filosofo tentò in questo libro una sintesi metafisica di tutto il suo pensiero, attraverso un confronto con l’ evoluzionismo corrente, e quindi con uno dei fronti più importanti del positivismo ottocentesco. Egli, antipositivista, sceglieva così di confrontarsi con l’ avversario sul suo stesso terreno. Partendo da quella che appariva come una mera teoria della vita, passando attraverso una sorta di panvitalismo, Bergson concludeva il suo percorso filosofico con una compiuta teoria del Tutto, dall’ esplicita venatura religiosa. L’ esito teorico che, lo si vedrà, ricorda alcune concezioni neoplatoniche della realtà, sembra risolversi in una forma complessa di panteismo, fatto questo che indusse la Chiesa Cattolica a inserire tutti gli scritti di Bergson nell’ Indice dei libri proibiti (la condanna risale al 1914). Come dimostra il titolo stesso dell’ opera, Bergson si proponeva di conciliare con la sua teoria l’ evoluzionismo e il creazionismo. La soluzione proposta dal filosofo appare ingegnosa. Egli immaginò uno slancio vitale originario che avrebbe investito la materia bruta. Da questo incontro sarebbero sorti gli esseri viventi, le cui caratteristiche diverse sarebbero state in origine confuse nell’ unico slancio. L’ incontro con la materia avrebbe determinato un’ esteriorizzazione di quelle caratteristiche originariamente compresenti. Di qui l’ evoluzione per fasci divergenti, attraverso biforcazioni continue, che però conserverebbero in linee evolutive tra loro lontane, tracce della comune origine (famoso l’ esempio dell’ occhio di certi molluschi la cui struttura è analoga a quella dell’ occhio dei mammiferi). Tuttavia, per comprendere l’ evoluzione della vita, è necessario sgombrare il campo da spiegazioni fuorvianti. Così nel primo capitolo, L’ evoluzione della vita, Bergson si confronta con altre teorie dell’ evoluzione, e in particolare con due modelli esplicativi: il meccanicismo e il finalismo. Sebbene Bergson mostri maggiore simpatia per il secondo modello entrambi gli schemi eliminano di fatto l’ intrinseca imprevedibilità dell’ evoluzione. Secondo il meccanicismo, conoscendo tutte le cause attuali si potrebbero dedurre le forme future della vita. Bergson, al contrario, è convinto che con la vita vi sia una forte sproporzione tra le cause e gli effetti. La vita conquista sempre qualcosa nel suo andare avanti: qualcosa che non era contenuto nelle cause. Il tempo non è vuoto, indifferente: aggiunge sempre elementi nuovi. A suo modo, anche il finalismo elimina la novità, poiché spiega tutto in funzione di uno scopo, e dunque immagina l’ esistenza di un piano prestabilito. Per Bergson, la compresenza originaria di caratteristiche diverse nello slancio non vuol dire predeterminazione delle forme che la vita assumerà nella sua evoluzione. Nello slancio vi sono solo i germi della vita, i quali si svilupperanno in forme imprevedibili. Il cammino della vita è segnato, come abbiamo detto, dall’ incontro tra lo slancio e la materia, che si struttura come una lotta per la libertà. La vita si scinde in fasci diversi, cercando di liberarsi dall’ appesantimento della materia. Ogni conquista dell’ evoluzione, è un passo avanti verso la libertà. Il confronto tra vita e materia è contraddistinto dalla differenza che passa tra la mobilità pura e la staticità, l’ inerzia, la morte. Da questo contrasto nasce l’ evoluzione. Essendo dunque la vita portatrice di libertà, sarà anche fonte di novità imprevedibili. Con l’ uomo l’ evoluzione trova la sua ragione d’ essere (ma, afferma Bergson, è solo un modo di dire, p. 153) poiché finalmente raggiunge il dominio della materia, e dunque la libertà da essa. E’ nel secondo capitolo, Le direzioni divergenti dell’ evoluzione della vita, che Bergson descrive le diverse linee evolutive e il percorso che conduce all’ uomo. Nello slancio originario sono compresenti virtualmente tutti i viventi (sebbene in una forma non paragonabile a quella che assumeranno in seguito). Ad un certo momento, avviene una divaricazione tra i viventi caratterizzati dallo stato di torpore (i vegetali) e i viventi contraddistinti dalla mobilità (gli animali). Bergson è consapevole che le cose sono più complesse. Le sue descrizioni sono sempre molto attente e informate, arricchite da numerosi esempi, spesso di casi eccezionali. E tuttavia egli afferma di non riferirsi a stati, ma a tendenze. Il ragionamento per stati sarebbe uno degli errori filosofici più frequenti di chi cerca di comprendere la vita. È un’ idea non nuova; Bergson l’ aveva già presentata nei suoi saggi precedenti. Se si ragiona in termini di tendenza,è possibile comprendere anche l’ esistenza delle eccezioni. E così, per Bergson, le piante tendono al torpore, e gli animali all’ attività. A loro volta, gli animali conoscono nuove divaricazioni. La più importante è quella tra gli artropodi e i vertebrati, al cui culmine vi sono gli imenotteri, da un lato, e l’ uomo dall’ altro. Essi sono i portatori al massimo grado di due forme diverse di conoscenza: l’ istinto e l’ intelligenza. Bergson definisce l’ istinto la facoltà di utilizzare strumenti organici. L’ animale che si muove per istinto, trova già davanti a sé (o meglio, in sé) lo strumento di cui ha bisogno e che gli consente un’ esecuzione perfetta del lavoro da compiere: perfetta poiché vissuta dall’ interno. E tuttavia l’ istinto è gravato da una strutturale rigidità; svantaggio questo che invece non possiede l’ intelligenza, la quale è, all’ opposto, la facoltà di utilizzare strumenti inorganici. Bergson ritiene che solo la presunzione ci abbia indotto a definirci animali sapienti, quando ciò che ci contraddistingue davvero è la tecnica: il nome più corretto della nostra specie è Homo faber. Noi e la nostra intelligenza siamo fatti per fabbricare oggetti, per intervenire sulla materia, per costruire. La nostra logica è essenzialmente geometrica, ricalca il nostro modo di agire sulle cose, ossia lo schema spaziale soggiacente alla materia. Per questa ragione, l’ intelligenza conduce ad una conoscenza imperfetta, del tutto esteriore, ma aperta, cioè non predeterminata. Avendo a che fare con la materia, essa però è caratterizzata da un’ incomprensione naturale della vita (p. 138). Questo dato mostra in tutta evidenza quella connessione tra teoria della vita e teoria della conoscenza che secondo Bergson caratterizza questa ricerca. Emerge qui, infatti, la spiegazione di quel modo di intendere il tempo, al quale il filosofo si è sempre opposto, ossia la riduzione del divenire temporale ad una successione di stati immobili. Ciò deriverebbe dalla naturale tendenza dell’ intelligenza a rappresentarsi cose piuttosto che progressi. Di ogni movimento ci interessano le posizioni che di volta in volta il mobile assume, ci interessa il tragitto: non il movimento in sé. La conoscenza del movimento è per noi inutile. Si fa strada qui il discorso sull’ intuizione: vi sono tracce in noi di quella simpatia immediata propria dell’ istinto, come ad esempio nel caso della percezione estetica, per la quale la mentalità fabbricatrice dell’ intelligenza non ha nulla da dire. La comprensione della vita nasce da una conoscenza analoga a quella dell’ istinto, cioè immediata, interna, appunto quella dell’ intuizione, che però non abbandona l’ intelligenza. E tuttavia, è proprio l’ intuizione che ci indica i limiti dell’ intelligenza. Si fa chiaro il rapporto tra scienza e filosofia: quest’ ultima deve oltrepassare quei limiti, disegnati dalla nostra naturale tendenza alla fabbricazione. In altri termini dobbiamo invertire il senso della nostra conoscenza, e non mirare alla materia, ma alla vita: Bisogna fare violenza allo spirito, risalire la china naturale dell’ intelligenza. E questo è, precisamente, il ruolo della filosofia (p. 30). Poiché il compito della vita è quello di inserire l’ indeterminazione nella materia (p. 197), è evidente che sarà l’ uomo l’ animale nel quale la vita troverà un passaggio più ampio, attraverso cui far scivolare il grande fiume della libertà. L’ intelligenza, muovendosi nella materia, ha permesso all’ uomo di liberarsene, di dominarla, di non esserne schiavo. Un maggiore scarto tra l’ azione e la possibilità di azioni diverse (che è poi il prodotto della tecnica, cioè l’ apertura di uno spettro maggiore di possibilità) vuol dire una maggiore coscienza, che Bergson ritiene virtualmente coincidente con la vita stessa. Nel caso degli animali che appaiono incoscienti bisogna pensare non ad una coscienza nulla, ma annullata da forze contrarie. Nell’ uomo la coscienza, in linea teorica propria di ogni vivente, comprese le piante, s’ è come risvegliata. È nel capitolo 3, Il significato della vita, che troviamo le tesi metafisiche più ardite, che tuttavia consentono di dare unità e chiarezza a tutto il percorso svolto. L’ idea di fondo di questo capitolo è rappresentata dal concetto di interruzione (che si rivelerà coincidente con quello di inversione). Bergson parte dall’ esperienza fondamentale che fa da sfondo all’ intera sua ricerca: l’ esperienza del proprio divenire interiore. Egli nota come la concentrazione su se stessi conduca ad una contrazione del passato nel presente, una compenetrazione di stati che rappresenta l’ intera storia personale. È questa la durata reale, come Bergson ha sostenuto nel Saggio sui dati immediati della coscienza. Ma se, al contrario, ci lasciamo andare al corso spontaneo dei pensieri, vedremo il passato sfilacciarsi in una serie di ricordi esteriori gli uni agli altri, come nello stato di sogno. Da un lato vi è dunque contrazione, concentrazione, compenetrazione, dall’ altro distensione, esteriorità. L’ idea di Bergson è, allora, che la distensione si trovi sulla stessa linea dell’ estensione. Se la distensione è il rovescio della contrazione, si può immaginare che la materia stessa non sia altro che un’ interruzione del flusso vitale, e dunque un’ inversione rispetto alla direzione dello slancio. Si comprende così la corrispondenza tra materia e intelligenza: entrambe nascono dallo stesso movimento. Il loro rapporto si basa su di uno schema che rappresenta il limite ultimo di questo movimento, ossia la spazialità. La materia, infatti, non è lo spazio, ma vi tende. L’ intelligenza aderisce alla materia proprio attraverso lo schema dello spazio, schema che fa da sfondo all’ azione, e che struttura tutta la sua logica. La nostra illusione sarà sempre quella di credere che la materia, le leggi fisiche, siano dei fatti, delle realtà positive, quando invece rappresentano soltanto il negativo dello slancio vitale. L’ originario è dunque il diveniente, l’ immateriale; la materia e lo statico sono soltanto dei derivati, i prodotti di un rallentamento, un arresto (mai del tutto compiuto se non nell’ idealità dello spazio) dell’ unico flusso del Tutto. Proprio alle concezioni del tempo e del divenire è dedicato l’ ultimo capitolo, Il meccanismo cinematografico del pensiero, in cui Bergson abbandona gli studi biologici, per confrontarsi con la storia della filosofia e della scienza, rifacendosi ai corsi tenuti al Collège de France (1902-1903). Bergson vede nella metafisica classica e soprattutto nella scienza moderna un tentativo costante di eliminazione della durata reale. Il presupposto è sempre lo stesso, ossia la priorità dell’ immobile su ciò che in movimento, dell’ immutabile sul diveniente. Nella scienza moderna il tempo diviene una successione indifferente di momenti tutti uguali. Il tempo è come svuotato della sua essenza qualitativa: è spazializzato. Il movimento e il divenire sono così decostruiti in una successione di immobilità, e non presi come realtà originarie. È una visione cinematografica della realtà. Come il cinema ci offre l’ illusione del movimento attraverso la successione rapida di istantanee che sostano per un breve tempo, così il movimento reale viene spezzettato in un certo numero di posizioni. È la logica che è alla base dei paradossi zenoniani. Ciò che non si coglie è che le posizioni sono solo il prodotto di uno sguardo retrospettivo sul movimento, le si ricostruiscono a cose fatte. Il movimento è un farsi, mentre il nostro sguardo si concentra solo sul fatto. Il libro consacrò Bergson come filosofo alla moda, baluardo della rivolta intellettuale contro l’ aridità del positivismo. Il vitalismo, l’ irrazionalismo degli inizi del Novecento attrasse verso di sé il bergsonismo e lo stesso Bergson, che ne rimase vittima. Per motivi di polemica o di semplificazione, il filosofo francese per certi versi assecondò la banalizzazione del suo pensiero che, pur avendo avuto una vasta eco in quegli anni, finì per essere presto dimenticato, come ogni prodotto della moda, allorché nuove istanze si fecero avvertire nella cultura filosofica francese, con l’ avvento dell’ esistenzialismo. Di Bergson restò solo l’ etichetta dell’ irrazionalismo, consacrata da Lukacs nella sua Distruzione della ragione, in cui il pensatore ungherese proponeva la genealogia Bergson-SorelMussolini. La lettura di Bergson è invece sempre fonte di sorprese, come nel caso del tema dal quale eravamo partiti, e cioè il rapporto tra il nostro filosofo e la scienza. La lettura più immediata dell’ opera ci mette di fronte alle tesi di un avversario dell’ intelligenza matematica e della scienza. Ci aspetteremmo, dunque, che la scrittura di Bergson sia fortemente evocativa, guidata magari da una sorta di afflato mistico. È proprio qui la sorpresa. Non solo Bergson, come abbiamo visto, non muove una critica estrinseca alla scienza, ma la discute dall’ interno, e soprattutto, egli dà una valutazione estremamente positiva della tecnica, tanto da vedere in essa lo strumento attraverso il quale l’ umanità ha potuto raggiungere la libertà. La tecnica, in Bergson, è davvero la salvezza, se in quella libertà, come sappiamo, si rivela lo slancio vitale e divino. Non potrebbe esserci distanza maggiore da Heidegger. Il filosofo francese, ad esempio, scrive: “Tra migliaia di anni, quando del passato si potranno scorgere solo le linee principali, le nostre guerre e le nostre rivoluzioni avranno ben poca importanza, se ancora se ne serberà la memoria; ma della macchina a vapore, e di tutte le invenzioni che ne sono seguite, si continuerà a parlare forse come noi oggi parliamo del bronzo o della pietra levigata; servirà a definire un’ epoca (pp. 116-117).’ Qual è allora la posizione di Bergson in proposito? In cosa consiste la sua critica? Egli reagiva semplicemente ad un certo scientismo che negava il metafisico che è in noi: Il metafisico che portiamo inconsciamente in noi, e la cui presenza […] si spiega proprio con la posizione che l’ uomo occupa nell’ insieme degli esseri viventi, ha le sue esigenze precise, le sue spiegazioni già pronte, le sue tesi irriducibili (p. 20). Si direbbe dunque che il problema non stia nella scienza, ma in quella cattiva metafisica che è un prodotto necessario del nostro essere nel mondo come animali fabbricatori, una metafisica utile all’ azione, ma per certi versi dannosa a quell’ inutile attività che è la conoscenza della realtà profonda delle cose, realtà che per Bergson, va ricordato, non è la materia. La cattiva metafisica produce di conseguenza una cattiva scienza. La via d’ uscita non è una liberazione filosofica dalla scienza, ma un dialogo serrato tra scienza e filosofia. MASSIMO PULPITO