KARL MARX (1818 - 1883)
1. La concezione materialistica della coscienza umana
La filosofia di Marx è una sintesi delle tre maggiori correnti di idee del primo Ottocento:
a) la filosofia tedesca (dall'idealismo di Hegel al materialismo di Feuerbach);
b) l'economia politica inglese (con particolare riferimento a Smith e Ricardo);
c) il socialismo francese (da Proudhon a Saint-Simon, nei cui confronti fu sempre molto critico).
Il programma filosofico di Marx si profila fin dai tempi della sua tesi di laurea dedicata al
confronto tra i sistemi di Democrito ed Epicuro. Nella storia della filosofia occidentale il
materialismo ha sempre avuto una funzione progressiva sia come strumento di emancipazione degli
uomini dalle paure indotte dalla religione, sia come strumento di liberazione dalle strutture
oppressive del potere. È ovvio, tuttavia, che il materialismo del XIX secolo non può esimersi da un
confronto serrato con il sistema filosofico più potente dell'epoca, che è anche la più forte negazione
del materialismo mai elaborata: ovvero il sistema dell'idealismo assoluto hegeliano. Sulla scia di
Feuerbach, ma con una direzione metodologica più consapevole, Marx nei suoi scritti giovanili
porta avanti un'analisi minuziosa della filosofia di Hegel soffermandosi soprattutto sullo statuto
epistemologico della dialettica e sulla concezione del diritto e dello Stato elaborata dallo stesso
Hegel.
La dialettica hegeliana è per Marx la conquista più importante della filosofia tedesca: il mondo
non deve più essere concepito come un insieme di cose compiute, ma come un complesso di
processi che si sviluppano secondo una consequenzialità logica e temporale ben precisa. La
dialettica è un esercizio costante di distruzione delle certezze acquisite, una dissacrazione continua
di tutto ciò che sembra stabile e solido, ma soprattutto un'analisi delle contraddizioni esistenti in
ogni aspetto dell'esistenza umana considerata sia sotto il profilo materiale che dal punto di vista
culturale.
La filosofia di Marx si fonda su un assunto di partenza: non è la coscienza degli uomini a
determinare la loro condizione sociale, ma è la loro condizione sociale a determinarne la coscienza;
la condizione sociale influisce in modo determinante sul tipo di giudizi che si formano nella mente
umana. Lo stesso contenuto della mente, idee, desideri, aspettative, sono condizionate in modo
preminente dall'ambiente sociale in cui l'uomo vive e lavora: il mondo empirico e contingente dei
rapporti sociali ma, soprattutto, dei rapporti economici. Questo punto di vista contiene una critica
decisiva al sistema filosofico di Hegel, per il quale lo Spirito determina la realtà fino ad identificarsi
con essa; infatti, la posizione di Marx rovescia i termini della questione e ripristina
materialisticamente il primato della realtà storico-sociale, che assume una posizione determinante
rispetto alla coscienza. Inoltre, anche la concezione di Feuerbach viene criticata: se è vero che
riconducendo tutto all'uomo Feuerbach aveva posto il problema della natura umana di ogni entità
eterna presente alla coscienza (prima fra tutte quella di Dio), Marx sottolinea che in Feuerbach,
come in gran parte dei pensatori precedenti, l'errore vuole essere superato solamente nella
coscienza, per cui basta cambiare il modo di pensare per eliminare l'errore, mentre Marx mette in
risalto che l'errore può venire superato solo con un cambiamento radicale della stessa realtà in cui
gli uomini si trovano a vivere, così che, una volta cambiata la realtà, questa determini in modo
nuovo anche la coscienza. Il materialismo di Marx si sviluppa entro l'affermazione che è nella realtà
storico-sociale che scaturiscono le verità della coscienza, poiché la coscienza è determinata da tale
realtà. Nelle varie epoche della storia gli uomini sono costretti a vivere, indipendentemente dalla
loro volontà, in un determinato assetto economico attraverso il quale producono i mezzi necessari
alla loro sopravvivenza. Si tratta di quell'aspetto che Hegel chiamava "spirito oggettivo". L'aspetto
economico si riconduce al sistema di produzione (lo schiavismo, il sistema feudale, il capitalismo
ecc.). Così, la produzione dei mezzi che servono a vivere diventa un atto sociale attraverso il quale
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ogni uomo entra in contatto con gli altri: l'economia è quindi la base di ogni altra attività umana.
Marx riassume questo concetto affermando che nella storia dell'uomo si possono riscontrare una
struttura e una sovrastruttura: la struttura è la base economica, la condizione particolare dei rapporti
di produzione in cui si viene a trovare l'uomo in una data fase della storia; la sovrastruttura è ogni
aspetto della realtà che non è quello economico, ovvero, la cultura, la società, lo Stato, la religione,
l'arte e tutti gli altri aspetti ideologici. Ciò significa che la religione, la cultura, l'arte, e la società di
un popolo in un determinato periodo della sua storia sono lo specchio di una certa struttura
economica, ovvero il riflesso di un determinato modo di vivere i rapporti di produzione esistenti. Si
viene quindi a riconfermare quella dipendenza della coscienza (l'ideologia e la cultura) dalla realtà
(i rapporti economici reali e materiali che si instaurano tra gli uomini) che è la tesi principale del
pensiero di Marx. L'uomo pensa in un certo modo perché in un certo modo vive la sua condizione
reale, e non un'altra. La coscienza dell'uomo è quindi condizionata da quella stessa attività che egli
stesso è costretto a porre in essere per garantire la sua sussistenza e la sua sopravvivenza.
2. Genesi e struttura del capitale
Il capitalismo è un sistema basato sulla produzione di merci (beni immobili e mobili) per mezzo di
altre merci (la forza-lavoro). Un'analisi del modo di produzione capitalistico dovrà iniziare quindi
dall'analisi della merce.
In primo luogo una merce è una cosa che soddisfa un bisogno, che serve a qualcuno in vista di un
determinato scopo. Diremo quindi che la merce è dotata di un valore d'uso. In secondo luogo una
merce per essere tale deve poter essere scambiata con altre merci secondo determinati rapporti di
equivalenza. Il secondo aspetto che definisce una merce è quindi il suo valore di scambio. Il valore
d'uso di ogni merce è il suo aspetto qualitativo, commisurato al bisogno che la merce stessa
soddisfa. Il valore di scambio è invece l'aspetto quantitativo. Ma per poter essere scambiate secondo
rapporti di equivalenza le merci devono avere qualcosa in comune, un metro di riferimento che le
renda comparabili a dispetto delle loro differenza qualitative. Ciò che accomuna merci aventi
differenti valori d'uso è il fatto di essere tutte prodotti del lavoro umano. Anche i lavori dell'uomo
a loro volta si differenziano dal punto di vista qualitativo. Altro è il lavoro del minatore, altro
dell'agricoltore, altro quello dell'operaio ecc. Ma in ogni caso il lavoro umano considerato in
astratto è quantificabile sulla base del tempo.
Ne deriva una conseguenza importante anche dal punto di vista politico: il valore di scambio non è
una proprietà che una merce possiede per natura, ma una oggettivazione del lavoro astrattamente
inteso. Ogni merce contiene, accanto alle proprietà naturali che la distinguono qualitativamente
facendone un valore d'uso di un certo tipo, anche delle proprietà sociali derivate dal tempo di lavoro
che in esse viene oggettivato nel corso del processo di produzione. Quando nelle società antiche gli
uomini barattavano le merci secondo determinati rapporti di equivalenza il criterio di riferimento
era dato appunto dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrle. Se, per es., una quantità
"x" di una data merce A viene scambiata con una quantità "y" di un'altra merce B, l'equivalenza
X(A) = y (B)
si ricava dal fatto che il tempo di lavoro necessario per produrre la quantità "x" di merce A è uguale
alla quantità di lavoro necessario per produrre la quantità "y" di merce B. In questo momento della
sua analisi Marx formula la cosiddetta equazione valore = lavoro. Non si tratta, in realtà, di una
invenzione del filosofo di Treviri, ma di un punto di riferimento comune a tutta la scuola classica di
economia politica, ossia di una legge che era già stata formulata nelle opere di Smith e di Ricardo
diventando la base epistemologica dell'economia politica intesa come scienza.
Nel baratto, pertanto, si scambiano due merci secondo il circuito:
M-M
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Allo scopo di facilitare l'incontro tra la domanda e l'offerta, nacque la necessità di introdurre il
denaro come mezzo di scambio universale. Il denaro è quella merce il cui valore d'uso consiste
nella possibilità di essere convertito con qualsiasi altra merce. Lo schema si amplia, quindi e
diventa:
M-D-M
Ogni venditore è anche acquirente. Un venditore scambia la sua quantità di merce con una
quantità di denaro equivalente che la rappresenta; il suo incasso gli servirà al fine di ottenere il
denaro necessario ad acquistare la merce di cui ha bisogno. Come è facile vedere, l'avvento del
denaro presuppone già a una fase in cui la società ha sviluppato un determinato grado di divisione
del lavoro. Il contadino deve comprare i vestiti dal tessitore, il tessitore ha bisogno del contadino
per mangiare, il tessitore acquista la materia prima dall'allevatore e così via. Per semplificare
diremo che uno società basata sulla divisione del lavoro costituisce, come aveva detto Hegel, un
"sistema dei bisogni", ossia un complesso di agenti sociali tale per cui tutti hanno necessità del
lavoro di tutti.
Fino a questo punto il denaro non è altro che un mezzo di scambio: nel circuito M - D - M si
vende della merce per procurarsi il denaro necessario ad acquistare altra merce. Questo schema non
corrisponde affatto alla circolazione del denaro entro il sistema capitalistico. Al contrario, la
formula generale del capitale è
D - M - D'
ossia: un determinato soggetto sociale (il capitalista) che dispone di un capitale da investire
acquista delle merci per vendere e realizzare un profitto. In questo caso non si ha più una
equivalenza perché D' è maggiore di D. Questo aumento del denaro è noto a tutti, sottolinea Marx: è
proprio questo incremento che trasforma il denaro da semplice mezzo di scambio in capitale. Marx
definisce plusvalore questo accrescimento, e si chiede da dove possa avere origine avanzando e
scartando subito alcune ipotesi: l'incremento non può avere origine dallo scambio, dalla
circolazione delle merci. Perché lo scambio avviene sempre tra equivalenti. È l'errore che sta alla
base delle teorie mercantilistiche del Seicento. Tuttavia è altrettanto evidente che l'incremento non
può derivare dalle proprietà naturali delle materie prime, o dalla "generosità" della terra come
suggerivano i fisiocrati del Settecento che proprio per questa ragione consideravano l'agricoltura
come l'unica attività degna di investimenti e foriera di profitti. Infatti, anche ammettendo che
nell'agricoltura il plusvalore derivi dalla fertilità del terreno, in modo tale che il capitale ricavato dal
raccolto sia sempre superiore al capitale investito nelle terre, non si spiegherebbe da dove nasce il
profitto nel settore industriale. In questo caso non si possono chiamare in causa fattori naturali come
la fertilità della terra, ma occorrerà ricorrere a un'altra spiegazione.
L'investimento iniziale del capitalista è diretto all'appropriazione di due tipi di grandezze che
Marx distingue con i termini di "capitale costante" e "capitale variabile". La loro somma costituisce
la "composizione organica del capitale". Il capitale costante è quello che viene investito
nell'acquisto di materie prime: attrezzature, macchine, officine ecc. Questo tipo di capitale
immobiliare è chiamato costante perché il suo valore non subisce alcun incremento dall'inizio al
termine del processo di produzione. Facciamo un esempio. La stoffa usata per fare un abito non
incrementa il suo valore passando dallo stato grezzo allo stadio finale del processo produttivo; ciò
che costituisce la differenza di valore tra degli scampoli di lana e un maglione confezionato con
essi, è il fatto che per fare il maglione è stato speso un lavoro, un lavoro vivo. Non è la stoffa di per
sé ad aumentare di valore. Lo stesso argomento vale per i macchinari che vengono utilizzati in una
fabbrica. Ne consegue che l'origine dell'incremento (il D' dello schema iniziale) sarà da cercare
altrove.
Il capitale variabile è quella particolare quota del capitale iniziale che viene investita
dall'imprenditore per assumere la manodopera, gli operai. Bisogna sempre partire dal presupposto
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che ogni merce venga acquistata esattamente al suo valore di scambio, quindi escluderemo per
principio l'ipotesi che gli operai vengano sottopagati o comunque sottoposti a una qualsiasi forma di
vessazione o di ingiustizia salariale. Anche se questo è un caso molto frequente, che dipende dal
ricatto occupazionale adottato dai capitalisti nei confronti della forza lavoro, quello che Marx vuole
dimostrare è il fatto che il sistema in quanto tale produce sfruttamento, indipendentemente dalla
buona o dalla cattiva volontà dei singoli datori di lavoro. Dobbiamo abbandonare la prospettiva dei
socialisti utopisti che vorrebbero mettere a posto le cose semplicemente con un appello alla
coscienza dei singoli capitalisti.
Ora, se assumiamo che il salario, che è equivalente al capitale variabile, corrisponda esattamente
al valore di scambio dell'operaio ciò significa che ogni lavoratore riceve giornalmente,
settimanalmente, o mensilmente, un salario che gli permetta di "riprodurre le condizioni della sua
esistenza" per un giorno, una settimana o un mese. Torniamo alla definizione di "valore di
scambio": è il tempo di lavoro necessario per produrre una determinata merce; in questo caso il
valore di scambio dell'operaio è ciò che l'operaio deve spendere per vivere. Ne consegue che il D'
dello schema non può avere origine nemmeno dal valore di scambio dell'operaio. Proviamo un'altra
strada: qual è il valore d'uso specifico di quella merce che è l'operaio, "libero di vendere la propria
forza lavoro" (A. Smith)? La sua funzione all'interno del processo produttivo consiste nel produrre
valore. Lavorando in fabbrica per una quota di tempo "x" l'operaio produce valore, produce un
valore che si materializza nel prodotto finito che esce dalla fabbrica. Ma dato che nel sistema
capitalista vige la proprietà privata dei mezzi di produzione, la separazione tra i lavoratori e i mezzi
di produzione, ne consegue che il lavoro prodotto dagli operai che si oggettiva nella merce prodotta
appartiene al capitalista, e non all'operaio. Dunque l'origine del processo di valorizzazione del
capitale va cercato nel valore d'uso dell'operaio, ossia nella sua capacità di produrre valore
attraverso il lavoro collettivo. Infatti, ciò che il capitalista remunera con il salario (ossia con il
capitale variabile) non è il valore d'uso dell'operaio - ossia la quota di valore che egli effettivamente
produce in fabbrica - ma il suo valore di scambio. Per semplificare, l'operaio costa al capitalista
molto meno di quanto gli restituisca sotto forma di valore oggettivato nella merce. La proprietà
privata dei mezzi di produzione determina quindi una specie di furto invisibile: il capitalista si
appropria del lavoro dell'operaio con uno scambio apparentemente equo, lo scambio tra salario e
lavoro. Il plusvalore, quindi, ossia il valore aggiunto che il prodotto finito possiede al termine del
processo produttivo, proviene dal pluslavoro, ossia da quella quota di lavoro che eccede la
retribuzione del salario.
Marx precisa le sue osservazioni definendo altri due concetti: il saggio del profitto e il saggio del
plusvalore. Se noi mettiamo in rapporto tra loro il plusvalore e il salario (ossia il capitale variabile)
otteniamo la formula:
S.pl = p / v
ossia il saggio del plusvalore, che quantifica il grado di sfruttamento dell'operaio. Infatti è facile
vedere che lo sfruttamento è direttamente proporzionale al plusvalore, ossia al valore prodotto
dall'operaio che non viene retribuito dal salario, e inversamente proporzionale al salario (o capitale
variabile). Il plusvalore può aumentare in due modi: o con il prolungamento della giornata
lavorativa a parità di salario ("plusvalore assoluto") o con l'aumento della produttività - grazie
all'introduzione di macchine più efficienti che permettono di ridurre il tempo di lavoro necessario
alla produzione di una determinata merce ("plusvalore relativo").
Mentre nella formula:
Spr = p / (c + v)
Otteniamo il cosiddetto saggio del profitto, da cui è possibile evincere che ciò che torna nelle
tasche del capitalista è direttamente proporzionale al plusvalore e inversamente proporzionale alla
composizione organica del capitale, ossia al capitale investito in macchinari, tecnologie, materie
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prime. È da questa formula che Marx deduce la cosiddetta legge della caduta tendenziale del
saggio di profitto: essa ci permette di individuare una delle più importanti contraddizioni interne al
sistema. Per poter competere in un regime di concorrenza, più o meno truccata, ogni imprenditore
deve investire in tecnologia. Il conseguimento del profitto, che è lo scopo della produzione
capitalista, richiede quindi una continua innovazione nei macchinari e nei sistemi di produzione. Ma
aumentando la quota di capitale investita in questo modo, il profitto tende a diminuire in virtù del
rapporto di proporzionalità inversa messo in evidenza dalla formula. Ecco dunque il paradosso: per
poter continuare a fare profitti il capitalista è costretto a fare investimenti che erodono in misura
crescente la quota dei profitti! Che questa legge non abbia un valore rigidamente deterministico è lo
stesso Marx ad affermarlo. È facile vedere che investendo in tecnologia - e quindi incrementando la
"c" della composizione organica del capitale - il capitalista può ridurre la manodopera e licenziare
una parte dei suoi operai - facendo quindi diminuire la "v". In questo modo egli non solo compensa
l'erosione dei profitti conseguente agli investimenti in macchine e tecnologia, ma va anche ad
aumentare il cosiddetto esercito industriale di riserva, ossia la quota dei disoccupati. Costoro,
tenendo alta l'offerta di lavoro a fronte di una domanda ridotta, contribuiscono a tenere bassi i salari
sulla base della legge della domanda e dell'offerta, che essendo valida per tutte le merci vale anche
per quella particolare merce che è l'operaio.
Il risultato per Marx è uno solo: non si esce dalle contraddizioni del capitalismo se non abbattendo
questo sistema economico che è basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione che non fa
che perpetuare le condizioni dello sfruttamento.
3. la scienza della rivoluzione come teoria della prassi
«A un certo punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con l'organizzazione sociale del lavoro, cioè con i rapporti di produzione esistenti e
quindi con i rapporti di proprietà». (K. Marx). Ciò significa che le forze produttive materiali, la
forza lavoro, la classe che produce ma non detiene i mezzi di produzione, non si trovano più in
accordo con il sistema esistente. Ad un certo punto del divenire storico, le classi dominate non si
riconoscono più in quel sistema di lavoro che all'inizio aveva permesso la loro stessa esistenza. Il
sistema di lavoro e di produzione espressione della classe dominante tende a conservare lo stato di
cose, un cambiamento, infatti, comporterebbe uno sconvolgimento sociale tale che i dominanti non
sarebbero più sicuri di trovarsi nella posizione di dominio. Ne deriva che la lotta del proletariato
contro la borghesia diventa una lotta politica, una lotta per la conquista del potere politico che
sfocia nella fase della dittatura del proletariato.
4. che cos'è il comunismo ?
«Alla società borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, subentrerà una
associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti».
Questa è la definizione del comunismo che Marx ed Engels forniscono al termine del secondo
capitolo del Manifesto. Mentre nella concezione liberale e borghese vale il vecchio adagio secondo
cui "la mia libertà finisce dove inizia la libertà altrui", secondo un'ottica squisitamente
individualistica, nella concezione di Marx potremmo dire che la libertà di ciascuno non è mai tale
finché ci sarà ancora anche un singolo individuo in catene. Il comunismo si ispira pertanto a un
ideale di liberazione integrale dell'uomo da ogni forma di sfruttamento e da ogni bisogno materiale.
Non basta essere tutti eguali di fronte alla legge per essere liberi, non basta godere dei diritti attivi e
passivi di voto per essere liberi, perché la vera libertà dell'uomo consiste prima di tutto nella libertà
dal bisogno.
Per comprendere ciò che Marx intende per comunismo occorre quindi tornare all'essenza del
capitalismo che ne costituisce l'esatto opposto. Come si è visto, l'essenza del capitalismo è
l'alienazione: il capitalismo separa l'oggetto prodotto dal produttore, separa il produttore dai mezzi
di produzione, fa dell'uomo un'appendice della macchina. In questo modo si determina una
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separazione nello stesso tessuto sociale, nel quale gli uomini si dividono in detentori dei mezzi di
produzione (classi dominanti) e forza lavoro (classi dominate). L'antagonismo tra i due è
irriducibile e non potrà mai essere ammorbidito con le riforme, come vorrebbero i
socialdemocratici. Questa divisione porta fatalmente a delle crisi, la cui soluzione è il comunismo
come esito della lotta armata e della rivoluzione. Esso si configura come estremità opposta al
sistema di produzione capitalista: nella società comunista non esisteranno più classi e lotta di classe,
non esisterà più separazione tra oggetto prodotto e produttore, i mezzi di produzione saranno di
proprietà comune.
Da questo ne deriva che anche la sovrastruttura ideologica della società, da sempre espressione del
sistema economico guidato dalle classi dominanti, verrà definitivamente smantellata, per cui non
saranno più necessari ne lo Stato ne la religione, né qualsiasi altra espressione del dominio di una
classe sull'altra. «Il comunismo è cioè la sintesi suprema in cui viene rimossa ogni contraddizione
sociale e, insieme, è la liberazione concreta dell'individuo umano». (E. Severino, La filosofia
contemporanea). Il comunismo, per Marx, è una legge necessaria, una tappa obbligata dello
sviluppo storico che non trae origine da ideali astratti presenti arbitrariamente nella coscienza degli
uomini, ma trae la sua legge dall'evidenza stessa dei dati pratico empirici dell'economia. Secondo
Marx il comunismo è quindi la naturale e necessaria soluzione del capitalismo in un nuovo e
definitivo sistema socio-economico finalmente egualitario, dopo secoli di lotte e disuguaglianze.
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