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La doppia legalità: stato e sistema clientelare
Se il ruolo attribuito ai partiti nella nuova democrazia rappresentò un progresso nella vita politica
del paese, la mancanza d’alternanza politica dette vita in Italia a degenerazioni dei partiti di
governo.
Partiti di massa e democrazia
Tra le novità più rilevanti introdotte dalla Costituzione italiana vi fu il riconoscimento dei partiti
come strumenti di organizzazione del consenso e di selezione delle classi dirigenti. Si realizzò così
anche in Italia il processo di istituzionalizzazione dei grandi partiti di massa che si era avviato in
Europa già agli inizi del secolo e che aveva conosciuto una sua accelerazione, seppur distorta,
durante il fascismo, quando il PNF divenne di fatto un organismo costituzionale.
Nella nuova repubblica al centro del sistema politico si collocarono i grandi partiti di massa
antifascisti che avevano diretto la Resistenza e che avevano raccolto alle elezioni per la Costituente
del 1946 un consenso plebiscitario da parte dell’opinione pubblica, ribadito poi nelle successive
tornate elettorali. Il parlamento diventava così il luogo di scontro e di mediazione tra i partiti,
piuttosto che la sede di confronto di eletti del popolo dotati di un mandato specifico e diretto; anzi,
attraverso il sistema elettorale proporzionale i cittadini erano chiamati a votare per candidati scelti
dai partiti ed espressione dei loro programmi e della loro ideologia.
A questi partiti e ai loro eletti venivano di fatto delegate la formazione dei governi e la gestione
della cosa pubblica. Da questo punto di vista i processi che portarono i grandi partiti di massa a
diventare il perno della vita politica italiana non differiscono da quelli in corso negli altri paesi
europei, o che si erano già verificati in nazioni politicamente più avanzate della nostra.
L’anomalia del caso italiano: il partito-stato
Il governo fondato sui partiti presenta però, nel caso italiano, alcune anomalie che non emersero
immediatamente e che i costituenti non riuscirono a prevedere. La prima anomalia riguarda la
modesta discontinuità che il nuovo regime, egemonizzato dalle forze moderate e conservatrici,
introdusse rispetto al fascismo. La seconda, grave anomalia del sistema politico italiano è stata la
mancanza di alternanza tra forze politiche differenti alla guida del governo, che ha favorito
l’affermazione di una sorta di democrazia “bloccata” attorno al nuovo partito-stato, la Democrazia
cristiana.
Il peso rappresentato dallo stato nel sistema economico accentuò questa distorsione: allo stato
facevano capo infatti l’intero sistema bancario, interi comparti produttivi come l’energia, la
cantieristica e la siderurgia, tramite l’Iri e l’Eni; gli enti della riforma agraria, la Cassa per il
Mezzogiorno, attraverso cui passavano i finanziamenti per le attività economiche del sud. La DC e i
partiti alleati si trovarono così a gestire un fiume di denaro pubblico, assumendo il ruolo di
mediatori tra le istituzioni, con le quali progressivamente si identificarono, e la società civile.
I partiti come mediatori fra stato e cittadini
Questo ruolo dei partiti come mediatori tra lo stato e i cittadini, soprattutto nella distribuzione delle
risorse economiche, si innescò su consuetudini clientelari che già in passato caratterizzarono in
Italia i rapporti fra società politica e società civile. Ma che cos’è il clientelismo? Se si analizzano
l’organizzazione sociale e i rapporti politici presenti nelle campagne italiane agli inizi del
Novecento, il clientelismo appare come il sistema attraverso cui i proprietari fondiari, che
detenevano anche il potere politico locale, mediavano i rapporti fra lo stato e le classi subalterne, fra
la periferia e il centro: in cambio del potere politico locale, il notabilato, attraverso la
“raccomandazione”, il “favore”, la catena delle “amicizie”, trasformatisi in seguito
nell’appartenenza al partito di governo, riusciva a garantire “protezioni”, a tutelare gli scarsi diritti
dei contadini poveri, a metterli in contatto con gli uffici e la burocrazia pubblica. Il clientelismo, in
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sostanza, costituiva la corposa sopravvivenza nello stato moderno e nella società industriale di
dinamiche sociali e forme di relazioni di ascendenza contadina e feudale, che allignavano laddove
la società rurale era più arretrata ed estranea ai nuovi circuiti dell’economia di mercato.
Va messo in evidenza che attraverso le pratiche clientelari si veniva realizzando una forma distorta
di integrazione delle masse contadine nello stato. Contro questa “integrazione disorganica” su cui
era cresciuto lungo il corso dei decenni postunitari il potere di un ceto politico consolidato, lo stato
liberale e poi lo stesso fascismo non erano riusciti a porre un processo di integrazione sociale
organico, promosso direttamente dello stato e capace di legittimare, agli occhi dei contadini e delle
classi popolari urbane, l’autorità pubblica e il potere statale.
In intere regioni del paese la società era sottoposta una doppia legalità: quella delle clientele
notabiliari, in grado spesso d’imporsi con la forza, grazie al sostegno di organizzazioni criminali
parallele, dalla mafia alla camorra; e quella, più debole e spesso connivente con la prima, dello stato
di diritto.
Il risultato è stato il permanere di una vita politica arcaica e asfittica, nella quale non sono riusciti a
strutturarsi, come nelle regioni più avanzate e moderne, sistemi collettivi di organizzazione degli
interessi, come i sindacati, le cooperative o le associazioni di categoria e professionali, né forme di
articolazione della vita politica basate su forti solidarietà ideali come i partiti politici di massa, in
grado non solo di orientare il consenso dell’opinione pubblica, ma soprattutto di legittimare lo stato
e l’autorità politica.
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