La formazione del consenso nell - Calamandrei Corso Ct+Et, Prof. N

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LA FORMAZIONE DEL CONSENSO NELL’ETÀ DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE E DELLA
CRESCITA DELLE FUNZIONI STATUALI.
U.D. SCHEMA DELLA LEZIONE:
L’UTILIZZO DELLE COPPIE BORGHESE-OPERAIO, CITTADINO-ELETTORE , LIBERALE-SOCIALISTA,
PER LA DEFINIZIONE DI UNA CONTEMPORANEA QUESTIONE DEMOCRATICA
di N. Malandrino
Società complessa e limiti del concetto di
classe nel rapporto
Borghese-Operaio
È importante dunque che gli studenti riconoscano nell’800
un momento fondamentale per tutto un processo di
costruzione delle identità collettive, sì da permettere loro di
passare alla domanda successiva: quanto sarà capace, il
sistema politico di tipo rappresentativo, di ricondurre a
momento di aggregazione, di identità e di potere, quella
stratificazione sociale emersa attraverso il mercato?
Partiamo dunque dal concetto di Società complessa
così come viene enucleato da P.Macry nel saggio Le società
e le classi: “Per motivi non sempre coincidenti, la diffusione
del mercato e l’ampliarsi dell’intervento statale sono i due
fenomeni che tengono a battesimo la grande trasformazione
sociale. Alfabetizzazione, acculturazione, urbanizzazione e
organizzazione ne sono gli aspetti più vistosi. Emergono
nuove figure sociali, nuove professioni, nuovi
comportamenti privati e pubblici. Quello che era stato per
secoli un arcipelago di proprietari terrieri e di contadini
diventa una società complessa fondata sulla diversità e sulla
stratificazione; in essa è più agevole rispetto al passato il
passaggio di persone, famiglie, gruppi da una condizione
sociale all’altra, la mobilità sociale. Questa società fa leva su
opinioni pubbliche agguerrite, su gruppi professionali
organizzati, su sindacati e partiti che rappresentano quote di
popolazione e hanno voce in capitolo nei sistemi politici
nazionali. Si avvertono, a fine secolo, i primi sintomi di
quella che sarà la novecentesca società di massa.” 1.
La stratificazione e la diversificazione sociale
accompagna il passaggio decisivo da una società per ceti
ad una società per classi. Occorrerà dunque riassumere le
caratteristiche di entrambe prima di introdurre alla
problematizzazione del concetto di classe esibita da Macry
nel saggio citato, la cui impostazione risente fortemente delle
analisi di Weber.
Una società per ceti è un tipo di società nella quale le
gerarchie tra i singoli individui e gruppi sociali si
determinano non in relazione al ruolo economico che essi
svolgono ma in ragione della stima, dell’onore e della
dignità che possono anche non avere alcun rapporto con la
produzione. La società europea di ancien régime si divideva
in tre grandi ordini, riecheggianti la vecchia partizione
medioevale. Alla società per ordini corrispose in una certa
misura lo stato per ceti. Questo sistema sociale e politico,
che predominò in Europa tra il XIII e il XVII secolo, era
caratterizzato in particolare dall’esistenza di distinti centri di
potere; il potere politico era solo uno di questi. A differenza
di quanto accade poi nello stato moderno, non vi era una
volontà pubblica e sovrana che si imponeva sugli interessi
particolari, ma al contrario molte delle grandi decisioni
legislative e amministrative e sempre quelle fiscali
scaturivano da una contrattazione fra parti (il re e i ceti).
Riprenderemo questo punto nella seconda sezione, con
l’analisi elaborata da Duverger.
Per ora ci interessa capire che fu proprio l’eredità del
XVIII secolo in termini di maggiore considerazione sociale
agli individui piuttosto che ai ceti a favorire l’articolazione
di una società basata sulle distinzioni di classe e che tuttavia
il concetto di classe del XIX secolo si presta, secondo
Macry, ad un uso esplicitamente politico più che descrittivo
di queste distinzioni:
“Quel che manca nell’antica Società per ceti e che
eminentemente la caratterizza rispetto allo Stato moderno è
quell’elemento inteso da Max Weber come l’essenza stessa
dello Stato: il monopolio della forza legittima. Quest’ultima
è dislocata (…) in numerosi punti, ciascuno dei quali ha
diretta efficacia politica, mancando del tutto la distinzione
pubblico-privato. Non c’è in altre parole, lo Stato come
momento sintetico e unificante di titolarità e di esercizio del
potere; di conseguenza manca anche la società, come sede
degli interessi privati e dei rapporti ad essi inerenti. La
Società per ceti è, in termini moderni, contemporaneamente
Stato e società (…)”2.
Il concetto di ceto espresso da Weber in Economia e
Società (1922) coprirà un ambito di fenomeni molto vasto,
dalle caste indiane agli ordini e alle corporazioni medioevali,
dai gruppi e dalle minoranze etniche al clero, ai militari e ai
grandi gruppi professionali delle società moderne: copre in
genere tutte quelle situazioni in cui la posizione sociale di un
individuo non può venire accuratamente prestabilita
dall’ammontare della ricchezza di cui dispone, cioè, in
termini weberiani, dalla sua posizione di classe.
Le classi sociali sono dunque una conseguenza delle
disuguaglianze sociali. Questa sembra l’unica caratteristica
esclusivamente descrittiva su cui gli studiosi convergono.
Per Marx le Classi sono espressione del modi di
produrre della società nel senso che il modo di produrre
stesso è definito dai rapporti che intercorrono tra le classi
sociali e questi rapporti dipendono dalla relazione delle
Classi con gli strumenti di produzione. Su questi rapporti si
fonda la distinzione Capitalismo-Proletariato. La borghesia
incarna il capitalismo. “È la classe sociale che detiene il
controllo dei mezzi di produzione e il potere politico.
Dunque, la classe sociale che gestisce la grande
modernizzazione
ottocentesca
(fabbrica,
agricoltura
mercantile, finanza, etc.) prelevando i propri profitti da un
sistema di sfruttamento economico. Il potere economico
della borghesia si sviluppa in ragione della quota di lavoro
Pierangelo Schiera, Società per ceti in Dizionario di Politica – UTET pp. 10671071
2
1
P.Macry, Le società e le classi – dal manuale Donzelli P.109-110
1
non pagata alla classe operaia (ciò che nella teoria marxista
viene detto plusvalore).
Le due classi, borghesia e proletariato, sono dunque
storicamente antagoniste. La lotta che si combatte fra di esse,
la lotta di classe, è il cuore dell’analisi marxiana. Tuttavia –
aggiunge Macry3- tradotta in termini descrittivi questa
analisi non è di grande utilità.”. E’ anche vero però i molti
modelli di stratificazione proposti dalla sociologia perdono
in capacità interpretative ciò che guadagnano in termini
descrittivi.
Per questo motivo sarà utile continuare ad occuparsi,
in questa prima sezione, dell’affermarsi nell’800 di idee di
tipo classista, di valori borghesi o valori anticapitalistici, di
un’identità proletaria e di un’identità borghese, del formarsi
di identità collettive, prima di occuparsi delle organizzazioni
che intendono rappresentare politicamente ora l’una ora
l’altra delle due classi.
Il modo in cui la coscienza di classe influirà sulla
coppia Liberalismo-Socialismo segnerà il passaggio di
questa esposizione didattica dalla questione sociale alla
questione democratica; ne diamo parziale anticipazione
rispondendo alla domanda sul perché questione sociale,
socialismo, il bisogno di politiche sociali emergano ora:
“Per due motivi principali. Sul piano sociologico, quel che
sta accadendo è un aumento formidabile della ricchezza
sociale. Tale ricchezza sociale tuttavia non si distribuisce in
modo equo fra coloro che ne sono gli artefici, imprenditori e
operai. Al contrario, il XIX secolo vede il paradosso di un
forte aumento contemporaneo della ricchezza e della
povertà. (…) Il mondo appare più dinamico ma anche più
diseguale, e questo rompe equilibri antichi. La distanza
sociale fra contadino e proprietario terriero poteva apparire
come una specie di dato naturale (…) Ma cosa può esservi di
tradizionale e naturale nel rapporto tra imprenditori e operai
di fabbrica? Hanno status sociali incomparabili. Vivono in
mondi a parte. Sono legati da rapporti esplicitamente
contrattuali. Ed è fin troppo chiaro che l’arricchimento dei
primi si fonda sul lavoro mal retribuito degli altri.”.4
L’incomparabilità di status sociale (terminologia
weberiana), pur in presenza di un aumento formidabile della
ricchezza sociale rappresentano il fenomeno alla base delle
diversità e della stratificazione sociale che caratterizzano la
società complessa. La ragione per cui accanto al concetto di
Classe appaiono, nella terminologia weberiana, i concetti di
status o ceto e di partito risiede nei limiti che il concetto di
classe ha per Weber rispetto a Marx: essa assume rilievo
soltanto all’interno dell’ordinamento economico e le
spaccature di Classe non corrispondono necessariamente a
quelle che si verificano all’interno dell’ordinamento politico
e dell’ordinamento sociale. Ad esempio, Macry sottolinea
come forti differenze sussistano non solo tra borghesia e
proletariato, ma anche al loro interno. “Differenze esistono
non solo tra operai qualificati” –quella che Hobsbawm
definisce aristocrazia operaia5- e operai non qualificati, ma
fra operai e contadini, tra la i diversi mestieri, tra lavoratori
immigrati e lavoratori del posto, tra lavoratori cattolici e
lavoratori protestanti.”6. Basti pensare al famoso saggio di
Marx in risposta a Bauer, la Questione ebraica. Insomma, la
compresenza di operai qualificati e operai non qualificati
ripropone una stratificazione interna al mondo del lavoro, in
qualche maniera analoga a quella che era stata codificata
dalle
antiche
corporazioni
e
le
tendenze
all’omogeneizzazione individuate da Marx “si scontrano con
processi di diversificazione sociale e culturale. (…) Gli
operai qualificati non si sentono simili ai lavoratori generici
e tanto meno ai marginali che vivono in strada, tengono
molto alla rispettabilità loro e delle loro famiglie, non
dilapidano i loro salari al pub, e caso mai provano a creare
dei club rispettabili ispirati al modo di vivere la socialità del
ceto a loro immediatamente superiore, la piccola
borghesia”7. Allo stesso modo, la classe capitalistica
presenta al suo interno caratteri assai differenti e divergenze
di interessi così inconciliabili, “che spesso le battaglie
politiche più aspre si combattono non già fra le due classi
antagoniste di Marx, ma fra gruppi specifici di borghesia
economica. (…) La dislocazione del potere sociale e politico
è insomma molto più complessa di quanto non dica la parola
magica di borghesia capitalistica”.8
Un altro esempio è rappresentato dalla figura
dell’imprenditore, che fatica ad essere compresa nel
concetto di classe: eppure essa recita una parte di primo
piano nelle trasformazioni sociali ottocentesche. “Sono
coloro che, disponendo di sufficiente capitale e sufficienti
informazioni, affrontano un mercato che si sta espandendo a
vista d’occhio”.9
Stessa interpretazione per gli impiegati, i quali,
seppur rappresentando un fenomeno unitario della
modernizzazione occidentale, sono “gruppi di recente
origine, privi delle tradizioni d’antico regime che in parte
conservano ad esempio alcuni settori professionistici,
organicamente legati ai processi di mercato e, nel caso delle
burocrazie pubbliche, alle istituzioni statali. Appaiono perciò
particolarmente disponibili ai nuovi modelli di
comportamento e di consumo che si vanno affermando nel
XIX secolo e che, nella città moderna, segnano
l’appartenenza alle differenti condizioni sociali. Risiedono
in quartieri decorosi, opportunamente distanti dai quartieri
operai. Si circondano di simboli di uno status conquistato e
mai definitivamente acquisito. Evitano di avere troppi figli e
sono attenti a dare loro un livello di istruzione che gli
permetta di conservare la condizione sociale del
capofamiglia e migliorarla. Sono numerosi e tuttavia
disorganizzati.”10.
Pur non rappresentando un gruppo sociale coeso e
sebbene dispersi nel chiuso di famiglie e di economie
familiari, gli impiegati, sono però un segmento importante
del sistema economico e dello stesso sistema politico per la
conquista del consenso. Allo stesso modo non c’è da stupirsi
se l’altro settore socio-professionale pronto ad emergere ed
irrobustirsi sull’onda dell’allargamento dello Stato e del
mercato saranno i professionisti: l’altra figura che
maggiormente caratterizzerà la città ottocentesca, cioè quel
luogo di “produzione” di borghesia che solo indirettamente
6
3
Macry op. cit. pp. 119-120
4
ibidem p.116
5
cfr Eric J. Hobsbawm. Cap.XII La città, l’industria, la classe operaia in Il trionfo
della borghesia 1848-1875
Macry op. cit. pp. 116-117
ibidem
8
ibidem p.120
9
ibidem p.121
10
ibidem p.124
7
2
ha a che vedere con i processi di industrializzazione e che
piuttosto va ricondotta all’ambiente cittadino come nuovo
contesto della modernità.
“Val la pena di soffermarsi su tre aspetti della questione. In
primo luogo, la nascita o forte crescita di settori
professionali e lavorativi specificamente legati alle funzioni
che vengono richieste dalla vita urbana. In secondo luogo,
l’emergere di una sorta di coscienza urbana, la quale finisce
per collegare gruppi e condizioni sociali pur differenti e che
potremmo definire come una nuova sensibilità al consumo. I
cittadini sono consumatori. In terzo luogo, la tendenza della
vita urbana ad agglomerare ed uniformare i comportamenti e
le opinioni, cioè dalla massificazione dei processi sociali che
avrà il proprio teatro compiuto, come’è noto, nel XX
secolo”11.
In buona sostanza, sia nel caso della nuova borghesia
urbana, sia nel caso della “aristocrazia operaia” descritta da
Hobsbawm, l’elemento che differenzia la stratificazione
sociale dei secoli precedenti dalla società complessa fin qui
delineata è rappresentato da una forte mobilità sociale, cioè
lo spostamento di individui o gruppi da una posizione sociale
ad un’altra.
Legittimità del potere, coscienza di classe e
formazione del consenso:
il Cittadino-Elettore
Si è parlato della formazione di un nuovo centro del
potere, lo Stato Liberale e di come categorie sociologiche e
categorie politiche possano determinare punti di vista
differenti.
Allo stesso modo, introducendo il concetto di
potere, da un punto di vista riconducibile alle tre dimensioni
della diseguaglianza tra strati sociali –ricchezza, prestigio e
potere – possiamo dire che i rapporti tra le classi sono
rapporti di potere e, in quanto tali, risulta arduo costruire
degli strati a seconda non della distribuzione di certi valori,
ma a seconda del grado in cui una società è distribuito il
potere. “Il potere è un valore particolare non solo perché
determina la distribuzione di tutti gli altri valori, ma
soprattutto perché, dato che si esercita su altri uomini, vi è
chi lo subisce ed è quindi difficile considerarlo una risorsa
che si distribuisce sia pure in modo diseguale tre tutti i
cittadini. (…) Se quanto affermato è vero, cioè che il potere
è un valore a somma zero e determina la distribuzione degli
altri valori sociali, possiamo dire che i rapporti di classe sono
essenzialmente rapporti di potere e che quindi il concetto di
potere fornisce l’aspetto unificante per identificare in modo
sintetico la strutturazione delle diseguaglianze sociali.”12.
Da un punto di vista storico politico, anche la
capacità di contrattazione che i ceti dimostrarono avere nei
confronti del re ci dà un’idea del rapporto col potere che la
“classe” borghese riuscì a costruire. La dipendenza del
potere politico da quello economico, infatti, permise alle
assemblee di rappresentare il cavallo di Troia della borghesia
nei confronti del potere costituito. Come scrive Duverger
“l’evoluzione globale della società tende all’instaurazione
della plutodemocrazia”13 intendendo per questa il regime
occidentale in cui il potere poggia contemporaneamente sul
popolo (demos) e sulla ricchezza (plutos). È la storia del
sistema aristomonarchico che vede nei secoli l’emergere
della borghesia; prima nei comuni, poi, elevandosi dal piano
municipale al piano nazionale, nelle assemblee degli stati
(ordini o ceti). Nell’aristomonarchia due vie si aprivano alla
borghesia “per farsi un posto nel sistema esistente. Essa può
allearsi all’aristocrazia facendo delle assemblee di stati un
vero parlamento che controlii e limiti il potere monarchico.
O, al contrario, aiutare il re a sbarazzarsi della tutela dei
nobili, il che porterebbe alla scomparsa delle assemblee di
stati per lo smembramento delle loro componenti, e
all’instaurazione della monarchia assoluta. Grosso modo, la
prima via sarà seguita in Gran Bretagna e la seconda sul
continente.”14 . Allo stesso modo, “possiamo dire che prima
del 1848 la borghesia combatte su un solo fronte e che
successivamente combatte su due fronti, il secondo dei quali
diventerà molto presto più importante del primo.”15 .
La grande forza della borghesia risiede in questa
capacità di trasformare a suo vantaggio gli equilibri
precedenti, il concetto di consenso che i signori
contrapponevano al diritto ereditario del re, i contrappesi che
il suo potere doveva avere, sono temi che i liberali
riprendevano riadattandoli come avevano fatto con le
assemblee e la rappresentanza feudale. È cosi che in Europa
si sviluppa la teoria della superiorità del parlamento. “Ciò
dipende non soltanto dal suo ruolo storico nella formazione
della democrazia liberale, ma esprime soprattutto la volontà
di proteggersi contro la pressione popolare, sostituendo i
deputati agli elettori come depositari della sovranità
nazionale. (…) La fonte del potere politico non è nei
cittadini, ma nella nazione, entità misteriosa ed astratta che
si esprime nelle assemblee. Si passa così dalla sovranità
popolare alla sovranità nazionale e dalla sovranità nazionale
alla sovranità parlamentare.”16. Per Duverger, questa abile
costruzione ideale tende a risolvere la contraddizione tra
ideologia liberale, che fa del popolo la base del potere, e la
paura della borghesia di esserne sommersa. “Il prestigio che
i liberali conferiscono al parlamento e alla legge non è
pericoloso per gli uomini di affari. In teoria, questa
artiglieria pesante potrebbe distruggere il capitalismo e
instaurare un regime collettivistico. In pratica, una simile
rivoluzione attraverso la legge è impossibile a quell’epoca. I
partiti operai non tentano di ottenere per sé soli la
maggioranza parlamentare e non immaginano neppure di
poterci riuscire. In ogni modo, le assemblee non sarebbero in
grado di dirigere un’economia socialista, giacchè per loro
stessa natura sono inadatte a svolgere compiti di questo
tipo”17.
Al contrario, esse sono fatte proprio su misura per le
funzioni che lo stato liberale assegna ai pubblici poteri:
stabilire l’eguaglianza nei diritti dei cittadini per permettere
l’iniziativa di ciascuno e la concorrenza di tutti; proteggere
M. Duverger, Giano: le due facce dell’Occidente, Ed. di Comunità p.23
ibidem p.26
15
ibidem p.49
16
ibidem p.74
17
ibidem p.72
13
14
11
12
ibidem p.122
cfr Alessandro Cavalli, Classe in in Dizionario di Politica – UTET p.146
3
la proprietà e definire i principi della sua acquisizione e della
sua devoluzione; fissare i termini dei contratti commerciali e
sanzionare la loro inadempienza; regolamentare i rapporti
familiari e le eredità al fine di garantire i patrimoni privati
senza permettere la ricostituzione di privilegi feudali;
assicurare le libertà pur proteggendo l’ordine pubblico
contro gli autori di crimini e delitti. “La struttura delle
assemblee, che rende loro difficile la direzione
dell’economia ne fa invece un eccellente strumento di
legislazione civile, penale, e politica”18.
Il potere si fonda dunque “in Francia come in
Inghilterra e negli Stati Uniti, e poi in tutta l’Europa
occidentale, su una sovranità popolare riconosciuta da carte
costituzionali o esercitata di fatto. I parlamenti controllano i
governi. La classe politica viene scelta dagli elettori. E
sebbene il diritto di voto non sia certamente universale, le
trasformazioni del sistema politico –conviene Macry- danno
voce alla società e ne provocano il progressivo
organizzarsi.”19.
Questo determina la nascita della questione del
consenso. Fin dal XIX secolo infatti i governi non
mancheranno di utilizzare “l’ansia di mobilità sociale e la
ricorrente insicurezza dei ceti impiegatizi, enfatizzando una
distanza dalle classi del lavoro manuale che talvolta è un
puro elemento ideologico, illusorio, più che un dato reale.”20.
Gli impiegati, per i loro obblighi di fedeltà, diverranno un
elemento importante del consenso raccolto dai governi
attraverso i sistemi elettorali ancora legati al reddito –ancora
di più, durante i totalitarismi.
La fonte del potere politico non è ancora nel
cittadino-elettore, ma nel deputato-parlamento e il
professionista ha tutti i numeri per impersonare il tratto di
passaggio da un sistema politico di antico regime, fondato
sulla nascita e sul potere locale, il cosiddetto notabilato, ad
un sistema politico di tipo rappresentativo. Costruisce “le
proprie influenti reti di conoscenze personali utilizzando
l’ambiente familiare di provenienza, le amicizie coltivate in
scuole superiori e college esclusivi e poi, soprattutto le
clientele legate alla stessa professione. (…) Chi meglio degli
avvocati potrà sedere nella Camera italiana o nell’Assemblea
parigina e tradurre in leggi e regolamenti esecutivi la nuova
politica rappresentativa di tipo liberale?”21 .
Ed è dopo il 1848, - dirà Duverger, ma anche
Wallerstein o ancora, seppur in toni diversi, Hobsbawm –
che la borghesia e il sistema liberale cambiano
atteggiamento rispetto alle masse popolari. C’è un
elemento nuovo ora, che rischia di rompere quella che, da un
punto di vista sociologico, Runciman chiama la falsa
coscienza. Da un punto di vista politico questo elemento è
rappresentato dall’acquisizione di una coscienza di classe.
Se operai e lavoratori non manuali sono soggetti, nella
società in cui vivono (e dunque ancora una volta da un punto
di vista sociologico), a ineguaglianze sociali, politiche,
ancora nel XX secolo, quasi mai l’insoddisfazione e il
risentimento, per quanto acuti, corrispondono alla reale
entità dell’ineguaglianza.
Il consenso del cittadino-elettore sarà, in epoca
liberal-democratica,
notevolmente
influenzato
dai
meccanismi usati dalle classi dominanti per frenare lo
sviluppo di uno scontento potenzialmente egualitario, dalla
frustrazione della classe media, dalle trasformazioni della
coscienza operaia, dalle motivazioni con cui le
organizzazioni che rappresentano gli interessi di classe
propongono rivendicazioni e riforme. E tuttavia, come il
Terzo stato per l’ancien régime, c’è ora un Quarto stato che
avanza e che pur rimanendo sostanzialmente imbrigliato
nelle maglie del parlamentarismo liberale, contribuirà a
scardinare il meccanismo di voto dei regimi liberalcensitari.
Da questo punto di vista, la classe , seppur con tutti i
suoi limiti ad essere utilizzata per una descrizione puramente
sociologica, è l’elemento di più valida unificazione di quei
fattori comuni a tutti gli operai: “l’esperienza della
disoccupazione congiunturale, effetto di cicli economici
sfavorevoli che in questo secolo sono scarsamente contrastati
da ammortizzatori sociali; e, quasi per tutti, i salari sono
esposti a dure fluttuazioni, specie laddove esista un esercito
industriale di riserva, cioè una massa di disoccupati, di
contadini, di immigrati disponibili ad entrare nel processo
della produzione industriali a prezzi stracciati. Alcune delle
lotte più dure e violente oppongono così gli operai ai
crumiri, cioè ad altri lavoratori reclutati per sostituirli
quando essi si mettono in sciopero.”22. Quella fascia di
popolazione che, non avendo la proprietà dei mezzi di
produzione, vende il proprio lavoro ad un imprenditore in
cambio del salario diventa il proletariato che il movimento
operaio intende rappresentare. La sua coscienza di essere
classe troverà nell’ideologia socialista e nel partito il suo
collante più forte.
In questo senso la teoria marxista sosterrà che un
partito è proletario perché difende gli obiettivi del
proletariato anche se non è sostenuto dalla maggioranza dei
proletari per mancanza di una sufficiente coscienza di classe:
“Le classi dominanti si sforzano sempre di frenare lo
sviluppo di questa coscienza nelle classi dominate, al fine di
indebolire la posizione dei loro avversari. Esse riescono a far
più o meno sostenere l’ordine costituito da una parte di
coloro che esse dominano, e che dunque combattono contro i
loro stessi interessi. La lotta del sistema occidentale contro
l’aristomonarchia offre numerosi esempi di una siffatta
situazione. Questa lotta non oppone sfruttatori e sfruttati, ma
la classe dominante dell’economia agraria tradizionale e la
classe dominante in una economia capitalistica. Tuttavia, le
classi oppresse sono interessate a tale lotta nella misura in
cui la plutodemocrazia offre loro mezzi più efficaci di
resistenza all’oppressione (elezioni, libertà pubbliche, partiti
operai, sindacati, sviluppo dell’istruzione.). E’ comprensibile
dunque che le classi popolari abbiano appoggiato la
borghesia nella sua battaglia, sebbene esse siano state
sfruttate da questa stessa borghesia nel significato marxista
del termine. (…) E’ meno comprensibile che l’aristocrazia
abbia trovato un ampio sostegno nelle masse contadine che
non potevano avere alcuna speranza di liberazione nel
mantenimento del vecchio sistema politico.”23 .
18
ibidem
Macry, p.118
20
ibidem p.124
21
ibidem p.123
19
22
23
ibidem p.118
Duverger, pp. 49-50
4
È proprio questa anomalia, questa falsa coscienza, a
rappresentare l’oggetto di indagine sociologica di Runciman
in Ineguaglianza e coscienza sociale: l’idea di giustizia
sociale nelle classi lavoratrici: “L’insoddisfazione per il
sistema di privilegi e di compensi di una data società non
viene mai provata in proporzione al grado di ineguaglianza
cui sono soggetti i suoi diversi membri. Molti che stanno in
basso hanno meno risentimenti verso il sistema di quanto
non sembri giustificato dalla loro effettiva posizione, e molti
più vicini al vertice ne hanno di più. Il contadino reazionario,
il radicale benestante, il povero rispettoso, si ritrovano nella
storia di molti luoghi e di molte epoche: in tutti questi casi
c’è una discrepanza tra la posizione di ineguaglianza e la sua
accettazione o il suo rifiuto.”24 .
La domanda di Macry è allora: che relazione c’è tra
questa stratificazione socio-culturale interna alle classi
operaie e le forme politico-sindacali che nel corso del XIX
secolo assume il movimento operaio? Qui la risposta si fa
insidiosa, al punto che l’interpretazione data dallo stesso
Macry risulta parziale e poco convincente rispetto all’analisi
secca che ne dà Wallerstein e che riprenderemo in
conclusione (terza sezione). In buona sostanza, Macry si
attiene alla lettura leninista che vede nell’operaio qualificato
la base sociale del riformismo della Seconda Internazionale
(1889) ma non rende ragione della sua presenza in episodi
più rivoluzionari (1830, 1848-49, 1871).
D’altra parte l’elemento di riforma sociale
rappresentato dall’istituzione delle società di mutuo
soccorso, dalle prime Trade Unions, la pratica del closed
shop e dello sciopero è riconducibile sicuramente a questa
figura dell’aristocrazia operaia, che gli altri operai
prenderanno a modello e che condurrà ai sindacati di
mestiere. E tuttavia la distinzione tra aristocrazia operaia e
proletariato sovversivo (in questo conviene anche Macry) è
debole: consiste più in una distinzione dei metodi di lotta ed
in fondo anche i sindacati di mestiere si distingueranno tra di
loro su questa base, rimanendo accomunati forse solo dal
loro rifiuto del partito come partner del sindacato: questo
almeno fino a quando l’avvento dei sindacati d’industria e la
loro vicinanza ai partiti non darà all’ideologia socialista
un’inedita e molto più articolata capacità di lettura e di
rappresentanza della società.
È necessario, dunque, che alla parola d’ordine
liberista e individualista del laissez faire cominci a fare da
contraltare un’idea di eguaglianza sostanziale e di giustizia
sociale, perché si affacci l’esigenza dell’allargamento del
voto, traghettando la società complessa da un sistema
liberal-censitario ad un sistema liberal-democratico:
“Gli abitanti dei paesi dove si affermano le dottrine liberali
diventano cittadini ed elettori. A dire il vero, si tratta di
processi lunghi. I diritti di cittadinanza e soprattutto i diritti
politici verranno riconosciuti con grande cautela e gradualità.
Eppure, allo scoppio della Grande Guerra, forme di suffragio
allargato universale sono ormai operanti in Gran Bretagna e
in Scandinavia, in Francia e Germania, in Italia e
nell’Impero Asburgico oltre che negli Stati Uniti. Il diritto di
voto allargato provocherà processi di aggregazione delle
opinioni pubbliche, di coesione sociale, di organizzazione. E
Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale: l’idea di giustizia sociale nelle
classi lavoratrici p.3
nondimeno spingerà i governi a promuovere politiche capaci
di generare consenso nella popolazione o in settori
importanti di essa.”25 .
Supplemento storiografico
I tempi della storia Breve e lunga
durata.
Mappa della Scuola degli "Annales" (dal 1929): la storia come una delle scienze
umane, fra la sociologia, la geografia e l'economia. Personaggi: Marc Bloch (trae da
Emile Durkheim il concetto di "rappresentazioni collettive"), Georges Lefebvre, Lucien
Febvre, Emmanuel LeRoy Ladurie, Fernand Braudel.
Lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985) ha pubblicato nel 1949 La
Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II (titolo italiano Civiltà
e imperi nell'età di Filippo II), diviso in tre parti: L'ambiente (paesaggio, clima, mondo
urbano ecc.), Destini collettivi e movimenti d'insieme (economie, imperi, società, civiltà,
ecc.), Gli avvenimenti, la politica e gli uomini (vicende storiche seguite
cronologicamente).
Le tre sezioni del libro di Braudel coincidono con le tre diverse velocità della storia (la
storia, un'autostrada a tre corsie).
Dalla prefazione: "Questo libro è diviso in tre parti […] la prima tratta una storia quasi
immobile, quella dell'uomo nei suoi rapporti con l'ambiente: una storia di lento
svolgimento e di lente trasformazioni, fatta spesso di ritorni insistenti, di cicli
incessantemente ricominciati […]. Al di sopra di questa storia immobile, una storia
lentamente ritmata […], una storia sociale, quella dei gruppi e degli aggruppamenti […].
La terza parte, infine, è quella della storia tradizionale, se si vuole della storia secondo
la dimensione non dell'uomo, ma dell'individuo, la storia "événementielle" […]. In tal
modo, siamo giunti a decomporre la storia in piani sovrapposti. O, se si vuole, a
distinguere nel tempo della storia, un tempo geografico, un tempo sociale, un tempo
individuale".
Una teorizzazione di questa esperienza di ricerca e di scrittura in F. Braudel, Storia e
scienze sociali. La "lunga durata" (1958): "Dalle recenti esperienze e tentativi della
storiografia, si sviluppa […] una nozione sempre più precisa della molteplicità del
tempo e del significato eccezionale del tempo lungo […]. La storiografia tradizionale
interessata ai ritmi brevi del tempo, dell'individuo, dell' événement, ci ha abituati da
tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro. La nuova storiografia
economica e sociale pone al primo posto, nella sua ricerca, le oscillazioni cicliche, e
punta sulla validità delle loro durate: è rimasta presa dal miraggio, nonché dalla realtà
delle ascese e discese cicliche dei prezzi […] in cui il passato viene chiamato in causa
sulla trama di ampie partizioni, di decine, ventine o cinquantine d'anni. Molto al di là di
questo secondo recitativo si colloca una storia di respiro ancora più sostenuto, di
ampiezza secolare, stavolta: la storia di lunga, addirittura di lunghissima durata […].
Ammetterla al cuore del nostro mestiere […] significa familiarizzarsi con un tempo
rallentato, a volte quasi al limite dell'immobilità".
Bibliografia: F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973
Il riformismo e l’Analisi dei Sistemi Mondo:
come rileggere la contrapposizione
Liberale-Socialista
Con quest’ultima sezione tenteremo, attraverso l’utilizzo
dell’ultima coppia Liberalismo-Socialismo, di completare il
senso emerso nella prima: che cioè un approccio che guarda
alla ‘primordialità’ del rapporto tra borghese e proletario
quale spiegazione della lotta di classe è una rappresentazione
ideologica che non coglie la complessità dei processi
attraverso i quali si realizza l’appropriazione di un
plusvalore da parte di alcuni soggetti sul lavoro di altri
soggetti.
24
25
Macry p.125
5
Il sistema liberale rappresenta la nuova dimensione
all'interno della quale considerare le politiche sociali nella
società dominata dal modo di produzione industriale. Questo
nuovo modo di produzione richiede agli operai di fabbrica di
piegarsi ad una serie di regole che costituiscono il regime di
fabbrica. Quanti sono assunti, sulla base di contratti
individuali "liberamente" sottoscritti, debbono non soltanto
apprendere nuovi modi di eseguire il lavoro attraverso
l'utilizzazione delle macchine automatiche, ma è necessario
che si assuefacciano ai nuovi orari e ai nuovi ritmi e si
sottomettano a forme di regolamentazione e controllo del
lavoro attraverso le quali si realizza una "disciplina di
caserma" come scrive Marx nel cap. XIII del primo libro de
Il Capitale.
Nella seconda sezione abbiamo cercato di spiegare
la formazione del consenso col fatto che nella società
industriale l'attenzione delle élites nazionali si sposta dalle
classi povere alla classe operaia in quanto: 1) la classe
operaia, unitamente agli imprenditori capitalisti, è la
protagonista della rivoluzione industriale; 2) il conflitto
industriale oltre una certa soglia è destabilizzante del sistema
capitalistico; 3) le workhouses della classe operaia sono le
fabbriche, cioè il luogo nevralgico del processo di
produzione capitalistico; 4) il capitalismo industriale - nella
sua esigenza di sviluppo - può essere garantito soltanto dal
consenso di chi opera nella struttura produttiva.
La drammaticità delle condizioni della classe
operaia, insieme al rifiuto da parte delle classi dominanti di
estendere ad essa i diritti politici, costituisce quella miscela,
potenzialmente esplosiva, che spiega la mobilitazione delle
classi subordinate e il conflitto da esse promosso.
Il riformismo, peraltro, non nasce all'improvviso ma
è tutto interno all'esperienza storica del socialismo e alla sua
evoluzione programmatica che nella sostanza si svolge in
modo simmetrico rispetto al conflitto.
Schematizzando possiamo dire che nella società industriale
l'andamento del conflitto descrive una parabola che passò
per tre stadi fondamentali e successivi:
- prima fase: E' il conflitto post-corporativo proprio della
prima industrializzazione che avviene in corrispondenza del
passaggio dallo status al contratto. Pur costituendo
un'importante innovazione il contratto - in particolare il
contratto di lavoro salariato - a causa delle notevoli
differenze nei rapporti di potere esistenti tra le parti
stipulanti, mette in evidenza una relazione essenzialmente
coercitiva, altamente asimmetrica, le cui parti sono
necessariamente ostili l'una all'altra. Di conseguenza in
questa fase i conflitti di lavoro si fanno frequenti anche se
non assumono immediatamente le caratteristiche che saranno
proprie dell'azione sindacale e politica in quanto non sono
ancora operanti organizzazioni rappresentative degli interessi
economici, professionali e politici della nuova classe
lavoratrice impegnata nel sistema di fabbrica.
- seconda fase: un progressivo passaggio al conflitto
antagonistico in seguito alla polarizzazione che si viene a
introdurre all'interno della società industriale per il rifiuto di
riconoscere diritti politici e sociali alla classe operaia. Il
conflitto antagonistico è pertanto finalizzato a realizzare
l'eguaglianza di quei diritti che possono conferire alle classi
lavoratrici lo status di membro a pieno titolo della comunità
nazionale. Sul piano della storia del pensiero politico, poi, il
conflitto antagonistico diviene l'elemento fondante della
teoria socialista di superamento dello stato liberale. I
rischi per il sistema capitalistico derivanti da questo conflitto
sono dovuti non solo alla prospettiva eversiva sottostante
alla sfida ma anche alla strategia posta in atto che coniuga il
conflitto nei luoghi di lavoro con quello all'interno delle
istituzioni. Le lotte di classe, infatti, come nota Wallerstein26,
hanno avuto luogo in due sedi: nel campo economico (sia nel
luogo effettivo del lavoro, che nel più largo e amorfo
mercato), e nel campo politico. Il quadro politico estremamente complesso - che si viene a configurare in
questa fase può essere descritto, semplificando, attraverso
tre paradossi: 1. borghesia industriale e classe operaia sono
collaboratori necessari nella sfera della produzione e soggetti
conflittuali in quella dei diritti politici e sociali; 2. la
borghesia liberale proclama libertà, eguaglianza e fraternità
come principi universali e fondamento dei diritti dell'uomo
ma riconduce alla proprietà privata la fonte dei diritti di
cittadinanza che vengono negati, in tal modo, alla classe
operaia; 3. la classe operaia e le teorie socialiste rivendicano
l'estensione dei diritti politici e sociali iscritti nel codice
genetico del liberalismo ma per conseguirli sono costretti ad
elaborare e a mettere in atto un'iniziativa anti-liberale quale
l'eversione del sistema capitalistico per realizzare la
soppressione della proprietà privata.
-la terza fase: il conflitto istituzionalizzato che si apre con
le politiche riformistiche dei partiti socialisti
Il quadro così definito rende evidente l'insostenibilità
della situazione che i paradossi descrivono. In questa fase in
cui il conflitto si. fa più esplosivo assistiamo alla
convergenza di due processi. Innanzitutto il realismo
politico indusse i liberali a considerare necessaria l'adozione
di politiche sociali realizzando, in tal modo, un progressivo
abbandono del principio dello "stato minimo" insieme a
quello del "suffragio ristretto". Realizzarono così una
conciliazione tra le logiche della democrazia e quelle del
liberalismo, (i due termini "inseparabili e nemici i cui
disaccordi e le cui pacificazioni travaglieranno il pensiero
politico del XIX secolo ed anche del nostro").
Il rinnovamento del liberalismo avverrà, a cavallo tra
i due secoli, con il riconoscimento che la libertà è non solo e
non tanto un diritto dell'individuo ma una necessità sociale
per cui non basta proclamare in suo nome eguali diritti
innanzi alla legge, ma occorre riconoscere anche una
equality of opportunity.
Al tempo stesso si verifica un cambiamento di rotta
negli orientamenti dei partiti socialisti costretti dall'urgenza
degli avvenimenti ad affrontare il nodo riformerivoluzione. Questo dilemma sarà sciolto da quasi tutti i
partiti socialisti dell'Europa occidentale attraverso una
formula temporanea e compromissoria rappresentata dal
"riformismo" il quale concilia la fedeltà al marxismo e ai
suoi dogmi con la ricerca di migliori condizioni per la
crescita della classe operaia. Ciò comporta "sporcarsi le
26
Wallerstein, I. 1983 Il capitalismo storico, Torino, Einaudi p.46
6
mani", per usare un termine sartriano, collaborando con i
partiti borghesi progressisti per il raggiungimento di questo
fine. Con il ‘riformismo’ o con la ‘rivoluzione’, con il
contributo degli ‘esperti’ o con il ruolo primario della
‘masse’, alla base di queste proposte vi era l’idea, fattasi
dottrina sociale, di un ‘progresso’ inarrestabile e inevitabile
che avrebbe alla fine prevalso e garantito a tutti un futuro di
prosperità.
Sulla reazione a questa idea di progresso ruota
l’Analisi dei Sistemi Mondo (WSA) di Wallerstein, direttore
del ‘Fernand Braudel Center for the study of Economies,
Historical Systems, and Civilizations’: un progetto che
aggrega altri studiosi orientati su questi temi (tra i quali
Hopkins, Giovanni Arrighi, Samir Amin, Gunder Frank)
provenienti dai nuovi orientamenti intellettuali critici verso
le ‘teorie sviluppiste’ di matrice sia liberale sia marxista. Se
a divergere erano le strategie e le soluzioni che avrebbero
portato alla costruzione di un ‘mondo migliore’, l’obiettivo e
la promessa implicita comuni alle teorie sviluppiste
consistevano nell’individuazione di percorsi che, una volta
risolta
la
‘questione
nazionale’
attraverso
la
decolonizzazione e la costruzione degli stati-nazione,
avrebbero finalmente condotto anche queste realtà a
risolvere la ‘questione sociale’ interna e a ‘colmare il
divario’ esistente rispetto ai paesi industrializzati.
Qual è dunque l’oggetto di’indagine della Analisi
dei sistema-mondo? È innanzitutto un sistema sociale, in sè
un ‘mondo’ perché caratterizzato da una autonomia in
quanto entità economico-materiale; in esso esiste una ampia
“divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di
gruppi
sociali
discriminabili
sia
verticalmente
(culturalmente, etnicamente,
per
nazionalità), sia
orizzontalmente (in termini di classi sociali).”27. Questa
entità economica e le culture che la caratterizzano si
collocano in uno spazio geografico che non è
necessariamente il mondo intero: i suoi confini sono cioè
rilevabili empiricamente dal reticolo dei processi produttivi
più o meno interdipendenti, dalle ‘catene di merci’ che lo
percorrono. È, inoltre, un sistema sociale caratterizzato da
una storicità, un ‘divenire’ in cui questi confini e la loro
interazione con quelli definiti da altre dimensioni sociali, (in
particolare dalla dimensione politico-legale e da quella
culturale) , sono mutevoli e cambiano nel tempo.
Spazio e tempo in questo caso sono ridefiniti in
nuove categorie concettuali. Ripercorrendo Braudel28,
Wallerstein assegna degli spazi a quei tempi (il tempo
episodico, il tempo congiunturale, il tempo strutturale della
longue durée) che per lo storico francese segnano la storia e,
dunque, il cambiamento sociale. Emerge così il concetto di
‘spazio-tempo’ attraverso il quale possiamo percepire un
sistema storico reale. Se esistono dei processi ciclici che
governano un sistema sociale, (in quello che per Braudel è il
tempo congiunturale, o ciclico, a cui Wallerstein associa uno
spazio ‘ideologico’), esiste anche uno ‘spazio-tempo
27
I. Wallerstein, Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistemamondo (trad. di Carmine Donzelli), Torino, 1985, Appendice “Il concetto di spazio
economico”, p. 98.
28
Fernand Braudel, 1902-1985. Figura centrale della scuola delle ‘Annales’, autore
di ‘Civiltà e imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II’ e di ‘Civiltà materiale,
economia e capitalismo’, ha trasformato il modo di concepire e scrivere la storia,
utilizzando gli apporti delle scienze sociali, in contrasto con una storia ‘politicodiplomatica’.
strutturale’ entro cui questo sistema ha origine, si evolve, e,
attraverso lo ‘spazio-tempo trasformazionale’, cessa di
esistere o muta radicalmente la propria natura.
Un punto di svolta, per Wallerstein, è rappresentato
dalla rivoluzione francese: l’eredità di questo evento e il
significato che essa assume non è borghese, bensì
antiborghese. Infatti, la borghesia credeva nel profitto e non
nell’ideologia liberale: quest’ultima ha rappresentato
piuttosto “lo sbocco strutturale del processo capitalistico,
l’imborghesimento finale delle classi più elevate”29, la piena
maturazione dell’era borghese e capitalistica. L’elemento
politico che emerge dalla rivoluzione francese è che essa
annunciò il futuro, portando alla luce la forza delle “masse
po-polari, che per la prima volta sembravano pensare
seriamente all’acquisizione del potere statale.”. Essa “in
piccola parte fu un successo, in gran parte un fallimento” ,
ma le sue parole d’ordine rappresentano il “fondamento
spirituale di tutti i successivi movimenti antisistemici.”.
L’autonomia e l’efficacia di queste lotte, che miravano a
modificare e a sovvertire ‘lo stato di cose presenti’, si
dimostrano a partire dal 1848 con la costruzione di
movimenti sociali organizzati mai esistiti prima: “gruppi di
persone coinvolte in attività antisistemiche iniziarono a
creare nuove istituzioni politiche [...], organizzazioni stabili
con quadri, sedi e specifici obiettivi politici (sia a breve che
a lungo termine).”30
In questo punto risiede la maggiore completezza
dell’analisi di Wallerstein rispetto quella di Macry, sul ruolo
dell’aristocrazia operaia riformista nel 1848 – che per
Wallerstein, ma anche per Revelli31 rappresenta, così come il
1968, una rivoluzione mondiale – “dai fallimenti del 1848 i
socialisti impararono che era improbabile che si potessero
ottenere risultati soddisfacenti facendo affidamento o sulle
insurrezioni politiche spontanee o sul rifiuto del dialogo.”32.
Se i socialisti ne derivarono la strategia dei due stadi (prima
di tutto ottenere il potere dello Stato e, quindi, usare questo
potere per trasformare la società o per giungere al
Socialismo), d’altro canto, i conservatori-restauratori
capirono che era pericoloso che rivoluzioni sociali e
rivoluzioni nazionaliste –pur diverse tra loro- si
sovrapponessero: capirono la necessità, per una maggiore
stabilità, di costruire società nazionali più integrate.
In buona sostanza, in seguito alla rivoluzione
francese, nei paesi del centro dell’economia-mondo iniziano
a delinearsi tre grandi ideologie: il conservatorismo, il
liberalismo e il socialismo; se nessuna di queste correnti di
pensiero si è mai cristallizzata in una versione definitiva,
rappresentando piuttosto delle linee di tendenza, l’unità vera
di ogni gruppo ideologico era da ricercare solo in ciò contro
cui esse lottavano.
La prima ideologia ad emergere, quale reazione alla
pericolosità delle nuove verità della ‘liberazione’, è stata
quella conservatrice: in un primo momento essa ha negato
la realtà e la portata innovatrice dei fatti francesi basandosi
sull’idea che legittimare il cambiamento poteva avere solo
conseguenze sociali nefaste. Dal rifiuto totale, si è giunti
29
Wallerstein, Il sistema mondiale, vol. 3, p. 52.
Arrighi, Antisystemic movements, p. 31.
31
Revelli, Movimenti sociali e spazio politico in Storia dell’Italia repubblicana vol
2 tomo II, pp.392-398
32
Wallerstein, dopo il liberalismo p.100
30
7
successivamente a quella posizione che oggi riconosciamo
come conservatorismo: “il cambiamento ‘normale’ doveva
realizzarsi il più lentamente possibile e doveva essere
incoraggiato solo a condizione che, dopo attenta analisi, lo si
fosse giudicato una misura necessaria a pre-venire un
maggiore sovvertimento dell’ordine sociale.”33
Per i
conservatori, contrari all’avvento della modernità e difensori
della ‘tradizione’, l’idea centrale è sempre stata quella di
preservare i valori tradizionali poiché essi incarnano la
saggezza.
Il liberalismo nasce in opposizione alle idee
conservatrici, costituendosi quale “ideologia naturale della
normalità del cambiamento” . La liberazione dalla
‘irrazionalità’ del passato da un lato, e il ‘progresso’ ritenuto
inevitabile, dall’altro, andavano perseguiti con l’intervento
dell’uomo, attraverso una “politica di cosciente, costante e
intelligente riformismo” . Il liberalismo si collocò così
sempre al centro della scena politica proclamando la propria
universalità e cercando di diffondere le proprie idee e di
imporre la propria logica a tutte le istituzioni sociali.
Infine, in contrasto con l’ideologia liberale, il
socialismo si definisce a partire dal 1848 accettando la
premessa fondamentale dell’ideologia liberale, la
“inarrestabilità del cambiamento (o progresso)”, ma
aggiungendovi due specificazioni cruciali sufficienti a dar
vita ad un programma politico del tutto diverso: “il progresso
era considerato come qualcosa che si realizzava non in modo
continuo ma discontinuo, vale a dire con la rivoluzione” e
con un programma politico capace di accelerare il corso
della storia attraverso la mobilitazione popolare. Inoltre il
capitalismo e la ‘società borghese’ rappresentavano non
l’ultimo ma il penultimo stadio “nell’ascesa verso la società
giusta o perfetta”.
Questi tre raggruppamenti hanno costituito “lo
spettro ideologico trimodale”
dell’economia-mondo
capitalistica, la sinistra, il centro e la destra, entro cui le forze
politiche (e la mentalità della gente) si sono schierate nella
lotta politica e la cui attenzione si è concentrata piuttosto
sull’‘oggetto’ delle loro strategie, lo stato, che rappresentava
il luogo dove la sovranità popolare andava esercitata. In
questo modo, il concetto di popolo è venuto definendosi
quale riflesso della difesa degli interessi della società contro
lo Stato, proclamata e teoricamente perseguita da tutte e tre
le correnti ideologiche.
In altre parole, per portare avanti i propri programmi politici
“tutte e tre le ideologie rilevarono di non poter fare a meno
dei servizi dello Stato” , determinando così il successo della
strategia liberale che “fu messa in atto grazie all’impegno
congiunto di conservatori e socialisti.”
I terreni principali su cui questa convergenza si è prodotta
sono stati quelli della costruzione dello spirito nazionale, del
progressivo allargamento del suffragio, dell’avvio della
costruzione dello stato sociale. Il terreno su cui il
Liberalismo prevarrà a lungo sulle altre culture.
Ma se, con le parole di Wallerstein, ‘la cultura è il sistemamondo’, il percorso secolare di ascesa dell’economia-mondo
europea e la sua espansione in tutto il globo hanno
significato anche la costruzione e l’ affermazione di una
particolare e consona ‘visione del mondo’, capace di
garantire il prevalere, su altri e diversi obiettivi,
dell’accumulazione di capitale.
In altri termini, le dinamiche del capitalismo storico hanno
prodotto e progressivamente imposto una ‘geocultura’ che è
culminata, nei secoli XIX e XX, nella dottrina globale del
liberalismo. L’evidenza che “la maggioranza dei quadri del
sistema continua ad accettare attivamente questi valori, e la
maggioranza della gente comune non converte in azione il
proprio scetticismo” significa oggi che questa “geocultura
esiste e che i suoi valori prevalgono.”34
33
34
ibidem p.71
Poiché ogni U.D. non dovrebbe terminare in una conclusione
ma con dei problemi che aprano nuovi percorsi, può essere
interessante richiedere agli studenti, a mò di resocontoricerca, uno studio comparativo dei termini emersi nelle tre
sezioni di questa U.D.: geocultura, falsa coscienza,
coscienza di classe.
Al di là di ciò, il contributo che questa “proposta di lezione”
vorrebbe lasciare agli studenti, invitandoli ad interessarsi alla
definizione della questione democratica del presente, risiede
tutto nell’atteggiamento che sembra caratterizzare uno
storico come Wallerstein. L’attenzione e la sensibilità verso i
movimenti, i popoli e le culture, sono alla base della sua
attività intellettuale. Da un lato il suo invito è quello di
pensare al ‘futuro che vogliamo’, rivisitando concetti quali
sviluppo, progresso, dominio sulla natura, in nome di una
razionalità non ‘oggettiva’ ma sostenibile. Dall’altro egli ci
invita anche a ripensare concetti come democrazia, libertà e
uguaglianza, i quali, in un mondo sempre più a ‘modello
unico’, tendono oggi a mascherare i privilegi di una
minoranza della popolazione mondiale.
Testi Citati
P.Macry, Le società e le classi – dal manuale Donzelli P.109-110
Pierangelo Schiera, Società per ceti in Dizionario di Politica – UTET pp.
1067-1071
Eric J. Hobsbawm. Cap.XII La città, l’industria, la classe operaia in Il
trionfo della borghesia 1848-1875
Alessandro Cavalli, Classe in in Dizionario di Politica – UTET p.146
M. Duverger, Giano: le due facce dell’Occidente, Ed. di Comunità p.23
Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale: l’idea di giustizia sociale
nelle classi lavoratrici Einaudi 1972
I. Wallerstein, Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un
sistema-mondo (trad. Donzelli), Torino, ARRIGHI G., HOPKINS T. K.,
WALLERSTEIN I., Antisystemic movements (trad Vecchi), Roma, 1992.
Revelli, Movimenti sociali e spazio politico in Storia dell’Italia
repubblicana vol 2 tomo II, pp.392-398
Wallerstein, Dopo il liberalismo, Jaka book 1998
Wallerstein, Dopo il liberalismo, p. 151.
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